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storia romana dalle origini alla fine della repubblica, Schemi e mappe concettuali di Storia Romana

appunti di storia romana kedjurihfhyd

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2023/2024

Caricato il 25/04/2024

Laurottolandia
Laurottolandia 🇮🇹

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Scarica storia romana dalle origini alla fine della repubblica e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Romana solo su Docsity! STORIA ROMANA – APPUNTI DEL CORSO 1ª LEZIONE La storia di Roma, che abbraccia 1200 anni, deve essere interpretata come una realtà che si è trasformata, come un popolo che si è evoluto nel corso del tempo , in quanto ragionavano, vivevano e pensavano in un modo che, dopo diversi secoli, finisce per cambiare in maniera radicale. Tradizionalmente la storia romana è suddivisa in 3 periodi storici: 1) ETÀ MONARCHICA: 753 a.C. (fondazione della città) – 509 a.C. (cacciata di Tarquinio il Superbo dalla città) a) età dei Tarquini (re etruschi): 616 a.C. – 509 a-C.; 2) ETÀ REPUBBLICANA: 509 a.C. – ca. 30 a.C. a) repubblica arcaica: 509 a.C. – 264 a.C. (inizio prima guerra punica); b) media repubblica: 264 a.C. – 146 a.C. (distruzione di Cartagine); c) tarda repubblica: 146 a.C. – ca. 30 a.C. (vittoria di Augusto e inizio dell’impero) 3) ETÀ IMPERIALE: ca. 30 a.C. – 476 d.C. (fine dell’Impero Romano d’Occidente) N.B. 1) le periodizzazioni sono poste per convenzione dagli storici; 2) seppur risalenti da fonti, le date di quest’epoca non sono del tutto attendibili, in quanto è impossibile che in 250 anni di monarchia ci siano stati solo 7 re e che nell’età dei Tarquini (un secolo) ci siano stati solo 3 re (una media di 303-35 anni di regno a testa, cosa improbabile in quanto a quel tempo si moriva prima) Ovviamente, tramite le fonti, sappiamo con certezza che per es. Tarquinio Prisco sia vissuto tra la fine del VII sec. e l’inizio del VI sec. a.C., anche se non è certo che la data della sua salita al trono sia il 616 a.C. Il nucleo originario di Roma risale al 753 a.C.: anche questa non è una data storicamente accertata, in quanto all’inizio della civiltà romana non vi erano storici, però dalle fonti sappiamo che esso risalga comunque all’VIII sec. a.C.; questa data è posta per convenzione dagli storici in quanto lo storico Marco Terenzio Varrone, vissuto nel II sec. a.C., colloca la fondazione di Roma nella notte tra il 20 e il 21 aprile del 753 a.C., aggrappandosi alla leggenda di Romolo e Remo. Dietro a questa leggenda c’è una verità storica, un concetto fondamentale del pensiero romano che si protrae fino alla fine della sua civiltà: la sacralità dei confini di Roma. Varrone, nella sua opera Sulla lingua latina, racconta che Romolo voleva fondare la città sul Palatino, Remo sul Campidoglio; interpretando la volontà divina tramite il volo degli uccelli, Romolo vince la gara e traccia i confini sacri con un aratro trainato da un bue e una vacca, indossando una veste sacra e coprendosi la testa con un cappuccio fatto dal lembo della toga (quello del pontifex maximus); all’interno di questo confine sacro, nel quale si svolgono le cerimonie degli auspici, (detto pomerium) non è possibile entrare impugnando le armi; Remo oltrepassò questa linea e Romolo lo uccise. Il templum (dal greco temno, dal quale deriva l’italiano “tempio”) è lo spazio sacro interno al pomerium che è “tagliato dall’esterno”, ossia con uno statuto diverso dallo spazio esterno al pomerium, e nel quale poteva esserci (come anche no) un edificio dedicato ad una divinità. I Romani adoravano perfino una divinità, il dio Terminus, affinchè essa proteggesse i confini. Ma la fondazione di Roma è stato un atto concreto? Secondo molti studiosi, la teoria più accreditata è quella del sinecismo, secondo la quale le diverse popolazioni, allargandosi nel tempo, si unirono tra loro per fondare un’intera comunità. Il modo di fondazione fu fondamentale per capire il luogo di ubicazione. Romolo scelse un luogo in base ai vantaggi che poteva ottenere (opportunitas loci, “opportunità del luogo”; essi erano: 1) pieno centro dell’Italia; 2) sette colli, che rendevano il luogo più difendibile; 3) vicinanza al Tevere (Roma sorge sulla riva sinistra del Tevere): la presenza dell’isola Tiberina facilitava lo spostamento nel fiume (le navi potevano risalire dal Tirreno verso l’interno e si fermavano là, facendo di Roma un porto marittimo); 4) il luogo era vicino a due strade importanti: la via Salaria (via del sale), che va da sud a nord costeggiando il Tevere (nella cui foce c’erano grandi giacimenti di sale) e la Via Campana, che va dalla Toscana alla Campania odierne lungo la costa. Dunque la conformazione geografica fu importante per gli avvenimenti. Ecco l’ordine cronologico dei 7 re di Roma: Romolo Numa Pompilio Tullio Ostilio Anco Marcio Tarquinio Prisco (616 a.C.