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Riforme di Gaio Gracco e Tiberio Gracco: dalla Repubblica Romana alla Dittatura di Cesare, Dispense di Lingua Latina

I tentativi di riforma di Gaio Gracco e Tiberio Gracco, i primi conflitti civili tra Mario e Silla, e la ascesa di Cesare. Il testo tratta della ripresa del programma di riforme di Tiberio Gracco da parte di Gaio, la prima guerra civile, il consolato di Mario, la ripresa delle leggi agrarie e il ritorno di Pompeo. Inoltre, vengono trattati i consolati di Cicerone e Cesare, la congiura di Catilina, la guerra civile e la nuova realtà sociale dello Stato romano.

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 13/06/2022

robertatirelliiiii00
robertatirelliiiii00 🇮🇹

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Scarica Riforme di Gaio Gracco e Tiberio Gracco: dalla Repubblica Romana alla Dittatura di Cesare e più Dispense in PDF di Lingua Latina solo su Docsity! Il contesto. L’età dei Gracchi e la dittatura di Silla 13 Storia La legge agraria di Tiberio Gracco La diffusione del latifondo a danno della piccola proprietà terriera, l’accentramento delle nuove risorse (rese disponibili dall’enorme ampliamento dell’ager publicus con le accessioni dei territori conquistati) nelle mani dei proprietari più ricchi, lo sfruttamento della manodopera servile avevano determinato nell’età delle conquiste profonde trasformazioni economiche e sociali. Le riforme di Tiberio e Gaio Sempronio Gracco (figli di Tiberio Sempronio Gracco e di Cornelia, figlia di Scipione l'Africano) rappresentarono un tentativo di governare il cambiamento, frenando l’impatto disgregante che fenomeni come l’emergere di ampie masse di diseredati e di forti poteri economici potevano avere sull’unità dello Stato. La legge agraria di Tiberio, tribuno della plebe nel 133, vietava il possesso di più di 500 iugeri di ager publicus a testa e sanciva la redistribuzione ai cittadini nullatenenti, in piccole proprietà inalienabili, delle quote in eccedenza da restituire allo Stato. Sebbene la legge prevedesse forme di indennizzo per gli investimenti fatti sui territori restituiti, e riconoscesse tutti i possessori di ager publicus come proprietari, esonerandoli dal vectigal annuo cui erano tenuti, le leggi sempronie incontrarono l’opposizione dell’aristocrazia senatoria. Durante i comizi elettorali Tiberio fu assassinato, i suoi sostenitori condannati a morte con giudizio sommario. Il tentativo riformista di Gaio Gracco Il programma di riforme di Tiberio Gracco fu ripreso dal fratello Gaio, tribuno negli anni 124-123. Gaio si assicurò l’appoggio delle masse popolari con una lex frumentaria che imponeva la vendita del grano a prezzo calmierato ai cittadini più poveri, e con un piano per la deduzione di colonie in territori transmarini (la prima di esse, la colonia Iunonia, nel sito di Cartagine). Per finanziare la costruzione dei granai pubblici, assoggettò al tributo della decima la provincia d’Asia e ne assegnò l’appalto ai censori di Roma; i cavalieri, già favoriti da questo provvedimento, ottennero anche il privilegio di esprimere i giudici delle corti giudiziarie permanenti, riservato prima ai senatori. Ma la proposta di estendere la cittadinanza romana ai Latini e il diritto latino agli Italici incontrò la resistenza degli stessi fautori di Gaio: il collega Marco Livio Druso oppose il veto e, mentre Gaio era in Africa, varò una serie di provvedimenti demagogici che alienarono al capo riformista il favore popolare. Alle elezioni del 121 prevalse la fazione conservatrice del Senato. L’abrogazione della legge sulla colonie suscitò la rivolta armata del partito graccano, repressa nel sangue dal Senato. 2 Mario e Silla: la prima guerra civile Il consolato di Mario Mentre le tensioni tra senatori e cavalieri si acuivano, si affermò il prestigio personale di Gaio Mario, homo novus (privo cioè di tradizione familiare nel consolato) e primo esempio dei leader populares che animarono gli anni di crisi della repubblica. Distintosi nella guerra giugurtina (console nel 107, sostituì Metello nel comando dell’esercito), console dal 104 al 100, Mario vinse i Teutoni ad Aquae Sextiae nel 102 e, insieme al collega Lutazio Catulo, i Cimbri ai Campi Raudii (presso Vercelli) nel 101. Ma uscì dalla scena politica dopo la repressione del tumulto scoppiato alle elezioni del 99, che gli sottrasse il favore popolare. Il bellum sociale Gli interessi dell’oligarchia senatoria, al potere nel primo decennio del I secolo, erano rappresentati da Marco Livio Druso, figlio dell’avversario di Gaio Gracco e tribuno nel 92: il suo programma politico, che mirava ad attirare il consenso del popolo e degli alleati italici per abbattere il potere dei cavalieri, finì per suscitare l’opposizione del Senato e l’esasperazione degli alleati italici, che videro disattese le speranze riposte nel tribuno. Le leggi di Druso, dapprima approvate, furono dichiarate nulle e Druso fu ucciso in un agguato. Nel 90 esplose la rivolta armata delle popolazioni italiche (Oschi, Marsi, Sanniti). Roma mise in campo i più valenti generali (tra cui Mario e Silla, questore nella guerra contro Giugurta), ma già dopo le prime sconfitte iniziò a varare una serie di leggi che estendevano la cittadinanza agli Italici e il diritto latino (lo stato giuridico concesso agli antichi socii Latini) ai Transpadani. La rivolta fu sedata. La