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storia romana,crisi e fine della repubblicA, Sintesi del corso di Storia Romana

storia romana,sto-guerre-civili

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 19/01/2020

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laura_em 🇮🇹

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Scarica storia romana,crisi e fine della repubblicA e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Costituzione e privilegio aristocratico: le riforme sillane Silla dittatore. Rimasto padrone del campo, Silla si fece assegnare a tempo indeterminato la carica di dittatore per la riforma dello stato. Era una carica inesistente, dato che la dittatura poteva durare al massimo sei mesi e si legava a gravi emergenze, non certo a scopi di riforma politica. Ma Silla voleva piena libertà di manovra per mettere in atto il suo programma politico e la dittatura, annullando i poteri dì tutte le altre magistrature, era l'unica carica in grado di assicurargli questa libertà. Siila rimase dittatore per tre anni, dall'82 all'80 a.C, durante i quali perseguì con coerenza e spietatezza l'obiettivo di rendere immodificabile il potere dell'aristocrazia senatoria, eliminando qualsiasi altra autorità che potesse minacciarlo o indebolirlo. Le liste di proscrizione. Anzitutto, Silla si liberò degli avversari politici attraverso le liste di proscrizione, e cioè elenchi di nemici dello stato, che chiunque poteva uccidere impunemente, anzi ricevendo una ricompensa. La licenza di uccidere si estendeva agli schiavi nei confronti dei loro padroni e ai figli verso i propri padri. La vendetta di Silla investì persino i figli dei proscritti, che venivano privati del loro patrimonio e del diritto di accedere alle cariche pubbliche. Nelle liste furono inserite anche persone la cui unica colpa era di possedere ingenti ricchezze: i beni dei proscritti venivano infatti ceduti all'asta al miglior offerente, e molti patrimoni nobiliari tardorepubblicani ebbero questa origine. Assai bersagliato fu il ceto dei cavalieri, che aveva più volte simpatizzato con Mario nei decenni passati, mentre dai massacri uscì quasi indenne, com'è ovvio, l'aristocrazia senatoria, la principale beneficiaria delle riforme sillane. La limitazione del potere dei tribuni. Liberatosi degli avversari, Silla procedette alle riforme vere e proprie. Nei cinquant'anni precedenti, le minacce al potere dell'oligarchia erano venute soprattutto dai tribuni della plebe. Ebbene, il dittatore decapitò i poteri dei tribuni, stabilendo che le loro proposte di legge dovevano passare al vaglio del senato, prima di essere approvate dai concili della plebe, e inoltre rendendo poco attraente la carica di tribuno, perché chi la ricopriva non poteva più proseguire la carriera politica. I popolari perdevano così l'arma più temibile, quella che dai Gracchi a Saturnino a Druso aveva rappresentato il più efficace strumento di pressione contro l'oligarchia ottimate. Silla stabilì anche l'obbligo per i comandanti di congedare gli eserciti non appena giunti in Italia, i cui confini vennero fatti coincidere con l'intera penisola, a eccezione della pianura padana. A nessuno sarebbe più stato possibile, almeno legalmente, quello che lo stesso Siila aveva fatto due volte: marciare in armi contro Roma. Il rafforzamento del senato. Un'altra norma vietò la rielezione al consolato prima che fossero trascorsi almeno dieci anni dal consolato precedente: situazioni come quella di Mario, che era stato console per cinque anni di seguito, diventavano da allora in avanti illegali. Silla inoltre ridefinì l'intero assetto della carriera politica, fissando l'obbligo di ricoprire la questura e la pretura prima di potersi candidare al conso- lato; anche in questo caso l'obiettivo era di evitare carriere "facili" e di controllare meglio l'accesso alle magistrature maggiori. In compenso, l'accesso in senato venne esteso ai magistrati minori, a partire dai