- 578 a.C.) * Servio Tullio (578 a.C. – 534 a.C.) * Tarquinio il Superbo (534 a.C. – 509 a.C.) * *= le date dei re etruschi sono parzialmente attendibili, ma non accertate. I primi 4 dei 7 re di Roma sono figure leggendarie o semileggendarie (Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marcio); gli altri 3 sono etruschi e sono realmente esistiti (Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo)→ vi sono degli indizi arcaici che ci confermano l’esistenza di un’epoca monarchica a Roma: 1) l’edificio che ospitava il pontifex maximus si chiamava Regia, il che ci fa capire che i re arcaici erano anche capi religiosi; 2) il Lapis Niger (“pietra nera”): documento storico risalente al 2/4 del VI sec. a.C. (età di Servio Tullio). Esso è una pietra scoperta nel Foro Romano dall’archeologo Giacomo Boni nel 1899 e denominata così perché era posizionata su un’area nera. Questo documento è fondamentale per due 2) potere in campo legislativo: approvavano/respingevano le leggi proposte dal re; 3) conferimento dell’imperium (comando militare) al sovrano tramite un provvedimento chiamato lex curiata de imperio. La vocazione espansiva di Roma si intravede già dagli albori (Romolo o Tullio Ostilio). Tuttavia, è sbagliato dire semplicemente che Roma aveva mire espansionistiche, in quanto ogni guerra ha una sua motivazione e non tutte di esse sono dovute alla volontà di Roma. Alla conquista di un territorio, talvolta condotta anche in modo brutale, si accompagna la reciproca inclusione tra popolo conquistatore e popolo conquistato: infatti, i popoli conquistati entravano a far parte della vita cittadina romana e diventavano Romani (es. i Galli dopo la conquista di Cesare della Gallia); viceversa, anche i Romani subivano l’influenza dei popoli conquistati, assorbendo di questi la lingua (es. il greco), la tradizione o la religione. Dionigi di Alicarnasso, uno storico greco vissuto nel I sec. a.C., ci offre un racconto leggendario legato a Romolo che riguarda il concetto di inclusione: Romolo fece costruire, tra il Palatino e il Campidoglio, un recinto sacro che ha la funzione di asilo per i supplici, ossia gli esuli che scappano e che chiedono la protezione di Roma. Un’altra famosa leggenda che si collega a Romolo e al concetto di inclusione è il ratto delle Sabine: dopo aver fondato la città, Romolo e i primi Romani (ca. 100) si rendono conto che non ci sono donne e per ottenerle organizzano una festa invitando il popolo dei Sabini (che stavano a Nord di Roma, nella riva sinistra del Tevere) e il loro re, Tito Tazio; i Sabini vanno alla festa e portano con sé le loro mogli, che vengono catturate dai Romani; i Sabini invece vengono cacciati dalla città e in seguito ritornano scatenando una guerra contro Roma per riprendersi le loro donne; la guerra si conclude con una tregua tra Sabini e Romani che prevede che Tito Tazio avrebbe governato a Roma insieme a Romolo (Tito Tazio è definito un “ottavo” re di Roma). Come Tito Tazio, anche Numa Pompilio (successore di Romolo) era Sabino, così come era sabino anche Anco Marcio (4° re di Roma). L’apertura di Roma verso l’esterno è data soprattutto dalla posizione di Roma che favorisce un rapporto con i popoli nelle situazioni di conflitto e di integrazione pacifica. Il ponte Sublicio, costruito in legno nel regno di Anco Marcio, è importante in questo contesto perché unisce le due sponde del Tevere, quella Romana (sinistra del Tevere) e quella Etrusca: a sud di Roma abbiamo il Lazio, a Nord abbiamo l’Etruria, e il Tevere rappresenta il confine naturale tra queste due regioni, facendo di Roma una città nella quale i rapporti con i popoli vicini sono più favorevoli. Dunque il Ponte Sublicio non è solo un guado di legno, ma è fonte di interrelazione con i popoli. In quest’epoca (fine VII sec. a.C. – inizio VI sec. a.C.) tutte le popolazioni del Centro Italia sono caratterizzate da migrazioni di gruppi di famiglie verso l’interno, o in modo pacifico o con la guerra; queste famiglie si conoscono e interagiscono con le famiglie romane; in questo contesto si inserisce la figura storica di Tarquinio Prisco, il primo re di origine etrusca, dal 616 a.C. al 578 a.C., anno della sua morte; Dionigi di Alicarnasso ci dice che Tarquinio Prisco era un etrusco puro, figlio però di Demarato, uomo di origine greche in quanto proveniente da Corinto; la fonte di Dionigi di Alicarnasso è importante anche perché grazie ad essa sappiamo che in questo periodo avvengono i primi spostamenti dalla Grecia verso il Sud dell’Italia e la Sicilia, dando inizio alla colonizzazione della cosiddetta Magna Grecia, e i commerci dei Greci con i Tirreni (Etruschi) e viceversa (commerci nelle due direzioni: est e ovest). 3ª LEZIONE Secondo la fonte di Dionigi di Alicarnasso, fra la fine del VII sec. a.C. (616 a.C.) e il 550 a.C., l’Italia centrale fu interessata dal trasferimento di clan familiari da una città ad un’altra. Ad es. Atto Clauso, capostipite della gens Claudia, si traferisce dalla Sabina a Roma. Ma come facciamo a sapere di questi spostamenti? La risposta, oltre alle fonti forse leggendarie, si trova nei nomi presenti nelle tombe che sono state trovate negli scavi archeologici. Se per 50/100 anni troviamo nelle tombe di una città il nome di una famiglia e dopo un po’ di tempo in esse non vi è quel nome, che però compare nelle tombe di un’altra città (es. Roma per Atto Clauso), si deduce che quella famiglia si sia trasferita da una città ad un’altra. Quando abbiamo sia l’annotazione di una fonte antica, seppur in contesto leggendario, sia il dato archeologico possiamo essere certi che ciò sia vero. In questo contesto troviamo la figura del re etrusco e storico Tarquinio Prisco. Demarato, padre di Tarquinio, era della stirpe dei Bacchiadi, una famiglia potente di Corinto, e decise di commerciare nell’Italia centrale (ca. 650 a.C.), il che ci fa capire che le città dell’Italia centrale, compresa la Roma di Anco Marcio, godevano di una grande prosperità; dopo aver commerciato a Roma, i Greci commerciavano con i Tirreni (gli Etruschi); questo è il periodo della creazione di colonie greche in Italia meridionale e in Sicilia. Il regime aristocratico dei Bacchiadi a Corinto fu sovvertito da un colpo di Stato ordito da Cipsero, che divenne in seguito tiranno della città; Demarato, che non apprezzava l’oligarchia posta da Cipsero decise di salpare