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Storia tecnica dell'arte - Simona Rinaldi - riassunto - tecniche artistiche, Dispense di Tecniche Artistiche

Riassunto dei capitoli del libro dedicati alla pittura murale, alla pittura su tavola, alla pittura su tela e alla scultura lignea.

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 09/06/2023

Nyla2022
Nyla2022 🇮🇹

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Scarica Storia tecnica dell'arte - Simona Rinaldi - riassunto - tecniche artistiche e più Dispense in PDF di Tecniche Artistiche solo su Docsity! Pittura murale (pagg 13-51) Tecniche pittoriche a fresco e a secco Affresco: applicazione dei colori sciolti unicamente nell’acqua e stesi sull’intonaco quando questo è ancora umido. La pittura così stesa subisce un processo chimico chiamato carbonatazione della calce; ossia la calce dell’intonaco si combina con l’anidride carbonica presente nell’aria, producendo un reticolo cristallino che fissa stabilmente i colori. Il legame che si stabilisce tra calce e pigmenti è di tipo coesivo, perché il processo di carbonatazione ingloba completamente il colore. Quando l’intonaco è asciutto tale processo non avviene, e in tal caso l’esecuzione pittorica avveniva miscelando i colori con un legante come l’uovo, la colla, l’olio, la cera oppure la stessa calce, che nell’insieme prendono il nome di tecniche a secco. Tale tecnica si basa però su un diverso tipo di legame, di tipo adesivo, che in condizioni conservative avverse può indebolirsi e deteriorarsi fino a cadere. La pittura murale a secco risulta quindi assai più soggetta al degrado di quella a fresco. Solo un ristretto numero di pigmenti può essere applicato sulla calce fresca senza alterarsi, in particolare solo quelli a base di terre naturali – prevalentemente da terre a base di ossidi ferrosi – a cui si aggiungono il nero carbone e il bianco sangiovanni – che forniscono però tonalità spente e poco variate rispetto ai colori brillanti dei pigmenti incompatibili con l’affresco (rossi di minio, cinabro, lacca rossa, gialli arancio di orpimento e realgar, verdi di malachite e verderame, blu di azzurrite e indaco). Il processo di carbonatazione della calce non qualifica di per sé la tecnica a fresco poiché si verifica anche nei colori miscelati all’acqua di calce, mentre è indispensabile per l’affresco che a tale processo si accompagni la coesione del colore, che viene inglobato nel reticolo cristallino che dal basso si produce per l’evaporazione del componente acquoso. Il procedimento di preparazione Il muro veniva sostanzialmente bagnato per favorire l’adesione degli strati di calce, che solitamente erano due: l’arriccio, composto da una mistura di calce e inerte in proporzioni di 1:2 o di 1:3 (pozzolana e sabbia erano i più diffusi a Roma e in Toscana) più grossolana, che aveva lo scopo di uniformare la superficie da dipingere riempiendo buchi o pareggiando avvallamenti; e l’intonaco, composto dagli stessi elementi ma macinati molto più finemente per renderlo più liscio, poiché era lo strato che sarebbe andato a contatto con la superficie pittorica. Sull’arriccio veniva disegnata la sinopia, così chiamata perché tracciata con una terra rossa proveniente da Sinope, che rappresentava una composizione abbozzata della scena da dipingere e che serviva all’artista per considerare la collocazione delle figurazioni; da non confondersi con il disegno preparatorio, che pure se realizzato con le stesse tinte, rappresenta il progetto grafico ben dettagliato eseguito direttamente sull’intonaco a pennello, con la battitura a filo, a incisione diretta con lo stilo o a incisione indiretta attraverso il cartone. Doratura a mordente: asciutto l’intonaco e steso il colore, veniva eseguita la doratura, facendo aderire le foglie d’oro o d’argento con un adesivo, detto “missione” o “mordente”, a base oleo- resinosa, steso direttamente sull’intonaco o più spesso applicato su decorazioni a rilievo, preliminarmente eseguite a stucco. Poiché le foglie d’oro erano battute con una sottigliezza tale da renderle quasi trasparenti, era necessario che venissero preliminarmente disposte su una lamina di stagno. 1 Pittura murale medievale La pittura murale medievale si sviluppa nell’arco di dieci secoli (IV-XIV) durante i quali tecnica a fresco e a secco si accompagnano costantemente. La pittura era eseguita procedendo dall’alto verso il basso per fasce orizzontali parallele dette “pontate” – corrispondenti al piano del ponteggio dove l’artista e la sua bottega erano impegnati ad eseguire tutte le scene contemporaneamente prima che l’intonaco tirasse. In un certo senso era quindi obbligato l’utilizzo di tecniche miste a fresco e a secco, in modo che queste ultime uniformassero l’intera composizione pittorica. Esempi di compresenza di tecniche a fresco e a secco: - Basilica di Santa Maria Antiqua (Roma) - Tempietto sul Clitumno (Spoleto) - Santa Maria Foris Portas a Castelserpio (Varese) - Abbazia di San Giovanni a Müstair - Cripta del Santuario di Santa Maria del Piano ad Ausonia (Frosinone) Il ciclo pittorico della Basilica di Sant’Angelo in Formis a Caserta (1079-87) è la testimonianza più estesa sia dell’intonaco a pontate sia dell’utilizzo dell’azzurro oltremare – pigmento ricavato dalla macinazione dei lapislazzuli generalmente provenienti dal lontano Badakshan (attuale Afghanistan) che pur essendo compatibile con la calce viene sistematicamente utilizzato a secco nel corso dei secoli. Tale pigmento appare da questo periodo in poi sostituire stabilmente il blu egiziano. Il ciclo di San Pietro in Valle a Ferentillo (seconda metà del XII secolo), ritenuto integralmente a fresco, presenta una stesura pittorica che sarebbe più corretto definire pittura alla calce. L’intonaco assolve qui alla doppia funzione di arriccio e intonaco, e risulta assente la sinopia. Le pontate seguono l’andamento del ponteggio in maniera piuttosto irregolare, talvolta attraversando orizzontalmente le scene figurate quasi a metà, mantenendo costantemente separate le fasce decorative. Una sistematica ripetizione di schemi compositivi farebbe supporre l’utilizzo di disegni e modelli nell’esecuzione di alcune figure. Sebbene tutti i pigmenti identificati risultino compatibili con la calce, sulla superficie pittorica sono ben visibili numerose sovrapposizioni. Nel Duomo di Anagni, tre maestri differenti stendono intonaci dalle diverse composizioni e praticano stratificazioni di pigmenti variati tra loro. Sia ad Anagni che a Ferentillo si nota nei panneggi delle figure la medesima procedura di giustapposizione cromatica, nota come “terne di colore”: su una campitura uniforme di una mezzatinta (un pigmento miscelato con il bianco), i massimi chiari sono indicati con il bianco e i massimi scuri con il colore puro. Tale tripartizione cromatica è descritta nel III libro di Eraclio e più approfondita in relazione alla pittura murale nella Diversarum artium Schedula del monaco Teofilo (metà XII sec). Le sezioni di intonaco dei dipinti murali e musivi del Sancta Sanctorum laterano mostrano talvolta di seguire parzialmente il disegno della composizione pittorica, secondo la tecnica definita a “pontate ondulanti”, che prelude la successiva trasformazione delle pontate in giornate, avvenuta alla fine del Duecento. Un esempio significativo di questo passaggio è offerto anche dalla Crocifissione del convento di S. Domenico a Pistoia attribuita a Coppo di Marcovaldo. Nel Sancta Sanctorum è stato rintracciato inoltre l’impiego di un disegno preparatorio eseguito mediante l’uso di sagome ritagliate su carta oleata o pergamena, costantemente replicato nei cicli, sia murali che musivi. Tali “patroni” o “sagome” non vanno confuse con i cartoni, introdotti nel ‘400, perché tali sagome fornivano al pittore solo il profilo esterno delle forme disegnate, ed erano 2 fatto emergere l’ipotesi che tale pigmento non sia incompatibile con la calce ma piuttosto con la tecnica a fresco, e quindi da qui utilizzato con pittura alla calce a secco. Se con Benozzo si può constatare un impiego del legante ad olio – generalmente in emulsione con l’uovo, a costituire la cosiddetta “tempera grassa” – in parti piuttosto