Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Storia romana dalla età augustea, Appunti di Storia Romana

Appunti di storia romana dall'età augustea alla caduta

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 09/04/2023

SyrBercylak
SyrBercylak 🇮🇹

4.8

(5)

47 documenti

1 / 24

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Storia romana dalla età augustea e più Appunti in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Sin dall’età augustea il principato non si era configurato come una carica politica inserita nell’ordinamento istituzionale romano, ma si era strutturato progressivamente come una somma di prerogative magistratuali (potestà tribunizia, potere proconsolare, pontificato massimo), imperniate sull’auctoritas del primo imperatore. A quanto risulta dalle scarne fonti in nostro possesso, subito dopo l’avvento di un nuovo principe il popolo si riuniva nei comizi e gli conferiva formalmente gli stessi poteri che erano stati propri di Augusto. Dall’epoca di Tiberio in poi, infatti, la successione dei principi giulio-claudi trovò la propria legittimazione nella comune discendenza da Giulio Cesare e da Augusto, entrambi divinizzati dopo la loro morte. Il problema della definizione del potere imperiale si impose per la prima volta in termini nuovi nel 68 d.C., quando, a distanza di un secolo dallo scontro consumatosi fra Ottaviano e Antonio, il territorio dello stato romano fu nuovamente sconvolto da sanguinose  guerre civili. I governatori delle province occidentali rifiutarono obbedienza a Nerone e proclamarono imperatore un anziano consolare, governatore della Spagna Tarraconense: Servio Sulpicio Galba. Con lui si schierarono altri eserciti e province e uno dei prefetti del pretorio. Il senato proclamò Nerone nemico pubblico (hostis publicus) e riconobbe Galba come principe. La nomina di Galba fu rispettata da tutte le province. A causa della crisi determinata dalla condotta di Nerone fu quindi accettata come fonte del potere imperiale la  scelta del senato, che era invece stato estromesso all’epoca della successione giulio-claudia. Ma la situazione precipitò ulteriormente nel giro di poco tempo: Galba decise di adottare il trentenne Lucio Calpurnio Pisone, un altro esponente dell’aristocrazia senatoria, indicando chiaramente in lui il proprio successore. La scelta non fu gradita ai pretoriani, ai quali non era stato corrisposto il donativo secondo le loro aspettative. Essi linciarono Galba nel foro e al suo posto proclamarono principe Marco Salvio Otone, governatore della Lusitania e uomo di fiducia dell’ordine equestre. Qualche giorno prima anche le legioni sul Reno erano insorte, nominando imperatore il governatore della Germania Inferiore, Aulo Vitellio, un fedele di Nerone. Questi scese rapidamente in Italia con i suoi seguaci, che prevalsero su Otone a Bedriaco, nei pressi di Cremona, e saccheggiarono la Cisalpina. L’imperatore sconfitto si suicidò, ma Vitellio dovette presto fronteggiare un altro usurpatore: Tito Flavio Vespasiano. Vespasiano era stato proclamato imperatore dalle legioni orientali nel luglio del  69 d.C. All’epoca egli si trovava in Giudea, dove era stato inviato da Nerone per sedare un’estesa rivolta della popolazione locale. Dopo l’acclamazione demandò il comando delle operazioni nell’area siro-palestinese al figlio maggiore Tito e si spostò in Egitto per attuare un eventuale blocco delle esportazioni granarie verso Roma. Ben presto alle truppe d’Oriente si affiancarono nell’appoggiarlo anche quelle di stanza nelle province danubiane. Il prevalere dei flaviani sui vitelliani si consolidò grazie alle vittorie riportate nei mesi finali del 69 d.C. nelle battaglie di Bedriaco (la seconda di quell’anno) e Saxa Rubra, alle porte di Roma. Nel frattempo nella capitale Vitellio cercò di organizzare un’estrema resistenza: Flavio Sabino, fratello di Vespasiano e prefetto urbano, fu ucciso dopo essersi asserragliato sul Campidoglio, mentre Domiziano, figlio minore di Vespasiano, riuscì a stento a trarsi in salvo, travestito da sacerdote di Iside. La collina fu data alle fiamme. Nell’incendio bruciarono sia il tempio di Giove Ottimo Massimo, che il  Tabularium, l’archivio contenente le lastre bronzee (tabulae) che registravano i provvedimenti legislativi emanati a Roma sin dai tempi più antichi. La completa conquista di Roma da parte dei sostenitori di Vespasiano avvenne alla fine del 69 d.C., quando Vitellio morì linciato dalla folla nel foro. A seguito di tali avvenimenti il senato emanò un decreto che riconosceva ufficialmente il generale flavio, ancora residente in Oriente, come nuovo imperatore. Ebbe così termine quello che Tacito definì il «lungo e insolito anno» (longus et unus annus). Alla fine della guerra civile la posizione di Vespasiano fu consolidata grazie all’emanazione di una legge che indicava con precisione gli ambiti di competenza del nuovo imperatore. Questo provvedimento, che integra la lacuna di notizie a tal proposito nella tradizione storiografica, è tramandato da un documento epigrafico, inciso su bronzo e conservato a Roma nei Musei Capitolini. Si tratta probabilmente del testo più celebre e importante dell’epigrafia giuridica romana, noto come lex de imperio Vespasiani, ovvero la «legge sul potere di Vespasiano». Quanto ci è pervenuto corrisponde all’ultima tavola di una legge comiziale ( lex rogata), che sanciva una serie di diritti riconosciuti all’imperatore Vespasiano all’indomani della sua vittoria su Vitellio. È chiaro che il testo, pur presentandosi formalmente come espressione della volontà popolare, rispecchia in realtà la connotazione che Vespasiano stesso intendeva attribuire al potere imperiale. Egli fu infatti il  268primo imperatore estraneo alla famiglia giulio-claudia che si impose a lungo dopo la guerra civile del 68-69 d.C. e dovette quindi legittimare la propria posizione per una via diversa rispetto a quella dinastica, seguita dai suoi predecessori. La stirpe di Vespasiano non apparteneva inoltre all’aristocrazia senatoria: al contrario, egli era un «uomo nuovo», figlio di un pubblicano e originario di Rieti in Sabina. La lex de imperio Vespasiani fornisce una nuova definizione costituzionale delle prerogative del principe, canonizzando definitivamente i poteri goduti in precedenza da Augusto e dai suoi successori. Fino ad allora la posizione dell’imperatore  269nello stato era stata assicurata dall’esercizio di una somma di prerogative, conferite a ciascuno individualmente e non trasmesse in termini di eredità. Sotto Vespasiano, invece, quella del principe divenne una figura istituzionalizzata, quasi una magistratura, con competenze e ambiti di azione ben definiti. Da secoli gli studiosi ritengono giustamente che la lex de imperio Vespasiani sia uno dei documenti più importanti per comprendere l’evoluzione delle istituzioni romane in epoca imperiale. Le fonti letterarie antiche non contengono però alcun accenno a essa: come nel caso della Tabula Hebana, è questa la riprova degli interessi selettivi della storiografia romana e della necessità per noi moderni di ricostruire la storia sulla base di tutte le fonti disponibili. Per quanto concerne la politica estera, dopo la conclusione della guerra civile Vespasiano fu artefice di un progressivo consolidamento dei territori dello stato romano. Nel 70 d.C. suo figlio Tito sedò la rivolta giudaica, concludendo l’assedio di Gerusalemme