guerra mitridatica Roma era ancora impegnata nel bellum sociale quando una nuova minaccia si profilava ad Oriente: nell’88 il re del Ponto Mitridate aveva invaso la provincia d’Asia, facendo strage di romani e italici, ed era già sbarcato in Grecia. Silla, console nell’88, assunse il comando della guerra, ma i cavalieri, con proposta di legge del tribuno Publio Sulpicio Rufo, gli revocarono il comando per assegnarlo a Mario. Silla, che aveva già raccolto l’esercito in Campania, marciò su Roma, fece abrogare con un senatusconsultum la legge sulpicia e costrinse Mario a fuggire in Africa. Quindi trasportò l’esercito in Grecia, espugnò e mise a sacco Atene, riconquistando in breve la Grecia. La rivalità tra Mario e Silla A Roma, intanto, il console Cornelio Cinna, deposto nell’87 per la violenza con cui sosteneva il partito di Mario, aveva raccolto un esercito di fedelissimi. Mario stesso, rimpatriato, marciò su Roma e si impadronì del potere; si vendicò dei nemici ricorrendo a squadre di sicari. Silla venne proscritto e i suoi beni confiscati. Eletto console per la settima volta nell’86, Mario morì dopo due settimane. Tornato in Italia dopo la vittoria su Mitridate, Silla si riunì alle legioni del giovane Gneo Pompeo e di Quinto Metello Pio e sconfisse i mariani alla porta Collina, presso Roma, nell’82. Pompeo, inviato in Africa a combattere i resti dell’esercito mariano, abbatté ogni resistenza in quaranta giorni. A Roma Silla, proclamato dittatore, varò le liste di proscrizione contro i sostenitori di Mario legittimando una crudele carneficina. Società e cultura 3 La riforma dell’esercito L’arruolamento volontario nell’esercito Durante la guerra contro Cimbri e Teutoni, Mario procede a un’importante riforma dell’esercito: adatta alle nuove Di tendenze «asiane» era anche Publio Sulpicio Rufo (morto nell’88 a.C.), che Cicerone introduce tra i personaggi minori del De oratore; ma l’asianesimo romano fu sviluppato soprattutto da Quinto Orensio Ortalo, che aveva solo diciannove anni al tempo della sua prima esibizione e morì nel 50 a.C., dopo un’intera vita dedicata all’oratoria. Ortensio fu avversario e poi amico di Cicerone, che dall’eloquenza di Ortensio fu profondamente influenzato negli anni giovanili. Atticismo, una reazione all’oratoria di Cicerone La corrente atticista a Roma cominciò ad affermarsi più tardi, come reazione contro l’asianesimo, di cui fu accusato (non senza qualche esagerazione) Cicerone, allora oratore principe. Gli «atticisti», così chiamati perché prendevano a modello la semplice sobrietà dell’oratore attico Lisia, ricercavano infatti uno stile nitido e conciso. Esponenti della nuova tendenza furono Marco Bruto, il futuro tirannicida, e soprattutto Gaio Licinio Calvo (82-47 a.C.), amico di Catullo, per un certo periodo il più pericoloso avversario di Cicerone nel foro. L’eloquenza di Calvo, lodata da Quintiliano per la sua «austera purezza» (sanctitas), era insieme impetuosa e sorvegliatissima: Calvo evitava il pathos grandioso e questo, secondo Cicerone, era sintomo di un eccessivo autocontrollo, dal quale derivava il carattere troppo raffinato e non popolare della sua oratoria. LA VOCE DEGLI AUTORI Politica e morale nelle orazioni di Gaio Gracco Alcuni dei frammenti conservati dai discorsi di Gaio Gracco affrontano aspetti delicati del rapporto tra funzione politica e moralità. Ne riportiamo due esempi in traduzione. La ‘questione morale’ Gaio Gracco era stato questore in Sardegna per un biennio (126-125); aveva lasciato la sua provincia per decisione autonoma, senza attendere il successore, che il Senato tardava a inviare per tenere lontano da Roma l’avversario politico. Gracco dovette discolparsi, davanti ai censori e davanti al popolo, dall’accusa di abbandono delle sue funzioni, e si difese affermando la sua incorruttibilità in un ambiente di estesa corruzione, che egli individuava soprattutto nell’oligarchia senatoria. I frammenti, conservati da Gellio (studioso arcaista del II secolo), sono tratti dall’orazione tenuta da Gracco davanti al popolo nel 124 (48, 26-28 Malcovati): [26] Sono vissuto in provincia secondo quella che ritenevo l’utilità vostra, non secondo quanto pensavo vantaggioso alla 1 [28] E così, Quiriti, quando ripartii per Roma, io dalla provincia portai indietro vuote quelle borse che avevo portate piene d’argento; altri hanno trasportato a casa loro piene zeppe di monete d’argento quelle anfore che avevano portato piene di vino. Le ‘tangenti’ Questo frammento (48, 44 Malcovati), conservato sempre da Gellio, è tratto dalla Dissuasio legis Aufeiae, dal discorso, cioè, pronunciato da Gaio Gracco nel 123 contro la lex Aufeia. Non conosciamo i termini di questa proposta di legge: sembra dovesse ratificare la cessione della Frigia (Asia Minore) a Mitridate III, re del Ponto, contro le mire di Nicomede II di Bitinia. Gaio Gracco sosteneva invece l’opportunità di estendere il sistema delle province, direttamente dipendenti da Roma, per incrementare gli introiti necessari al finanziamento del suo vasto piano di riforme. In questo frammento denuncia la corruzione della classe politica, pronta a farsi comprare dagli emissari dei due re orientali. La legge Aufeia fu bocciata e la Frigia non assegnata a nessuno dei due pretendenti: più tardi, nel 116, sarà dichiarata libera ma aggregata di fatto alla provincia d’Asia: Perché voi, Quiriti, anche se volete