da Corinto, raggiungendo e stabilendosi a Tarquinia, dove condurrà una vita prospera e sposerà la figlia di una famiglia aristocratica; dalla loro unione nacque Lucio Tarquinio, etrusco di nascita, ma greco di origine. Demarato, assieme alla moglie e al figlio, si trasferì a Roma; Lucio Tarquinio venne accolto dall’aristocrazia romana e da Anco Marcio, del quale egli diventerà successore come re di Roma per volontà del popolo (il fatto che Dionigi cita solo il popolo ci fa pensare che a quel tempo il parere del Senato non era così importante). Inizia così la “dominazione etrusca” (iniziata in modo pacifico e non dopo una guerra tra Etruschi e Romani, i quali invece, con il passare del tempo, diventarono una cosa sola) su Roma. Come è avvenuta questa unione? Altri clan etruschi, che siano nobili o di gente comune (mercanti, artigiani, medici), andarono a Roma; gli emigranti portarono numerosi benefici a Roma, come l’arte medica, la religione (gli aruspici, sacerdoti etruschi che indagavano la volontà divina attraverso il volo degli uccelli o le viscere degli animali); l’arrivo degli etruschi comporta una serie di novità, che fecero evolvere Roma nell’arco di un secolo: 1) sul piano della lingua: la lingua arcaica si evolve e l’etrusco (parlato assieme al latino) influenzò il latino (sono etrusche le abbreviazioni del praenomen). 2) gli Etruschi, esperti nella canalizzazione dell’acqua, aiutarono Roma a risolvere il problema dell’accumulo di acqua stagnante, dovuto al fatto che Roma sorgeva sui colli; gli idraulici Etruschi bonificarono la zona dove poi avrebbero costruito il Foro Romano. Da quel momento, i Romani avrebbero bonificato tutti i territori che conquistavano. Sotto Tarquinio Prisco: 1) instaurazione della prima rete fognaria (la Cloaca Maxima) e del Foro Romano, ai piedi del Palatino. Il Foro Romano era luogo di mercato, di aggregazione e di ubicazione degli edifici di potere (Regia, Comitium (luogo di riunione del popolo), prima sede del Senato, negozi (taberne)); vicino al Foro sta la Via Sacra, chiamata così perché in essa si svolgono tutti i cortei (cerimonie sacre alle quali partecipava il populus) e successivamente i Trionfi. Il Trionfo è una cerimonia pubblica, una sfilata del comandante vittorioso assieme al suo esercito, ai prigionieri di guerra e con il bottino per la Via Sacra. Arrivato sul Campidoglio, il comandante si tingeva la faccia di rosso, perché la vittoria gli dava uno status superiore alle persone normali. In questo modo il comandante si distingueva dalle altre persone; egli veniva acclamato dalle folle e schernito dai suoi soldati, con lo scopo di ricordare a quest’ultimo che la gloria, come l’ha ottenuta, così la può perdere. Il comandante si chiamava imperator; dopo aver vinto una battaglia con pochi morti, la sera stessa i soldati acclamavano il comandante e lo chiamavano imperator (salutatio imperatoria); 2) creazione del Foro Boario, luogo di mercato del bestiame e di incontro per eccellenza tra cittadini romani e stranieri, che sta fuori dal pomerium e vicino al Foro Romano; 3) trasformazione urbanistica e culturale di Roma (che prepara alla repubblica). Incremento dell’edilizia privata: le case, che prima erano costruite in legno, iniziano ad essere costruite con altri materiali (nascita della domus); costruzione di palazzi ed edifici di prestigio; 4) costruzione del Circo Massimo, luogo nel quale si svolgevano le corse dei cavalli, dotato di 600 m di lunghezza e 140 m di larghezza, per un totale di 85.000 m2 di area (6 volte uno stadio di calcio); 5) nell’edilizia sacra, costruzione di templi come quello di Giove, iniziato con Tarquinio Prisco e concluso dopo oltre un secolo, sul Campidoglio; il tempio è detto Tempio di Giove Capitolino o Tempio di Giove, Giunone e Minerva (il culto della triade fu portato dagli Etruschi; in essa vi è un dio e due dee, il che fa capire che nella società etrusca la donna godeva di più importanza rispetto alla avevano la corazza; i membri della 3ª classe non avevano corazza ed elmo; i membri della 4ª classe usavano le lance e non potevano combattere perciò da vicino; i membri della 5ª classe usavano le fionde; gli accensi non potevano permettersi nessun arma e perciò non combattevano, ma fornivano servizi all’esercito (trombettieri, carpentieri ecc.); infine ci sono i proletari. Sulla base di questa divisione nacquero i comizi centuriati; ogni classe veniva suddivisa in un certo numero di gruppi di uomini chiamati centurie (N.B. non sono gruppi di 100 persone); il numero delle persone varia in ogni centuria; i ricchi erano divisi in più centurie; i poveri erano divisi in meno centurie. Su 193 centurie, 98 erano dei ricchi e perciò avevano la maggioranza assoluta nelle decisioni pubbliche, in quanto erano oltre la metà. I comizi centuriati sostituirono i comizi curiati in molte funzioni. 