e dando così inizio alla diaspora ebraica. L’anno successivo egli celebrò a Roma assieme al padre il trionfo sui Giudei. Anche dopo la caduta di Gerusalemme sopravvissero nell’area siro-palestinese alcune sacche di resistenza, costituite da ribelli che non intendevano arrendersi. Nella fortezza di Masada si asserragliò una comunità di Zeloti, appartenenti a una setta di Ebrei intransigenti, estremi fautori dell’indipendenza del loro paese. Costoro respinsero per tre anni l’assedio delle truppe romane; alla fine, quando la sconfitta era ormai imminente, l’intero gruppo si suicidò per non cadere nelle mani dei nemici. In epoca vespasianea la Spagna, uno dei territori dell’impero di più antica romanizzazione, ricevette la cittadinanza di diritto latino (ius Latii) e il conseguente statuto municipale. I Flavi esercitarono infatti nei confronti della penisola iberica una sorta di patronato, analogo a quello dei Giulio-Claudi per la Gallia. In questo periodo, d’altronde, le province spagnole si distinguevano sulle altre tanto per il loro dinamismo in ambito economico, legato soprattutto alle esportazioni di olio, vino e metalli, quanto per la loro preminenza nel campo Il paradigma augusteo fu seguito anche nel campo della politica estera: Traiano riprese infatti con forza l’espansionismo territoriale che i Romani avevano abbandonato da circa un secolo, a eccezione che sotto alcuni principi, come Claudio e Vespasiano. Nel 101 d.C. ebbe inizio una prima spedizione militare nel quadrante balcanico, dove, sin dall’epoca di Domiziano, era rimasta irrisolta la questione dacica. Dopo una prima vittoria Traiano rientrò a Roma e celebrò il trionfo nel 102 d.C. Il re dei Daci, Decebalo, non intendeva però arrendersi in maniera definitiva. Nel 105 d.C. l’esercito romano salpò allora da Ancona, definita «ingresso dell’Italia» (accessum Italiae) nell’epigrafe incisa sull’arco successivamente eretto in onore dell’imperatore nel porto della città. Giunta sull’altra sponda dell’Adriatico, l’armata romana si trasferì nuovamente sul teatro di guerra, attraversando il letto del Danubio su un monumentale ponte costruito per l’occasione (pons Traiani). Avendo compreso l’imminenza della sua sconfitta, nel 106 d.C. Decebalo si tolse la vita tagliandosi la gola: la sua testa fu portata a Roma ed esibita come trofeo nel trionfo di Traiano. L’intera serie di campagne militari che portò alla  conquista della Dacia è descritta con precisione nel fregio istoriato della colonna traiana. Grazie alle due campagne daciche i Romani riuscirono a provincializzare permanentemente un’ampia area a nord del Danubio, corrispondente in linea di massima al territorio dell’odierna Romania. Si trattava di una regione ricca di  279giacimenti metalliferi, in particolare d’oro, nella quale venne attuato un programma di colonizzazione di massa, che consentì all’impero di innestare un cuneo strategico all’interno del mondo barbarico. La profonda romanizzazione a cui andarono incontro questi territori nei decenni successivi è confermata dall’appartenenza del rumeno al gruppo delle lingue neolatine. Nello stesso anno in cui si concluse la conquista della Dacia (106 d.C.) Roma entrò in possesso anche del regno dei Nabatei, che si estendeva fra l’attuale Giordania e la penisola del Sinai. Sul suo territorio venne creata la nuova provincia d’Arabia, in cui si distinguevano le fiorenti città carovaniere di Petra e Bosra. Ma l’espansionismo traianeo verso est non si arrestò qui. Il sovrano volle infatti rimettere in discussione anche il delicato equilibrio che da decenni contrassegnava il rapporto con il grande antagonista dei Romani in Oriente: il regno dei Parti. Nel 114 d.C. Traiano invase l’Armenia, trasformandola in provincia. L’anno successivo il confine fu portato al Tigri e venne creata la provincia di Mesopotamia. Nel 116 d.C. fu conquistata Ctesifonte, la capitale partica (non lontana dall’odierna Bagdad), e l’imperatore raggiunse la riva del Golfo Persico, da dove avrebbe voluto salpare alla volta dell’India (*). Il modello dichiarato di Traiano era quello di Alessandro Magno: tale processo emulativo, spesso chiamato «imitazione di Alessandro» (imitatio Alexandri), era già stato intrapreso da numerosi altri comandanti militari e uomini politici dell’antichità. Se le conquiste del Macedone non vennero eguagliate dal principe spagnolo, egli poteva tuttavia vantarsi di aver portato a compimento un antico progetto di Giulio Cesare: le conquiste della Dacia e della Partia erano infatti state inizialmente concepite dal dittatore poco prima della sua uccisione nel marzo del 44 a.C. In tal modo sotto Traiano l’impero romano giunse alla sua massima espansione (si veda la carta 18 ). Le condizioni di salute dell’imperatore si aggravarono però abbastanza rapidamente: nell’agosto del 117 d.C. egli morì sulla costa della Cilicia, mentre stava cercando di intraprendere il viaggio di ritorno verso Roma. Prima della sua partenza per la capitale, Traiano aveva affidato il comando delle legioni orientali al governatore della Siria, Publio Elio Adriano, un suo cugino di secondo grado, appartenente alla gens Aelia, anch’essa residente a Italica nella Betica. Fu questi che i soldati acclamarono come nuovo imperatore, quando giunse loro la notizia della morte di Traiano. Non è chiaro se Adriano fosse stato adottato sul letto di morte o se, come sembra più probabile, Plotina, la vedova di Traiano, fosse riuscita a simularne l’adozione da parte del marito, tenendo nascosto per qualche giorno il decesso di quest’ultimo. L’ascesa al trono di un uomo di fiducia che disponesse di un’esperienza militare in Oriente già consolidata si rendeva d’altronde necessaria per concludere la repressione di un’imponente rivolta scoppiata, negli ultimi anni del regno di Traiano, all’interno delle comunità ebraiche della diaspora, stanziate in numerose province orientali (Cirenaica, Egitto, Cipro e Mesopotamia). Ben presto Adriano dimostrò di voler adottare una politica estera diametralmente opposta a quella sostenuta dal proprio predecessore. Numerose conquiste traianee (Armenia, Mesopotamia, Assiria) furono infatti cedute e il corso dell’Eufrate fu consolidato come naturale confine dell’impero verso Oriente, abbandonando quindi il Tigri e la fascia mesopotamica. Si trattò di un atteggiamento paragonabile per certi aspetti a quello che Tiberio aveva assunto nei confronti della Germania all’indomani della morte di Augusto, facendo arretrare la frontiera settentrionale dal corso dell’Elba a quello del Reno. La rinuncia all’espansionismo da parte di Adriano fu bilanciata dal rapporto di stretta familiarità e di profonda competenza che egli sviluppò con l’intero territorio dello stato romano. Dopo aver inizialmente soggiornato per un triennio nella capitale, nel 121 d.C. l’imperatore cominciò infatti a intraprendere una prima serie di lunghi viaggi, che gli consentì di conoscere da vicino i problemi di ciascuna delle realtà geografiche che componevano il mosaico del suolo imperiale. Nel corso degli anni Adriano visitò le Gallie, le Germanie e la Britannia, dove inaugurò i lavori di costruzione del celebre  vallo. Passò poi nelle Spagne e quindi in Oriente, dimorando in diverse province, ma soffermandosi in particolar modo ad Atene, località che egli prediligeva più di ogni altra. Vasto ed eclettico fu infatti il filellenismo di Adriano: in numerose città della Grecia