impiegare tutta la vostra saggezza e la vostra capacità, non troverete, per quanto cerchiate, nessuno di noi che si presenti qui senza un compenso. Tutti noi che parliamo in pubblico miriamo a qualche cosa e nessuno si presenta a voi se non per il fine di guadagnarsi qualcosa. Io stesso, che parlo qui davanti a voi perché possiate accrescere le vostre rendite, perché possiate più facilmente amministrare gli interessi vostri e quelli dello stato, non mi presento alla tribuna per niente; io però chiedo a voi non denaro ma buona reputazione e onore. Quelli che vengono a parlare per farvi respingere questa legge chiedono non onore a voi ma denaro a Nicomede; quelli che vi spingono ad approvarla, anche loro non chiedono buona reputazione a voi ma un compenso e un guadagno personali a Mitridate. Gli altri poi, di uguale nascita e di uguale classe, che stanno zitti, sono addirittura i più accaniti, perché il compenso lo prendono da tutti e tutti ingannano. Voi, ritenendoli lontani da ogni intrigo, accordate loro la vostra stima; e invece le legazioni inviate dai re, ritenendo che stiano zitti in favore della propria causa, offrono loro doni e somme ingenti, così come avvenne in Grecia: una volta che 2 mia ambizione. Nella mia casa non ci furono mai bagordi, con bellissimi ragazzi pronti a servirci , e alla mia mensa i vostri figli trovavano più serietà che al quartier generale. [27] Sono vissuto in provincia in modo che nessuno può onestamente dire che io abbia ricevuto una lira o più consistenti somme nell’esercizio delle mie funzioni o che qualcuno abbia fatto delle spese per causa mia. Per due anni rimasi in provincia: se una sola prostituta è entrata nella mia casa, se un giovane schiavo ha ricevuto proposte da parte mia, consideratemi l’ultimo e il più abominevole degli uomini. Se mi sono comportato così correttamente con i loro servi, come pensate che io sia vissuto con i vostri figli? un attore tragico greco si vantava di avere ricevuto un talento per una sola rappresentazione, Dèmade , oratore sommo della sua città, gli rispose – dicono – così: «Ti sembra una cosa straordinaria aver guadagnato un talento parlando? Io, per tacere, ho ricevuto dieci talenti dal re 3». Nello stesso modo ora costoro ricevono compensi per il loro silenzio. 1.2 DALLO STILE ALLA LINGUA: ANALOGIA E ANOMALIA Due contrapposte teorie linguistiche La polemica sullo stile era strettamente connessa a un vivo dibattito sulla lingua: asianesimo e atticismo si rifacevano a due distinte teorie linguistiche, che già contrapponevano nel mondo ellenistico le scuole rivali di Pergamo e Alessandria. La prima, sostenitrice della teoria «anomalista», considerava il linguaggio come libera creazione dell’uso (consuetudo), e pertanto ammetteva deviazioni e neologismi, le «anomalie» consuete nel sermo cotidianus. La scuola di Alessandria invece, appellandosi all’autorità dei classici, voleva la lingua fondata sulla norma (ratio) e sull’«analogia», la regolarità basata sul rispetto dei modelli riconosciuti: ne derivava una tendenza purista e conservatrice, avversa per esempio ai neologismi e fautrice di un uso regolare dei costrutti sintattici (vedi anche la scheda a pp. 214 ss.). «Analogisti» e «anomalisti» a Roma Deciso sostenitore dell’analogismo fu il grammatico di origine greca Tirannione il Vecchio, giunto a Roma dopo la guerra Mitridatica, mentre Alessandro Poliìstore, un liberto di Silla autore di dotte opere di compilazione, sostenne l’anomalismo. Un tentativo di conciliazione tra le due tendenze fu compiuto dal grammatico e filologo Elio Stilone (vedi qui sotto), che, partito dalle posizioni «anomaliste» di Cratete di Mallo, esponente autorevole della scuola di Pergamo, aveva ascoltato a Rodi le lezioni di Dioniso Trace, «analogista»; su questa via sarà seguito da Varrone, mentre «analogista» convinto si professerà Giulio Cesare, autore di un perduto trattato De analógia. 2 La nascita della filologia Edizioni e commenti dei testi letterari: Elio Stilone Nella seconda metà del II secolo a.C. a Roma si afferma anche la filologia come disciplina specializzata, segno rilevante di un’ormai acquisita maturità culturale e di coscienti esigenze critiche. Lucio Elio Stilone Preconino (maestro di Varrone e Cicerone) dette inizio a un lavoro critico di pubblicazione e di commento dei testi letterari, mentre nelle figure di letterati come Accio e Lucilio l’attività filologica e grammaticale si saldava ancora, secondo la tradizione dei poeti-filologi alessandrini, con il fare poesia. Stilone, nato a Lanuvium verso il 150, era un cavaliere legato al partito aristocratico. Si occupò dei problemi di autenticità delle commedie plautine (e in questo la sua opera fu proseguita dal discepolo Varrone); commentò il Carmen Saliare e, probabilmente, le leggi delle XII tavole. Ottavio Lampadione curò l’edizione dell’arcaico Nevio, Vettio Filocomo quella di Lucilio. La compilazione di opere enciclopediche (per esempio i Musarum libri IX di Aurelio Opillo) incominciava intanto a rispondere al diffuso bisogno di informazione erudita. 