questori. Fu quindi necessario ampliare il numero dei senatori, che passò da 300 a 600; tra l'altro, Silla mise nuovamente nelle mani dei senatori il pieno controllo dei processi intentati contro i governatori di provincia. Il ritiro dalla vita politica. Completate le sue riforme, Silla depose spontaneamente la dittatura e si ritirò a vita privata. Morì subito dopo, nel 78 a.C. Era convinto di aver consolidato in modo duraturo il potere della sua classe: una convinzione che gli eventi degli anni successivi dimostreranno profondamente sbagliata. Roma nell'epoca di Pompeo e di Crasso Due nuovi uomini forti per Roma All’ombra di Silla. Quando Silla era ancora un brillante generale impegnato a reprimere la rivolta degli italici e, più tardi, negli anni di piombo delle proscrizioni e della dittatura, si segnalarono al suo fianco due giovani rampolli dell'aristocrazia conservatrice, Gneo Pompeo (106-48 a.C.) e Marco Licinio Crasso (115-53 a.C). Pompeo colpì l'immaginazione dei contemporanei perché quando nell'82 a.C. Silla, tornato dall'Oriente, si accingeva a marciare contro i mariani, arruolò un esercito personale mettendolo a disposizione del futuro dittatore; durante la dittatura Pompeo ricevette il trionfo e il soprannome di "Magno". Crasso si arricchì sfacciatamente attraverso le proscrizioni, al punto che a Roma lo chiamavano semplicemente Dives, "il Ricco". Questi due uomini dal passato torbido furono tra i protagonisti dei successivi decenni di storia repubblicana. Pompeo contro i mariani in Spagna. Anche se Mario e Silla erano morti, negli anni settanta restavano attivi i generali che avevano combattuto con loro nella guerra civile. Già abbiamo ricordato che un consistente gruppo di mariani, fuggiti da Roma all'epoca delle proscrizioni, aveva trovato rifugio in Spagna. Questi fuoriusciti, guidati da un ex ufficiale di Mario, Sertorio, diedero vita a una specie di guerra privata contro lo stato centrale, anche con l'appoggio delle popolazioni iberiche, mai del tutto pacificate. Dopo la morte di Silla si decise di liquidare quest'ultimo focolaio di resistenza mariana. Era un compito tutt'altro che facile, perché la Spagna era sempre stata un osso duro per i generali romani: venne affidato a Pompeo, sillano della prima ora e già con una breve ma brillante carriera militare al suo attivo. La guerra fu aspra, come previsto, durò dal 76 al 72 a.C. e fu vinta solo grazie al tradimento di uno degli uomini di Sertorio. Spartaco e la rivolta degli schiavi. Intanto, alla fine del 74 a.C. la fuga di un gruppo di schiavi dalla scuola di addestramento per gladiatori di Capua si era trasformata in una vera e propria guerra. Guidato dall'abile Spartaco, un gladiatore originario della Tracia, il gruppo degli schiavi si ingrossò fino a diventare un vero e proprio esercito, che impegnò le truppe consolari per tre anni e le sconfisse ripetutamente. Alla fine fu Crasso a infliggere agli schiavi la sconfitta definitiva, nel 71 a.C: gli uomini di Spartaco furono massacrati, i superstiti, circa seimila, vennero crocifissi lungo la via Appia che collegava Capua a Roma; un altro gruppo, che era riuscito a sfuggire a Crasso, fu intercettato dall'esercito di Pompeo che tornava dalla Spagna e annientato. Un chiaro segno della considerazione in cui erano tenuti gli schiavi è il fatto che Crasso non chiese al senato il trionfo o altri riconoscimenti per la sua vittoria: come spiega un antico biografo, era «ignobile e poco decoroso trionfare per una guerra contro degli schiavi». Il consolato di Pompeo e Crasso. Tornati a Roma vittoriosi, Pompeo e Crasso potevano ormai aspirare a un ruolo politico di primo piano, e infatti furono entrambi eletti al consolato per Tanno 70 a.C. I consoli smantellarono gli aspetti più odiosi della costituzione sillana: in particolare, restituirono ai tribuni le prerogative che erano state loro sottratte e reintrodussero i cavalieri nelle giurie incaricate di giudicare i reati di malgoverno