localizzate e in ogni caso abbastanza limitate, nella Camera degli Sposi (1465-74) eseguita da Andrea Mantegna nel Palazzo Ducale di Mantova l’uso dell’olio/legante organico risulta prevalente rispetto alla pittura a fresco. Un indice di questa proporzione è fornito dalla grande estensione delle giornate. I cartoni risultano impiegati ancora in modo non sistematico. Piero della Francesca dipinge nel 1453 la Leggenda della vera Croce nel coro della Basilica di San Francesco ad Arezzo. Articola il ciclo in 230 giornate di varia dimensione, le più piccole per volti e mani. Il disegno preparatorio è trasferito a muro mediante uno spolvero con tre diverse gradazioni di punti: -molto piccoli e fitti -della consueta grandezza e intensità -di grandezza maggiore e più distanziati. Le differenziazioni sono riconducibili alla presenza di artefici diversi del trasferimento dello spolvero. Il cartone appare impiegato più volte, sia nel recto che nel verso, capovolgendolo, come nel caso delle numerose teste femminili. Le architetture mostrano invece la presenza di incisioni dirette eseguite con lo stilo, mentre nelle fasce decorative si scorge l’impronta incisa della corda battuta intrisa del pigmento rosso sinopia. In molti punti del ciclo è presente l’impiego della tempera oleosa alternata all’affresco. Il documentato ricorso a stesure a olio e tempera grassa da parte degli artisti del secondo Quattrocento fornisce il necessario contesto storico all’esecuzione generalmente ritenuta straordinaria, del Cenacolo da parte di Leonardo nel refettorio del convento milanese di Santa Maria delle Grazie, commissionato nel 1494 e concluso nel 1498. L’esecuzione discontinua dei lavori di Leonardo è variamente testimoniata, come anche il velocissimo degrado dell’opera in tempi immediatamente successivi. I moltissimi interventi di restauro operati nel tempo rendono molto difficile distinguere i materiali originali da quelli di restauro. Si rileva comunque un primo strato di calce molto grossolano, un secondo composto da calce e carbonato di magnesio e quarzo e un terzo strato di biacca, sul quale Leonardo dipinge con tempera grassa, costituita da emulsione di olio e uovo che appare notevolmente degradata. È assai probabile che abbia tracciato direttamente il disegno sulla preparazione del muro. Pittura murale nel Cinquecento [Cappella Sistina di Michelangelo, vedi Colalucci] Idealizzando la tecnica dell’affresco, Vasari celebra al contempo la maestria divina di Michelangelo che nella Cappella Sistina dipinge a suo avviso senza ritocchi a tempera. È stato confermato che le lunette e la volta (1508-9, 1511-12) risultano essere dipinte prevalentemente a fresco, evitando il ricorso a completamenti a tempera ma preferendo servirsi di grandi pennellate alla calce. Il pontefice volle continuare ad usare la cappella durante i lavori di affresco, e quindi si rese necessaria la costruzione di un ponteggio sospeso; al termine della costruzione, Michelangelo passò alla realizzazione dei cartoni, poiché essi dovevano essere disegnati tenendo conto delle distorsioni ottiche delle figure determinate dalle curvature. Un altro problema venne causato dalla composizione delle malte: la malta di calce e sabbia tipicamente usata a Firenze non riusciva ad 5 essere lavorata dai muratori romani a cui era affidata l’applicazione degli intonaci. Alla fine, Michelangelo si convinse ad usare la malta di calce e pozzolana utilizzata a Roma e a disfarsi dei collaboratori fiorentini. Procedette alla pittura della volta da solo, trasferendo il disegno dai cartoni con un’incisione indiretta molto sommaria, senza ripensamenti e con larghe pennellate intrise di colore. Nel Giudizio (1536-41) Michelangelo fece invece assai più ricorso a stesure a tempera. Fece realizzare un muro di mattoni di fronte alla parete con una pendenza di 24 cm, applicandovi arriccio ed intonaco. Tutti gli intonaci risultano molto lavorati e levigati e per ciascuna figura Michelangelo eseguì il cartone, che trasferì nella parte alta a spolvero e nella parte bassa ad incisione indiretta. La stesura pittorica è corposa e veloce; molte sono le correzioni e le aggiunte in corso d’opera. La maggior parte delle modifiche deriva da aggiustamenti prospettici, mentre molte finiture a secco andavano a mascherare le giunzioni delle giornate. A Roma si diffondeva contemporaneamente la tecnica a olio su muro adottata da Sebastiano del Piombo nella Flagellazione di San Pietro in Montorio; la preparazione del muro corrisponde al racconto vasariano (imbevitura con mastice e pece greca e impermeabilizzazione successiva con una mescolanza di olio, pece, mastice e vernice stesa con spatole arroventate). La pittura viene realizzata come se si trattasse di una tavola, con due strati grigi a mo’ di imprimitura di fondo. Nella Loggia di Psiche alla Villa Farnesina, Raffaello affida a Giovanni da Udine la preliminare esecuzione dei festoni vegetali come lavoro di suddivisione degli spazi della volta e griglia di base, diventando così più semplice procedere con la pittura delle due grandi scene centrali del Concilio e del Convito degli dei. Le tracce di spolvero testimoniano l’esistenza di disegni preliminari seguiti fedelmente dalla bottega e un controllo piuttosto stretto da parte di Raffaello. Vi sono anche segni di incisione indiretta e diretta. L’utilizzo reiterato dei medesimi tipi facciali servendosi degli stessi cartoni è una pratica che nel Cinquecento appare piuttosto consueta; lo testimoniano i raffronti condotti con la scena del Parnaso nella Stanza della Segnatura che presentano l’adozione degli stessi elementi figurativi, divenuti patrimonio della bottega. I dipinti appaiono caratterizzati da numerosi tratteggi (sottili e con linee parallele, o spezzati e incrociati, minuti o grossolani), principalmente sui volti ma anche nella decorazione, talvolta per modulare maggiormente la stesura cromatica rinforzandone la colorazione, oppure per modificarne la tinta. Il cielo è costituito da smaltino steso a fresco che in origine era completato da una stesura a secco di azzurrite. L’azzurrite veniva più tradizionalmente steso su fondo scuro, e anche di questa tecnica vi sono esempi nell’affresco di Raffaello. Lo strato di smaltino è applicato su uno strato sottile di colore bianco, costituito da calce, polvere di marmo e poche tracce di ocra gialla – avente funzione di costituire una base riflettente che rendesse più luminosa la stesura finale. La pittura veneta del ‘500 appare caratterizzata da alcuni aspetti tecnici peculiari: la presenza nelle malte di cocciopesto (“terrazzo”), ovvero mattoni e terrecotte polverizzare, al fine di garantire buone proprietà idrauliche agli intonaci per una essiccatura omogenea – inserita negli strati più interni a contatto con la muratura per assorbirne l’umidità; l’adozione di finiture che modellano i volumi sia a fresco che a secco, mediante la giustapposizione o l’intreccio di pennellate punteggiate o tratteggiate. Inoltre, l’adozione della tecnica a olio non era mai stata abbandonata dopo le prime sperimentazioni nel ‘400, fatte tra gli altri da Giorgione e Tiziano, ma di cui rimangono per lo più testimonianze letterarie. Vasari descrive accuratamente la tecnica dell’olio su muro, eseguita impregnando l’intonaco fino alla sua saturazione, o con olio di lino cotto o con una stesura oleo-resinosa di olio, pece, mastice e vernice grossa, oppure ancor applicando un fondo di calce, polvere di mattoni e limatura di ferro 6 miscelati a bianco d’uovo. Tale preparazione permetteva un’esecuzione libera, con tempi più dilatati di quelli dell’affresco e una maggiore capacità di fusione delle tinte. La tecnica a olio su muro viene estesamente praticata dagli anni venti del ‘500 ai decreti del Concilio di Trento del 1563, quando si registra una ripresa dell’affresco con i consueti completamenti a secco – ma piuttosto alla calce che non a tempera. Tale modalità esecutiva si registra appunto nei numerosi cicli pittorici commissionati con particolare intensità a Roma in seguito al Concilio di Trento che mostrano alcune particolarità comuni: dal punto di vista compositivo, la figurazione sacra emergente in primo piano; dal punto di