3 La storiografia nell’età dei Gracchi Apologia e autoesaltazione Alcune autobiografie, come quella di Rutilio Rufo, erano probabilmente una sorta di autoapologia politica; in altre, soprattutto in quella di Silla, pare fosse notevole la presenza di elementi ‘carismatici’: l’autore cioè si esaltava come investito di una missione divina (ricordiamo l’epiteto Felix che Silla si attribuiva in quanto «favorito» degli dèi) e, per sottolineare la propria ‘investitura’, dava probabilmente un certo spazio alla menzione di segni miracolosi, come i sogni premonitori, prova evidente della sua designazione divina. Nel solco dell’autobiografia sillana si posero Lucullo e probabilmente Augusto, il quale, accanto al resoconto ufficiale delle Res gestae, scrisse anche un’autobiografia in cui, a quanto pare, narrava i miracoli che avevano preceduto la sua nascita. 3.2 GLI STUDI ANTIQUARI Una scienza distinta dalla storiografia Per gli antichi l’antiquaria era la scienza che indagava le origini remote di usi, costumi, istituzioni giuridiche e sociali, in una parola della civiltà di un determinato popolo. L’antiquaria era collegata con la storiografia, ma si avvaleva anche dei contributi di altre scienze, per esempio di quelli della ricerca filologico-linguistica e archeologica. Si capisce come questa scienza, che stimolava l’orgoglio nazionale, avesse trovato in Roma sviluppo e ampio credito, a partire soprattutto dal periodo delle conquiste. Nell’età tra i Gracchi e Silla, con lo sviluppo di una storiografia distinta dalla tradizione annalistica, anche l’antiquaria assume una maggiore autonomia. Infatti, l’interesse per le antichità era forte nei primi annalisti, ma successivamente si affievolì negli scrittori di storia, forse sopraffatto dai nuovi interessi, come l’interpretazione delle cause e degli effetti, e la più accurata elaborazione stilistica. Verso la fine della repubblica storiografia e antiquaria sono generi distinti e a praticarli saranno ormai tipi di studiosi profondamente diversi. 4 La commedia dopo Terenzio Il declino della palliata Dopo Plauto e Terenzio c’erano stati molti continuatori della commedia palliata (conosciamo i nomi di Licinio Imbrice, Atilio, Luscio Lanuvino). Tuttavia, nel corso del I secolo a.C. lo spazio della scena viene invaso da generi alternativi, più farseschi, oppure che tentano di rispondere a esigenze diverse di realismo. Nell’età di Cesare e di Cicerone, la commedia di ambiente greco è infatti sentita come un genere ‘antico’ e difficile, forse anche troppo stilizzato e convenzionale. La stessa metrica dei cantica risulta troppo difficile, mentre la metrica delle parti recitate troppo anarchica e irregolare. La togata, ambientazione italica nel solco terenziano La commedia togata ambienta trame e personaggi in realtà italiche o romane: ce ne rendiamo conto già da titoli come la Veliterna («La ragazza di Velletri») oppure l’Aedilicia («La commedia degli edili», i magistrati romani che avevano la supervisione degli spettacoli teatrali). Per il resto la togata è ancora molto vicina a Terenzio e al suo modello greco Menandro. Non sappiamo se gli autori di questo genere comico (ci sono giunti i nomi, e pochi frammenti, di un Titinio, un Lucio Afranio, un Atta) conducessero veramente una ‘battaglia per il realismo’. Un mondo piccolo-borghese Forse il realismo stava nella rappresentazione di un mondo di personaggi umili meno tipizzato di quello plautino: non solo lo schiavo furbo e imbroglione, ma anche l’artigiano, la lavandaia, insomma un ambiente popolano e forse piccolo-borghese più credibile. Donato, il commentatore tardoantico di Terenzio, in una nota a un passo dell’Eunuchus ricorda che, se nella palliata era possibile mettere in scena un servo più intelligente e più furbo del padrone, nella togata questo non è concesso: evidentemente un teatro che rappresentava senza mediazioni realtà romane non poteva permettersi di mettere troppo in ridicolo il concreto ordine sociale. Seneca dice che la togata stava a mezzo tra la tragedia e la commedia: i toni comici dovevano essere stati molto smorzati, rispetto alla palliata plautina, e questo non contribuirà al successo del genere sulla scena. 5 Forme popolari di teatro Il ritorno dell’atellana, l’antica farsa italica Nel I secolo a.C., il pubblico cerca ormai svago in altri generi di rappresentazione scenica, che noi considereremmo più avanspettacolo che commedia vera e propria. È il momento in cui conosce un grande ritorno di fortuna quel genere di farsa popolare e sub- letteraria che era stata l’atellana (vedi p. 40). Impiegata a lungo come exodium, o agile «comica finale» che concludeva la rappresentazione di drammi più impegnativi, l’atellana acquista ora una sua indipendenza, quasi un certo prestigio. Lucio Pomponio, l’autore di atellane a noi più noto, compose anche testi di classe più elevata, addirittura tragedie. I titoli rimasti conservano chiaramente l’impronta di un repertorio di maschere, come i moderni Arlecchino, Pantalone, Pulcinella; appunto la seicentesca commedia dell’arte viene spesso confrontata con l’atellana, dove le maschere si chiamavano Bucco, Maccus, Pappus e i canovacci erano «Buccone gladiatore», «Macco soldato», «Pappo trombato alle elezioni», ecc. Altri titoli però sono più difficili da interpretare, e fanno pensare a parodie della tragedia o del mito: per esempio, Armorum iudicium, Andromacha, Hercules coactor, «Ercole esattore». L’atellana soppiantata dal mimo nell’età di Cesare Anche l’atellana, però, sarà presto soppiantata; già nell’età di Cesare, è il mimo a dominare la scena, e lo sarà sempre di più fino a tutta l’età imperiale. Il termine greco, mimo, indica l’«imitazione» della vita reale. Ma i mimi che abbiamo in