5ª LEZIONE Cosa facevano i comizi centuriati? I comizi centuriati facevano tutto ed eleggevano i magistrati (in età repubblicana). I comizi curiati sono esautorati, anche se conferivano ugualmente l’imperium al re. I compiti dei comizi centuriati sono: 1) elezione dei magistrati; 2) ratifica dei trattati di pace e delle dichiarazioni di guerra; 3) ratifica dei trattati di alleanza; alcune funzioni, come quella di ratificare gli accordi di pace, sono operativi già con gli ultimi re. Quest’assemblea fu fondata da Servio Tullio, il quale fece iniziare la costruzione del tempio di Diana, dea di origine latina (dunque non propriamente romana); il tempio stava sull’Aventino, fuori dal pomerium (vicino al Foro Boario), con lo scopo di attirare i latini a Roma; questo è il segno del tentativo di Servio Tullio di accreditare Roma come centro di riferimento nel Lazio. Servio Tullio vuole assoggettare i territori a Sud del Tevere, sia con le guerre, sia in modo pacifico. Tarquinio il Superbo è stato l’ultimo re di Roma; il nomignolo “Superbo” gli è stato attribuito dalle fonti. Egli salì al trono nel 534 a.C. (secondo la tradizione); le fonti lo intendono come un tiranno (che non significava solo quello che pensiamo noi; Aristotele per τύραννος intendeva l’uomo che si distingueva negativamente. Caratteristiche del tiranno greco: 1) uso di guardie del corpo per proteggere la propria incolumità; 2) politica di lavori pubblici intensi e mirati ad accrescere il proprio prestigio; 3) l’ostilità di questi capi, o sovrani, nei confronti dell’aristocrazia: infatti essi erano decisionisti e non ascoltavano le famiglie potenti). Tarquinio il Superbo non accettò le decisioni delle famiglie potenti e del Senato e ignorò quest’ultimo (da qui il nomignolo di “Superbo”). C’è da dire che molti storici erano politici, il che significa che sebbene l’immagine negativa del Superbo sia ampiamente corretta, le fonti spesso sono ipersemplificate, mettendo così in risalto solo ciò che serve per dimostrare una precisa immagine; invece, bisogna cogliere la complessità all’interno dell’immagine negativa. Infatti, il regno di Tarquinio il Superbo fu un periodo pieno di progressi, in particolare per: 1) l’espansione politico-militare: sotto Tarquinio il Superbo inizia un conflitto contro la popolazione dei Volsci (confini tra l’odierno Lazio e l’odierna Campania), che dura per circa un secolo; i Volsci, durante il periodo delle raccolte, andavano lungo la costa attaccando i territori latini e romani. Roma strinse un accordo diplomatico con una delle più potenti città del Lazio: Tuscolo, governata da Ottavio Mamilio, che riceve in sposa la figlia di Tarquinio. L’estensione egemonica romana nel Lazio a volte può essere pacifica (es. l’accordo con Tuscolo), a volte cruenta, come nel caso della conquista di Gabii. Come prima fonte sulla conquista di Gabii abbiamo il racconto di Tito Livio nel I libro. Livio evidenzia negativamente la strategia ingannevole con la quale Tarquinio il Superbo riuscì a conquistare la città, in quanto essa andava contro il fondamentale principio romano della fides, (o πιστίς in greco), che consiste nel fatto che con l’altro si è obbligati a mantenere un comportamento limpido e non ingannevole, soprattutto in guerra, poiché il nemico andava battuto sul campo e non per mezzo di tranelli (i Cartaginesi non seguivano questo valore). Tarquinio il Superbo, facendo finta di aver abbandonato la guerra per cercare le fondamenta del tempio, mandò il più giovane dei figli, Sesto Tarquinio a Gabii; Sesto Tarquinio, secondo un piano concordato con il padre, andò esule a Gabii, lamentandosi dell’eccessiva durezza del padre, e chiede asilo nella città, presentandosi dunque come avverso al padre. Sesto Tarquinio si guadagnò la fiducia degli abitanti, e successivamente mandò un messaggero dal padre affinché quest’ultimo desse degli ordini al figlio sul da farsi. Il messaggero arriva a Roma e viene ricevuto nella Reggia da Tarquinio il Superbo, il quale, non essendo certo della fedeltà del messaggero, non diede a quest’ultimo alcuna risposta verbale, ma lo portò nel giardino della Reggia; mentre i due passeggiavano silenziosamente, Tarquinio il Superbo tagliava con un bastone di legno le teste dei papaveri. Il messaggero tornò a Gabii riferendo a Sesto Tarquinio che il re, per odio o per ira, non aveva proferito parola e aveva tagliato le teste dei papaveri con un bastone; Sesto Tarquinio capì il senso del gesto e fece uccidere tutti i cittadini di spicco della città di Gabii, accusandoli davanti al popolo, approfittando dell’odio che i cittadini nutrivano verso queste persone; alcuni furono uccisi pubblicamente; altri, qualora non si riuscisse a trovare un pretesto per accusarli e ucciderli pubblicamente, venivano uccisi in segreto. In tal modo Roma acquisì il potere su Gabii. Questo episodio è importante per dimostrare che la spinta egemonica di Roma sul Lazio poteva avvenire in modo pacifico (es. come con Tuscolo) oppure in maniera cruenta (es. come successe appunto a Gabii). La testimonianza di Livio è altresì importante anche per un alto motivo: egli riprende alcuni aspetti dell’episodio da un racconto di Erodoto, uno storico greco vissuto nel V sec. a.C. che, nel libro V della sua opera intitolata Le Storie, rievoca la vicenda svoltasi tra il tiranno di Corinto Periandro e il tiranno di Mileto Trasibulo: infatti Periandro mandò un messaggero a Trasibulo (come fece Sesto Tarquinio con Tarquinio il Superbo, sulla base del piano architettato dal padre) affinché quest’ultimo gli desse dei consigli su quale sia il metodo migliore per avere il controllo della città; Trasibulo e il messaggero andarono in un campo coltivato (similitudine con il giardino raccontato da Livio); Trasibulo non diede alcuna risposta (come fece Tarquinio il Superbo con il messaggero), ma si limitò a tagliare le spighe che vedeva più alte delle altre (similitudine con il taglio della testa dei papaveri fatto da Tarquinio il Superbo); il messaggero tornò da Periandro riferendogli che Trasibulo non gli aveva detto nulla e raccontò al suo tiranno il gesto fatto da Trasibulo (come fece il messaggero con Sesto Tarquinio una volta tornato a Gabii); Periandro capì il significato del gesto di Trasibulo e represse i cittadini più eminenti di Corinto, mostrando così tutta la sua malvagità. Mettendo dunque a confronto il racconto di Livio e quello di Erodoto, capiamo subito che il primo ha ripreso e rimodellato il racconto del secondo. Ma perché Livio ha fatto questo? Livio riprese e modificò il racconto di Erodoto (omettendo nel testo che aveva ripreso lui nella narrazione della vicenda, al contrario di Dionigi che, pur aver raccontato anche lui la vicenda di Gabii, il che conferma che la conquista di questa città sia realmente avvenuta, ammise al suo lettore greco che l’episodio era troppo simile a quello narrato da Erodoto, ragion per cui egli non credeva a questo racconto) perché aveva intenzione di creare un’immagine mostruosa di Tarquinio il Superbo. In definitiva, da tutto ciò capiamo che alcuni gli storici, essendo spesso di parte, hanno lasciato una certa immagine di un personaggio in base a come essi lo vedevano. 