vista iconografico, con l’inserzione di scene paesaggistiche; e dal punto di vista tecnico organizzativo, per la capacità di coordinare vaste schiere di pittori. Pittura murale dal Seicento all’Ottocento Matteo Zaccolini da Cesena è particolarmente lodato dai teorici seicenteschi come Bellori, Passeri e Felibien in quanto autore di quattro trattati prospettici e per il recupero da lui operato dei precetti teorici e ottici elaborati da Leonardo al fine di insegnare ai pittori la rappresentazione prospettica su superfici sia piane sia curve. Celebrato come maestro di prospettiva dei maestri emiliani presenti a Roma a inizio secolo, e in particolare di Domenichino, i cui cicli di pittura murale testimoniano una stretta correlazione con quanto riferito nei suoi trattati e in particolare nel quarto dedicato ai colori. Domenichino utilizza i quattro colori puri e rappresenta il modellato tridimensionale di incarnati e panneggi mediante una rete di puntini di colore puro. Tale puntinato chiaroscurale appare una realizzazione pratica della miscela per giustapposizione citata da Zaccolini, che si riscontra impiegato ancor prima da Annibale Carracci nella volta della Galleria Farnese (1597-98). Tale tecnica appare strettamente correlata al tentativo programmaticamente dichiarati da Carracci di fondere il “colorito lombardo” e il “disegno romano”. La stesura a fresco adottata dai Carracci appare assai diversa dai modelli rinascimentali a cui si ispira, per lo spessore assai maggiore degli intonaci e per la loro diversa composizione, assai più ricca di inerti. L’unica fonte tecnica dell’epoca, rappresentata dalla Breve instruzione per dipingere a fresco di Andrea Pozzo, inserita in appendice al suo trattato di prospettiva pubblicato tra il 1693 e il 1702, non parla ovviamente né di olio su muro né di tempere proteiche, ma solo di affresco e pittura alla calce, secondo un punto di vista tipicamente romano. In realtà il ‘600 appare anch’esso percorso, come il ‘500, da molteplici sperimentazioni individuali che emergono dai corposi studi pubblicati sull’argomento. Nessun riferimento al puntinato cromatico si rintraccia nella testimonianza di Pozzo, ma la tecnica si diffonde largamente venendo adottata da numerosi artisti, tra cui Pietro da Cortona nel salone Barberini. Il virtuosismo e la spettacolarità delle soluzioni decorative dipinte e scolpite diverranno una caratteristica della pittura settecentesca, che nel Veneto vede emergere in particolare la produzione affrescata di Giambattista Tiepolo. Le dimensioni spesso enormemente estese dei suoi dipinti comportano giornate piuttosto grandi; nei pigmenti utilizzati da Tiepolo si nota la sovrapposizione quasi totale con i pigmenti citati da Andrea Pozzo adatti per dipingere a fresco e alla calce. PIGMENTI più citati - Bianco di calce (bianco sangiovanni) - Bianco di marmo - Bianco di gusci d’uovo 7 Croci dipinte e la Madonna di Santa Maria Maggiore Al XII secolo, probabilmente in seguito alla riforma gregoriana, risalgono numerose croci dipinte su tavola con la figura di Cristo crocifisso e scene della passione ai lati. La più antica croce dipinta rimasta è la croce della Cattedrale di Sarzana, di Guglielmo, del 1138. Su un’unica tavola verticale in castagno sono incastrate le due braccia laterali; l’incamottatura presenta prima strisce di pergamena sulle giunzioni e poi uno strato completo di tela di lino, sottile e serrato. La tavola è poi preparata con due strati di gesso e colla dalla granulometria differenziata, il cui strato finale è perfettamente levigato per il disegno – condotto con punte metalliche e carboncino in diverse soluzioni. Le zone destinate alla doratura sono definite da una incisione a stilo. Le pennellate originali presentano una tempera mista di uovo e composto olio-resinoso di pino, mentre il rifacimento sovrastante è eseguito a tempera d’uovo. Anche il retro della croce risulta preparato con strati di gesso e colla: al di là dell’effetto estetico perfettamente equilibrato, tale accortezza aveva anche funziona protettiva, rendendo più stabile la struttura lignea e proteggendola dall’attacco degli insetti xilofagi. La croce del Duomo di Spoleto (1187), in legno di pioppo, presenta invece una incamottatura in pergamena. Il fondo bruno è il risultato dell’alterazione della foglia d’argento originariamente verniciata in giallo per simulare l’oro (“meccatura”). La croce del Convento di San Matteo, datata all’inizio del ‘200, ha la struttura della croce di Guglielmo e l’incamotattura della croce di Spoleto. La doratura a guazzo è eseguita direttamente sul gesso, senza bolo o terra verde. Le croci di Giunta Pisano, a cui si deve la larga diffusione dell’iconografia del Cristo morto, dalla carica maggiormente drammatica e strettamente collegata alla spiritualità francescana, si caratterizzano inoltre per la campitura verde come substrato per gli incarnati e per la presenza del bolo rosso al di sotto della foglia d’oro applicata a guazzo, per ottenere riflessi metallici più caldi e variati a seconda delle tipologie di oro impiegate – oltre a costituire un substrato plastico per la decorazione delle foglie con incisioni a bulino, a compasso, a punzoni, nelle opere precedenti generalmente assenti. Una decorazione punzonata particolarmente ricca è presente sulla Madonna della chiesa fiorentina di Santa Maria Maggiore (prima metà dell’XI sec), eseguita su una foglia di oro purissimo applicata a guazzo su bolo rosso, con nove tipi di punzoni dai motivi decorativi piuttosto elaborati. Va evidenziata l’estesa gamma di tecniche di doratura presenti: a guazzo su bolo, a missione e a graffito; in quest’ultima uno strato pittorico dipinto con minio è stato asportato con uno stilo che disegna a mano libera volute e girali. L’adozione del bolo, anomala per le opere precedenti alla seconda metà del ‘200, ha una funzione cromatica ma anche plastica, poiché il substrato argilloso permetteva una migliore azione modellante per quanto riguardava le decorazioni. L’opera combina un rilievo policromo modellato in stucco su una tavola dipinta in legno di castagno. Incamottatura e preparazione risultano particolarmente accurate, coinvolgendo anche il retro e la cornice. La tecnica pittorica segue la schematizzazione bizantina delle terne di colore; i pigmenti individuati rappresentano un vasto panorama cromatico, con più pigmenti utilizzati per ciascuna tinta. 10 Le tavole duecentesche Accanto alle croci dipinte, risalgono al XIII secolo numerosi dipinti raffiguranti la Madonna in trono con il bambino, detti Maestà per le loro dimensioni monumentali, che vanno a sostituire il formato del dossale d’altare sviluppato in orizzontale. Un esempio di quest’ultima tipologia è il dossale di Meliore di Jacopo per la Chiesa di San Pietro in Pera, della metà del ‘200. Composto da tre assi di pioppo di taglio tangenziale, presenta una preparazione con numerosi strati sovrapposti di colla animale in funzione isolante e di gesso su cui è presente una incamottatura totale di lino, ulteriormente rafforzata da strisce di pergamena, sopra le quali sono sovrapposti altri due strati di gesso e colla, lucidati in superficie. Il disegno risulta inciso nel gesso anche nei particolari più minuti, e sempre direttamente sul gesso è stata deposta su tutto il fondo la foglia d’argento a guazzo, successivamente brunita e meccata. Sull’argento meccato Meliore ha dipinto con 8 pigmenti e 3 lacche: biacca, giallo di piombo-stagno, ocra gialla, ocra rossa, cinabro, oltremare, terra verde, nero di vite. Nella Madonna del bordone di Siena e nella Madonna dei servi di Orvieto, di Coppo di Marcovaldo, pare riconoscersi la cosiddetta pittura traslucida citata da Teofilo, eseguita con velature e vernici colorate ad olio su lamina metallica in stagno; nelle opere di Coppo troviamo però lamina d’argento e il legante a tempera. Sulle caratteristiche tecniche delle Maestà dipinte in varie occasioni da Cimabue vanno sempre ricordate le vicende conservative dei dipinti, che alterano il loro stato originale, come nel caso della energica pulitura ricevuta dalla Maestà del Louvre, la modifica del formato subita dalla Maestà di Santa Trinita di Firenze o la separazione