greco non sono destinati alla scena; autori di mimi come gli alessandrini Eroda e Teocrito scrivono piuttosto per sofisticati circoli di lettori e, a parte il realismo (che, per gli autori greci di mimi, significa essenzialmente rappresentare vicende di personaggi umili o scene di vite semplici: il chiacchiericcio di due amiche, una festa in città), probabilmente non ci sono d’aiuto per capire che cosa fosse il mimo sulle scene romane. Il mimo a Roma: tanti spettacoli diversi Dalle testimonianze degli antichi, che per lo più lo criticavano come genere diseducativo, capiamo soltanto che l’etichetta di «mimo» copre una varietà di spettacoli diversi. «Mimo» poteva essere una serie di ‘numeri’ slegati, di danze, intermezzi musicali, salaci gag, con ampie componenti di improvvisazione. Pare che i mimi più popolari fossero quelli dei ludi Florales, quando nel cartellone degli spettacoli c’erano anche i numeri delle spogliarelliste. Esisteva anche il mimo muto, quello che noi oggi propriamente intendiamo per «arte mimica». La ricerca del realismo, fino agli eccessi più crudi Sappiamo che altre volte il mimo era assai crudo: abbiamo notizia, per l’età imperiale, di condannati a morte che venivano giustiziati sulla scena, per accrescere il realismo delle scene di violenza. Senza dubbio il mimo andava incontro al gusto ‘veristico’ delle platee: gli attori non recitano più con la maschera, e le parti femminili sono interpretate da donne, al contrario di quanto accadeva, da sempre, nel teatro classico. Sembra che le situazioni-base fossero delle scenette a sé stanti, con equivoci piccanti, amori boccacceschi, o litigi clamorosi: lo spettacolo aveva spesso un finale brusco e a sorpresa, con un comico incidente conclusivo e un fuggi fuggi generale. Il mimo letterario: Publilio Siro Abbiamo anche qualche notizia di autori, segno che il mimo a volte si alzava di tono e si articolava in una narrazione più completa. Di alcuni di questi mimi ‘letterari’ non capiamo in che cosa si differenziassero dalle trame della commedia, almeno a giudicare dai titoli: La pentola, I gemelli, I pescatori. Il mimografo a noi più noto è Publilio Siro, un liberto venuto dall’Oriente e padrone di una vera e propria compagnia di giro, dove recitava personalmente i suoi lavori. Gli antichi lo celebrano per la sua vena riflessiva e sentenziosa, apprezzata ad esempio da Seneca; come era già accaduto per Menandro, venne messa insieme una raccolta di sue massime, che però non ci danno un’idea adeguata della sua attività di teatrante. È probabile che Publilio, come l’altro autore di mimi suo concorrente, Laberio, fosse un autore di punta, estraneo agli aspetti più triti e commerciali della produzione mimica. LA VOCE DEGLI AUTORI La togata: un mondo piccolo-borghese nel solco di Terenzio Dai Fullones («I lavandai») di Titinio riportiamo due frammenti, il primo dei quali pronunciato dal padrone della lavanderia-tintoria, il secondo attribuibile ancora a lui o a un commento degli operai (com. 22 ss.; com. 27 Ribbeck): Da pensam lanam: qui non reddet temperi 4 6 La decadenza delle forme di spettacolo teatrale Decadenza del teatro tradizionale e divaricazione del gusto Il successo di pubblico riscosso da forme di spettacolo come l’atellana e il mimo dimostra la contemporanea decadenza delle forme teatrali tradizionali: la tragedia e la commedia. Certamente erano mancati nuovi autori di teatro e capacità di rinnovamento, ma soprattutto si era verificata una progressiva divaricazione nei Tuttavia, mentre i nuovi ideali e le nuove aspirazioni delle classi colte avrebbero trovato presto espressione in nuove forme letterarie, un vero teatro popolare non ci sarebbe mai più stato nonostante tutto l’impegno programmatico con cui la cultura ufficiale augustea avrebbe cercato di promuoverne la rinascita. Bibliografia Oratoria: frammenti degli oratori e testimonianze sulla loro attività in Oratorum Romanorum Fragmenta, a cura di E. MALCOVATI,Torino 1976 4; edizione commentata della Rhetorica ad Herennium, a cura di G. CALBOLI, Bologna 1969. Il testo standard rimane quello di F. MARX, Leipzig 1964. Studi: A.D. LEEMAN, Orationis Ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi latini, trad. it. Bologna 1974; F. SBORDONE, L’eloquenza in Roma durante l’età repubblicana, Napoli 1965. Storiografia: frammenti degli storici in Historicorum Romanorum Reliquiae, a cura di H. PETER, I, Leipzig 19142 (rist. Stuttgart 1967). Studi: A. LA PENNA, Storiografia di senatori e storiografia di letterati, in Aspetti del pensiero storico latino, Torino 1978; M. MAZZA, Sulla tematica della storiografia romana di epoca sillana, in «Siculorum Gymnasium», 1965; vedi anche E. BADIAN, The Early Historians, in Latin Historians, a cura di T.A. DOREY, London 1966, pp. 1-38; E. RAWSON, Roman Culture and Society, Oxford 1991, pp. 363-388 (Cornelio Sisenna); A. PERUTELLI, Prolegomeni a Sisenna, Pisa 2004. Sitografia Il testo della Rhetorica ad Herennium con concordanze, lista delle parole e indici statistici è reperibile in IntraText: http://www.intratext.com/X/LAT0377.htm; le Sententiae di Publilio Siro in The Latin Library: http://www.thelatinlibrary.com/syrus.html. Filologia e studi antiquari: i grammatici fino all’età augustea in Grammaticae Romanae Fragmenta, a cura di G. FUNAIOLI, I, Leipzig 1907 2 (rist. Stuttgart 1969). Studi: F. DELLA CORTE, La filologia latina dalle origini