2) l’ambito diplomatico: oltre al già citato accordo con Tuscolo, Roma intrecciò un’alleanza anche con la città magnogreca di Cuma, retta a quel tempo dal tiranno Aristodemo; quest’alleanza evidenzia come l’egemonia di Roma interessi il Lazio e come, a distanza di 200 anni, Roma si sia allargata. Nel 509 a.C. (tradizionalmente il primo anno della repubblica, anche se ancora c’era Tarquinio il Superbo, e dunque Roma era ancora una monarchia) Tarquinio il Superbo conclude un trattato con Cartagine, che era considerata la maggiore potenza marittima dell’epoca; questo perché la prospettiva romana non era solo laziale e centro-italica, bensì anche tirrenica (a quei tempi anche l’odierno Mar Mediterraneo era conosciuto come Mar Tirreno). Questo accordo è testimoniato nel III libro delle Storie di Polibio, uno storico greco vissuto nel II sec. d.C. che afferma di aver trovato e letto il testo del trattato negli archivi di Stato a Roma. Nel testo troviamo innanzitutto le condizioni che i Romani dovevano rispettare: essi, e i loro alleati, non potevano navigare al di là del Promontorio Bello (nell’odierna Tunisia), a meno che non siano costretti a farlo a causa di una tempesta o di un attacco nemico; coloro che erano portati lì per questi motivi, non potevano comprare o vendere nulla, se non quello che serviva per ricostruire la barca o per compiere sacrifici e dopodiché dovevano andarsene entro 5 giorni; inoltre, essi non potevano commerciare con nessuno se non in presenza di un araldo o di un cancelliere; dinnanzi a questi ufficiali cartaginesi, se dei prodotti venivano venduti in Libia o in Sardegna, il prezzo riuniva nei comizia. Il numero dei magistrati aumenta in base all’allargamento del dominio di Roma. I primi magistrati furono i consoli, in quanto il consolato deriva direttamente dal potere monarchico, che fu diviso tra i due consoli. I consoli venivano eletti dai comizi centuriati; essi avevano il supremo comando nella sfera civile e militare (l’imperium, che si esercitava sempre e solo fuori dal pomerium); convocavano le assemblee per le occasioni ufficiali (es. i comizi centuriati) e convocavano il Senato (che riacquisì il potere consultivo); inoltre essi proponevano le leggi dello Stato, presiedevano i comizi centuriati e convocavano i responsabili della gestione delle elezioni consolari. I consoli potevano ricandidarsi (es. Gaio Mario fu console per ben sette volte), anche se l’iterazione (la ripetizione) del consolato e di altre magistrature da parte di una stessa persona non è attestata in tutti i periodi della repubblica. La magistratura straordinaria, più antica del consolato, è la dittatura, che esclude i tre princìpi sopra elencati; il dittatore (in lat. dictator) è un magistrato oggi diremmo “costituzionale” (legale, previsto dalla legge). La dittatura era esercitata da una sola persona, accompagnata da un collaboratore chiamato magister equituum (“maestro della cavalleria”); il dittatore rimaneva in carica massimo per 6 mesi; egli non veniva eletto, ma nominato (NON CONFONDERE ELEZIONE CON NOMINA: l’elezione avviene quando una persona viene scelta da una collettività; la nomina avviene quando una persona viene scelta solo dalle persone che hanno un determinato potere) dai consoli per adempiere ad una specifica situazione (perlopiù erano esigenze militari oppure religiose). Il dittatore assume anche l’imperium. La dittatura fu utilizzata fino al 200 a.C.: dopodiché non fu più utilizzata fino a Silla (I sec. a.C.), il quale ripristinerà questa carica; poi c’è il caso di Cesare e dall’inizio dell’impero romano la carica verrà definitivamente abolita. La cacciata dei Tarquini, al contrario di quanto si possa pensare, ebbe delle conseguenze internazionali: in primis, l’inasprimento dei rapporti con i Latini, contro i quali i Romani combatteranno nel corso del primo decennio della repubblica (la tradizione ci parla di una serie di guerre, mescolate con la leggenda, dove per esempio nella battaglia del Lago Regillo i Romani vinsero grazie all’intervento di Castore e Polluce; in seguito il console Spurio Cassio firmerà una pace con i Latini) e con i quali si alleeranno contro i Volsci, i Sabini e gli Equi per fermare le loro incursioni. 