e in particolare nel capoluogo dell’Attica 281egli promosse un intenso programma edilizio e di valorizzazione urbanistica, di cui si prese cura l’aristocratico filosofo greco Erode Attico  (*). Anche in Italia Adriano fu artefice di restauri e grandi costruzioni. A Roma riedificò il Pantheon di Agrippa e si fece erigere un monumentale mausoleo a pianta circolare, l’attuale Castel Sant’Angelo, che rispecchiava l’architettura di quello di Augusto, ma era posto sulla riva prospiciente del Tevere (*). Celebre e imponente è poi la villa di Adriano a Tivoli, una vera e propria città privata, la cui superficie occupava quasi duecento ettari  (*). Una seconda serie di viaggi, intrapresa a partire dal 128 d.C., portò Adriano in Africa, dove fu iniziata la fortificazione del confine con il deserto chiamata fossato dell’Africa (fossatum Africae) (*), nonché, nuovamente, in Oriente e in Grecia. Mentre la corte imperiale soggiornava in Egitto, trovò la morte nelle acque del Nilo  Antinoo, il ventenne amante di Adriano: il giovane fu immediatamente divinizzato e nel luogo stesso in cui era annegato fu edificata una città, chiamata in suo onore Antinopoli  (*). Poco dopo il passaggio dell’imperatore per la Giudea scoppiò nella regione una nuova insurrezione, causata dalla decisione di fondare sul sito di Gerusalemme una colonia (Aelia Capitolina), che riproponeva il modello urbanistico di tutte le città romane e prevedeva quindi anche la costruzione di un edificio consacrato a Giove Ottimo Massimo, da erigersi sul sito del distrutto tempio ebraico. La repressione della rivolta fu durissima: i morti fra la popolazione furono oltre mezzo milione, le autorità politiche e religiose della Giudea vennero annientate e si proibì per lungo tempo agli Ebrei di accedere a Gerusalemme. Per quanto concerne l’amministrazione dello stato, il principato di Adriano fu contrassegnato da numerose iniziative migliorative. Oltre a misure parzialmente demagogiche come l’annullamento dei debiti contratti con il fisco e la reintegrazione dei senatori decaduti per carenza dei requisiti patrimoniali, si procedette a una riorganizzazione della burocrazia imperiale. In particolare, la carriera dei procuratori (procuratores) equestri si strutturò secondo una progressione con stipendi annui fissi: sessantamila sesterzi ai sessagenari (sexagenarii), centomila ai centenari (centenarii), duecentomila ai ducenari (ducenarii). L’imperatore assegnò inoltre al giurista Salvio Giuliano la codificazione del cosiddetto editto perpetuo (edictum perpetuum). Tradizionalmente l’editto consisteva nel manifesto programmatico con cui all’inizio dell’anno il pretore esponeva i criteri generali, le linee-guida, che avrebbe seguito nell’esercizio della propria carica rispetto alle singole controversie da giudicare; tale testo recepiva la consuetudine trasmessa di volta in volta nei provvedimenti emessi dai propri predecessori (edictum tralaticium). Con la riforma adrianea il ruolo del pretore fu drasticamente ridimensionato e ogni attività normativa divenne ufficialmente appannaggio esclusivo del principe: l’editto venne quindi cristallizzato diventando un testo definitivo, modificabile solo dall’imperatore. Ormai debole e ammalato, Adriano indicò una sua prima volontà in merito alla successione adottando nel 136 d.C. il console di quell’anno Lucio Elio Cesare (padre del futuro imperatore Lucio Vero), che morì però prematuramente. Ridotto anch’egli sul letto di morte, Adriano indirizzò allora la sua seconda scelta 282sul senatore Arrio Antonino, la cui famiglia era originaria di Nîmes (Nemausus) nella Gallia Narbonense, l’odierna Provenza (Francia meridionale). Il nuovo imperatore, Antonino, assunse ufficialmente il cognome Pio (Pius) per la devozione dimostrata nei confronti del padre adottivo. Il suo principato si protrasse per molti anni (in assoluto fu il terzo per durata dopo quelli di Augusto e Costantino), ma non risulta caratterizzato da eventi particolarmente significativi. Questa assenza di notizie è giustificata in parte dalla scarsità delle fonti relative al periodo. L’unico approfondimento monografico è infatti quello costituito dalla Vita dell’imperatore contenuta nella Storia augusta (Historia Augusta), un’opera tardoantica ricca di aneddoti che, proseguendo il modello di Svetonio, raccoglie le biografie di quasi tutti gli imperatori romani da Adriano alla seconda metà del III secolo d.C. Il governo di Antonino fu inoltre contraddistinto da una sostanziale  continuità con quello di Adriano: come il suo predecessore, il nuovo principe rinunciò infatti all’espansionismo esterno e preferì consolidare le linee di confine. In Britannia, ad esempio, il vallo di Adriano fu affiancato da una nuova fortificazione, posta circa 160 km più a nord (nell’odierna Scozia meridionale) e nota come vallo di Antonino. Proprio l’assenza di campagne militari e di grandi scontri armati è da ritenere almeno in parte la causa del silenzio delle fonti letterarie. Sulla scorta del modello fornito dall’opera di Tucidide, la storiografia antica era infatti concepita innanzitutto come narrazione di guerre o di competizioni politiche: per tale motivo i periodi contrassegnati dalla pace risultano spesso scarsamente documentati. A differenza di Adriano, Antonino trascorse però una vita sedentaria. Già prima di divenire imperatore egli aveva preferito la carriera politica a quella militare. Durante il suo lungo principato risiedette quasi esclusivamente a Roma, che in quegli anni continuava a essere il cuore pulsante dell’impero, nonché un polo di attrazione per chi abitava sia dentro che fuori lo stato romano. Il dinamismo della capitale è dipinto con toni memorabili, anche se forse eccessivamente encomiastici, in una celebre orazione che il filosofo Elio Aristide, aderente alla scuola della cosiddetta seconda sofistica, pronunciò probabilmente nel 144 d.C. Fra le numerose opere edilizie che Antonino promosse in Italia e a Roma si segnala, ai margini meridionali del foro repubblicano, il monumentale tempio eretto in onore della sua augusta consorte, Faustina Maggiore, morta prematuramente nel 140/141 d.C.  (*). Rifacendosi forse a un precedente augusteo (l’imposizione a Tiberio di adottare Germanico), prima di morire Adriano aveva ordinato ad Antonino Pio di adottare a sua volta due giovani: il diciassettenne Marco Aurelio, nipote di Antonino stesso, in quanto anziano consolare, che all’epoca ricopriva la carica di prefetto urbano: Publio Elvio Pertinace. Il governo di quest’ultimo durò però soltanto per i tre mesi iniziali del  193 d.C.: scontenti del nuovo principe, i pretoriani lo uccisero, mettendo letteralmente all’asta il soglio imperiale, che venne assegnato al ricchissimo senatore  Didio Giuliano. Anch’egli, tuttavia, non rimase a lungo al potere. Le legioni stanziate nei diversi quadranti dell’impero acclamarono infatti contemporaneamente tre usurpatori: Clodio Albino in Britannia, Settimio Severo in Pannonia e Pescennio Nigro in Siria. Ebbe così inizio una nuova guerra civile, che, a differenza di quella del 68-69 d.C., non durò soltanto un biennio, ma si protrasse per ben quattro anni. Settimio Severo, assicuratosi il sostegno dei soldati danubiani e approfittando della loro prossimità geografica all’Italia, scese rapidamente verso Roma, riuscendo a sbarazzarsi di Didio Giuliano, ormai caduto in disgrazia. Nel 194 d.C. Severo sconfisse in