nelle province. I due ex sillani di ferro avevano capito che, per governare, occorreva il consenso di gruppi sociali più ampi di quelli a cui si era rivolto Siila, cioè di fatto la sola aristocrazìa senatoria. L'ascesa di Pompeo Il processo a Verre. L'anno del consolato di Pompeo e Crasso passò alla storia anche per un processo che tenne con il fiato sospeso l'intera cittadinanza. L'imputato era l'ex governatore della Sicilia Gaio Verre, che durante il suo incarico aveva commesso innumerevoli abusi e accumulato un'immensa fortuna personale. Gli accusatori erano i siciliani stessi, i cui interessi erano difesi da un giovane avvocato e politico emergente, destinato a un grande futuro, Marco Tullio Cicerone. La posta in gioco del processo non era tanto la sorte di Verre, quanto l'efficacia della riforma che aveva riammesso i cavalieri nelle giurie dei tribunali. Una giuria di soli senatori avrebbe probabilmente assolto l'ex governatore, mentre il tribunale riformato lo condannò: per il ceto equestre (al quale apparteneva lo stesso Cicerone) fu una vittoria politica prima ancora che giuridica. Il nuovo assetto in Oriente • |favorì i pubblicani (gli esattori delle tasse nelle province), un ceto a cui Crasso era molto legato, riducendo la somma che dovevano versare allo stato e quindi aumentando i loro margini di guadagno; • per se stesso, infine, Cesare ottenne, a partire dal 58 a.C. e per la durata di cinque anni, il governo della Gallia Cisalpina, dell'Illirico ♦ e della Gallia Narbonese, la provincia che coincideva con la fascia mediterranea dell'odierna Francia. Una scelta insolita. A Roma, il momento dell'assegnazione delle province vedeva di solito una corsa all'accaparramento dei territori più ricchi, ovvero le regioni orientali. Arricchirsi estorcendo denaro ai provinciali era ritenuta una prassi quasi normale per un governatore, che in questo modo compensava le ingenti spese sostenute nella campagna elettorale o nell'esercizio della magistratura a Roma; e, naturalmente, più la provincia era ricca, maggiore poteva essere il vantaggio per chi la governava. Perché allora Cesare si fece assegnare un territorio come la Gallia Narbonese, economicamente depresso e politicamente quasi insignificante? Dietro questa scelta, che a molti sembrò incomprensibile, si nascondeva un progetto lucidissimo. Partendo dalla Narbonese, Cesare intendeva lanciare un'operazione di conquista in grande stile in direzione della Gallia centrale e settentrionale, un'area enorme, ma poco popolata e militarmente debole. A sua volta, da questa operazione Cesare si riprometteva di ricavare diversi vantaggi. Anzitutto un beneficio in termini di immagine, perché, in caso di successo, il suo prestigio politico-militare sarebbe salito alle stelle, tanto da eguagliare quello di Pompeo. Inoltre una lunga campagna militare avrebbe offerto la possibilità di costruire un rapporto molto stretto con le proprie legioni e, alla fine della guerra, Cesare poteva prevedere di avere un esercito esperto e fedele, ponendosi anche da questo punto di vista su un piano di parità rispetto a Pompeo. Due avversari: Cicerone, Catone il Giovane. Ottenute dunque le province che desiderava, nella primavera del 58 a.C. Cesare si accinse a lasciare Roma per raggiungere i territori della Gallia. Prima, però, volle liberarsi di due avversari politici che in sua assenza avrebbero potuto tramare contro di lui. Il primo era Cicerone, il quale era stato console l'anno della congiura di Catilina e probabilmente conosceva i retroscena di quel fallito colpo di stato, compresa la sua complicità: un segreto che scottava, uno "scheletro nell'armadio", che Cicerone poteva tirare fuori al momento opportuno e e usare contro il suo avversario. L'altro oppositore che preoccupava Cesare era Catone il Giovane, difensore inflessibile dell'aristocrazia e del suo governo, e dunque sostenitore di quel regime che Cesare si preparava, nel lungo periodo, ad abbattere. Cesare non