7ª LEZIONE La battaglia del Lago Regillo (496 a.C.) fu vinta dai Romani. Secondo la leggenda, ci fu un intervento delle divinità latine Castore e Polluce; allora i consoli romani fecero una supplica solenne a Castore e Polluce affinché questi lasciassero i Latini e sostenessero i Romani (il rito si chiamava evocatio, ossia “chiamare un dio fuori da una città e farlo venire nella nostra”; esso fu fatto dal dittatore Aulo Postumio Albino; l’evocatio è anche uno strumento di integrazione in quanto i popoli sconfitti adorano una divinità che hanno sempre venerato nella casa dei vincitori), promettendo loro di essere massimamente venerati a Roma; così Castore e Polluce combatterono a cavallo contro i Latini e, essendo divinità e dunque invincibili, fecero aggiudicare la vittoria ai Romani. Da questo episodio capiamo che: 1) i Romani hanno sconfitto i Latini; 2) i Latini si sono ribellati all’egemonia romana. Nel 493 a.C. la guerra finì e fu firmato il foedus Cassianum (“trattato” o “patto” di Cassio, che prende il nome dal console Cassio Spurio che stipulò questo trattato). Dionigi di Alicarnasso parla di questo trattato, che fu un fatto sicuramente storico perché Marco Tullio Cicerone (I sec. a.C.) attesta che il testo del foedus era posto nel foro Romano ai suoi tempi (c’era il documento epigrafato). Il testo sanciva che: 1) la pace tra Romani e Latini sarebbe perdurata “finché cielo e terra resteranno al loro posto” (sempre); 2) entrambi i popoli avrebbero ricevuto la stessa quantità di bottino nelle guerre contro i nemici (Equi e Volsci). Si creò così una lega, secondo un rapporto di parità, tra Roma e le città latine; vennero fatti dei sacrifici rituali ripresi per divinità comuni (vittime rituali: animali). Dunque questo trattato si configura come un foedus aequm (trattato paritario: Latini e Romani avevano gli stessi diritti; il contrario è il foedus inicum, che non implicava un rapporto paritario tra popolo conquistato e popolo conquistatore, ma che imponeva una condizione alla quale il primo doveva attenersi); l’intesa tra i due popoli è anche giuridica, in quanto vennero regolamentati i rapporti di diritto privato. Nel 486 a.C. il foedus Cassianum fu esteso al popolo degli Enrici, in quanto la posizione geografica di questi ultimi impediva che l’esercito dei Volsci e quello degli Equi si unisse (spezzamento della contiguità territoriale). In questo periodo si configura anche l’inizio dello scontro tra patrizi e plebei. Non sappiamo la differenza tra le due classi e nemmeno l’origine di questa bipartizione, ma sappiamo che questi contrasti avvenivano anche nella Roma monarchica, oltre che nei primi anni repubblicani. Il conflitto, iniziato nel 494 a.C., si suddivide in due macroperiodi: 1) lo scontro vero e proprio (494 a.C. – 367 a.C.); 2) il graduale stemperamento del conflitto fino alla sua conclusione (367 a.C. – 287 a.C.). È bene precisare che: 1) popolus e plebs non erano la stessa cosa. Il popolus era la completezza del popolo romano, mentre patres (patrizi) e plebes (plebei) erano due fazioni; 2) non era una lotta tra ricchi e poveri, sebbene ci fosse anche una motivazione economica (vi erano anche plebei molto ricchi). Tuttavia: 1) solo i patrizi potevano prendere gli auspicia (ossia fare le cerimonie per interpretare la volontà divina); 2) solo i patrizi potevano accedere alle magistrature, in particolare al consolato; 3) la spartizione del bottino di guerra era iniquo: dopo le conquiste, i territori ottenuti (ager publicus) venivano distribuiti dallo Stato ai singoli individui e i patrizi ricevevano una percentuale maggiore di terra rispetto ai plebei; 4) generalmente i patrizi erano più ricchi dei plebei; 5) a causa di ciò, i patrizi erano spesso creditori (prestavano denaro al povero e non viceversa; il debitore doveva dare delle garanzie al creditore, ma poiché il povero poteva dare come garanzia solo sé stesso, si metteva a servire quest’ultimo finché non fosse riuscito a pagare il debito; se ciò non avveniva, il debitore diventava un nexus, ossia uno schiavo per debiti del creditore per sempre). I plebei erano numericamente di più, mentre il patriziato era un gruppo relativamente stretto della società romana. Lo scontro si radicalizza all’inizio del V secolo a.C., mentre Roma era in guerra contro i popoli appenninici (uno stato di guerra semipermanente): ciò comportava un maggiore arruolamento nell’esercito, che coinvolgeva anche le classi più povere. I plebei (che costituivano la maggioranza della civitas romana) pretendevano delle rivendicazioni: 1) l’abolizione del nexus; 2) un’equa spartizione del bottino di guerra; 3) l’ammissione dei plebei alle magistrature e al consolato. I plebei riuscirono a fare fronte comune, pur essendo portatori di istanze differenti, nei confronti dei patrizi. La tipologia di lotta preferita dai plebei era la secessione, ossia l’allontanarsi e l’uscire dalla città di Roma per andare sull’Aventino o sul Monte Sacro (a Nord, a 3 km da Roma). Uscire dal pomerium significava rompere la pax deorum, poiché il popolo non era più unito, ma spaccato: infatti se si usciva dal pomerium non si poteva partecipare più ai riti collettivi, che erano l’identità del popolo romano; inoltre, se la città era sotto attacco, l’esiguo numero dei patrizi, gli unici rimasti in città, non poteva evitare la conquista di quest’ultima. Tutto ciò obbligava i patrizi ad assumere un atteggiamento relativamente aperto nei confronti dei plebei. La prima secessione avvenne nel 494 a.C., dopo un attacco dei Volsci; i plebei si ritirarono sull’Aventino e giurarono di ritornare a Roma solo se i patrizi avessero accettato alcune condizioni: 1) la costituzione di un’assemblea per soli plebei (concilium plebis; concilium perché non rappresentava tutto il popolo, ma solo una sua parte, seppur maggioritaria); i pareri elaborati dal concilium plebis si chiamavano plebisciti; 2) l’elezione da parte dei plebei di due loro rappresentanti, i tribuni della plebe, che avevano tra le principali prerogative la sacrosanctitas, ossia l’inviolabilità personale: chiunque avesse ostacolato l’operato dei tribuni della plebe “sacer esto” (sia maledetto); la sacrosanctitas dei tribuni della plebe è sancita da un plebiscito (chiamato lex sacrata) accompagnato da un giuramento. Oltre a questa grande prerogativa, i tribuni della plebe avevano diversi poteri: 1) lo ius auxilii (“diritto di aiuto”): i tribuni potevano aiutare i cittadini se questi subivano degli abusi da parte dei magistrati patrizi; 2) lo ius intercessionis, ossia il diritto di veto: un tribuno aveva il diritto di bloccare le decisioni di un altro magistrato. Questi diritti si esercitavano solo nella città di Roma e i tribuni della plebe, magistrati sacri, esercitavano il loro potere nel pomerium. Già nella metà del V sec. a.C. i tribuni della plebe diventeranno 10, mantenendo questo numero fino alla fine della Repubblica. Un’altra magistratura nata nel 494 a.C. è l’edilità: gli edili (che erano sempre 2, come in tutte le magistrature romane) erano i responsabili della cura degli edifici. Il funzionamento dei concilia plebis fu regolamentato nel 470 a.C., con l’introduzione del concetto di unità di voto: ogni tribù, ora diventate 21 (4 urbane e 17 rustiche, cioè che vivevano fuori dal pomerium) esprimeva un voto. I comizi tributi vennero introdotti nel 287 a.C. volevano controllare i traffici commerciali su Tevere e sulla Via Salaria a nord, dal momento che gli attacchi dei Volsci (che avevano conquistato Terracina, all’epoca Anxur) causarono un’interruzione dei rapporti commerciali che c’erano tra il Lazio e la Campania. La guerra tra Roma e Veio iniziò nel 480 a.C.; la prima fase del conflitto durò dal 480 a.C. al 477 a.C., anno in cui i Romani furono sconfitti nella battaglia del fiume Crevera (secondo la leggenda, in questa battaglia perirono tutti i membri della gens Fabia tranne un bambino, che permetterà a quest’ultima di rinascere); al di là della leggenda, ciò che è certo è che i Romani subirono una cocente sconfitta. 9ª LEZIONE La seconda fase del conflitto contro Veio va dal 437 a.C. al 426 a.C. ed è causata dalla volontà di Roma di assumere il controllo della città di Fidenae (controllata da Veio), posta sulla riva sinistra del Tevere, nella zona in cui il fiume non è più navigabile). L’occupazione di Fidenae comportava che Veio poteva controllare i traffici commerciali sul Tevere e sulla via Salaria. La vittoria va ai Romani, che occuparono Fidenae (426 a.C.). L’appendice della guerra si svolse tra il 406 a.C. e il 396 a.C.: le fonti dicono che Roma assediò Veio per 10 anni, cosa improbabile poiché il racconto dell’assedio sembra rimodellato sulla base dell’assedio di Troia, durato anch’esso 10 anni secondo l’Iliade di Omero, anche se quest’ultimo racconta solo la parte finale dell’assedio. Veio fu occupata nel 396 a.C. da Marco Furio Camillo, un personaggio fondamentale nella storia di Roma, tant’è che Plutarco gli dedicò una vita nella sua opera intitolata appunto le Vite; si dice che Camillo riuscì ad espugnare Veio tramite lo stratagemma di scavare una galleria sotto la città, che portò alcuni soldati all’interno della città, i quali poi aprirono le porte per far entrare gli altri soldati (questo fatto è forse vero); c’è da dire che quella dello stratagemma (che può essere considerato una violazione del principio della fides) era una risorsa non propriamente romana, dal momento che essa fu utilizzata dai greci. La conquista di Veio è considerata un evento epocale della storia romana, poiché per la prima volta i Romani hanno conquistato un territorio in Etruria (a Nord di Roma, Transtiberim); Veio (come anche Fidenae) fu rasa al suolo e il suo territorio diventò ager publicus; vennero distribuiti 7 iugeri ai cittadini romani (lo iugero era l’unità di misura del terreno; essa corrispondeva a 2500 m2, vale a dire ¼ di ettaro). Tale conquista portò quindi ad un raddoppiamento del patrimonio romano e la guerra diviene popolare, in quanto arricchisce soprattutto le persone più povere. Con la conquista di Veio, cambiano anche i rapporti con i Latini. Questa sembra essere una nuova fase di prosperità e di benessere per Roma e invece, all’inizio del IV sec. a.C., nell’Italia settentrionale si assiste ad una migrazione di popolazioni (Taurini, Boi, Salassi, Senoni) provenienti dalla Gallia (l’attuale Francia), che invadono l’Italia settentrionale, con l’intenzione non di rapinare, ma di insediarsi, e si stabiliscono in una zona popolata dagli Etruschi, che vengono cacciati a Sud. La regione divenne Gallica (tant’è che i Romani la chiamavano Gallia Cisalpina); tuttavia i Galli non riuscirono ad insediarsi nei luoghi abitati dai Veneti. I Senoni, che si insediarono nelle Marche, attraversarono gli Appennini con un contingente, piombano su Chiusi e la saccheggiano, dopodiché attraversano il Tevere e occupano Roma. I Senoni e i Romani si scontrarono nella battaglia del fiume Allia (l’Allia è un piccolo affluente del Tevere) il 18 luglio; i Romani subirono una cocente sconfitta e a causa di ciò essi ricorderanno sempre questo giorno come una dies nefas (“giorno nefasto”; una giornata di lutto in cui tutte le magistrature e tutti i servizi pubblici erano chiusi). Tradizionalmente la data della battaglia si colloca nel 390 a.C., anche se secondo lo storico greco Polibio essa fu combattuta nel 386 a.C., lo stesso anno in cui fu stipulata la pace di Antalcida (dal nome del capo della flotta spartana Antalcida) tra i Persiani e le poleis greche; gli storici chiamano questa concordanza di eventi con il termine sincronismo (un evento x è accaduto lo stesso anno di un evento y, che è un fatto storico). Si diceva che Roma fu occupata e saccheggiata, ma il Campidoglio non fu occupato, grazie allo starnazzare delle oche sacre che, durante la notte, svegliarono i pochi Romani rimasti in città e i Senoni furono allontanati grazie all’intervento di Marco Furio Camillo; questa cosa fu smentita da Tacito, il quale sosteneva che: 1) Roma, compreso il Campidoglio, fu occupata; 2) che non ci fu nessun intervento di Camillo, in quanto egli, dopo la conquista di Veio, fu processato per corruzione e in seguito esiliato; 3) i Senoni lasciarono la città, ma solo dopo che Roma pagò un cospicuo riscatto in oro. E così Roma, la città che fu splendidamente abbellita dai Tarquini, fu devastata da questa incursione. A questo punto però ci imbattiamo in una contraddizione di fondo: se i Galli erano venuti nell’Italia settentrionale solo per insediarsi e non per rapinare, com’è possibile che abbiano deciso di occupare e saccheggiare Chiusi e Roma? Una spiegazione possibile può essere questa: Dionigi I, tiranno di Siracusa (città nemica di Cartagine nel territorio tra l’Africa e l’Italia), dopo alcuni conflitti contro i Cartaginesi dagli esiti incerti, riversa le sue ambizioni sui mari settentrionali, e in particolare sul mare Adriatico e sul Tirreno; sull’Adriatico i Siracusani fondarono le città di Ancona, spingendosi poi fino alla città di Adria, alle foci del Po, dove stavano insediati i Galli; tutto ciò avviene contemporaneamente agli attacchi dei Galli; altre fonti ci dicono che Dionigi I intraprese una serie di analoghe iniziative nel Tirreno, attaccando Pyrgi (il porto di Caere) e occupando per un certo periodo la Corsica. Alcune fonti del 370-360 a.C. riportano che nell’esercito di Dionigi I c’erano molti mercenari Galli, il che dà vita ad un’ipotesi: probabilmente l’azione di saccheggio e di rapina (così presentataci dalle fonti) fosse concordata tra i Galli e Dionigi I per ridurre all’impotenza Roma, che aveva cominciato ad espandersi dopo aver conquistato Veio; ovviamente nessuna fonte racconta queste invasioni come una storia unica, bensì come frammenti per spiegare coerentemente l’episodio. Dal 386 a.C. in poi, per un periodo di 30-40 anni, l’attacco dei Galli ebbe delle ripercussioni nei rapporti tra Roma e i popoli vicini; in questo periodo Roma, che deve essere ricostruita dopo la sua devastazione, inizia ad avere dei rapporti amichevoli con le città di Chiusi e di Caere e contemporaneamente un atteggiamento conflittuale nei confronti dei Latini. Nel 367 a.C. i tribuni della plebe Gaio Licinio e Lucio Sestio fecero approvare un pacchetto di leggi nominate leges Liciniae Sextiae. Esse riguardavano: 1) delle regole che venivano incontro al debitore (la rateizzazione, ossia la possibilità di pagare il debito in rate, per cercare di ridurre il numero di nexi) e la regolazione della questione degli interessi; 2) l’imposizione che nessuno poteva possedere più di 500 iugeri di ager publicus (per risolvere la questione del bottino), tramite la lex Licinia Sextia agraria o lex de modo agrorum (probabilmente il limite di iugeri era minore, siccome i territori di Roma non erano così vasti); 3) l’ammissione dei plebei al consolato: l’anno successivo Lucio Sesto fu il primo plebeo nominato console. Di fatto fu varato anche l’obbligo di eleggere ogni anno almeno un console plebeo, anche se l’altro non era necessariamente patrizio. A questi due consoli è affiancato un terzo magistrato, chiamato pretore (secondo le fonti viene dal nome del primo magistrato romano); dal 367 a.C. il pretore collabora con i consoli e ha il potere di amministrare la giustizia a Roma. La distinzione tra patrizi e plebei si parifica con il tempo (le contrapposizioni tra le due fazioni non ci sono più); i tribuni della plebe ebbero un potere sempre più attivo nella politica e nella legislazione. Si costituì un gruppo sociale di famiglie potenti che prese il nome di nobilitas (erano famiglie che esprimevano il maggior numero di consoli); nel frattempo forse iniziò un legame tra il mondo etrusco e il mondo plebeo. I rapporti con i Latini furono condizionati dalla loro sconfitta e quella della lega latina tra il 340 a.C. e il 338 a.C.; sebbene le cause del conflitto siano fittizie, è bene analizzare due aspetti: 1) le forze in campo: i Romani, oltre ad affrontare i Latini, combatterono contro Volsci, Aurunci e Sidicini. L’ultima battaglia, combattuta a Suessa Aurunca, fu vinta dai Romani e pose fine alla guerra (338 a.C.); 2) le conseguenze: la lega latina fu sciolta e il territorio controllato dai Romani va dall’Etruria orientale alla Campania settentrionale, fino al Volturno. Un notevole balzo che porta Roma ad allearsi con i Sanniti. Nel 354 a.C. Romani e Sanniti hanno concluso un foedus che stabiliva i confini delle rispettive zone d’influenza (il fiume Liri); grazie ai Sanniti i Romani vinsero le guerre precedenti; tuttavia, i Romani avanzarono oltre il Liri (fino al Volturno) e questo fu il casus belli del conflitto tra i due popoli. Alle città dell’ex lega latina vengono vietati i rapporti tra di loro (imposizione posta da Roma, che però aveva relazioni con le singole città latine), secondo il principio del “dividi et impera” (“dividi e comanda”). Al contrario, i rapporti tra Latini e Romani si pacificarono fino ad una progressiva fusione tra i due popoli, avvenuta più tardi. Le città assoggettate ai Romani non erano tutte uguali (alcune avevano lo status di municipio, o di colonia, o di città romana senza diritto di voto); una colonia è un luogo in cui alcuni gruppi di cittadini andavano ad insediarsi. Le colonie latine erano collocate nell’entroterra, avevano più abitanti (detti coloni), ai quali venivano distribuiti pezzi di terra affinché li coltivassero; le colonie romane erano situate sulle coste,
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