Oriente Pescennio Nigro, che aveva cercato di rinsaldare la propria posizione alleandosi con il regno partico. Successivamente si produsse la resa dei conti con Clodio Albino, che dalla Britannia era sbarcato in Gallia: le sue truppe e quelle di Severo si scontrarono nel  197 d.C. a Lione, in una sanguinosa battaglia che vide combattere fra loro decine di migliaia di soldati romani. Acclamato al soglio imperiale nel 193 d.C. quando ricopriva l’incarico di governatore (legatus Augusti) in Pannonia, Lucio Settimio Severo era originario di Leptis Magna, grande città portuale della provincia d’Africa (nell’attuale Libia). A differenza degli altri imperatori provinciali che lo avevano preceduto, egli non poteva tuttavia vantare alcuna ascendenza italica fra i propri antenati. La sua era infatti una famiglia equestre di origine africana, che aveva raggiunto il rango senatorio soltanto all’epoca di Marco Aurelio. Anche per questo motivo, prima ancora che si concludesse lo scontro con Clodio Albino, Severo percepì la necessità di legittimare la propria posizione mediante un ingegnoso espediente giuridico: nel 195 d.C. egli asserì di essere stato precedentemente  adottato da Marco Aurelio, proclamandosi così suo figlio e fratello di Commodo, la cui memoria venne riabilitata. In questo modo le origini scarsamente illustri di Severo vennero occultate e il suo casato si pose in prosecuzione con la dinastia imperiale precedente. Ben presto, fra l’altro, egli associò al potere i suoi due figli, Lucio Settimio Bassiano, detto Caracalla dal nome della veste con maniche e cappuccio che egli era solito indossare sopra la tunica, e Publio Settimio Geta: nel 198 d.C. il primo fu elevato al rango di augusto e il secondo di cesare; nel 209 d.C. anche Geta fu nominato augusto. Dietro a molte delle scelte di Settimio Severo si può individuare l’influenza di sua moglie Giulia Domna, appartenente a una potente famiglia di origine siriaca  (*). Sin dalla proclamazione al soglio imperiale del marito ella gli fu sempre accanto, anche durante le campagne militari, tanto da meritarsi l’appellativo di «madre degli accampamenti» ( mater castrorum), già attribuito anche a Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio. Il rapporto privilegiato che i Severi instaurarono con l’esercito caratterizzò d’altronde l’intero loro principato, definito spesso una «monarchia militare». Ormai chiaramente distintisi come base imprescindibile 313del potere imperiale, i soldati ricevettero diversi benefici da parte della nuova dinastia. In particolare, Settimio Severo elevò la paga delle coorti pretoriane e degli ausiliari, nonché, soprattutto, dei legionari, ai quali consentì di sposarsi già durante il periodo di leva. Anche il numero dei donativi subì un incremento. Pochi mesi dopo aver sconfitto Clodio Albino, Severo volle intraprendere una nuova campagna contro i Parti, che minacciavano il confine orientale. Agli inizi del 198 d.C. conquistò e rase al suolo la capitale partica Ctesifonte. La frontiera dell’impero fu spostata dal corso dell’Eufrate a quello del Tigri e la regione compresa tra i due fiumi divenne una nuova provincia con il nome di Mesopotamia. Lo statuto del territorio annesso assomigliava per molti aspetti a quello dell’Egitto: il suo governo fu infatti affidato a prefetti di rango equestre, così come ai cavalieri venne attribuito il comando delle tre nuove legioni che vi vennero stanziate. Si trattava in entrambi i casi di un importante riconoscimento delle capacità strategiche e politiche dell’ordine equestre, il cui ruolo divenne sempre più importante nel corso del III secolo d.C., tanto che i cavalieri raggiunsero rapidamente i vertici 314dello stato. A seguito delle campagne che aveva vinto in Oriente, Settimio Severo ricevette gli appellativi onorifici (cognomina devictarum gentium) di Partico Massimo e Partico Adiabenico, celebrati fra l’altro in un monumentale arco a tre fornici eretto nell’angolo nord-occidentale del foro romano. Negli anni che seguirono le campagne partiche Severo si soffermò a lungo a Roma. Qui rinforzò notevolmente la presenza dei corpi armati che presidiavano la capitale e il territorio circostante: iniziò a reclutare membri delle coorti pretoriane fra i provinciali (e non più solo fra gli Italici) e ne incrementò gli effettivi. Anche il numero degli urbaniciani e dei vigili subì un significativo aumento, mentre, per la prima volta nella storia imperiale, una legione, la legio II Parthica, venne stanziata sul suolo italico, ad Albano Laziale, non lontano da Roma, nei cosiddetti castra Albana. Tutte queste iniziative esprimevano l’evidente volontà di salvaguardare l’imperatore da eventuali tentativi di usurpazione, rinforzando ancora una volta i suoi legami con le diverse componenti dell’esercito. A partire dal 208 d.C. Severo intraprese una spedizione in Britannia, dove la situazione era progressivamente degenerata dai tempi di Clodio Albino. In particolare, la frontiera settentrionale della provincia era messa a repentaglio 315dalle incursioni dei Caledoni, abitanti dell’odierna Scozia. L’imperatore cercò di ripristinare il vallo antonino e provincializzare la zona a esso circostante, ma senza successo. Nel corso di queste operazioni egli morì per malattia nel 211 d.C. a York (Eboracum), importante base strategica della Britannia settentrionale. Secondo quanto previsto da Settimio Severo, alla sua morte gli succedettero i figli Caracalla e Geta. Le volontà del padre prevedevano che essi avrebbero dovuto governare garantendosi sempre il sostegno dell’elemento militare e vivendo in armonia, attuando quindi una formula di diarchia che aveva già funzionato ai tempi di Marco Aurelio e Lucio Vero (*). Se la prima indicazione paterna venne indubbiamente seguita, i rapporti fra i due fratelli ben presto però degenerarono. Nel 212 d.C., infatti, Caracalla fece uccidere Geta e mise in atto nei suoi confronti una capillare cancellazione della memoria. Sempre nel 212 d.C. Caracalla emanò un editto, mediante il quale veniva concessa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero . Tale provvedimento è noto anche come constitutio Antoniniana («costituzione antoniniana»), in quanto, a seguito dell’auto-adozione dei Severi nella dinastia degli Antonini, il nome ufficiale di Caracalla era divenuto Marco Aurelio Antonino. Si trattava di una decisione di fondamentale importanza dal punto di vista ideologico, in quanto eliminava le 316differenze giuridiche che spesso ancora intercorrevano fra Italici e provinciali. Allo stesso tempo, però, l’editto perseguiva una finalità fiscale, in quanto era funzionale all’incremento delle entrate statali. I cittadini, infatti, pagavano ormai più tasse dei peregrini, anche perché Caracalla stesso aveva raddoppiato alcune imposte, istituite già da Augusto, come le tasse di successione e di manomissione (vicesima hereditatum e vicesima libertatis), portandole dal 5 al 10%. Il testo dell’editto di Caracalla è noto in parte grazie a una traduzione greca contenuta in un frammento di papiro, proveniente dall’Egitto e conservato a Giessen in Germania. A Roma Caracalla diede vita a un imponente programma edilizio, di cui sono esemplificative le grandiose terme che egli fece erigere a sud-est del colle Aventino, per poter servire il popoloso quartiere della XII regio. Il monumentale assetto urbanistico raggiunto dalla città di Roma nel decennio