agì personalmente contro i due avversari e affidò invece la faccenda a Publio Clodio, un nobile passato dalla parte dei popolari e dotato di largo seguito fra gli strati più bassi della plebe urbana. Clodio, eletto tribuno della plebe in quello stesso 58 a.C, riuscì a mandare in esilio Cicerone, mentre Catone venne inviato a governare l'isola di Cipro, appena passata dagli egiziani a Roma: apparentemente un onore, in realtà un modo per tenere l'implacabile anticesariano lontano quanto bastava dalla vita politica. Cesare il conquistatore La campagna di Gallia Un immenso territorio da conquistare. La Gallia, come si è detto, era un territorio immenso, delimitato a nord dal canale della Manica, a est dal fiume Reno, che divideva i galli dai germani, e ad ovest dall'oceano. Di questa vastissima area i romani controllavano, come sappiamo, solo la fascia costiera mediterranea; con i popoli dell'interno esistevano rapporti commerciali e qualche isolato contatto politico-diplomatico, nulla di più. Sulla carta, la conquista della Gallia interna si presentava come un compito non troppo impegnativo. Sembrava confermarlo soprattutto il fatto che i galli, omogenei sul piano linguistico e religioso, apparivano invece divisi sul piano politico da profonde lacerazioni e rivalità interne. Il primo atto: lo sterminio degli elvezi. Il comando assegnato a Cesare non prevedeva lo sconfinamento fuori della Gallia Narbonese, né era pensabile che Cesare attaccasse a freddo, senza ragioni plausibili. Per scatenare l'offensiva gli serviva quindi un pretesto, che non fu difficile trovare nella fluida situazione delle irrequiete tribù celtiche. Gli elvezi, stanziati nell'attuale Svizzera, sotto la pressione di tribù germaniche ave- vano stabilito di trasferirsi più a ovest. Per fare questo dovevano transitare per la provincia romana e Cesare non si lasciò sfuggire l'occasione. Dapprima negò agli elvezi il permesso di transito, obbligandoli ad affrontare un percorso alternativo, molto più lungo e disagevole; quando poi, seguendo il percorso indicato, gli elvezi dovettero attraversare il territorio degli edui, alleati di Roma, Cesare li aggredì con il pretesto di difendere gli edui. Nel corso di una sola battaglia, combattuta nell'estate del 58 a.C, gli elvezi vennero praticamente sterminati. È lo stesso Cesare a informarci di questo genocidio, parlando di 260000 vittime su un totale di 370000 elvezi partiti dai loro territori. Le guerre galliche La carta illustra le campagne militari che portarono Cesare, fra il 58 e 52 a.C, a conquistare l'intera Gallia La travolgente avanzata romana. In un territorio instabile come la Gallia bastava intervenire su un tassello per alterare l'equilibrio di tutto l'insieme; e così, lo sterminio degli elvezi produsse una serie di reazioni a catena, delle quali Cesare approfittò per allargare il fronte della sua avanzata. Già nel 57 a.C, con la sconfitta dei belgi e di altre tribù del nord l'esercito cesariano era arrivato sul canale della Manica. Dopo soli due anni di guerra, la conquista dell'intera Gallia sembrava dunque cosa fatta. Cesare si sentì abbastanza sicuro da abbandonare temporaneamente l'area di guerra per incontrare, a Lucca, Pompeo e Crasso. Il secondo accordo con Pompeo e Crasso. A Lucca, nel 56 a.C, gli accordi fra i triumviri furono aggiornati. Pompeo e Crasso sarebbero stati consoli nel 55 a.C (come puntualmente accadde) e avrebbero votato una legge che prorogava di altri cinque anni il mandato di Cesare in Gallia. L'anno successivo Pompeo avrebbe assunto il governo della Spagna - territorio a lui fedelissimo sin dall'epoca della guerra contro Sertorio e Crasso il proconsolato in Oriente, dove voleva intraprendere una campagna militare in grande stile contro i parti, la minacciosa popolazione stanziata nell'area mesopotamica, oltre il confine dell'impero. Cesare in Britannia e oltre il Reno. Tornato in Gallia, nel 55 a.C. Cesare effettuò un primo sbarco esplorativo in Britannia, cui ne seguì l'anno successivo un secondo; questa volta i romani raggiunsero e oltrepassarono il Tamigi. Cesare inoltre attraversò il Reno, il fiume che segnava il confine fra Gallia e Germania, penetrando per alcune miglia in territorio nemico. Si trattò di due operazioni poco significative dal punto di vista militare, perché in Germania non venne conquistato alcun territorio e la Britannia fu assoggettata a un tributo puramente nominale. Ma con esse Cesare suscitò una grande impressione, perché si trattava di territori lontanissimi e sconosciuti, nei quali nessun romano aveva mai messo piede; penetrandovi, Cesare portava alle stelle la sua fama di condottiero invincibile. La vittoria di Alesia e la sottomissione della Gallia. Nonostante i successi riportati, tuttavia, la sottomissione della Gallia si rivelò più complessa del previsto, anzi fu a un passo dal fallire. Dopo varie rivolte nel nord del paese, infatti, nell'inverno del 53-52 a.C. una grande coalizione di popoli gallici diede vita a una generale sollevazione antiromana. La novità stava nell'unione fra diverse tribù e nella presenza di un generale abile e coraggioso, il giovane Vercingetorige, in grado finalmente di tener testa a Cesare. La battaglia decisiva si svolse nel settembre del 52 a.C. intorno al centro fortificato di Alesia, dove Vercingetorige si era asserragliato e dove lo raggiunsero altre forze galliche, che a loro volta circondarono l'esercito romano assediarne: fu la più difficile e la più decisiva fra le vittorie di Cesare in Gallia. Il resto fu un'operazione di polizia: gli anni 51-50 a.C. furono dedicati a spegnere gli ultimi focolai di rivolta, ma la conquista era ormai cosa fatta. L'intera campagna era costata alla Gallia un milione di morti e altrettanti furono i galli ridotti in schiavitù: un genocidio di proporzioni inaudite, anche in una cultura militarista come quella romana. Cesare il dittatore Un’altra guerra civile Le tensioni fra Cesare e Pompeo. Negli anni in cui Cesare era lontano da Roma (ma sempre a stretto contatto con i suoi uomini nella capitale) erano accadute molte cose che mutavano il quadro politico; in particolare si evidenziava una crescente tensione nei rapporti fra Cesare e Pompeo, che portò i due sull'orlo della rottura. • Il primo segnale inquietante si era avuto nel 57 a.C, ad appena un anno dalla partenza di Cesare, quando Pompeo aveva richiamato in patria Cicerone (che Cesare, come sappiamo, aveva fatto esiliare da Clodio), evidentemente per garantirsi un alleato in vista di un futuro, possibile scontro con Cesare. • Nel 54 a.C. morì Giulia, figlia di Cesare e moglie di Pompeo: venne meno così un altro legame fra i due aristocratici. • Sempre nel 54 a.C. Pompeo, pur avendo ricevuto l'incarico di governare la Spagna, non si mosse dalle porte di Roma, dove stazionavano le truppe che gli erano state affidate. Pompeo console unico. Intanto la campagna contro i parti dell'altro triumviro, Crasso, si rivelò un fallimento. Nella decisiva battaglia di Carre, in Mesopotamia, Crasso cadde prigioniero e fu ucciso (53 a.C): era la fine del triumvirato. Nel 52 a.C. Clodio, che era ancora uno dei principali agenti di Cesare a Roma, venne ucciso da un commando guidato da Milone, che agiva per conto dell'aristocrazia ottimate. Nella confusione che seguì al fatto, Pompeo venne nominato console senza collega: una formula elegante per evitare di usare il termine "dittatore", che evidentemente suscitava il ricordo odioso di Silla. Così, progressivamente, le posizioni di Pompeo e degli ottimati si erano avvicinate. Del resto, a Pompeo non poteva sfuggire che il potere che Cesare stava accumulando era diretto anzitutto contro di lui, perciò la scelta di schierarsi con il senato fu in un certo senso obbligata: ora ciò che contava era battere Cesare, i conti con gli oligarchi erano rimandati a dopo. L’inizio della guerra civile. La rottura avvenne su una questione apparentemente formale. Nel 49 a.C. scadeva il secondo quinquennio di governo provinciale e Cesare intendeva presentare la propria candidatura al consolato per l'anno seguente. Ma, su suggerimento di Pompeo, il senato chiese a Cesare di sciogliere le legioni e presentarsi a Roma come privato cittadino. Era evidente il fine politico della richiesta: senza soldati Antonio, abile generale e politico navigato, piuttosto che il giovanissimo Ottaviano, nemmeno ventenne; perciò i senatori cercarono di indurre Ottaviano a schierarsi dalla loro parte, sfruttando contro Antonio le forze militari che stava raccogliendo. L'occasione non si fece attendere. Nel 43 a.C. Antonio ebbe il governo della provincia di Macedonia, un incarico a lui sgradito perché lo allontanava troppo da Roma in quei mesi cruciali. Manovrò allora per scambiarlo con il proconsolato in Gallia (scelta ovvia per un ex cesaria-no), ma il governatore della Gallia legittimamente designato, Decimo Bruto, non volle cedere e i due si scontrarono in armi a Modena. Il senato approfittò della circostanza per dichiarare Antonio nemico pubblico e, in aiuto di Decimo Bruto, inviò un esercito a cui si unì Ottaviano con le proprie truppe: Antonio fu sconfitto e riparò in Gallia insieme a Marco Emilio Lepido, anch'egli ufficiale veterano delle campagne di Cesare. Il secondo triumvirato. In questo momento, quanto mai incandescente e confuso, Ottaviano rientrò a Roma, lasciò le sue legioni accampate alle porte della città e si fece assegnare il consolato, grazie al quale legittimò in qualche modo la sua posizione (fino ad allora, infatti, aveva di fatto combattuto come privato cittadino, senza alcun mandato ufficiale). Ma Ottaviano aveva già un eccellente intuito politico e capì che in quel momento l'accordo con Antonio era per lui più conveniente di una nuova guerra civile. Preferì perciò aprire una trattativa con Antonio e Lepido e costituire, insieme con loro, il secondo triumvirato (43 a.C). Il secondo triumvirato fu molto diverso da quello costituito nel 60 a.C. da Cesare, Pompeo e Crasso, terminato nella lunga guerra civile e poi nella dittatura di Cesare. Il primo triumvirato era stato un accordo segreto fra tre uomini molto potenti (o decisi a diventarlo), per mettere le mani sulle leve cruciali dello stato e garantirsi il controllo della vita politica. L'accordo fra Ottaviano, Antonio e Lepido, al contrario, prese la forma di una vera e propria magistratura straordinaria, istituita da una legge che prevedeva un mandato di cinque anni per triumviri, con pieni poteri di procedere alla riforma dello stato. La lotta contro l'aristocrazia conservatrice. Il primo obiettivo di Ottaviano, Antonio e Lepido era di liquidare l'ala più conservatrice della nobiltà, quella che, con l'assassinio di Cesare, aveva dimostrato di essere pronta a difendere con il qualsiasi mezzo il proprio potere. Cesare aveva tentato di guadagnare al suo progetto di riforma anche gli avversari più irriducibili: una strategia politica che appariva, con il senno di poi, perdente, visto che molti dei congiurati che l'avevano eliminato erano proprio ex pompeiani da lui graziati. I triumviri decisero di procedere per altra via. In primo luogo, i cesaricidi furono proclamati nemici pubblici. Bruto, Cassio e gli altri erano già fuggiti in Grecia, dove iniziarono a raccogliere un esercito per far fronte al prevedibile attacco dei triumviri, che a quel punto appariva solo questione di tempo. Tornano le liste di proscrizione. In secondo luogo, i triumviri riesumarono un vecchio e odioso strumento di lotta politica: le liste di proscrizione, cioè gli elenchi di avversari che potevano essere uccisi da chiunque impunemente, anzi con una ricompensa da parte dei tre magistrati supremi. Era un modo brutale per liberarsi dei nemici più pericolosi, ma soprattutto uno strumento per procurarsi rapidamente le ingenti somme di denaro che servivano a preparare lo scontro finale con i cesaricidi, dato che i patrimoni dei proscritti venivano incamerati dallo stato, e dunque dai triumviri stessi. Tra le vittime eccellenti delle proscrizioni vi fu Cicerone, l'ormai anziano protagonista di quarant’anni della vita politica romana. Nel breve periodo in cui il senato aveva cercato di giocare la carta Ottaviano per indebolire Antonio, Cicerone aveva attaccato quest'ultimo in una serie di violentissimi discorsi; ora Antonio ebbe modo di vendicarsi e Ottaviano non potè, o non volle, difendere il suo ex sponsor politico. I sicari di Antonio raggiunsero Cicerone nel dicembre del 43 a.C. sulla spiaggia di Formia, mentre cercava di prendere il largo su una nave: la testa e le mani di Cicero- ne furono mozzate ed esibite a Roma nel foro, a riprova della violenza inaudita dello scontro in atto. La sconfìtta dei repubblicani. Nel 42 a.C. l'esercito dei triumviri era pronto allo scontro finale. Il contatto con l'esercito dei cesaricidi avvenne a Filippi, nel nord della Grecia, e si risolse con la vittoria delle forze triumvirali. I nobili che avevano seguito Bruto e Cassio morirono quasi tutti in battaglia e il suicidio dei due congiurati, alla notizia della sconfitta, segnò anche simbolicamente la fine del loro progetto di restaurazione dell'antica repubblica oligarchica. Ottaviano padrone di Roma La rivolta dei proprietari. Ora che l'obiettivo prioritario del triumvirato era stato raggiunto, la rivalità fra Antonio e Ottaviano riemerse in primo piano. Dopo Filippi, gran parte dell'esercito triumvirale venne smobilitato e si procedette all'assegnazione di terre ai veterani. Ottaviano, che si era assunto tale compito, dovette però affrontare una rivolta di proprietari terrieri, i cui fondi erano stati confiscati per distribuirli ai soldati, e a capo della rivolta stavano Fulvia e Lucio Antonio, ovvero la moglie e il fratello di Antonio. Il triumviro si trovava ancora in Oriente e non intervenne: era tuttavia difficile pensare che fosse all'oscuro dell'iniziativa. La guerra si protrasse per due anni, il 41-40 a.C, e i rivoltosi si asserragliarono infine a Perugia, dove vennero assediati da Ottaviano. Quando infine la città cadde, Ottaviano fece scannare per rappresaglia trecento notabili perugini su un altare dedicato a Cesare. La situazione restava dunque tesissima, anche dopo la sconfitta dei cesaricidi. La spartizione dell’impero. Nello stesso 40 a.C, a Brindisi, si arrivò a un nuovo accordo fra i triumviri, fondato su una spartizione delle zone di influenza: • Ottaviano si riservò l'Italia e le province occidentali dell'Impero; • Antonio assunse il controllo delle province orientali; • Lepido, la figura più scialba e politicamente debole, dovette accontentarsi dell'Africa. II patto fu suggellato dal matrimonio di Antonio con Ottavia, sorella di Ottaviano. Si aprì un decennio di pace apparente, ma nel quale, in realtà, i due principali contendenti non fecero altro che affilare le armi in vista dello scontro finale. Antonio in Egitto. Antonio pose la sua base di operazioni ad Alessandria d'Egitto. L'Egitto continuava a essere uno stato formalmente indipendente, governato dalla dinastia dei Tolomei, che lo avevano conquistato quasi tre secoli prima, all'epoca delle lotte fra i successori di Alessandro Magno; di fatto, però, era da tempo una specie di protettorato romano, sottoposto al controllo più o meno diretto della maggiore potenza mediterranea, Roma appunto. Antonio si legò alla regina d'Egitto, la giovane e spregiudicata Cleopatra, già amante di Giulio Cesare, la quale cercava, anche attraverso il suo fascino, di conciliare l'indipendenza del suo regno e la sempre più invadente presenza romana. Da Alessandria, Antonio coordinò alcuni interventi militari in Medio Oriente. Era un'area tormentata, dove l'egemonia romana doveva fare i conti con il potente e te muto Impero dei parti e con le lotte interne ai vari regni, lotte che spesso provocavano la caduta dei sovrani filoromani e l'imporsi di governi ostili. Si trattava, insomma, di situazioni politiche fluide e delicate, che misero a dura prova le capacità militari e diplomatiche di Antonio e che non approdarono a successi definitivi. La propaganda contro Antonio. Nel 38 a.C, alla scadenza prevista, il triumvirato venne prorogato di altri cinque anni, ma i rapporti tra Ottaviano e Antonio cominciarono a peggiorare. Ottaviano decise di usare contro il rivale l'arma della propaganda e degli stereotipi antiorientali. I deludenti risultati militari ottenuti da Antonio, l'offesa subita dalla sorella Ottavia (il cui marito si era legato a una regina straniera), la tradizionale immagine dei popoli orientali come viziosi, militarmente incapaci e portatori di valori estranei alla "sana" tradizione romana: Ottaviano fece leva su tutti questi elementi per presentare Antonio come un traditore, per accusarlo di giocare con le risorse e i soldati dell'Impero, ponendosi per di più al servizio di una donna, e gli attribuì addirittura il progetto di trasferire la capitale dell'Impero da Roma ad Alessandria. Di fronte a tali pericoli, Ottaviano si poneva come il difensore delle radici e dei valori più autentici dello spirito romano. Era perciò inevitabile che la tensione crescesse sempre più e nel 33 a.C, alla fine del secondo quinquennio di triumvirato, i rapporti fra Antonio e Ottaviano erano troppo compromessi per pensare a un ulteriore rinnovo. La battaglia di Azio e la morte di Antonio. Lo scontro finale era ormai solo questione di tempo e si verificò infatti nel 31 a.C. al largo di Azio, una località sulla costa dell'Epiro. Antonio combatteva insieme alle forze navali di Cleopatra e questo diede a Ottaviano la possibilità di presentare il conflitto non come l'ennesima guerra civile, ma come una regolare e legittima guerra contro un nemico esterno. La propaganda ufficiale, sia prima sia dopo la battaglia, tacque del tutto il fatto che Antonio guidava le truppe di terra. Lo scontro si concluse con la vittoria delle forze di Ottaviano e prima Cleopatra poi Antonio cercarono rifugio in Egitto, dove, braccati da Ottaviano, si tolsero la vita. Nel 30 a.C. Ottaviano entrava da vincitore ad Alessandria: l'Egitto cessava di essere un regno indipendente ed entrava a far parte dell'Impero romano. Quanto al terzo ex triumviro, Lepido, la sua figura era ormai talmente innocua che potè morire di vecchiaia vent'anni circa dopo Azio. Così, Ottaviano si trovava ora nella stessa posizione di Giulio Cesare quindici anni prima. Ancora giovane (aveva trentatré anni) era il nuovo padrone di Roma: lo sarebbe rimasto - ma questo allora non poteva saperlo - per altri quarantaquattro, fino al 14 d.C. Intanto, però, dalle mosse che compì nei mesi e negli anni successivi dipese il futuro della storia di Roma. La crisi della nobiltà e il desiderio di pace. Molte cose erano cambiate nei quindici anni che separavano la vittoria di Cesare su Pompeo da quella di Ottaviano su Antonio. La vecchia aristocrazia conservatrice era stata decimata dalle proscrizioni e poi dalle guerre; i superstiti di questa classe, un tempo temuta e potente, erano ormai pronti a consegnare il potere nelle mani di un leader unico, se questo era il solo modo per continuare a godere almeno di una parte dei propri antichi privilegi. Il resto della popolazione era stremata da guerre civili che si protraevano, con poche interruzioni, da almeno un secolo (cioè dall'uccisione di Tiberio Gracco), e il desiderio diffuso era quindi che si giungesse a una pace duratura. Ottaviano, che era molto sensibile all'importanza dei simboli, già nel 29 a.C. si affrettò a far chiudere le porte del tempio di Giano: un gesto rituale, che indicava l'assenza di guerre in tutto il territorio dell'Impero e che si era verificato due sole volte nella precedente storia della città. Il significato della decisione era evidente e doveva essere fonte di immenso sollievo per generazioni cresciute in mezzo alle guerre civili.
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