di supporto e pellicola pittorica della Croce di Santa Croce per ragioni conservative in seguito all’alluvione di Firenze del 1966. La pittura di Cimabue risulta eseguita sovrapponendo tonalità via via più scure nelle ombre su una base che negli incarnati è l’ormai consueta campitura verdognola. Il trattamento dei panneggi si avvale ancora delle lumeggiature in oro applicate a missione. La Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna (1285) è composta da 5 assi in pioppo incamottate con tela di lino a trama fitta, sulla quale Duccio stese una preparazione in gesso molto ricca di colla, eseguendo poi il disegno, forse prima a carboncino e poi fissandolo ad inchiostro con un pennello sottile – senza accenni di ombreggiatura chiaroscurata. Tutte le lumeggiature in oro sono eseguite a missione, destinando la doratura a guazzo su un bolo rossastro nel fondo della tavola e della cornice. La Maestà per il Duomo di Siena, eseguita nel 1308-11, fu smembrata nel 1711; le numerose tavolette furono disperse nel corso dell’Ottocento in varie parti del mondo. L’intero dipinto era incamottato con una sottile tela di lino, applicata sul legno reso impermeabile da uno strato di colla sul quale era subito stato steso uno strato di gesso grosso; la successiva tela di lino era stata poi ricoperta da numerosi strati di gesso grosso e gesso sottile miscelati a colla animale. Il disegno risulta eseguito sia a pennello che a stilo, con una delineazione dei contorni che esclude la modellazione volumetrica – ottenuta successivamente con gli strati pittorici. La sequenza esecutiva ricostruita prevedeva l’individuazione del centro della tavola per il tracciamento dell’aureola di Cristo, seguito dal disegno della figura e delle altre figure principali; veniva poi eseguito il disegno inciso degli edifici architettonici, subito riempiti di colore. Prima della stesura pittorica vi erano le dorature, per i fondi eseguite a guazzo su fondo di bolo rosso, e per le lumeggiature a missione. 11 Giotto La rappresentazione volumetrica delle forme che caratterizza il linguaggio pittorico di Giotto è chiaramente individuabile nella fase del disegno dove, diversamente dalla pittura senese di ascendenza gotica, il segno non segue solo il contorno delle figure ma tratteggia con pennellate acquose i volumi. Giotto applicava il colore in gradazione cromatica con l’aggiunta di progressive miscele di bianco, superando la schematizzazione bizantina delle terne di colore con una stesura cromatica più articolata che partiva dalle zone più scure, con il colore puro, procedendo per mezzetinte fino al bianco. Tale procedimento risulta evidente nella Madonna con bambino di San Giorgio alla Costa, ritenuta della giovinezza di Giotto e nella quale si può scorgere – per via della pellicola pittorica abrasa – il disegno acquarellato. Composta da 3 assi di pioppo da taglio radiale e sub-radiale, presenta un’incamottatura che ricopre totalmente il supporto con 4 pezze di lino vecchie non semplicemente incollate ma imbevute di gesso e colla, sulla quale sono stati poi applicati vari strati di gesso grosso e gesso sottile, giungendo ad una superficie levigata. Il tracciato grafico risulta eseguito con una molteplicità di tecniche: delineazione dei contorni a carboncino e successiva ripassatura a inchiostro e pennello, che negli incarnati presenta però un disegno acquerellato e accuratamente ombreggiato per indicare la volumetria delle forme. Il fondo, eseguito con doratura a guazzo con fondo in bolo rosso, è brunito e decorato con incisioni a bulino a mano libera; le decorazioni di panneggi e altri dettagli sono a missione oleosa con una sottile lamina di oro di metà. I pigmenti risultano stesi con un legante a rosso d’uovo unito però ad altre sostanze come gomma o latte di fico, con pennellate molto sottili e sovrapposte tra loro. Nella Croce di Santa Maria Novella, troviamo un sistema di traversatura posto sul retro finalizzato alla migliore conservazione del dipinto, alla quale contribuiva anche l’incorniciatura, regolatrice dei fenomeni di ritiro e rigonfiamento del legno; tale organizzazione di pezzi necessitava sicuramente di una preliminare elaborazione tramite un dettagliato progetto esecutivo. Su tutte le giunzioni e le malformazioni del legno sono state incollate delle strisce di pergamena prima di applicarvi sopra le strisce di lino che ovviamente ricoprono sia la superficie da dipingere che l’incorniciatura. Sulla consueta preparazione a gesso e colla animale il disegno preparatorio è eseguito a pennello con un chiaroscuro ombreggiato nel volto di Cristo. Incisioni sottilissime sono presenti al confine tra le zone dipinte e quelle dorate. Il legante pittorico è individuato nella tempera a uovo miscelata a una varietà di pigmenti piuttosto ristretta. La particolarità non consiste nei materiali, ma nel modo di impiegarli con fondi cromatici diversi da colore a colore; le stesure sono quasi tutte sottilissime. La Madonna di Ognissanti, del primo decennio del ‘200, è costituita da 5 assi verticali in pioppo; sull’incamottatura in tela è stesa la consueta preparazione a gesso e colla animale di notevole spessore, che ospita il disegno eseguito differenziando la stesura degli incarnati, rispetto alla delineazione dei contorni dei panneggi. Le parti dipinte al confine con la doratura del fondo – a guazzo con fondo di bolo – sono incise a stilo; le dorature decorative sono eseguite a missione. La resa degli incarnati è ottenuta con minuziose pennellate rosate che si diradano progressivamente nelle parti in ombra facendo trasparire in superficie il disegno ombreggiato. La Croce dipinta della Cappella degli Scrovegni a Padova è costituita da due assi di pioppo, e l’incamottatura appare applicata solo lungo la giunzione degli assi mediante due strisce di tela; l’impasto di preparazione in colla e gesso è più sottile rispetto alle opere giottesche citate in 12 fine di contrastare le frodi; per tale ragione era riservata grande attenzione alla purezza delle foglie, che nel caso dell’oro dovevano essere di oro zecchino. Il fiorino fiorentino, il ducato veneziano e il genovino genovese furono le monete maggiormente impiegate per la battitura delle foglie metalliche: sin dallo statuto nel 1396 si introdusse inoltre la norma che da una moneta non potessero essere battute più di 100 foglie d’oro. Ma poiché lo spessore delle foglie era diverso a seconda della tecnica di applicazione, con la doratura a missione – che non richiedeva la brunitura e che quindi necessitava uno spessore minore – si risparmiava circa il 25% perché le monete potevano essere battute fino ad ottenere 145 foglie. Particolarmente ricche di foglie d’oro e d’argento risultano le tre tavole di Paolo Uccello raffiguranti le cosiddette Battaglie di San Romano, oggi conservate al Louvre, agli Uffizi e alla National Gallery. Queste ultime due possono datarsi al 1436, mentre la prima al 1456-58. Nelle prime due tavole, le modalità prospettiche utilizzate nello strutturare lo spazio prospettico privo di architetture risultano più aderenti al De pictura di Alberti, suggerendo la profondità spaziale con numerosi ed evidenti indicatori lineari per imitare il reticolo prospettico di un pavimento. Nella tavola di Parigi, viceversa, gli indicatori lineari sono quasi scomparsi e la funzione ordinatrice è resa dai volumi dei corpi protagonisti dell’azione, formulando così compiutamente la sua proposta alternativa alla norma albertiana mediante punti di fuga multipli – non ritenendo soddisfacento il punto di vista unico e fisso che impediva la rappresentazione di oggetti soliti e curvilinei complessi, come i mazzocchi. Tale rappresentazione dello spazio per punti di fuga multipli è delineata da Uccello sugli strati preparatori di gesso e colla con un sottile tracciato a pennello che delinea solo le sagome esterne delle figurazioni come forme piatte assemblate sui vari piani pittorici. L’incamottatura risulta solamente parziale, e lo strato preparatorio triplice. L’applicazione del bolo è differenziata a seconda della gran varietà di lamine metalliche impiegate. La tecnica pittorica è a tempera d’uovo e a tempera grassa ed è presumibile che vi fossero numerose stesure ad olio. Nella Caccia nella foresta del 1470 troviamo la stessa incamottatura parziale, gli stessi strati preparatori e la stessa stratificazione pittorica con nero carbone per le zone dipinte in verde. Il disegno sembra realizzato a carboncino, ma inciso nelle principali linee prospettiche. La tecnica adottata in questo dipinto – strati trasparenti applicati su strati cromatici coprenti – la rende compatibile con il legante ad olio. Vasari attribuisce invece l’introduzione della tecnica a olio e anche la diffusione della pala quattrocentesca con superficie unificata a Domenico Veneziano, che nella Madonna con bambino di Bucarest fa un fittissimo ricorso alle incisioni – di una complessità simile a quella di un disegno. Oltre ad un’estesa presenza di lamine metalliche applicate a foglia su bolo e a missione, risulta dalle analisi una tecnica più complessa di quella della tempera ad uovo e un probabile uso del legante a olio. Piero della Francesca, allievo di Domenico Veneziano, come lui utilizza sin dalle prime opere – come il Battesimo di Cristo – il cartone e lo spolvero per il disegno preparatorio. A partire da un disegno di puro contorno su fondo preparatorio a gesso e colla, Piero procede con l’impostazione prospettica e poi con brillanti stesure cromatiche a tempera grassa, ombreggiate in superficie con velature colorate di pittura ad olio. Ma Piero non procede come il suo maestro, costruendo lo spazio artificiosamente attorno alle figure. Piuttosto, sviluppa le ricerche di Paolo Uccello sui punti di fuga multipli e nel tentativo di risolvere il problema delle linee curve e soprattutto della rappresentazione dei soliti geometrici a base circolare, elabora un sistema proiettivo dove le rette parallele sono ortogonali al piano pittorico. Tale proiezione parallela, descritta nel De prospectiva pingendi, vede una predominanza della misurazione dei punti sul tracciamento delle linee – trasformando i disegni in vedute assonometriche. Questa pratica di rilevamento per punti trova nell’adozione sistematica 15 dello spolvero la tecnica di trasposizione più immediata. Il controllo totale della proporzionalità delle forme disegnate gli consente di variare a suo piacimento le dimensioni delle figure, che troviamo appunto in dipinti diversi in scale diverse. Piero affida quindi la rappresentazione del modellato unicamente al colore, stendendo impasti compatti e coprenti nei chiari e liquidi e trasparenti nelle ombreggiature superficiali. Una particolarità esecutiva presente nel Polittico della Misericordia e nelle opere successive è il primo strato preparatorio a cui si aggiunge nero di carbone vegetale al normale misto di gesso e colla – tale strato poteva avere anche una funzione conservativa, oltre che cromatica, poiché nel dipinto Piero sperimento il legante a olio. Olio che risulta stabilmente utilizzato nelle opere successive, dove uno strato di olio isola gli strati preparatori dalla pellicola pittorica. Nel Polittico di Perugia troviamo una raffinata tecnica di doratura dei fondi a duplice strato – il primo brunito a bolo e il secondo steso al di sopra con una missione densa e granulosa. Beato Angelico, pittoricamente ancora legato alla tecnica a tempera d’uovo e alle pennellate tratteggiate, adotta però una costruzione del tavolato con assi verticali nelle cui giunzioni inserisce dei perni metallici rettangolari infissi dalla fronte del dipinto e sporgenti sul retro con un’asola. Su tali perni veniva incastrata la traversa orizzontale, che era bloccata con una zeppa metallica o lignea fissata verticalmente all’interno dell’asola. Tale metodo di traversatura regolabile andava a sostituire il sistema più antico dell’inchiodatura. La maggiore elasticità dell’ancoraggio delle traverse si accompagnò all’adozione del formato quadrato. L’abbandono del fondo oro si trasmette poi anche alle cornici, che nell’Angelico sono realizzate con uno splendido “supercoelum” stellato. La pala d’altare quadrata con incorniciatura architettonica che ripropone trabeazioni, cornicioni e lesene scanalate appare un’innovazione tipica fiorentina come recupero rinascimentale dell’antico e del suo codice figurativo in termini di armonia e razionalità. Tavole del Quattrocento tra Venezia e le Fiandre Una struttura particolarmente sontuosa di pala d’altare quadrata all’antica con cornice architettonica è l’Incoronazione della Vergine (1471-83) realizzata per la Chiesa di S. Francesco a Pesaro da Giovanni Bellini. Bellini fu un’artista che seppe evolversi costantemente raccogliendo gli stimoli provenienti dagli artisti più innovativi. In particolare, questa tavola rappresenta un momento di svolta nella tecnica pittorica dell’artista, che nelle opere giovanili costruisce le immagini con un dettagliato disegno preparatorio, ombreggiato a tratteggio con grande sensibilità chiaroscurale a cui sovrappone una texture pittorica corposa, mentre da questo momento la pellicola pittorica si fa più sottile e smaltata, fino ad assumere le caratteristiche della pittura traslucida. La struttura complessiva della tavola ha un sistema di incastri semplici, è in pioppo con assi assemblate in verticale e preparate a gesso e colla; il disegno preparatorio è molto accurato ed è trasferito a ricalco, a spolvero e a incisione. Le campiture cromatiche sono eseguite con un impasto a olio di due-tre pigmenti stesi in strati sottili e omogenei applicati talvolta seguendo una procedura a risparmio per evitare troppe sovrapposizioni in alcune zone. Le dorature dei santi nei pilastri sono eseguite tutte a missione, mentre nell’Incoronazione l’oro è applicato a conchiglia, ossia mescolando della polvere d’oro con un legante (vernice, colla animale o gomma arabica) e poi stendendo il composto a pennello; Bellini passa all’utilizzo di questa tecnica per ottenere effetti maggiormente pittorici. Due pigmenti meno consueti che troviamo in questa pala sono lo smaltino e l’orpimento. Le tonalità brune risultano caratteristicamente ottenute utilizzando miscele complesse costituite da biacca, ocra rossa, cinabro e carbone nero vegetale. 16 Tale ultima composizione dei colori bruni lo distanzia in particolare da Antonello da Messina, che otteneva superfici cromatiche dalla compattezza smaltata grazie alla sovrapposizione di velature particolarmente liquide e progressivamente più trasparenti per la crescente percentuale di olio. In Antonello il disegno è pura linea di contorno, e la costruzione chiaroscurale è affidata interamente al sovrapporsi di strati trasparenti, come nella pittura fiamminga. Dal punto di vista dei materiali, l’artista utilizza i pigmenti tradizionalmente in uso, utilizzando occasionalmente lo smaltino. Lo smaltino era un pigmento particolare ottenuto dalla macinazione del vetro colorato blu, largamente in diffuso in Europa dall’inizio del ‘400, e di cui è attestata la scarsa stabilità per il degrado visibile in numerosi dipinti tedeschi, fiamminghi e inglesi. La sua superficie risulta spesso deteriorata da crettature da essiccamento o da offuscamento biancastro direttamente correlati alla natura del vetro e alla sua componente alcalina, il carbonato di potassio. Lo smaltino utilizzato nei dipinti italiani coevi non manifesta però nessuna alterazione, applicato in maniera inconsueta su uno strato di azzurrite – grazie alla diversa caratterizzazione chimica della componente alcalina, costituita da carbonato di sodio. Cinabro e lacca rossa, giallo di piombo-stagno, ocre di diversa tonalità dal giallo al bruno e vari tipi di nero caratterizzano la gamma di pigmenti nordeuropei, insieme all’olio di lino e di noce, con un impiego molto limitato della tempera d’uovo. I supporti testimoniano una varietà maggiore di specie legnose, sebbene figuri maggiormente la quercia. Quasi tutti i dipinti fiammingo-olandesi in quercia si distinguono per la qualità del taglio, quasi sempre radiale o semiradiale, e dell’assemblamento tenendo conto del verso del midollo. La disposizione delle assi era generalmente verticale per i ritratti e orizzontale per i paesaggi. Molti dipinti tedeschi risultano dotati di incamottatura di tela, mentre nelle tavole fiammingo-olandesi no, anche per l’assenza di doratura dei fondi. Gli strati preparatori di questi ultimi sono eseguiti con calcite miscelata a colla animale in numerosi strati di differente granulometria generalmente più sottili di quelli italiani. È inoltre quasi sempre presente uno sottile strato di imprimitura al posto dello strato isolante non pigmentato di sola colla – con la medesima funzione di impermeabilizzare. Dalle imprimiture chiare rimaneva visibile il disegno preparatorio tracciato con pigmento nero a pennello o a penna, oppure con tecniche secche a terra nera o a carboncino. Memling si serve della trasposizione a spolvero, Van Eyck invece disegna a mano libera direttamente sul supporto. Il disegno fiammingo è sempre accuratamente tratteggiato per segnalare le ombre. Per mantenere il contatto visivo con il disegno sottostante vi è dunque bisogno del legante a olio, generalmente di noce per le tinte chiare, che pur asciugando con maggiore lentezza aveva il pregio di mantenersi incolore nel tempo, mentre gli altri pigmenti erano miscelati con olio di lino che ingialliva maggiormente ma si asciugava più velocemente – a cui talvolta si aggiungeva resina di pino per un effetto più lucido e compatto. Le sottili pennellate erano applicate a velatura (+ olio – pigmento). Leonardo e Michelangelo La Gioconda di Leonardo (1503-6) risulta dipinta ad olio su una tavola in pioppo priva di incamottatura. L’imprimitura è una miscela di olio e colla e gli strati pittorici, molto sottili, prevedono: biacca, azzurrite e oltremare per il cielo; ocra gialla, verde e giallo di piombo-stagno per il paesaggio; verderame con ocra gialla e giallo di piombo-stagno per la veste; cinabro, ocra gialla e biacca per il volto e le mani – che nelle ombre presentano terra d’ombra. Per comprendere la famosa tecnica dello sfumato leonardesco bisogna tenere presente i suoi studi e il suo rapporto con la tecnica delle velature. Con queste ultime gli artisti fiamminghi, sovrapponendole, perdono 17 conosciuto in Europa fin dal IV millennio a.C. e fin dal ‘300 è testimoniato inoltre l’uso di dotare tavole e polittici di cortine in tela di lino colorate, come ante apribili sia come protezione per le tavole. Nel corso del ‘500 è testimoniata anche l’adozione della canapa. Il cotone, come le fibre sintetiche, rientra tra i componenti delle tele pittoriche solo con la meccanizzazione ottocentesca della tessitura ed è generalmente destinato a prodotti economici di scarsa qualità e maggiormente soggetti al degrado. Per essere tessute, le fibre vanno prima di tutto filate – ovvero trasformate in un filo continuo che fino alla metà del ‘700 era ottenuto manualmente con l’arcolaio. Con la filatura le fibre sono ritorte per ottenere i filati e tale torsione può avvenire in senso orario o antiorario determinando al contempo la grossezza del filato, detta “titolazione”. I tessitori spesso lavoravano nel proprio domicilio, e la grandezza limitata dei telai condizionava anche le dimensioni dei tessuti, in genere non più larghi di un metro. Il lino veniva tessuto con una notevole varietà di intrecci – chiamati “armatura” – ottenuti dal filo continuo di trama passato attraverso i fili di ordito che erano fissati longitudinalmente sul telaio. L’armatura più semplice e comunemente usata era detta armatura tela, caratterizzata da un filo di trama che passava alternativamente sotto e sopra quello di ordito, ottenendo così un tessuto con la medesima armatura sia al dritto che al rovescio. Altre tipologie di armature erano l’armatura diagonale, dove il filo di trama passa una volta sopra e due volte sotto l’ordito, oppure procedendo alternativamente al contrario con la formazione di nervature oblique; variando il numero di fili disposti in diagonale si potevano ottenere anche armature più complesse come l’armatura a spina di pesce, con la contemporanea presenza di due armature diagonali nei due sensi opposti. Anche l’armatura a losanghe è una variazione complessa dell’armatura diagonale, combinata in quattro direzioni diverse disposte tra loro a zig-zag e componenti un rombo finale. Le tele con armature complesse garantivano ovviamente una resistenza all’usura notevolmente superiore. Si differenzia la tipologia della tessitura delle tele anche per densità, ossia per il numero dei fili di trama intrecciati con quelli di ordito per centimetro quadrato. 20x20 è una tela serrata, 12x12 è una tela normale, da 9x9 in giù è una tela rada. Le tele rinascimentali sono generalmente caratterizzate da una trama piuttosto serrata, mentre la trama rada viene osservata a partire dal XVII secolo, analogamente alla progressiva adozione di formati prestabiliti. I telai per tensionare le tele risultano fino al XVII secolo di tipo fisso: quattro regoli lignei più o meno sottili posti sul retro delle tele, lungo il perimetro delle quali venivano inchiodati. In caso di grandi tele potevano essere inserite una o più traverse orizzontali e/o verticali. Il telaio fisso viene progressivamente sostituito all’inizio dell’800 dal telaio mobile a chiave. Dai successivi esemplari di telaio ad archetto, o telaio a doppia chiave, si sono sviluppati i moderni telai a espansione controllata. Tele quattrocentesche a guazzo I più antichi reperti di pittura su tela risalgono al I-II sec. d.C. e si tratta di ritratti funerari provenienti dalla regione alessandrina del Fayum, posti sulle mummie egiziane e racchiuse nei sarcofagi. Essi sono eseguiti sia a tempera – con la gomma arabica come legante – sia a encausto – con la cena punica, ma in maggioranza si tratta di tavolette ricoperte di tela come in una versione di incamottatura, e dunque non possono essere considerate dei dipinti autonomi su tela. Per osservare l’utilizzo della sola tela in contesto funerario bisognerà aspettare il progressivo abbandono della 20 mummificazione (III-IV sec d.C.) e l’introduzione dell’uso dei sudari, tele dipinte con la raffigurazione del defunto a figura intera. Per tutta l’età medievale la tela fu utilizzata per l’esecuzione di stendardi, gonfaloni, vessilli e apparati effimeri per feste civili e religiose – su cui erano dipinte figurazioni dalla simbologia araldica e immagini devozionali. Eseguite su tela o seta, erano dipinte a tempera su un leggero strato di gesso e colla e poi verniciati per protezione. Le stoffe dipinte divennero nel corso del ‘400 molto ammirate in Italia e definite “panni fiandreschi”. Oggi più note con il termine tüchlein, erano sottili tela di lino di piccole dimensioni dipinte con i colori miscelati alla colla. L’assenza di strati preparatori rendeva la tela grezza molto assorbente e lo strato di colore notevolmente opaco e gessoso, sommandosi alla trama molto serrata in evidenza, costituiva il suo aspetto caratteristico di “pittura da stanza”. Il disegno era tratteggiato a carboncino e lo strato pittorico era unico. Tale tecnica, denominata in Italia a guazzo per indicare la natura acquosa del legante, riscosse particolare favore in Veneto, dove Andrea Mantegna ha dipinto un consistente numero di tele a guazzo. Il più antico dei guazzi da lui firmati è la Sant’Eufemia del 1454, mentre il più rinomato ma purtroppo molto alterato rispetto alla configurazione originaria è il ciclo dei Trionfi di Cesare. Quest’ultimo, ad armatura diagonale e intensità piuttosto rada, era un pregevole esempio di scenografia teatrale; durante un seicentesco trasporto in mare le tele furono annerite da uva addizionata con mercurio, ma i numerosi restauri lo hanno integrato con ritocchi a olio e infine verniciato, modificando completamente l’aspetto originario. Teleri e tele dipinte a olio Una tipologia di tela particolarmente pregiata erano le tele “di renso” o “rense”, dalla città di Reims, che subivano un procedimento di sbiancamento totale della fibra; dipinto su questo tipo di tela risulta essere il San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, nel 1470. In Italia settentrionale, e in Veneto in particolare, le tele sono estesamente adottate prima che altrove come decorazioni parietali di grandi dimensioni a causa del clima lagunare che impediva la conservazione dei dipinti murali; i primi due “teleri” veneziani conosciuti risalgono al 1466. In tale ambito, Vittore Carpaccio sembra divenire uno specialista nell’esecuzione dei teleri. Il suo primo ciclo, quello di Sant’Orsola (1490-98) è costituito da nove teleri le cui dimensioni considerevoli hanno condotto il pittore ad assemblare più tele cucite insieme, anche di armature diverse; quelli di maggiori dimensioni risultano avere armature diagonali o a spina di pesce, e tale scelta va correlata alle dimensioni ma anche all’impiego di pigmenti a olio. Ancora alla fine del ‘400 gli strati preparatori delle tele sono eseguiti con i medesimi materiali della pittura su tavola, che solo nel corso del ‘500 verranno progressivamente adattati all’elasticità del supporto tessile – sia assottigliandone lo spessore sia sostituendone i componenti. L’adozione di uno strato di bianco di piombo ad olio al posto di quello a gesso e colla, oltre ad evitare l’assorbimento dello strato pittorico da parte dello strato preparatorio facilitava l’arrotolamento delle tele su grossi rulli in legno per un agile trasferimento. Armenini (1586) consiglia di aggiungere alla preparazione oleosa a biacca anche piccole quantità di pigmenti per ottenere fondi lievemente colorati che fungano da imprimitura. Si distingue così la finalità cromatica e isolante dell’imprimitura da quella dalla preparazione volta a predisporre il 21 supporto per accogliere la pittura. I materiali per preparazione e imprimitura appaiono per esempio infatti diversificati nel Libro delle spese di Lorenzo Lotto. Prima di Lorenzo Lotto sono Giorgione e Tiziano a sviluppare la ricerca tonale caratteristica del cromatismo veneziano del ‘500. La produzione giorgionesca pervenuta testimonia una chiara predilezione per le tele fin dall’inizio della prima decade del ‘500, su cui l’artista dipinge sia ritratti sia i celebri paesaggi con figure – su cui realizza pitture ad olio “vivacissime e sfumate tanto, che non si scorgono ombre”. La luminosità del colore e la morbidezza della fusione cromatica rese possibile dalla tecnica a olio appaiono le principali caratteristiche della pittura di Tiziano, che seppe appunto sfruttare tutte le possibilità espressive di tale tecnica. Nell’Amor Sacro e Amor Profano osserviamo il viraggio subito dalla vegetazione dipinta in verderame, probabilmente a causa dell’umidità o di una pulitura aggressiva che ha danneggiato o eliminato uno strato di legante oleo- resinoso che avrebbe reso il verderame resinato di rame e impedito il viraggio; le alterazioni di tale pigmento venivano generalmente occultate con leggere stesure di bitume, come nel caso del dipinto di Tiziano. In alcuni campioni prelevati dai dipinti dell’artista si è osservata più volte la presenza di uno strato di olio siccativo tra due strati di colore, e questo stava certamente ad indicare una interruzione del lavoro – poiché l’esecuzione differita è una caratteristica della produzione del Tiziano giovane. L’artista giunge invece nella maturità ad una estrema semplificazione della tecnica pittorica, stendendo al massimo due strati di pennellate di colore al di sopra di un abbozzo direttamente eseguito sulla tela senza una traccia disegnativa, e utilizzando nei finimenti più le dita che i pennelli L’abbozzo compositivo, introdotto dagli artisti nei primi decenni del ‘500, è una tecnica di progettazione grafica che rappresenta una sorta di disegno dipinto – dove il colore viene impastato con quantità variabili di bianco e nero e applicato su una preparazione colorata. Le tele con imprimiture giallo e grige che Lotto prediligeva vengono adottate nello stesso periodo anche da Correggio, che però sotto all’imprimitura a olio di biacca e nero di carbone vegetale preferisce uno strato preparatorio di terre naturali brune. L’impiego di imprimiture a ocre rosse e brune diviene largamente consueto alla fine del ‘500, quando si assiste a una generale semplificazione della preparazione delle tele. Tintoretto adottò la pratica di articolare in tappe separate le esecuzioni dei suoi dipinti di enormi dimensioni, avviando il lavoro in bottega su teli separati, cucendoli poi in un momento successivo e dipingendone le finiture quando l’opera era posizionata nella sua collocazione definitiva. L’artista adotta una preparazione di terre rosse e brune che utilizza anche come fondo cromatico, in modo da semplificare il lavoro di congiunzione delle tele. Tecniche a olio su tela nel Seicento La pittura a olio su tela si arricchisce durante il ‘600 di una serie di innovazioni che riguardano sia supporti che i leganti pittorici. Le tele divengono infatti disponibili in dimensioni colossali grazie all’adozione di telai per arazzi e nascono i primi formati standard, tra cui le “tele da imperatore” – che facevano riferimento al ciclo di Tiziano degli Undici Imperatori romani del 1538, aventi un formato di circa 135x100cm. È inoltre testimoniato il fenomeno dei materiali pittorici venduti già pronti, anche in relazione alla coeva diffusione dei generi pittorici. 22 formazione nell’ambito della scenografia. Per questa ragione, il disegno preparatorio non era a spolvero ma a incisioni dirette – con righe e compasso nelle strutture architettoniche. Le sue vedute adottano nella maggior parte dei casi un punto di vista ideale, ossia più ampio della visione reale dei luoghi raffigurati. La preparazione risulta costituita da un doppio strato, il primo bruno e il secondo di colore chiaro, ma la colorazione degli strati preparatori risulta variata nelle architetture rispetto al cielo. La presenza del blu di Prussia, il primo pigmento sintetico inventato nel 1704, testimonia l’aggiornamento di Canaletto e del mercato artistico veneziano, la cui eccellenza dei pigmenti pittorici è largamente testimoniata. Giambattista Tiepolo adotta le consuete preparazioni a bolo veneziano dal colore rossiccio, risultato della miscela di ocre, terre, biacca e spesso anche minio e nero di carbone vegetale in legante oleoso. Tale preparazione, rispetto a quella seicentesca, era assai poco porosa e assorbente. Su tale preparazione erano spesso applicate delle imprimiture di colore più chiaro localizzate in corrispondenza delle tinte più delicate – azzurri e incarnati. Il cambiamento auspicato da Algarotti in favore delle preparazioni bianche, sebbene non accolto da Tiepolo, è viceversa ben esemplificato dai dipinti di Angelica Kauffmann, che testimoniano il progressivo abbandono delle preparazioni rossicce presenti nella produzione giovanile (es. Autoritratto come cantante, 1753), ma completamente assenti una ventina d’anni dopo e sostituite da bianco di piombo e calcite applicate a olio e colla. Nella produzione di Kauffmann troviamo anche l’utilizzo delle tele rade. L’adozione ormai sistematica di preparazioni bianche a base di biacca e calcite è ulteriormente testimoniata dai dipinti di Hayez, che nel corso degli anni passerà dalle imprimiture artigianali a quelle seriali addizionate con barite. La barite, terra naturale di colore bianco a base di solfato di bari, ha infatti la caratteristica di essere inerte e di non impartire la sua colorazione ai materiali cui viene miscelata – proprietà che la rese inadatta a sostituire il bianco di piombo. Il bianco di zinco, costituito da ossido di zinco e ottenuto sin dal 1782 era considerato l’alternativa migliore alla biacca perché immune dall’annerimento, ma risultava scarsamente coprente, con una tonalità più fredda, assai costoso e poco essiccativo a olio. Philip Hackert, primo pittore del re Ferdinando IV di Borbone, in una pubblicazione del 1787 criticò ferocemente la sciatteria degli artisti, soprattutto napoletani, sia nella scelta dei materiali sia per l’incapacità di restaurare i dipinti. Nello specifico veniva biasimata la consueta pratica di servirsi della chiara d’uovo come vernice, che creava un velo grigiastro che diventava durissimo da rimuovere, e proponeva come sostituto la vernice a mastice e acquaragia. La chiara d’uovo fu presto superata dalla vernice resinosa, e il suo successo fu favorito dall’espandersi del fenomeno delle esposizioni pubbliche – denominate vernissage appunto per la pratica di apporre uno strato di vernice per l’evento allestitivo. La vernice preferita divenne quella a base di mastice, in formulazioni molto varie. Prima di essere accantonata, la chiara d’uovo era stata il principale materiale protettivo usato durante ‘600 e ‘700, sia per i dipinti antichi appena restaurati sia per quelli appena terminati. Risulta ancora impiegata sistematicamente in Spagna nel 1800 grazie a una testimonianza di Goya. I pittori inglesi ritenevano generalmente la chiara d’uovo una protezione provvisoria per i dipinti finiti da troppo poco tempo per ospitare una vernice resinosa o per esposizioni temporanee. L’applicazione era generalmente condotta a spugna, e bisognava eliminarla dopo 12 mesi semplicemente con acqua; non periodicamente rinnovata e divenuta vecchia, la chiara d’uovo risulta però insolubile e molto difficile da rimuovere. Si consigliata l’addizione con zucchero candito o miele per renderla più elastica, più facilmente rimovibile e per prevenire le crettature. 25 Silvia Bordini ha condotto uno studio approfondito circa la produzione editoriale della manualistica tecnica nel corso del Settecento e dell’Ottocento: nel contesto della produzione industriale dei materiali artistici, tale produzione diveniva spesso un mezzo di divulgazione commerciale piuttosto che imparziale studio scientifico. Gli autori di trattati specialistici erano spesso o fabbricanti e venditori di vernici e colori o chimici coinvolti nei processi produttivi. Ritenere tale produzione manualistica come frutto e specchio delle sperimentazioni artistiche coeve equivale a utilizzare il listino degli smalti di Max Meyer per studiare il dripping di Pollock. La possibilità di attribuire ad ogni sostanza una formula chimica, che la caratterizzasse univocamente e consentisse al contempo la riproducibilità pressocché infinita al di là della reale disponibilità delle materie prime, è il segnale di un radicale cambiamento nei processi di produzione oltre che nel progresso delle conoscenze umane. L’introduzione dei materiali sintetici Alla gamma sempre più ampia di prodotti dai costi molto variabili a seconda della loro qualità, corrisponde un progressivo e inesorabile estraniamento degli artisti, e in particolare dei pittori, nei confronti dei mezzi materiali cui affidano la loro espressione estetica. La scarsa conoscenza delle fonti, male interpretate, e la produzione industriale sempre più invadente ostacolavano una reale consapevolezza del legame di causa effetto tra l’uso dei materiali scadenti o impropri e il degrado delle opere. Esemplare è il caso dei dipinti di Turner, che a causa dell’applicazione reiterata di vari strati di pittura e vernice senza attendere l’asciugatura di quelli sottostanti, insieme all’uso del megilp come legante, oggi presentano drammatiche crettature. Sebbene Nazareni tedeschi e Preraffaelliti inglesi proponessero lo studio e il ritorno alle tecniche dell’antica tradizione pittorica italiana tre-quattrocentesca, oramai i materiali – fabbricati industrialmente – erano irrimediabilmente modificati. La repentina alterazione dei materiali era molto comune nella seconda metà del’800, perché i fabbricanti aggiungevano spesso quantità rilevanti di siccativi, plastificanti, conservanti e cariche inerti al fine di uniformare il prodotto. Cominciarono inoltre ad essere proposti sul mercato una crescente quantità di pigmenti sintetici: le ricerche dei chimici si concentrarono primariamente sugli azzurri e sui verdi, nel primo caso per sostituire il costosissimo oltremare nel secondo per via della gamma di tonalità molto ristretta. Dopo il blu di Prussia (1704) nel 1802 si ottenne il blu di cobalto, migliore del primo per tonalità (azzurrino-violetta) e per compatibilità con il legante a olio. Dal 1806 divenne comunque possibile accedere all’oltremare artificiale grazie all’individuazione della formula chimica. Nel 1860 vi si aggiunse il blu ceruleo. Per quanto riguarda i verdi furono ottenuti il verde di Schweinfurt (1814) e il vert emeraude (1859). Gli studi sui composti del cromo condussero negli anni ’30 a ottenere una vasta gamma di pigmenti gialli, arancioni e rossi a base di cromato di piombo, molto intensi, coprenti e a un costo contenuto. Negli anni ‘40 vennero avviate le ricerche sui composti del cadmio. Una fondamentale conquista della chimica ottocentesca fu la produzione industriale di pigmenti violetti, fino ad allora inesistenti, come il violetto di cobalto e il violetto di manganese. Rimaneva però il fondamentale problema della sostituzione del bianco di piombo, che avvenne solamente nel 1916 con il bianco di titanio – il primo ad eguagliarlo in coprenza. 26 Scultura lignea (257-271) Tipologie di specie legnose e strumenti Tra le specie legnose maggiormente impiegate vi furono le latifoglie; la scelta era frutto della reperibilità e delle tradizioni di utilizzo e le specie maggiormente in uso in Italia fin dal Duecento furono il tiglio, il pioppo e il noce. La struttura del legno è composta da: tessitura (elementi cellulari fibrosi); fibratura (disposizione e allineamento delle cellule fibrose) e venatura (disegno formato dalla ripartizione dei tessuti legnosi in strati differenti). Il disegno della venatura risulta diversamente conformato a seconda delle tipologie di taglio, tangenziale o radiale. Poiché anche dopo l’abbattimento dell’albero il legno conservava la sua caratteristica igroscopicità (capacità di assorbire umidità) il tronco veniva liberato della corteccia esterna, ma anche degli strati legnosi adiacenti che contenevano cellule ancora viventi ricche di linfa; per la stessa ragione veniva eliminato anche il midollo. Lo strato legnoso più stabile è quello costituito dal durame, formatosi nel periodo di accrescimento più antico della pianta, mediante la formazione di anelli concentrici. Nelle specie legnose viventi, ogni anello equivale ad una stagione vegetativa annuale, che ha luogo dalla primavera all’estate. Il legno veniva preferibilmente ricavato da vecchi alberi (messi a stagionare) abbattuti nelle fasi quando minore o nulla è la risalita della linfa, ossia autunno/inverno, risultando più compatto e meno corruttibile. La più antica tecnica di taglio veniva eseguita a spacco, per poi essere sostituita dal taglio a sega e dall’inizio del Duecento dalla sega ad acqua. Per quanto riguarda la stagionatura, i trattatisti risultano avere differenti opinioni: Palladio parla di una stagionatura in acqua e argilla per trenta giorni; Baroni sostiene che la stagionatura durasse diversi anni; Perusini e altri riferiscono l’utilizzo di legno non stagionato immediatamente svuotati e messi a stagionare molto brevemente. Anche per quanto riguarda la figura professionale dello scultore del legno e sull’organizzazione delle botteghe le notizie sono limitate, nonostante la scultura del legno fosse la produzione artistica più rilevante diffusa nel medioevo. In una fonte si parla di un praticantato di circa sette anni, prima di essere considerati maestro. Gli attrezzi impiegati nella scultura lignea somigliano in qualche caso a quelli usati nella scultura lapidea, ma potevano essere meno affilati o appuntiti e maggiormente impiegati a mano libera. Baroni suddivide gli strumenti in due principali categorie: strumenti da sgrossatura – in cui comprende asce, seghe, pialle e scortecciatori, utilizzati nella fase preliminare di liberazione del tronco dalle parti non utilizzabili – e strumenti da intaglio. Policromie e dorature Nonostante alcuni statuti vietassero verso le metà del ‘200 la realizzazione di sculture in pezzi separati, le giunzioni erano comunemente adottate sia servendosi di perni lignei sia con un sistema di giunzioni a incastro. Inoltre, procedendo verso il ‘400 e affermandosi il tutto tondo, ove non si scelga di usare il tronco massiccio si modellano separatamente il fronte e il retro. Tutte le giunzioni e gli incastri risultavano alla fine invisibili perché ricoperti dalla policromia e/o dalla duratura. Per quanto riguarda l’applicazione del colore, questa dalla metà del ‘200 non è più eseguita dallo stesso artefice che aveva condotto l’intaglio; allo stesso tempo si ha testimonianza di pittori che lavorano al fianco degli intagliatori quanto di intagliatori che assumono anche l’appellativo di 27
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