iniziale del III secolo d.C. è documentato con precisione da una pianta della città incisa su lastre di marmo e nota come Forma urbis Severiana. Secondo alcune fonti letterarie, Caracalla avrebbe chiesto in sposa la figlia del sovrano dei Parti. Essendogli stato opposto un rifiuto, l’imperatore mosse nuovamente guerra al regno partico, ma senza riportare alcuna vittoria definitiva. Nel 217 d.C. Caracalla fu ucciso da un gruppo di congiurati in Siria, nei pressi di Carre: egli morì senza prole e non avendo indicato alcun successore. Appresa la notizia della morte del figlio, anche Giulia Domna, già moglie di Settimio Severo, si suicidò. Nel frattempo l’esercito aveva proclamato imperatore un cavaliere di nome Marco Opellio Macrino, che era allora prefetto del pretorio. Per la prima volta nella storia romana il titolo imperiale veniva assegnato a un esponente del ceto equestre . Seppur indubbiamente scontento di ciò, il senato a Roma non poté che ratificare l’acclamazione, in quanto sostenuta dall’immenso contingente di soldati stanziati in Oriente. Il governo di Macrino non durò tuttavia a lungo. Contro di lui cominciarono infatti a complottare le potenti donne della famiglia dei Severi, fra cui si distingueva Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna e quindi già zia di Caracalla, che incitò i soldati a elevare al trono imperiale un suo giovane nipote, figlio di sua figlia Giulia Soemia, sostenendo che egli fosse figlio illegittimo di Caracalla. Si trattava del quindicenne Sesto Vario Avito Bassiano, noto ai posteri come  Elagabalo, sacerdote del dio della montagna (Elagabal) a Emesa, l’odierna Homs, in Siria. Nel 218 d.C. le legioni orientali, in preda al malcontento, abbandonarono Macrino dopo soli quattordici mesi di regno e proclamarono al suo posto Elagabalo. Il giovane, tuttavia, si distinse subito per una condotta decisamente contraria al tradizionalismo romano, soprattutto in campo etico e religioso. Come già Macrino, egli assunse la piena titolatura imperiale prima ancora di ricevere la ratifica da parte del senato a Roma. Una volta giunto nella 318capitale, poi, Elagabalo cercò di sostituire il culto di Giove Ottimo Massimo con quello del dio Sole (Sol invictus), al quale fece costruire un tempio sul Palatino. Anche dal punto di vista sessuale il nuovo imperatore diede scandalo: secondo le fonti letterarie, nella sua breve vita egli avrebbe avuto cinque mogli, fra cui una vestale, e numerosi amanti maschi. È probabile, d’altro canto, che alcuni comportamenti del giovane sovrano (travestitismo, depilazione, prostituzione sacra), descritti come devianze dalla storiografia filosenatoria, fossero in realtà atteggiamenti cultuali di derivazione orientale, legati alle sue credenze religiose. La scarsa popolarità di cui godeva sempre più Elagabalo indusse comunque sua nonna Giulia Mesa ad affiancargli un altro suo nipote, Alessiano Bassiano, figlio dell’altra sua figlia Giulia Mamea. Ben presto però i rapporti fra i due cugini si deteriorano: nel  222 d.C., nel corso di un’insurrezione dei pretoriani, Elagabalo e sua madre Giulia Soemia furono uccisi e il giovane Bassiano fu acclamato imperatore con il nome di Alessandro Severo. I primi anni di governo del nuovo sovrano furono contraddistinti da un  riavvicinamento con le posizioni del senato. Questo processo fu favorito anche dal ruolo-cardine svolto dal giurista Ulpiano, che ricopriva l’incarico di prefetto del pretorio. Il giovane principe, spesso additato come modello di moderazione, si impegnò anche a ridurre il carico delle imposte e a moderare le spese di corte. Il regno di Alessandro Severo fu inoltre caratterizzato da un cambiamento fondamentale nel quadro della politica estera sul fronte orientale. Per oltre tre secoli, infatti, i rapporti dei Romani con i Parti avevano visto prevalere l’una o l’altra delle due grandi potenze, a seconda delle diverse circostanze storiche. Intercalati da lunghi periodi di pace, i conflitti fra i due popoli erano sempre stati affiancati da intense relazioni diplomatiche: nel tempo si era dunque sviluppato un contesto di sostanziale equilibrio, nel cui ambito alcune aree Per sopperire alle esigenze dell’esercito furono inoltre richieste  forniture coatte e il governo imperiale procedette spesso con requisizioni di tutto ciò che gli era necessario: prodotti alimentari, materie prime, servizi di trasporto. Parallelamente si cercò almeno in parte di soddisfare la domanda degli eserciti tramite la produzione agricola delle grandi tenute fondiarie appartenenti all’imperatore e ai suoi familiari. Le grandi confische promosse da Settimio Severo e dai suoi discendenti avevano infatti notevolmente accresciuto l’estensione delle proprietà imperiali: per la gestione di tali nuove acquisizioni fondiarie fu creato un apposito dipartimento, denominato «proprietà privata dell’imperatore» (res privata principis). Nel complesso, dunque, le finanze imperiali vennero rafforzate dal governo dei Severi. Diversamente, nel campo privato si registrò una grave carenza di manodopera: essa era determinata dalla crisi demografica, conseguenza a sua volta di epidemie, carestie, guerre e incursioni, ma anche dall’aumento del reclutamento e dalla progressiva scomparsa della schiavitù, che aveva fino ad allora rappresentato la principale forza-lavoro dell’economia romana. Tale fenomeno era motivato dai sempre più frequenti casi di manomissione, legati in parte alla diffusione del cristianesimo e di altre religioni che predicavano l’uguaglianza sociale, nonché dall’esaurirsi dell’espansionismo romano, che pose fine alle tradizionali fonti di approvvigionamento di nuovi schiavi. La decrescita della popolazione fu avvertita in numerosi quadranti geografici dell’impero, nei quali si assistette al collasso delle grandi attività artigianali che avevano fornito fino ad allora manufatti destinati all’esportazione (ad esempio le fabbriche di terra sigillata cessarono la loro produzione). Anche il commercio si interruppe spesso a causa della guerra, così come generalizzato fu il crollo dell’evergetismo a causa delle difficili condizioni economiche in cui versavano le classi dirigenti cittadine dell’Italia e dell’impero. Un concorso di cause interne ed esterne portò quindi la percezione diffusa di una grave crisi, che risparmiò tuttavia alcuni settori dell’impero: è il caso della provincia d’Africa (Africa proconsularis), che, geograficamente immune da invasioni, visse al contrario una stagione di grande floridezza dal punto di vista sia economico che culturale. Nei decenni finali del III secolo d.C., sull’onda del pericolo alle frontiere, l’organizzazione politica dell’impero romano subì una notevole trasformazione: si instaurò infatti un nuovo ordinamento istituzionale, che i moderni sono soliti chiamare «dominato». Tale definizione deriva dal termine dominus, che, in latino, significa «padrone». In quest’epoca, infatti, il rapporto che tradizionalmente esisteva fra il padrone e i suoi subalterni iniziò a regolamentare non solo le relazioni dell’imperatore con il vastissimo gruppo di schiavi e liberti alle sue dipendenze (familia Caesaris), ma anche con tutti i suoi sudditi. I documenti ufficiali dell’epoca (iscrizioni, monete, testi legislativi) definiscono esplicitamente il sovrano come dominus noster («nostro padrone»): si trattò dunque di una rivendicazione di potere spinta fino all’estremo, che richiedeva