a Varrone, Firenze 1981 . Teatro, atellana e mimo: frammenti dei poeti comici, degli autori di atellane e dei mimografi in Scaenicae Romanorum Poesis Fragmenta, a cura di O. RIBBECK, Leipzig 18732 (rist. Hildesheim 1962); sull’atellana cfr. anche Fabularum Atellanarum Fragmenta, a cura di P. FRASSINETTI, Torino 1955; edizione dei frammenti dei mimografi a cura di O. FRIEDRICH, Hildesheim 1965 (rist.); edizione con commento dei frammenti di Decimo Laberio, a cura di C. PANAYOTAKIS, Cambridge 2010. Una nuova edizione della comoedia togata è quella con commento e traduzione in francese di A. DAVIAULT, Paris 1981. Studi: P. FRASSINETTI, Fabula Atellana. Saggio sul teatro popolare latino, Genova 1953; H. REICH, Der Mimus, Berlin 1903; F. GIANCOTTI, Mimo e gnome. Studi su Decimo Laberio e Publilio Siro, Messina 1967. 1 2 3 4 L’accusa di pederastia era consueto strumento di lotta politica. Oratore attico della seconda metà del IV secolo, uomo politico e leader in Atene del partito filomacedone dopo la battaglia di Cheronea (338). È il re di Macedonia, cioè Filippo se l’episodio si riferisce agli anni fino al 336, Alessandro Magno se si tratta del periodo dopo il 336. temperi: è una forma di locativo di tempus, con grado apofonico e invece che o come in tempus, temporis (cfr. tempestas, tempestivus). Parte seconda La tarda repubblica 1 L’ascesa di Pompeo Il contesto. La fine della repubblica 15 Storia La guerra civile in Spagna e il consolato del 70 Dopo la morte di Silla (78 a.C.) sulla scena politica romana si profilano nuove figure emergenti. Il Senato affida all’ex generale sillano Gneo Pompeo la guerra contro Sertorio, un fuoriuscito mariano che aveva ridotto in suo potere la Spagna, rendendola di fatto indipendente da Roma. Pompeo conduce la campagna con successo e nel 71, riordinata l’amministrazione provinciale, torna a Roma per candidarsi al consolato. Eletto console per il 70 insieme a Marco Licinio Crasso, un ex sillano che sulle proscrizioni ha costruito un’immensa fortuna, Pompeo mette in atto un programma di stampo popolare – dal ripristino dell’autorità tribunizia alla riforma dei tribunali sottratti al controllo del Senato – che smantella la costituzione sillana. La guerra contro i pirati e contro Mitridate La lex Gabinia del 67 affida a Pompeo un imperium triennale su tutto il Mediterraneo per combattere la pirateria: conclusa vittoriosamente anche questa campagna, Pompeo ottiene, con la lex Manilia del 66, il comando della guerra contro il re del Ponto Mitridate e il suo alleato Tigrane, re d’Armenia, con il governo delle province di Bitinia, Cilicia e Asia. Isolato Mitridate dai suoi alleati, il generale romano riconquista il Ponto, che nel 64 è ridotto a provincia insieme alla Bitinia, annette la Siria e provvede a dare una sistemazione all’Asia Minore, entrata definitivamente a far parte del dominio romano. 2 Il consolato di Cicerone e la congiura di Catilina Cesare, Crasso e la prima congiura di Catilina Intanto a Roma Giulio Cesare, patrizio di parte popolare, parente di Mario (marito della zia paterna Giulia) e di Cinna (avendone egli sposato la figlia Cornelia), rientrato a Roma dopo aver valentemente esercitato la questura in Spagna Ulteriore nel 68, si coalizza con Crasso per ritagliarsi uno spazio politico autonomo tra il potere del Senato e il prestigio personale di Pompeo. Già nel 66 Cesare e Crasso avevano favorito le trame sovversive di Lucio Sergio Catilina, nobile patrizio ex sillano, arricchitosi come Crasso con le proscrizioni ma presto finito sul lastrico. Dopo la bocciatura della sua candidatura al consolato per il 65, Catilina aveva macchinato di uccidere i consoli designati e altri membri del Senato, ma il complotto era stato sventato tempestivamente. Cicerone batte Catilina alle elezioni per il 63: la seconda congiura Catilina ora ripresenta la candidatura al consolato per il 63 sostenuto finanziariamente da Crasso, ma è battuto da Cicerone, che ha saputo guadagnarsi il favore del Senato alimentandone i sospetti contro il rivale. Quando Catilina si candida per la terza volta per il 62 con un programma incentrato sulle novae tabulae, cioè sulla cancellazione generale dei debiti, nemmeno Cesare e Crasso possono più appoggiare la sua linea politica. Cicerone, facendosi interprete dei timori del Senato e della classe finanziaria, guida una fiera opposizione, che conduce l’avversario alla sconfitta. Chiamati a raccolta i suoi seguaci, Catilina prepara una seconda congiura, un colpo di stato per impadronirsi del potere dopo aver ucciso i consoli (o almeno Cicerone) e sparso il terrore in città. A tale scopo Lucio Manlio, un ex ufficiale sillano, è inviato in Etruria a reclutare l’esercito dei sovversivi. Catilina, ultimo atto Scoperto il complotto grazie alle personali indagini di Cicerone, il 21 ottobre il Senato emana il senatusconsultum ultimum affidandone l’esecuzione ai consoli. Cicerone pronuncia in Senato la prima Catilinaria, una violenta accusa contro Catilina, che si vede costretto a fuggire di notte da Roma (9 novembre) per raggiungere l’esercito a Fiesole. I congiurati rimasti in città riallacciano la trama del complotto, fissato per il primo giorno dei Saturnali (17 dicembre), ma, dopo la confessione di una delegazione di Galli Allobrogi con cui hanno preso contatto, il 3 dicembre vengono arrestati i cinque capi più gravemente coinvolti. Il 5 dicembre Cicerone indice una seduta straordinaria del Senato per decidere la loro sorte. A favore della pena di morte si pronuncia Marco Porcio Catone (futuro Uticense); contro, Cesare: prevale il parere di Catone. Catilina si mette in marcia verso la Gallia Transpadana, ma si scontra nei pressi di Pistoia con le forze consolari agli ordini del legato Marco Petreio e cade combattendo valorosamemte alla testa dei suoi (gennaio 62). 3 Il primo triumvirato: Cesare, Pompeo e Crasso Il ritorno di Pompeo e la ‘triplice intesa’ Finalmente il vincitore d’Oriente, Pompeo, torna in Italia tra le speranze di alcuni (che, come Cicerone, ne apprezzano le doti, certi della sua fedeltà alle istituzioni repubblicane) e i timori di molti (che paventano una svolta autoritaria). Sbarcato a Brindisi, Pompeo congeda l’esercito, manifestando così le proprie intenzioni legalitarie. Eppure il Senato respinge la richiesta di ratificare l’assetto che il generale ha conferito alle province orientali e di varare una somme di denaro, il Senato impone sia a Pompeo sia a Cesare di deporre i comandi straordinari, ma subito dopo, giunta notizia che Cesare ha valicato le Alpi ed è in marcia verso Roma, affida a Pompeo il comando delle legioni di stanza in Italia per la difesa della repubblica. Le proposte inviate da Cesare a Roma tramite il luogotenente Irzio restano senza risposta. Il generale allora fa comunicare al Senato per mezzo di Curione la propria disponibilità a rassegnare il comando e licenziare l’esercito purché Pompeo faccia altrettanto, ma da Roma gli si risponde con un ultimatum: Cesare deve deporre il comando entro una data fissata dal Senato o sarà considerato nemico pubblico. Intanto Pompeo è incaricato di predisporre la difesa armata dello Stato, mentre si nominano i successori di Cesare nella Gallia Transalpina e Cisalpina. Cesare passa il Rubicone (49 a.C.) Dato ordine alle legioni della Transalpina di valicare le Alpi, il 10 gennaio 49 Cesare varca il Rubicone e marcia su Rimini. Pompeo decide di lasciargli l’Italia, che ormai non può essere difesa, e di ritirarsi in Grecia, dove, con le forze affluenti dalle province e dagli stati vassalli d’Oriente, può costituire un forte esercito. Cesare avanza a marce forzate verso Brindisi nel tentativo di bloccare l’avversario prima dell’imbarco ma fallisce e, dopo una breve sosta a Roma, per far approvare dal Senato i provvedimenti necessari alla guerra, marcia alla volta della Spagna: con una breve ma durissima campagna annienta il nerbo delle legioni pompeiane affidate al comando dei legati di Pompeo. Meno fortunate le campagne condotte dai legati di Cesare sul fronte sud-orientale: Dolabella è battuto in Illiria, Curione cade combattendo in Africa. Pompeo sconfitto a Farsàlo (48 a.C.) Partito da Brindisi con sette legioni, Cesare supera lo sbarramento della più potente flotta pompeiana e sbarca a Orico. Pone l’assedio alla roccaforte di Durazzo ma dopo qualche mese è costretto a togliere il blocco. Lo scontro decisivo avviene il 9 agosto 48 a Farsàlo: Cesare sbaraglia il nemico; Pompeo, fuggito dal campo di battaglia, cerca rifugio in Egitto ma qui il re Tolomeo XIII, preoccupato per la lotta dinastica con la sorella Cleopatra, fa pugnalare il profugo nella speranza di ingraziarsi il vincitore. 6 Trionfo e caduta di Cesare Le campagne militari dopo Farsàlo Giunto ad Alessandria sulle tracce di Pompeo, Cesare si lega a Cleopatra, che pone sul trono d’Egitto dopo avere affrontato per lei un lungo assedio (durante il quale la famosa biblioteca va distrutta in un incendio) e sconfitto finalmente Tolomeo a Pelusio. Trascorsi in Egitto vari mesi di inattività, con una fulminea spedizione militare sconfigge a Zela il re del Ponto Farnace, figlio di Mitridate Eupatore, e annuncia la vittoria al Senato con il celebre motto veni, vidi, vici. Intanto i sopravvissuti a Farsàlo stanno organizzando la resistenza in Africa sotto la guida di Metello Scipione e con l’appoggio di Giuba, re di Numidia: Cesare, nominato dittatore con pieni poteri a tempo indeterminato ed eletto console, parte per l’Africa, dove sbaraglia le forze pompeiane a Tapso nel 46. Catone, rimasto a capo del presidio di Utica, si toglie la vita pur di non cadere in mano al nemico (e per questo passerà alla storia con l’appellativo di Uticense). Tornato a Roma, Cesare celebra splendidamente il trionfo sulla Gallia, sull’Egitto, su Farnace e su Giuba; ottenuta la dittatura per dieci anni ed eletto consul sine collega, parte per la Spagna, dove a Munda nel 45 annienta l’ultimo baluardo pompeiano, comandato da Gneo e Sesto, figli di Pompeo. La dittatura di Cesare Nel 44 a Cesare sono conferiti il consolato per dieci anni, con la facoltà di nominare personalmente i magistrati, e il titolo di imperator a vita, con il diritto di trasmetterlo ai propri discendenti: a ciò si aggiungono la dittatura, il pontificato massimo, la praefectura morum, che egli già esercita, e una serie di altri privilegi, come il diritto di indossare la veste trionfale con la corona d’alloro o di coniare monete con la propria immagine. La posizione costituzionale di Cesare è sempre più quella di un autocrate e la reazione del tradizionalismo senatorio non tarda a concretizzarsi nella congiura ordita da Giunio Bruto e Gaio Cassio, con l’appoggio di una sessantina di senatori. Il 15 marzo 44, alla vigilia della partenza per una nuova campagna contro i Parti, Cesare è pugnalato a morte in Senato. Società e cultura 7 Cesare e la nuova realtà sociale dello Stato romano Le riforme di Cesare Nei brevi periodi di attività governativa degli anni 48-45 Cesare cerca di mantenere il rispetto delle istituzioni repubblicane e la fiducia dell’aristocrazia senatoria. I primi provvedimenti varati in materia economica e sociale sono infatti misure d’emergenza che mirano a rassicurare i proprietari terrieri e a garantire l’ordine pubblico. Cesare si mostra clemente con i pompeiani pentiti e fa dell’aspirazione alla concordia un tema centrale della sua propaganda. Tra il 46 e il 44 l’opera legislativa viene rilanciata con maggiore slancio riformista: la riduzione del proletariato urbano avente diritto alla distribuzione gratuita di viveri; l’abolizione dei collegi, che in origine riunivano categorie di lavoratori a scopo di culto religioso, ma che con Clodio si erano rivelati un temibile strumento di agitazione politica; il piano dei lavori pubblici, che contribuisce a ridurre la disoccupazione urbana, sono tutte misure che incontrano il favore del Senato. Dalla città-stato al governo dell’impero D’altra parte Cesare conosce la realtà delle province, che hanno sostenuto il peso delle guerre civili e parteggiato per le fazioni in lotta; pur essendo legato all’ideologia della classe senatoria, sa di aver raggiunto il potere grazie a forze diverse, come l’esercito, che non è più espressione della classe dirigente repubblicana. La politica adottata nella soluzione dei problemi dell’esercito e nei rapporti con le province rispecchia una dinamica sociale complessa, che le tradizionali istituzioni repubblicane non riescono più a governare. Cesare promuove un grande processo di urbanizzazione nelle province, estendendo il diritto di cittadinanza, stanziando colonie di veterani in Occidente e in Oriente, favorendo l’emigrazione del proletariato italico, che nelle province può trovare maggiori opportunità. E nelle province i soldati, integrandosi nelle nuove comunità, diventano un importante fattore di coesione culturale e politica: sono chiamati a partecipare alla vita pubblica ceti e regioni prima sfruttati dall’amministrazione repubblicana. L’immissione in Senato di bassi ufficiali dell’esercito e di provinciali accresce però l’ostilità dell’aristocrazia senatoria, preoccupata dalla difficoltà che il dittatore mostra nel definire il suo potere personale nelle forme della costituzione repubblicana. 8 Il mondo della cultura e degli intellettuali Uno straordinario sviluppo culturale Nello studio della cultura latina, l’ultimo periodo della repubblica vede un proliferare di fenomeni diversi: i grandi dibattiti teorici, politici e ideologici, testimoniati dall’opera di Cicerone; la massima fioritura dell’oratoria giudiziaria e politica; il formidabile impulso del pensiero filosofico romano (ancora Cicerone, ma anche il pitagorismo di Nigidio Figulo e la diffusione dell’epicureismo); la crescita dell’antiquaria, della linguistica, della biografia e di altre forme di divulgazione culturale (Varrone, e inoltre Attico, Nigidio Figulo, Cornelio Nepote). Si può dire che nessun’altra generazione nella storia di Roma conobbe uno sviluppo culturale altrettanto vario e complesso; in ombra, tra i vari generi e filoni letterari, rimase solo lo sviluppo del teatro. Quanto alla storiografia – un genere per eccellenza retrospettivo e ritardatario, che ha bisogno di un suo respiro e stacco dagli avvenimenti – va collocata nella temperie culturale dell’età di Cesare l’opera di Sallustio, che, pur scrivendo negli anni successivi alla morte di Cesare, punta tutta la sua riflessione storica sulla fase appena conclusa: la lunga lotta politica introdotta da Mario e Silla e culminata nell’uccisione di Cesare. Filosofia e politica: l’autonomia rispetto al pensiero greco Guardando al periodo cesariano in termini estremamente generali, il fenomeno che colpisce di più è l’importanza assunta dal pensiero filosofico-politico. Questa nuova centralità significa anche autonomia. I grandi pensatori di questo secolo non sono più, come nel precedente, solo autori di lingua greca: Cicerone, Varrone e Nigidio Figulo pretendono un loro spazio autonomo accanto a Posidonio e Filodemo. La cultura romana interpreta e interroga i grandi testi del pensiero greco con immediato riferimento ai bisogni del presente: si dibatte sul ruolo della religione, non solo nei culti privati, ma soprattutto nella vita dello Stato e nelle scelte politiche; si teorizza quale sia la migliore costituzione, in un tempo di tradizioni che franano; si analizza in termini etici il comportamento sociale degli uomini. La cultura si interroga poi su se stessa, cercando di fondare il proprio ruolo nella vita pubblica e nella formazione della classe dirigente. In qualche caso, si delinea un rapporto ancora più stretto, cioè un intreccio immediato fra orientamenti ideali e azione politica. Qui però il panorama ci appare molto più frastagliato e irregolare. L’intellettuale diventa una figura autonoma In realtà, ciò che caratterizza questo periodo non è una particolare coerenza tra azione politica e ispirazione ideologica. Veri elementi caratterizzanti sono, invece, l’intensa circolazione di idee e di ideali a matrice filosofica e, insieme, la forte autonomia che gli intellettuali cominciano a
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