a tutti i cittadini dell’impero una dedizione totale. L’epoca del dominato è anche chiamata  età tardoantica, un periodo che le correnti storiografiche recenti non considerano più di decadenza, come si era soliti ritenere fino ad alcuni decenni fa, ma di transizione verso il mondo medievale. La svolta autocratica connaturata al passaggio da principato a dominato risultava già intuibile per diversi aspetti ai tempi della monarchia assoluta dei Severi e trasse ulteriore impulso da alcuni fenomeni caratteristici del cinquantennio dell’anarchia militare: la provenienza degli imperatori dai vertici delle legioni, l’affermazione degli eserciti come strumento di scelta del principe, lo sfruttamento a fini fiscali di ogni componente individuale e collettiva dell’impero, nonché la contrazione della libertà personale e della capacità di iniziativa dei singoli cittadini. Come la transizione da repubblica a principato, anche quella da principato a dominato non si consumò, dunque, in un breve arco di tempo. Al contrario essa si sviluppò durante una lunga fase di sperimentazione istitu342zionale, che non solo percorse tutto il III secolo d.C., ma risaliva già ai decenni finali della cosiddetta «età d’oro degli Antonini»: si pensi, ad esempio, alla prima condivisione del potere attuata ai tempi della diarchia di Marco Aurelio e Lucio Vero, ma anche alle conseguenze socio-politiche della peste antonina e delle incursioni dei Quadi e dei Marcomanni. Due erano in particolare i problemi che da lungo tempo turbavano l’equilibrio del mondo romano: la regolamentazione della successione imperiale e la sicurezza delle frontiere. In entrambi i casi si rendeva necessario intervenire in questioni che si erano rese manifeste sin dagli albori del principato. In relazione alle dinamiche della successione, infatti, era stata proprio la soluzione politica escogitata da Augusto, che aveva nascosto la nascita di una monarchia sotto la maschera istituzionale di una restaurazione della repubblica, a non consentire di definire con precisione la procedura da assumere alla morte di ciascun principe. Nel corso dei tre secoli di storia dell’impero erano prevalse di volta in volta la soluzione dinastica, quella meritocratica, la scelta del senato o quella degli eserciti, ma non si era mai proceduto a un tentativo di codificazione del meccanismo successorio. In merito invece alla politica estera, dopo l’espansionismo augusteo e il sostanziale equilibrio internazionale che contraddistinse i primi due secoli di storia imperiale (con le eccezioni di alcuni «principi-conquistatori», come Claudio, Traiano e Settimio Severo), la situazione si era capovolta. I reiterati sconfinamenti delle popolazioni barbariche all’interno del territorio romano avevano dimostrato la fragilità non solo delle zone di confine, ma anche di regioni ampiamente pacificate (come la Spagna e la stessa Italia), che da secoli erano ritenute immuni da invasioni. Manifesta era ormai l’incapacità per un solo sovrano di controllare militarmente una realtà che subiva attacchi in tutti i quadranti geografici. Subito dopo aver sconfitto il suo predecessore Carino, Diocleziano comprese dunque che per poter fronteggiare i principali problemi dell’impero era necessario ricorrere alla  delega del potere. Già nel 285 d.C. egli si associò Marco Aurelio Valerio Massimiano, noto semplicemente come Massimiano, al quale dopo un anno conferì il titolo di augusto, rendendolo a tutti gli effetti un co-imperatore. Diocleziano tenne per sé la parte orientale dell’impero e affidò al collega quella occidentale. Nel 293 d.C. ciascun augusto nominò un proprio cesare: Diocleziano scelse Gaio Valerio Galerio Massimiano, noto come Galerio, mentre Massimiano scelse Marco Flavio Valerio Costanzo, noto come Costanzo Cloro, a causa del colorito pallido della sua carnagione. I quattro coreggenti erano tutti ufficiali illirici di umili origini, ma di comprovato valore militare. I due augusti, che fra loro si definivano fratelli, adottarono i rispettivi cesari. Inoltre Galerio sposò Valeria, figlia di Diocleziano, mentre Costanzo sposò Teodora, figliastra di Massimiano. Si venne quindi a creare una vera e propria famiglia, rinsaldata dai vincoli dell’adozione e del matrimonio, che da sempre a Roma avevano cementato i sodalizi politici. Nacque così la tetrarchia (termine greco che significa «governo dei quattro», il cui utilizzo in questo contesto si deve agli storici moderni). La genesi della tetrarchia fu un processo graduale, che permise di tenere sotto controllo le tendenze centrifughe del III secolo d.C. mediante gli espedienti della legittimazione e della condivisione del potere. Il sistema funzionò innanzitutto in virtù della  lealtà personale e professionale che univa fra loro quattro uomini, che si conoscevano da lungo tempo e si fidavano l’uno dell’altro. Sotto il profilo militare gli effetti della delega del potere furono strepitosi. Inizialmente Diocleziano si concentrò sul fronte orientale nella lotta contro i Persiani e affidò a Massimiano il compito di ostacolare le incursioni degli Alemanni sul confine renano. Quando il collegio tetrarchico divenne pienamente attivo, i quattro imperatori riportarono vittorie su tutti i fronti. Diocleziano soffocò una rivolta in Egitto; Galerio sconfisse i Goti sul basso Danubio e i Persiani lungo l’Eufrate; Massimiano represse una ribellione indigena in Mauretania; Costanzo riconquistò la Britannia, sottraendola agli usurpatori Carausio e Alletto (*). La necessità di intervenire prontamente sui fronti caldi dal punto di vista militare indusse i tetrarchi a prediligere per la propria residenza una serie di centri fortificati, situati all’interno dell’area geografica di propria pertinenza, spesso in prossimità dei confini dell’impero. Fra queste città se ne distinguono in particolare quattro che, con una formula non del tutto propria, si è soliti indicare come «capitali tetrarchiche»: Nicomedia (Nicomedeia), scelta da Diocleziano per la sua collocazione sul versante asiatico del Mar di Marmara (a un centinaio di km dall’odierna Istanbul), da dove si poteva rapidamente raggiungere tanto la sponda europea, quanto il fronte orientale, costantemente minacciato dai Persiani; Sirmio (Sirmium) sul fiume Sava (nell’odierna Serbia), nel cuore dei Balcani, individuata da Galerio come base da cui intervenire sul corso del medio e basso Danubio; Milano (Mediolanum), che Massimiano utilizzò per il controllo dell’alto corso del Danubio e della regione degli  agri decumates; Treviri (Augusta Treverorum) sul fiume Mosella (nell’odierna Germania, a soli 15 km dal confine con il Lussemburgo), da cui Costanzo Cloro poteva agevolmente gestire il fronte renano e spingersi fino in Britannia (si veda la carta 22 ). Dall’elenco delle residenze tetrarchiche manca evidentemente Roma, esclusa tanto per ragioni geografico-strategiche, quanto per evitare che uno dei quattro sovrani primeggiasse eccessivamente sugli altri. Questa scelta determinò l’esclusione dell’antica capitale dell’impero dai centri del potere effettivo. Si innescò quindi un processo di «deromanizzazione», che corrispose anche a un graduale passaggio dell’asse economico dell’impero dalla zona mediterranea a quella settentrionale e orientale. In prossimità dei confini, infatti, si combattevano le guerre e si concentravano di conseguenza gli interessi strategici e le commesse militari, costringendo gli imperatori a trascorrere lungo tempo in provincia assieme al proprio seguito di ufficiali e burocrati, che sempre più si configuravano come una vera e propria corte itinerante. Sin dalla sua ascesa al trono Diocleziano conferì una forte impronta teocratica al proprio regno, includendo la valorizzazione della religione tradizionale nei suoi progetti tesi alla rinascita dell’impero e rinvigorendo in particolare il culto della divinità principale del pantheon romano, Giove Ottimo Massimo, che egli scelse come proprio nume tutelare. Analogamente Massimiano si pose direttamente sotto la protezione di Ercole: tali associazioni divine consentirono ai due sovrani di fregiarsi rispettivamente degli epiteti di Giovio ed Erculeo. L’esempio degli augusti venne seguito anche dai due cesari: Galerio aderì al culto 345di Marte, mentre Costanzo Cloro optò per quello del Sole. La politica religiosa dei tetrarchi fu quindi duplice: da un lato si distinse per il suo  conservatorismo, che privilegiava soprattutto gli dèi tradizionali del pantheon pagano, dall’altro mirò a sottolineare la condizione di semi-divinità che caratterizzava i quattro sovrani e, in particolare, i due augusti. Questo atteggiamento doveva necessariamente scontrarsi con la sensibilità dei cristiani, la cui comunità era cresciuta notevolmente in tutti i territori dell’impero, grazie alla tolleranza che era stata loro garantita fin dai tempi di Gallieno durante il cosiddetto «quarantennio della piccola pace». Il cristianesimo aveva infatti assunto una tale capillarità di diffusione a tutti i livelli della società e il dominato aveva prodotto una tale svolta teocratica che il conflitto divenne inevitabile. A partire dal 303 d.C. i tetrarchi misero in atto un’imponente campagna di governo contro i cristiani. Nell’arco di un biennio furono emanati quattro editti, che ordinavano di individuare i cristiani, obbligandoli a ripudiare la loro fede. Chi obbediva alle disposizioni imperiali otteneva un certificato di abiura (libellus), mentre chi restava fedele al cristianesimo veniva 346incarcerato e poi giustiziato. La persecuzione fu ancora più cruenta di quelle attuate da Decio e Valeriano alla metà del La vittoria su Licinio consentì a Costantino di ricondurre l’intero impero romano sotto il potere di un unico sovrano. Non a caso l’anno successivo, nel 325 d.C., l’imperatore stesso convocò il primo concilio ecumenico (cioè, appunto, universale) della Chiesa cristiana, svoltosi a Nicea in Asia Minore. Lo scopo della riunione, alla quale parteciparono oltre trecento vescovi, era quello di dirimere le controversie interne al mondo cristiano e, in particolare, di condannare come eretica la dottrina del sacerdote  Ario, che sosteneva la diversa natura di Cristo 352da quella di Dio. Su richiesta di Eusebio di Cesarea, i vescovi riuniti a Nicea redassero per iscritto una professione di fede o  simbolo (dal greco symbolon, cioè «raccolta» di istruzioni per i fedeli), che costituisce ancor oggi il momento centrale della liturgia cristiana. Costantino si dimostrò interventista nelle diatribe dottrinali: l’imperatore presiedette e gestì le sedute del concilio, delle quali fu senza dubbio il vero protagonista, tanto che egli stesso, secondo la testimonianza del biografo Eusebio di Cesarea, si dichiarò «vescovo di quelli di fuori», attribuendosi il ruolo di guida dei laici e di portavoce delle loro istanze. La riunificazione dell’impero non segnò comunque la fine delle discordie interne, che si insinuarono nella famiglia stessa di Costantino. Nel 326 d.C. Fausta e Crispo, rispettivamente la moglie e il figlio maggiore dell’imperatore, furono giustiziati in circostanze misteriose. Dei tre cesari nominati nel 317 d.C. era rimasto solo  Costantino II, al quale nel 324 d.C. era stato affiancato Costanzo II, secondogenito di Costantino e Fausta, che aveva sostituito Liciniano, il figlio di Licinio, dopo la sconfitta di quest’ultimo. Costantino II e Costanzo II furono dunque gli unici due cesari in carica dal 326 al  333 d.C., quando fu associato loro il fratello minore Costante. Da quel momento, seppur all’interno di una sola famiglia, fu ricreato il «governo a quattro» dell’impero, il cui sovrano incontrastato rimaneva però indubbiamente il solo Costantino. Nel 330 d.C. questi aveva dotato lo stato romano di una nuova capitale, che da lui stesso prese il nome: Costantinopoli (*). Fondata sul sito dell’antica Bisanzio, sulla sponda europea del Bosforo, di fronte ai luoghi dove Costantino aveva sconfitto definitivamente Licinio, la città non distava molto da Nicomedia, la «capitale tetrarchica» di Diocleziano. In entrambi i casi si trattava di insediamenti strategici, posti a cavallo fra Oriente e Occidente, che consentivano agli imperatori di controllare sia il Mediterraneo, sia le strade militari che penetravano nell’area balcanica o si spingevano ai confini della Persia. Dal punto di vista topografico Costantinopoli intendeva presentarsi in tutto e per tutto come una  nuova Roma: era costruita su sette colli, delimitata da un pomerio, 353divisa in quattordici regioni e dotata di un proprio senato, prevalentemente filocristiano. Grandiosi complessi monumentali, tra cui il palazzo imperiale, il foro e il circo, emulavano quelli con funzione analoga dell’antica capitale. A differenza di Roma, tuttavia, Costantinopoli era priva di templi pagani, tranne quello della dea Fortuna (Tyche), mentre era ricca di grandi chiese cristiane, fra cui si distinguevano quelle di Sant’Irene (la «Santa Pace», garantita da Dio), dei Santi Apostoli (denominata in greco Apostoleion) e di Santa Sofia (la «Santa Sapienza» divina). Negli ultimi anni di regno Costantino sconfisse i Goti lungo il basso Danubio e stipulò con loro un trattato (foedus), che li obbligava a fornire contingenti armati per l’esercito romano. L’imperatore preparò poi le sue truppe per una campagna contro i  Persiani, che avrebbe dovuto determinare la rivalsa militare dei Romani sulla dinastia sassanide. La malattia, però, colse il sovrano prima dell’inizio della spedizione. Egli si trovava ancora a Nicomedia, dove ebbe finalmente luogo la sanzione formale della sua conversione al cristianesimo: ormai giunto alla fine dei suoi giorni, Costantino ricevette il  battesimo da Eusebio, vescovo ariano della città, e si spense di lì a poco, il 22 maggio  337 d.C. (*). Costantino morì dopo aver detenuto il potere imperiale, prima collegialmente e poi da solo, per ben trentun anni. Nell’arco di tutta la storia romana, il suo impero fu secondo per durata soltanto a quello di Augusto. Come le riforme di quest’ultimo, anche quelle promosse da Costantino, spesso in prosecuzione dell’operato di Diocleziano, furono ampie e incisive: grazie a esse l’impero romano superò definitivamente la crisi anarchica del III secolo d.C. e, con strutture nuove, poté sopravvivere ancora per circa 150 anni nel quadrante occidentale e per oltre un millennio in quello orientale. Nei decenni a cavallo tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. gli imperatori procedettero a un’energica azione riformatrice dello stato. Portando alle estreme conseguenze alcune innovazioni di Gallieno e di Aureliano,  Diocleziano riorganizzò l’esercito, costituendo unità militari mobili e indipendenti, da affiancare alle guarnigioni fisse di frontiera. I nuovi distaccamenti erano costituiti prevalentemente dalle vessillazioni (vexillationes), reparti di cavalleria di retroguardia, che agivano come «unità di pronto intervento» nei quadranti dell’impero in cui si verificavano incursioni di popolazioni esterne. Tali reparti erano uniti ad alcuni corpi di fanteria, fra cui si distinguevano i gioviani (Ioviani) e gli ercoliani (Herculiani), così denominati dai loro numi protettori, gli stessi dei due augusti al vertice della tetrarchia. L’insieme di queste truppe costituiva il nucleo dei comitatensi (comitatenses), che, come indica l’etimologia del termine (dal latino cum ire: «andare insieme») accompagnavano gli spostamenti dell’imperatore. Di stanza lungo i confini rimanevano invece le unità stabili, chiamate limitanei (limitanei, da limes), vere e proprie guarnigioni di prima linea, che 354avevano il compito di intercettare e rallentare le infiltrazioni nemiche, in modo che le retrovie potessero successivamente bloccarle in maniera definitiva. La distinzione tra unità mobili e difese stabili delle frontiere, che determinò un sensibile aumento dei soldati come forza numerica, è fondamentale per capire la strategia dei Romani nel tardo impero. I comitatensi persero inoltre quel legame con il territorio circostante che aveva caratterizzato gli insediamenti legionari nei secoli del principato. Costantino proseguì sulla stessa strada dei propri predecessori, sviluppando gli eserciti mobili a scapito di quelli fissi e incrementando ulteriormente il numero degli effettivi. Dopo la vittoria riportata a Ponte Milvio nel 312 d.C., egli  abolì le coorti dei pretoriani, che, come aveva dimostrato il caso di Massenzio, potevano agevolmente sfuggire al controllo imperiale e offrire sostegno agli usurpatori. D’altronde la presenza a Roma di un corpo armato così consistente era ormai ingiustificata, dal momento che i sovrani non risiedevano più nell’antica capitale e vi si recavano solo sporadicamente, di solito in occasione dei principali anniversari della propria ascesa al trono. Al posto dei pretoriani Costantino istituì un nuovo corpo di «guardiani di palazzo» (palatium), denominati appunto palatini (palatini), che seguiva l’imperatore nei suoi spostamenti ed era formato prevalentemente da soldati originari del mondo non romano. Il fenomeno del cosiddetto imbarbarimento delle truppe, già considerevole nella fase finale dell’epoca del principato, divenne prevalente a partire dal IV secolo d.C. Al di là dell’effettivo numero di barbari che militavano sotto le insegne dei Romani (sicuramente elevatissimo, ma difficile da ricostruire), ciò che costituì una novità dall’epoca di Costantino in poi fu la loro presenza sempre maggiore non più solo nelle truppe ausiliarie, ma anche nei ruoli dell’ufficialità e nei reparti scelti dell’esercito, come i comitatensi. Il rafforzamento delle spese militari determinò per le casse pubbliche un grave  onere finanziario, che comportò riforme imponenti. In ambito fiscale fu introdotto un nuovo metodo universale di riscossione dei tributi, che venne esteso a tutti i territori dell’impero e consentì di superare il precedente sistema basato sulle diversità regionali. Fino ad allora, infatti, l’Italia era rimasta formalmente esente dalle imposte fondiarie, l’Egitto e l’Africa avevano corrisposto il tributo in frumento, mentre altrove la tassa sul suolo (tributum soli) veniva pagata in denaro. Il nuovo meccanismo si basava su unità astratte, denominate capita (letteralmente «teste»), che venivano calcolate per ogni contribuente stimando tutti i beni tassabili in suo possesso: non solo i terreni, il cui valore variava in base alla superficie e al tipo di coltivazione praticata, ma anche la manodopera, comprese le donne e gli schiavi, gli animali utilizzati in agricoltura e altre componenti. A seguito di questa riforma divenne possibile applicare ovunque un’imposta omogenea, fissando un importo uniforme da versare per ciascuna unità. Il computo dei capita consentiva al governo di conoscere meglio le risorse dell’impero e di stilare un bilancio di previsione. Il nuovo dispositivo fiscale venne infatti strutturato su cicli annuali di imposizione, chiamati indizioni (indictiones); il suo limite era tuttavia rappresentato dal fatto che esso non prendeva in considerazione le variabili rappresentate dalle cattive annate di raccolto, dalle epidemie o dagli effetti delle invasioni. Alle imposte ordinarie furono poi aggiunte altre tasse, che si dovevano pagare in circostanze particolari, ad esempio in occasione degli anniversari della proclamazione degli imperatori. Tali tributi, seppur non riscossi con cadenza fissa (oggi si parlerebbe di imposte una tantum), equivalevano di fatto a una forma di tassazione addizionale. Lo stato riscuoteva parte delle imposizioni sotto forma di servizi, come trasporti e acquartieramento delle truppe, e suppliva alla maggior parte delle necessità materiali dell’esercito e della burocrazia facendosi spesso pagare direttamente in natura. Succedeva così che le comunità che ospitavano gli accampamenti delle truppe fossero costrette a foraggiarle, a fornire alloggi e a prestare manodopera gratuita per le esigenze militari. Tali obblighi, assieme alle imposte straordinarie e alla discrezionalità dei condoni imperiali, risultarono fortemente punitivi e ridussero l’efficacia delle riforme tributarie attuate dai tetrarchi. Anche Costantino introdusse nuove tasse. Famosa fra tutte fu il cosiddetto crisargiro (dal greco chrysargyron, tassa «dell’oro e dell’argento»), un’imposta che veniva riscossa ogni cinque anni e colpiva le principali forme di commercio. Le innovazioni in materia tributaria promosse dai tetrarchi furono affiancate da una riforma monetaria, il cui scopo era quello di bloccare la spirale inflazionistica che aveva caratterizzato l’economia romana durante tutto il III secolo d.C. Diocleziano creò una nuova moneta d’oro, caratterizzata da un titolo (la percentuale di metallo prezioso in essa presente) molto elevato e da un rapporto fisso di 60 monete per libbra d’oro; Costantino la svalutò di 1/5, portando il rapporto a 72 monete per libbra d’oro. Questa nuova moneta, chiamata solido (solidus), divenne la base stabile della circolazione monetaria fino all’età bizantina. Il passaggio da un sistema basato sul trimetallismo (oro, argento, rame) a uno che si reggeva sul metallo nobile per eccellenza (cioè l’oro) fu graduale: Diocleziano cercò ancora di preservare il titolo della monetazione d’argento. Diversamente, le monete di rame furono oggetto di un’inarrestabile svalutazione, che alimentò nuova inflazione. Per contenere tale spirale inflattiva Diocleziano e gli altri tetrarchi emanarono nel  301 d.C. un editto-calmiere, definito «editto dei prezzi» (edictum de pretiis), con cui fissò il costo massimo di una gamma vastissima di prodotti, prestazioni lavorative e servizi. Dalle disposizioni sui prezzi e sugli emolumenti massimi contenute nell’editto si possono ricostruire le condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione: un semplice lavoratore agricolo poteva percepire fino a 25 denari al giorno oltre al vitto, un falegname o un fornaio arrivavano a guadagnare giornalmente fino a 50 denari. Una libbra di carne poteva costare da 6 a 20 denari a seconda della qualità, un paio di scarpe da 50 a 120 denari, un sestario (poco più di mezzo litro) di vino da 8 a 30 denari. Tenendo conto delle
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved