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Stranieri familiari. Musulmani in Europa (XVI-XVIII secolo) - Lucette Valensi, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del libro della Valensi per l'esame di Storia Moderna

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 19/07/2021

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Scarica Stranieri familiari. Musulmani in Europa (XVI-XVIII secolo) - Lucette Valensi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! IL «Pulizia etnica» nel XVI e XVII secolo: la Penisola iberica Portogallo e Spagna hanno costruito la loro identità nello scontro con l'infedele. Il Portogallo raggiunse l’unità nel XIII secolo e cacciò Ebrei ce musulmani tra 1496-97. La Spagna invece nel 1391 obbligò gli Ebrei a conv ertirsi, per poi espellerli nel 1492, anno in cuivenne completata la Reconquista. Dopo repressioni e tentativi di conversione forzata, i musulmani vennero espulsi tra 1609-14. Gli studiosi di ieri, positivisti c oggettivisti, proibivano qualsiasi giudizio di merito e analizzavano in modo “distaccato” la questione, domandandosi l'utilità, le dimensioni e altro di questi provvedimenti. Gli studiosi più recenti invece, utilizzando un vocabolario estraneo al periodo (pogrom, soluzione finale), hanno giudicato negativamente la questione della repressione. Questo perché negli anni ”70 si è sviluppato un cambiamento nella storiografia che ha messo in luce la soggettività dei protagonisti, e quindi ha portato al centro degli studi le testimonianze dei musulmani che subirono la repressione. Gli studiosi oggi voglio non solo comprendere il peggio ma cercare anche di prevenirlo. La vecchia prospettiva oggettivistica è oggi considerata anacronistica, dato che le esperienze del XX hanno permesso agli storici di osservare con maggior acume le dinamiche della «pulizia etnica» nella Penisola iberica. Il Portogallo: primo regno cuistiano cpurato dalle sue minoranze religiose. Il Portogallo precedette la Spagna nella politica di unificazione religiosa, costringendo alla conversione gli Ebrei e cacciando i musulmani. Il mumero di questi ultimi calò col tempo, soprattutto dopo la riunificazione del XIII secolo, dirigendosi verso Castiglia e Granada. Poche e piccole comunità sopravvissero fino al XV secolo (l’esiguo numero li portò a richiedere di poter acquistare schiavi musulmani per liberarli e farli sposare ai figli). La loro organizzazione, simile a quella in Spagna, vide la formazione di quartieri separati con moschee, bagni e istituzioni proprie. La loro espulsione (si diressero in Nordafrica o in Castiglia) venne decisa da Manuele I (si sarebbe poi vantato di essere il primo regno unito religiosamente) nel 1496-97, insieme a quella degli Ebrei, a cui vennero confiscati i beni. A Lisbona rimasero alcune famiglie di convertiti che vennero sempre guardate con sospetto. Nel frattempo, si sviluppò un muovo flusso di «turchi» (nordafricani) vero il Portogallo nel primo terzo del XVI secolo, che si spostavano per ‘motivi economici o politici, o che venivano catturati durante azioni corsare. Una parte di questi immigrati si convertì al cristianesimo. Con la fonazione nel 1536 dell’Inquisizione in Portogallo, le indagini si concentrarono subito sui musulmani (0 ex): molti convertiti si scoprì che non conoscevano le preghiere e le festività, non parlavano bene la lingua, usavano l’arabo, praticavano l'endogamia e mangiavano una volta al giorno. Tutte queste caratteristiche li rendeva differenti dai «vecchi cristiani». Dopo il 1560 a Lisbona non si trovarono più musulmani, a causa sia dell’assorbimento tra i locali che per l'estirpazione voluta dai re. In Spagna: un secolo di comivenza couflittuale e di persecuzioni. A differenza del suo vicino, l'unificazione della Spagna impiegò alcuni secoli per essere completata: i re spagnoli governavano su una monarchia composita che includeva Castiglia, Navarra, Aragona (Catalogna - Valencia - Murcia), Granada e per un periodo anche il Portogallo. Il re di Spagna aveva anche dominio su Sicilia, Napoli, Paesi Bassi, Sardegna, Milano, Franca Contea e una serie di presidi sulle coste marocchine (Reggenza di Algeri). Grazie alle ricchezze delle sue colonie la Spagna si erse come principale potenza europea (militarmente, politicamente e culturalmente) durante il suo «siglo de oro» (1525-1650). La Spagna, fortezza religiosa cristiana, era vista come la potenza che si opponeva all'avanzata dell'Impero ottomano, che giunse di fronte alle sue coste con le reggenze di Tuwisi e Algeri. Il re spagnolo era dalla conquista di Granada detto «Re cattolico», la cui missione fu, tra le altre, di difesa dell'unità religiosa: compito che Carlo V, Filippo II e III attuarono rigorosamente. Con gli Ebrei espulsi, rimanevano le comunità musulmane delle varie regioni, che non formavano un fronte omogeneo ma eterogeneo anche al loro intemo. L'islam si era imposto nella Penisola iberica nell'VIII secolo, per poi retrocedere nel tempo di fronte alla Reconquista, il cui culmine fu tra XII-XIII secolo (completata poi nel 1492). La popolazione musulmana sottomessa in parte emigrò c in parte rimase, venendo lentamente assimilata e formando le comunità di 1mudéjares, con proprie istituzioni. Queste comunità erano sempre una minoranza, con la eccezione di Granada, dove avevano potuto conservare beni, libertà di movimento e istituzioni religiose proprie. Nelle città si crearono quartieri separati, detti morerias, dove conservarono i propri giudici, giurati c personalità religiose. Tuttavia i musulmani subirono discriminazioni: pagavano una tassa aggiuntiva, non esercitavano alcune professioni, portavano un segno distintivo, erano osteggiati i rapporti inter-religionari e venivano sempre guardati con sospetto (stesse misure e atteggiamenti si crearono nel Regno di Valencia, dove vi era la seconda più grande comunità islamica, che venne in paste protetta dai signori, che volevano tenere la manodopera contadina musulmana ed erano ostili ai tentativi di centralizzazione della corona). Nel 1499 scoppiarono una serie di rivolte, prima a Granada e poi in altre zone, dopo che l'arcivescovo di Toledo, Cisneros, sistematizzò le pratiche di repressione islamiche. Dopo averle sedate violentemente, la corona richiese l'emigrazione o la conversione. I rappresentanti dei mudéjares scelsero la conversione e ottennero un periodo di transizione in cui sarebbero stati educati al cristianesimo (salvandosi dalla persecuzione). Una seconda ondata di conversioni forzate divampo tra 1521-23 in Aragona, dove l'ostilità verso i mudéjares scoppiò sia a causa dei continui attacchi barbareschi che per le attese millenaristiche di riunificazione religiosa. Le comunità di città e campagna vennero costrette a convertirsi e parte dei musulmani fuggirono verso le montagne o il Nordafrica, soprattutto dopo il regio decreto del 4 aprile 1524 con cui si obbligava i musulmani a battezzarsi. Carlo V convalidò nel 1525 le conversioni forzate e chiese che fossero imposte in Valencia e Aragona, insieme ad altre misure che reprimevano usi e costumi islamici. Formalmente la popolazione islamica scomparve, e i nuovi convertiti vennero chiamati prima «muovi cristiani» (per differenziarli dai couversos prima ebraici) e poi moriscos, il cui numero si aggirava tra 350-400.000. Ora si rendeva necessaria la loro integrazione. Si sviluppò una tregua di una quarantina d’anni grazie agli accordi ra autorità politiche e consigli municipali delle comunità di moriscos (2/22225), che mediavano continuamente per evitare nuove persecuzioni. Venne contestualmente sviluppata una campagna di evangelizzazione: moltiplicazione delle parrocchie - catechismi in lingua araba - organizzazione religiosa locale per insegnare le preghiere - istruzione dei bambini in Collegi speciali (per separarli dall'ambiente d'origine e forgiare un dero indigeno). L'integrazione religiosa e sociale però fallì. Un motivo fu la scarsità di personale preposto all’opera di evangelizzazione, wita alla resistenza dei moriscos, che mantennero clandestinamente le proprie strutture di élite lniche e religiose. Altro motivo fu la separazione fisica dai vecchi cristiani coni regolamenti per la Limpieza de sangre, che vietavano matrimoni misti e impedivano ai moriscos di occupare cariche pubbliche e istituzionali. Aggiungendovi anche la diffidenza dei vecchi cristiani, la distanza tra questi e i moriscos si fece sempre più marcata e alla fine molti di questi decisero di emigrare, chi in Nordafrica e chi verso Nord. Grazie ai documenti dell’Inquisizione sappiamo le pratiche islamiche dell’epoca: religiose (circoncisione, riali funebri, digiuno, sacrifici animali, abluzioni e preghiera collettiva, insegnamento della tradizione religiosa) - sociali (uso dei bagni, fedeltà ai costumi di origine, nomi arabi cristianizzati) - anticattoliche (assenza di crocifissi, rifiuto di maiale, vino, rispetto dei gioni di magra e della messa) - stretti contatti con il mondo maghrebino (emigrazioni e continui spostamenti). Queste pratiche però non erano una costante e soprattutto difficilmente si ritrovavano nelle zone in cuii moriscos erano talmente pochi da non poter creare comunità separate (soprattutto in Castiglia). I moriscos furono però sempre considerati una minaccia, soprattutto dall'Inquisizione, che introdusse una stretta sorveglianza: il Sant'Uffizio divise il paese in settori che annualmente dovevano fare rapporto e dove vi erano presenti agenti che controllavano in modo discreto i moriscos. Periodicamente erano inviati inquisitori che raccoglievano denunce e in caso di crimini lievi li punivano direttamente, mentre per i crimini gravi si veniva imprigionati, interrogati (e torturati) e puniti (previo sequestro dei beni). Le sentenze ai condannati erano rese pubbliche durante le cerimonie dette autodafè. Era presente anche una rete di persone che faceva pressioni per ottenere demunce di parenti e vicini, portando alla lacerazione del tessuto sociale. L'ordine imposto con queste lacerazioni era di natura politica: il capo dell’Inquisizione era il sovrano e il Sant'Uffizio era sostenuto anche da contributi reali (oltre che dalle confische). Per il re la resistenza dei moriscos e i loro rapporti con il nemico erano crimini politici. Ovviamente così come i moriscos erano un gruppo eterogeneo, anche i vecchi cristiani lo erano: se alami erano apertamente ostili altri invece si mossero in difesa dei moriscos, in nome della pace sociale e della carità cristiana. Il periodo di relativa tranquillità per i moriscos terminò negli anni 60 del XVI secolo, visti l'insuccesso di integrazione e le crescenti ostilità con gli Ottomani. Nel 1563 un decreto regio impose il disarmo dei moriscos. Il sinodo del 1565 impose una più dura applicazione delle restrizioni. Il decreto regio del 1567 vietava ai moriscos di parlare arabo, possedere testi in arabo, suonare musica moresca, frequentare i bagni e tenere sempre le porte aperte per poter controllare il rispetto dei divieti, che non erano muovi ma la cui applicazione fu più dura. 1568-70: la rivolta delle Alpujarras. Le prime deportazioni. Il decreto del 1567 costrinse nuovamente i moriscos a spogliarsi della propria identità, portando prima la paura, poi la protesta argomentata ed infine la ribellione, iniziata a fine 1568 e repressa nel dicembre 1570 da don Giovanni d'Austria alla guida di 20.000 soldati. La rivolta scoppiò contemporancamente in più focolai in tutta Granada, soprattutto sulle montagne (popolazione quasi tutta di moriscos), mentre attecchì poco nelle campagne e ancora meno nelle città. Inizialmente i rivoltosi ebbero la meglio, conoscendo il terreno, ma nel maggio 1570, quando onmai il destino sembrava segnato, molti deposero le armi o fuggirono in Nordafrica. Dal 1° novembre 1570 iniziò la deportazione in massa dei moriscos, che vennero sparpagliati per tutta la Castiglia. Finite le operazioni il 20 dicembre, il conteggio fu di 50.000 deportati da Granada, dove vi rimasero solo 10.000 moriscos. La deportazione dei granadinos ebbe pesanti effetti sulla popolazione andalusa (molto diminuita) e sui moriscos stessi, che si videro divisi e che vennero guardati con circospezione sia dai vecchi cristiani che dai muovi. Per alcuni moriscos acculturati, questa repressione significò il ritomo alle vecchie tradizioni islamiche e la nascita di una speranza di avanzata ottomana per liberarli. Una nuova ondata repressiva si ebbe negli anni "80, momento in cui la monarchia si trovava a combattere nei Paesi Bassi, contro i protestanti del Béarn e in Portogallo (da poco wificato alla Spagna). In questo conteso alcuni moriscos presero contatto con protestanti e Turchi, cospirando di aiutare uno sbarco dal Nordafrica. Di fronte ai sospetti di una nuova sollevazione, Inquisizione e governo strinsero le maglie della IL «Esilio occidentale» e ampie alleanze In questo capitolo sono presentati casi di musulmani che trovarono asilo politico presso sovrani cristiani, spesso scappando anche dai propri correligionari e trovando sempre nel mondo cristiano un rifugio, soprattutto per i principi. Onore ai signori: Cem Sultan. Il primo personaggio presentato è Cem Sultan, su qui abbiamo abbondante ‘materiale in ragione delle sue peregrinazioni in terre cristiane, del suo lungo esilio, dei suoi incontri coni «grandi» e dell’azione diplomatica in Europa in contatto con il sultano. Prima è utile fornire una cronaca dei suoi avvenimenti. Alla morte di Mehmed nel 1481 gli successe il figlio Bayezid II, di 34 anni, mentre l'altro figlio Cem, govematore di Konya, si proclamò a sua volta sultano. Nello scontro del 22 giugno 1481 Cem uscì sconfitto e riparò in Egitto, dove chiese inutilmente sostegno al sultano mamelucco, conducendo poi una seconda campagna contro il fratello nel 1482, che terminò con un fallimento, costringendolo a riparare a Rodi a luglio. Venne allontanato dai Cavalieri a settembre, dopo le minacce di attacco da parte di Bayezid, e portato a Nizza, dove rimase per 4 mesi sotto la custodia dei Cavalieri. Venne poi trasferito in Savoia ed in seguito nel Limosino, dove vi rimase tra 1484-88. La sua presenza in Europa fece partire una sorta di gara tra i sovrani per prenderlo in custodia per cercare di garantirsi possibili vantaggi futuri in caso fosse divenuto sultano, con l'eccezione di Venezia, che rassicurò Bayezid II che non sarebbero intervenuti a favore dell’esule. Tra settembre 1482 e aprile 1483 i Cavalieri stipularono una pace con Bayezid II insieme ad un accordo su Cem, impegnandosi ad impedirgli qualsiasi azione contro il sultano in cambio di 40.000 ducati. In seguito, con la promessa di elezione a cardinale del Gran maestro, contrattarono la consegna di Cem al papa. Temendo il ritomo di Cem, il sultano continuò a tenersi informato. Un piano di Cem prevedeva di dirigersi in Ungheria da re Mattia I, ma i suoi messi vennero eliminati dai Cavalieri e lo isolarono ancora di più spostando i suoi collaboratori a Rodi, sventando il piano, in ossequio al trattato con il sultano. Dopo lunghe trattative con il papa, il re francese acconsentì a consegnarli il principe, che partì nel novembre 1488 e giunse a Roma nel marzo 1489. L'anno seguente Bayezid inviò una richiesta di rinnovo del contratto per il suo controllo. Nel 1492, con la salita al soglio pontificio di Alessandro VI, Ceminiziò a godere di maggiori libertà e nuove prospettive gli si aprirono con la calata di Carlo VIII in Italia, che progettava una spedizione a Costantinopoli. Alessandro VI di fronte all’invasione chiese aiuto economico al sultano, che chiese in cambio l'esecuzione del fratello, che però venne liberato da Carlo VIII il 27 gennaio 1495, portandoselo a Napoli, dove morì il mese dopo a 35 anni. I suoi figli vennero giustiziati nel 1522, quando Solimano prese Rodi. Di fronte a questi avvenimenti possiamo fare alcune osservazioni, la prima delle quali è quella che nella vicenda il pragmatismo dei sovrani superò l'ideologia della guerra santa: tutti i protagonisti non disdegnarono di cercare accordi con l’infedele per perseguire propri interessi personali o di stato (persino il papa, che arrivò a chiedere finanziamenti al sultano). Una seconda osservazione riguarda i suoi spostamenti e contatti. Dopo l'esilio, soggiornò in diversi luoghi: Rodi, Sicilia, Villafranca, Nizza, Delfinato, Savoia, Alvemia, Limosino, Civitavecchia, Roma e Napoli. Durante questi soggiorni il suo seguito di circa 50 persone (musulmane) si fece sempre più esile, mentre entrò in contatto con numerose personalità cristiane (tra cui i figli del papa Alessandro VI, il duca Carlo I di Savoia, i cavalieri che lo scortarono per gran parte del suo esilio, un notabile genovese a Nizza). Secondo il libro di un suo compagno di viaggio, il Libro dell'esilio di Cem Sultan, Cem avrebbe imparato la lingua franca e avrebbe difeso l'islam in una controversia religiosa, mentre negli Elogi degli nonuui illustri Paolo Giovio riporta un giudizio negativo di Cem delle tenzoni, a qui preferiva i combattimenti tra schiavi dell'Impero ottomano. Altri cristiani videro l’esule da lontano, mentre altri ancora lo osservarono in tutte le processioni di cui era protagonista ogni volta che giungeva in un muovo luogo e nei banchetti a cui veniva invitato (occasione per i cristiani di entrare in contatto con dei musulmani). È interessante soffermarsi sul suo arrivo a Roma il 13 marzo 1489 presso Porta Portese, dove fu accolto dall'ambasciatore egiziano e i suoi collaboratori, che gli si prostrarono davanti, e poi dai rappresentanti delle case cardinalizie, che gli fecero un discorso di benvenuto. Il corteo entrò in città ordinato nel seguente modo: squadrone di cavalleria pontificia - case dei cardinali - cavalieri francesi (che avevano accompagnato Cem) - seguito del principe - scudieri del papa - senatore di Roma - serventi d'armi - messaggero francese - chierici e loro maestro - interprete del principe - Cem con a destra il figlio del papa e a sinistra il priore di Alvermnia (nipote del Gran maestro) - ambasciatore di Franca - nipote del Gran maestro - ambasciatore d'Egitto - squadrone di cavalleria pontificia. A_questa seguirono altre cerimonie, di cui due più importanti: 14 marzo (ricevimento pubblico di Cem del papa) e 17 marzo (ricevimento privato). Dopo l’arrivo di Cem giunsero altri musulmani nei paesi cristiani: gli emissari di Bayezid II, che voleva controllare il fratello e spingere i sovrani a controllarlo, eliminarlo o inviarlo da lui per conto suo; emissari che vennero accolti con cerimonie simili a quella descritta prima. La sua immagine compare sia negli scritti che descrivevano le più grandi processioni del tempo (come quelli di Caoursin e Giovanni Burcardo) e sia in diverse rappresentazioni artistiche, tra cui un Ritratto di Zizim di Cristofano dell’Altissimo e il ritratto fatto da Pinturicchio, ancora oggi visibile nella Biblioteca Piccolomini della cattedrale di Sicna. Ai racconti e rappresentazioni seguirono le leggende, come quella di Evliya Celebi, che affermava di essersi recato in Francia durante i suoi lunghi viaggi e aver qui scoperto che il corpo inviato a Bayezid II non era quello di Cem, nipote del re per via di nonna e quindi risparmiato (notiamo che questo legame inventato permetteva di trasformate l'alleanza politica franco-ottomana in alleanza matrimoniale e permetteva quindi di giustificare la precedenza dell’ambasciatore francese rispetto a quelli musulmani e persiani a corte). Tunisi e gli ultimi esponenti della dinastia degli Hafsidi. Il prossimo personaggio trattato è invece il sultano di Tunisi Mulay Hassan, appartenente alla dinastia degli Hafsidi, che regnavano sulla Tunisia e patte dell'Algeria dal XIII secolo. Salito al potere nel 1526, dovette continuamente combattere contro i familiari che desideravano il potere. Venne spodestato da Barbarossa nel 1534, che lo tradì dopo averlo aiutato contro il fratello Rachid, per prendere il controllo della città, che divenne una vassalla turca. Mulay allora chiese aiuto a Carlo V, che prese La Goletta ed in seguito Tunisi il 21 luglio, costringendo Barbarossa alla ritirata. Rimesso sul trono nonostante la sua impopolarità, Mulay cedette agli spagnoli La Goletta e divenne vassallo di Carlo V, promettendo il versamento di un tributo. Nel 1542 il figlio Mulay Hamida spodestò il padre dopo averlo accecato, che si rifugiò in Sardegna, a Napoli, Roma e infine ad Augusta, presso Carlo V. Morì nel 1549 senza aver ripreso il potere. Tunisi invece venne riconquistata da don Giovanni d'Austria nel 1573, dove Mulay Hamida venne cacciato, sostituto con il fratello Mulay Hamed, che a sua volta venne cacciato dai Turchi l’anno seguente. Le azioni di Carlo Ve Filippo II nei confronti di Tmisi vanno lette nell'ottica di spirito crociato che guidò i due sovrani nello scontro con il mondo musulmano e va sottolineato che il sostegno dato a Mulay Hassan era puramente interessato. Ma più interessante è notare come li e la sua dinastia preferì allearsi all’infedele e addinittura essere un suo vassallo piuttosto che sottomettersi alla Mezzaluna. Ogni volta che venne detronizzato trovò un posto sicuro presso i cristiani e in particolare presso Carlo V, mostrando come per i principi musulmani la strategia più sicura fosse il soggiorno nella Cristianità. Osserviamo anche che i suoi avversari furono solo musulmani. La sua presenza in Europa fu rilevata e commentata ampiamente da Paolo Giovio, del Bandello e Montaigne, mentre la sua immagine venne riprodotta più volte da van der Horst, Paul Pontius e Rubens. Mulay Hassan provocò due effetti contradditori tra i cristiani. Innanzitutto, venne rimarcata la diversità di fisico, abbigliamento, abitudini alimentari, maniere a tavola. Questi ultimi due furono descritti da Antoine de Pemin, che descrisse gli strani modi degli stranieri a tavole, senza però giudicare, cosa che invece si fece nelle rappresentazioni di questa scena, che volevano rimarcare la differenza tra cattive e buone maniere. L'altro effetto provocato fu quello di andare incontro allo straniero: il figlio del papa un giorno, uscendo con il sultano, si vestì alla sua maniera, mentre il conte de Tassis, che lo ospitò a Bruxelles, si fece ritrarre in abiti identici a quelli dell'ospite. Questi comportamenti possono essere visti quasi come un comportamento cosmopolitico. In Marocco: Sa'didi, Spaguoli e Portoghesi. Il protagonista ora è un membro della dinastia dei Sa'didi, Muhammad al-Mutawakkil, che prese il potere alla morte del padre, non rispettando la successione che sarebbe spettata allo zio Mulay ‘Abd al-Malik. Questi si diresse a Istanbul dove ottenne sostegno per la sua causa (dopo aver ricevuto i no di Portogallo e Spagna) e prese il potere nel 1576. A-Mutawakkil cercò sostegno nella penisola iberica, ricevendo il sostegno di re Sebastiano del Portogallo, che nel 1578 allestì e guidò una spedizione che culminò nella battaglia dei Tre Re, il 4 agosto, dove trovarono la morte Sebastiano, Al-Mutawakkil e al-Malik. Il sultanato passò nelle mani del sa'dide Ahmad al-Mansur. AI -Mutawakkil aveva un fratello, al-Nasr, e un figlio, al-Shaykh, che trovarono rifugio in Portogallo presso re Enrico (zio di Sebastiano) prima e Filippo Il poi. Nel 1589 vennero trasferiti in Andalusia: il primo a Utrera e il secondo a Carmona. Al-Nasr, spinto dai contatti in Marocco, decise di tomarsi nell'aprile 1595, dove vi trovò la morte l’anno seguente. Questi non furono i primi marocchini ospitati in Iberia. A “precederli” fu Abu Hasun, spodestato nel 1526 e costretto a rifugiarsi presso i portoghesi, che lo riposero sul trono nel 1554. Venne poi spodestato dai Sa'didi. Non solo i principi trovavano ospitalità presso i cristiani, ma anche i collaboratori: come il cadi Sidi “Abd al-Karim ibn Tuda, fedele di al Mutawakkil, che trovò rifugio in Portogallo per tutta la vita. L’emiro druso Fakhr ak-Din IL Il quasto personaggio trattato è un membro della dinastia dei Ma'an, che dopo la conquista di Solimano del Libano si era vista assegnare da lui la regione dello Shuf, su qui aveva governato in precedenza. La zona era popolata dai drusi, popolazione musulmana la cui dottrina derivava da quella sciita. Il principe Fakhr al-Din II, della dinastia Ma'an, portò avanti una abile politica di matrimo ed alleanze che gli permisero di estendere i suoi domini a Sidone, Beirut (1593) e Safed (1602). Nel 1606 si alleò con l'usurpatore della provincia di Aleppo Ali Pascià Gianbulad, contro cui venne inviato n esercito ottomano, sconfitto dagli alleati. Il granduca di Toscana Ferdinando I nel 1608 strinse un'alleanza con l’emiro, che prevedeva una fornitura di armi e sostegno militare contro il sultano, in cambio di futuri privilegi commerciali e di controllo dei Luoghi santi. Nel 1613 contro l’emiro si scagliò il govematore di Damasco. Per non apparire come ribelle, lasciò il potere a fratello e figlio e si rifugiò in Toscana e a Napoli. Quattro anni dopo il govematore a lui ostile venne strangolato e decise quindi di rientrare in Libano nel 1618, dove riguadagnò i territori perduti. Venne anche nominato sultano delle province arabe, di cui doveva garantire la riscossione delle imposte. Attraversando i suoi domini con l’esercito, lo rimise in sesto. Nel 1623 scrisse a Sicilia, Roma e Toscana per chiedere aiuto nel ritagliarsi un impero, garantendo la libestà della Terra Santa. Nel 1633 gli venne mandato contro il governatore di Damasco che prima sconfisse il figlio e poi prese la sua capitale, costringendo Fakhr al-Din a fuggire sulle montagne, dove venne catturato nel 1635, inviato a Istanbul e giustiziato. Ciò che a noi interessa sono i 5 anni passati in Italia. Giunse in Toscana con un seguito di 35 persone. Inizialmente si stabilì a Livorno, poi si spostò a Firenze (previo stop a Pisa), dove esplorò la città e le usanze locali, spingendosi anche nei dintomi della città (durante questo soggiomo entrò in contatto con la stampa, che esportò in Libano). Nel 1614 giunse in Toscana una personalità drusa seguita da 28 uomini, che assicurò la fedeltà del popolo a lui e permise ai cristiani di osservare altri stranieri. Nel 1615 ricevette l'invito del viceré di Sicilia, che accettò. Si diresse a Messina, passando per Napoli. Fece anche una breve visita a Malta. In seguito si trasferì a Palermo per un anno. La sua presenza suscitò curiosità tra il popolo, una curiosità che portò anche ad un incidente: le donne musulmane erano state tenute nascoste tutto il tempo nelle mura domestiche, ma in una giornata calda queste si erano portate su una terrazza senza veli, attirando la curiosità dei locali e causando un mini-scandalo. Nuovo esilio nel XIX secolo. Se i personaggi precedentemente descritti appartenevano al mondo in cui l'islam era in picna avanzata, l’ultimo invece fa parte di un mondo in cui sono le potenze europee in piena espansione. Il protagonista è Husayn Dey, capo del governo di Algeri spodestato dalla Francia nel 1830, che rifiutando l'accoglienza a Parigi (per essere controllato) andò in esilio a Napoli, dove al suo amrivo, il 31 luglio 1830, trovò ‘una folla di curiosi ad accoglierlo. Nei 3 mesi di soggiorno visitò la città e il re delle Due Sicilie. Ad ottobre si trasferì a Livorno, ospite di Bacri e Busnach, due suoi collaboratori in Algeria, anche qui trovando ad accoglierlo una folla di curiosi. Durante il soggiomo visitò Pisa e Firenze, per poi trasferirsi tra agosto e settembre 1831 a Parigi e successivamente a Genova. Covando sempre il sogno di tornare in Algeria, si spostò a Nizza dove attese per due mesi un momento propizio che non giunse mai. Nel settembre 1833, rinunciando a rientrare in Algeria si diresse in Egitto, dove morì nel 1838. Come abbiamo potuto osservare dai primi 4 esempi, i regnanti musulmani mai disdegnarono trovare rifugio presso i sovrani cristiani e spesso si fecero aiutare direttamente per tomare al potere, anche a costo di sottomissioni o cessioni territoriali (che ai sovrani cristiani facevano gola, spingendoli ad accogliere a braccia aperte questi esuli). I rifugiati più recenti però spesso si rifugiarono in un Europa in cui probabilmente non avrebbero trovato altri aiuti per riprendere il potere. Quindi la migrazione verso l'Europa rimase sempre una meta preferibile rispetto ad altri luoghi musulmani. II Abiurare la propria fede A differenza degli esempi riportati nel primo capitolo, i quali nonostante l'ospitalità infamante presso i cattolici non si convertirono mai, quelli in questo capitolo sono invece esempi di individui convertitisi al cristianesimo. Dal Marocco alla Peuisola iberica. 1539: tre marocchini si presentano ad Asilah, presidio portoghese, per convertirsi al cristianesimo. Uno di loro si pentì e torno indictro, gli altri due raggiunsero il Portogallo, 1541: un cavaliere marocchino si rifugia presso la portoghese Safi dopo esser stato sconfitto da tribù locali, affermando di volersi convertire (per provare la buona fede diede informazioni sull’entroterra). 1564: gli ultimi discendenti dei Merinidi, spodestati dai Sa'didi, si trasferiscono in Spagna e si convertono. 1569-70: rivolta dei moriscos, molti dei quali fuggirono in Marocco; accolti con ostilità, ritornano in Spagna e si convertono. 1573: spagnoli si preparano a convertire moglie e figlio del re di Fes. 1575: il figlio del governatore di Vélez si converte e prende il nome di don Juan di Castiglia (viene inviato in Navarra, per allontanarlo dalle influenze islamiche ed evitare una sua riconversione). 1578: dopo la battaglia dei Tre Re, Mulay al-Nasr (fratello del sultano sconfitto) e Mulay al-Shaykh (figlio del sultano sconfitto) si rifugiano in Portogallo sotto Enrico. Con l'avvento di Filippo II in Portogallo, vengono portati in Spagna nel 1589. Il primo tentò di tornare in Marocco, morendovi nel 1595. Il secondo restò in Spagna e si convertì (si parlò di una conversione miracolosa, in quanto al-Shaykh, assistendo al pellegrinaggio annuale della Madonna della Cabeza, decise, per curiosità, di unirsi alla folla ed entrò nella chiesa, dove assistette allo spettacolo della Vergine svelata, che lo fece emozionare talmente tanto che decise l'immediata conversione). Venne battezzato il 3 novembre 1593 nella cappella reale dell’Escorial, in presenza di Filippo II (padrino), e prese il nome di principe Felipe d’Africa (o don Felipe Xariffe, per ricordare la discendenza da Maometto). Ottenne il titolo di cavaliere dell'Ordine di San Giacomo e di grande di Spagna (maggior titolo aristocratico). Visse per 13 anni in un palazzo di Madrid, possedendo un fondo che gli fruttava 12.000 ducati e ricevendo una pensione reale. Nel 1599 partecipò al matrimonio di Filippo III. Ai primi del “600, con la rendita versata con irregolarità e probabilmente anche a causa del clima anti-islamico di quegli anni, partì di sua spontanea volontà verso l’Italia, per incontrare il papa, che gli diede la benedizione. Si recò in seguito a Milano dove rimase fino al 1612, quando si spostò a Vigevano. Morì nel 1621 e lasciò una parte dell'eredità alla figlia illegittima Josefa d'Africa (monaca) e l'altra alla cattedrale di Vigevano. Non si sa se col tempo i suoi propositi di cavallo dalla casa, con un turbante addosso; giunto alla chiesa venne sparata una salva d'artiglieria; il Gran maestro lo accolse insieme a un cavaliere dell'ordine che rappresentava la regina delle Due Sicilie (sua madrina); il principe cambiò l'abito rosso con uno di seta bianco sfarzosamente decorato; recitò il Credo e dichiarò la propria fede alla nuova dottrina: dopo le domande fattegli dal sacerdote, venne battezzato; terminato questo il prindpe si diresse in corteo fino alla residenza del Gran maestro in cui si celebrò un banchetto; la sera venne esplosa unfaltra salva e vennero illuminati tutti gli edifici dell’isola. In questo racconto troviamo gli clementi principali di tutte le cerimonie del rito di passaggio: l'isolamento preventivo, in cui gli viene impartita una veloce istruzione religiosa, seguita dalla elaborata cerimonia il cui momento finale, il battesimo, rappresenta la rinascita del convertito, che prende il nome dal padrino e da una personalità religiosa, cambia gli abiti ed è previsto che cambierà lingua (latino e quella del paese in cui è battezzato). Una cerimonia simile, ma meno solenne, accompagnava il ritorno all’islam del pentito: esposto pubblicamente, gli venivano poi cambiati gli abiti e tagliati barba e capelli, dopodiché riprendeva il suo vecchio nome musulmano e la lingua araba (come accadde a don Filippo tornato a Tunisi). Cambiando la prospettiva dal neofita a quella delle autorità, possiamo vedere come per queste le conversioni fossero elemento di propaganda: ogni conversione significava una vittoria sull’islam, a cui era stata strappata un'anima e anche idealmente un pezzo di terra, se i neofiti cerano principi (che quindi conservavano la loro titolatura e si sperava potessero riprendere il potere, strappando in modo effettivo un pezzo di terra all’islam). La propaganda per queste “vittorie” si esprimeva in due modi: il primo era quello della cerimonia pubblica (come prima descritta) e il secondo era quello degli scritti, sia i libelli che celebravano la conversione che le opere scritte in seguito, in cui si aggiungevano elementi soprannaturali che spinsero alla conversione e in cui si celebravano le incredibili (e spesso inventate) capacità dei neofiti. Di fronte a queste celebrazioni, stride il comportamento tenuto contro i moriscos, cacciati a inizio ‘600. IV. Schiaviinterra cristiana L’Europa mediterranea era piena di mercati di schiavi. Per quanto riguarda le coste nordafricane islamiche, i ‘mercati furono presenti fino al XIX secolo, dove vi affluivano sia gli schiavi catturati nell'Africa subsahariana che quelli catturati nelle avanzate dell'Impero ottomano a nord (da Caucaso, Russia, Moldavia e Balcani), senza dimenticare anche quelli catturati in mare o nei conflitti con le potenze dell'altra sponda mediterranea. Benché fino a poco tempo fa si volesse non credere alla loro presenza, anche in Europa i mercati di schiavi erano presenti così come la schiavitù (l'unico paese in cui non erano presenti mercati di schiavi era la Francia): si stima che circa 1,5-2 milioni schiavi (perlopiù musulmani) vissero in Europa tra XV-XIX secolo. Caccia all'uomo: via terra. La modalità più costante di ridurre in schiavitù era la caccia della «selvaggina» via terra © mare, puntando soprattutto ai giovani c agli uomini, non disdegnando comunque donne e bambini. Vi erano anche casi estremi di schiavitù volontaria, come quella scatenatasi in Marocco tra 1521-22: a causa di una carestia congiunta alla peste, la popolazione, non riuscendo più a sostentarsi, iniziò a vendere i propri familiari, i propri vicini o a emigrare volontariamente verso i Paesi cristiani, soprattutto il Portogallo, dove speravano di trovare condizioni di vita migliore ma dove invece vennero resi schiavi. Eventi del genere erano sicuramente diffusi su tutte le coste del Mediterraneo nei momenti di maggior difficoltà economica. Uno dei metodi più particolare di caccia agli schiavi è quello che troviamo in Marocco, dove le tribù dci così detti «mori di pace» (in opposizione ai «mori di guerra», i primi collaboravano coni cristiani, i secondi no) compivano razzie contro le tribù nemiche per catturare uomini da poi rivendere negli avamposti costieri spagnoli e portoghesi dell'arca A questi raid (contrari alla religione islamica, in quanto venivano catturati correligionari) si associavano le periodiche razzie compiute da spagnoli e portoghesi. Tutti gli schiavi catturati nella zona erano poi venduti e inviati nella Penisola iberica. È nota la storia di una vittima di questi raid: durante un interrogatorio dell’Inquisizione, nel 1598, Diego il Nero confessò di essersi convertito anni prima quando venne catturato da musulmani marocchini e poi inviato in Spagna, dove in realtà continuò a praticare la religione islamica (anche se non conosceva benissimo i suoi precetti e le sue regole) e spinse sempre i domestici con cui “lavorava” a ritornare alla vera fede, di cui uno di questi lo denunciò. In Spagna, terminata la Reconquista, continuarono comunque le spedizioni castigliane contro le comunità dei moriscos a Granada, schiavizzandone la popolazione. Un'impennata del commercio di schiavi nella zona di Granada si ebbe durante la rivolta del 1569-71, la cui le, venne sancita sia dalla Santa Sede che dal re. Un'altra zona in cui si registrarono numerose razzie fu il confine tra domini asburgici e Impero ottomano nella zona danubiana. Ma i grossi bottini di schiavi erano sempre catturati dopo grandi battaglie campali tra cristiani e musulmani, come a Orano, Bedjaja, Tripoli, Tunisi, Annaba, Lepanto e durante la guerra di Candia, alla fine delle quali i sopravvissuti del campo avverso erano ridotti in schiavitù. Caccia all'uomo: via mare. Gli schiavi erano anche effetto della guerra di corsa (il cui principio era che qualsiasi cosa catturata diventava automaticamente di proprietà degli attaccanti, che potevano dispomne a proprio piacimento), sviluppatasi tra le due sponde del Mediterraneo nel XV-XVI secolo, quando l'Impero spagnolo e YImpero ottomano si sfidarono per il controllo del bacino marittimo, dove i secondi si appoggiarono agli stati barbareschi formatisi sulla costa nordafricana, in particolare quello di Barbarossa. Una muova sfida corsara per la Spagna emerse nel XVII secolo, in seguito alla cacciata dei moriscos, i quali in paste si rifugiarono in Marocco, dove alcuni si organizzarono nella repubblica semindipendente di Salé, che eseguì azioni corsare soprattutto sulle coste spagnole. Numerosi corsari di Salé vennero catturati e di almeno uno disponiamo una testimonianza: ‘Abd es-Salam Fennich visse per 28 anni in Francia prigioniero, prima di essere liberato in uno dei mumerosi scambi di prigionieri del periodo. Erano ovviamente presenti anche corsari cristiani, la cui attività culminò durante la guerra di Candia, portata avanti soprattutto dalle navi dei Cavalieri di Malta, la cui isola divenne il centro delle scorribande cristiane sulle coste avversarie. Un altro famoso ordine che si diede alla guerra di corsa fu quello di Santo Stefano, fondato dal Granduca di Toscana nel 1562. La guerra di corsa cristiana continuò ad essere intensa fino alla fine del XVII secolo, anche se in verità già dal XVI la guerra tra i due Imperi mediterranei aveva lasciato il posto a conflitti tra i regni del Maghreb e dei Barbareschi (con i quali si iniziò a stipulare tregue © paci, per interrompere gli attacchi), e i regni cristiani (definiti da Braudel come «guerra inferiore»). Con il tempo quella che era stata condotta come una guerra all’infedele perse sostanza, lasciandovi sopra solo una maschera che copriva gli interessi economici dietro alle razzie. Nel XVIII secolo il pretesto religioso si sbiadî quasi del tutto, tranne che per i Cavalieri di Malta, che presentarono costantemente la loro azione come contro con l'infedele. In questo secolo si assiste anche al fiorire dei corsari indipendenti, che domandavano qualunque bandiera dei principi disposti a potli sotto tutela. Mercati di schiavi in terra cristiana. La guerra di corsa continuò sempre a mantenere quel carattere brutale proprio, e le azioni erano puri atti di guerra, ma dal momento in cui si otteneva il bottino si affacciava la questione del lucro, che rendeva necessario dirigersi verso mercati in cui vendere la mercanzia. È in questo contesto che troviamo la figura degli intermediari che si facevano carico per le famiglie/comunità di ricattare i propri membri, che davano il via a un vero negoziato sul prezzo da pagare per il riscatto. Dobbiamo sottolineare che a differenza del mondo cristiano, in quello musulmano erano totalmente assenti istituzioni religiose dedite al riscatto per i prigionieri, costringendo i familiari ad affidarsi ad intermediari specializzati (spesso schiavi affrancati si gettavano in questo commercio). Quindi la prigionia poteva essere solo temporanea, ma la maggior parte delle volte non lo era, o era lunghissima. Il principale mercato di schiavi cristiano era situato a Malta, isola che vide crescere la continuamente la sua popolazione tra 1590-1660 a causa del flusso di persone che volevano darsi alla guerra di corsa, dove è stimato che tra XVII-XVIII secolo siano transitati circa 40.000 schiavi, che venivano messi all'asta ed erano molto presenti tra la popolazione dell'isola (circa 4% della popolazione). I più numerosi mercati di schiavi erano situati sulle coste italiane: Cagliari, Messina, Palermo, Bari, Napoli, Civitavecchia, Livorno, Genova e Venezia, dove si raccoglievano le flotte proprie e indipendenti. In Abruzzo e Puglia si raccoglievano molti schiavi ortodossi spacciati per musulmani, mente Livorno conobbe anni intensissimi tra il 1560 e il 1660, durante i quali si stima abbia catturato circa 15.000 schiavi. Si stima in centinaia di migliaia il numero di schiavi transitati nella penisola tra XVI-XVII secolo. Oltre a quelli in transito vanno segnalati quelli che rimasero nella penisola, il qui numero è stimato tra i 40-50.000 secondo Salvatore Bono, tra XVI-XVII secolo. Questi erano concentrati soprattutto nelle città prima elencate, ma erano ovviamente presenti anche nelle città interne, anche se in numero esiguo. Nei mercati di schiavi della Penisola iberica invece si mescolavano schiavi africani neri e musulmani. I principali centri erano Lisbona e Siviglia, seguiti da Malaga, Almeria, Murcia, Cartagena, Valencia, Alicante, Palma de Maiorca, Puerto de Santa Maria e Motril, i cui mercanti di schiavi si spingevano fino all’entroterra rurale per vendere la mercanzia. Si stima che in Spagna, su 8 milioni di abitanti, circa il 3-496 fosse schiavo, mentre in Portogallo, su 1,5 milioni di abitanti, lo erano circa il 5%. Tra 1450-1750 si stima che gli africani provenienti dalla tratta furono 700-800.000, mentre i musulmani 300-400.000. La Francia, nonostante non tollerasse la schiavitù sul proprio territorio, non si faceva comunque scrupoli ad acquistare schiavi nei vari mercati (anche provenienti da paesi con cui avevano trattati in atto) per utilizzarli sulle navi. L'universo concentrazionario delle galec. Abbiamo così visto che anche nell'Europa dell'età modera esisteva la schiavitù, legittimata non solo da autorità e Chiesa, ma anche dalla popolazione comune e addirittura dagli ex schiavi che entravano in questa rete commerciale per fare profitti. Anche il loro possesso era più diffuso di quanto si creda: anche cristiani commi li possedevano. In generale il trattamento a loro riservato era duro e non ‘potevano sperare in una loro veloce liberazione. Ciò che spingeva a compiere spedizioni navali era: per lo Stato le ambizioni politiche ed economiche volte a far arretrare la presenza sul mare di marine e mercanti musulmani - per i marinai i profitti del bottino - per gli acquirenti lo sfruttamento della forza lavoro degli schiavi. Uno dei luoghi di maggior impiego di schiavi erano le galee, dove ai remi erano sempre posti i galeotti (invece nel mondo musulmano il loro ricorso fu meno marcato). La richiesta di schiavi delle flotte era costante, a causa dell'alta mortalità dei galeotti che si trovavano in condizioni di vita infime. Nel caso le spedizioni non fruttassero abbastanza schiavi, spesso ci si rifomiva poi nei mercati più prosperi. Per ridume i rischi di ammutinamento si tendeva a mischiare gli schiavi con forzati e buonaroglia (volontari). Un altro accorgimento era quello di mantenere la percentuale di schiavi musulmani sotto la quota del 30-4096. Questi accorgimenti ovviamente non erano rispettati sempre, soprattutto nei periodi in qui i bottini erano lauti e l'alto numero di schiavi permetteva un loro impiego più massiccio. La durezza della vita sulle galee è dimostrata dall’associazione che ancora oggi noi facciamo tra una vita molto dura e i termini «galea» o «galera». Di queste condizioni ci è amrivata una testimonianza da un ugonotto francese, Jean Marteilhe, condannato ad essere un galeotto (tra 1700-1713) perché aveva cercato di espatriare per sfuggire alle dragonnades. Secondo la sua testimonianza, durante la stagione di attività, tra aprile e ottobre, su una galea si imbarcavano circa 500 persone, di cui 300 restavano chiuse per mesi negli spazi angusti sottocoperta, dove erano costretti a remare per 10-12 ore al giomno, nutriti con pane, acqua c zuppa e lasciati di notte all'aperto. Queste condizioni portavano a una morte prematura, per gli standard dell’epoca. Il racconto dell’ugonotto continua raccontando il periodo di inattività dell'imbarcazione, tra ottobre e aprile, durante il quale solo i galeotti e i guardiani rimanevano sulla nave. I primi disponevano ora un letto in legno e costruivano tende per proteggersi dal freddo. Costretti a rimanere sulla nave di sera, durante il giorno invece di davano a lavori manuali per racimolare qualche soldo e giravano per la città vendendo le proprie mercanzie a volte (sempre incatenati). Spesso queste attività artigianali dei galeotti erano malviste da quelli locali, che li vedevano come concorrenti diretti. Erano soprattutto i turchi a fare questi lavori artigianali, spesso costruendosi baracche di fronte ai porti. Gli schiavi turchi erano anche impiegati come domestici e uomini di fiducia delle galee. Nonostante le differenze tra i galeotti, spesso si formavano legami di fedeltà e amicizia sinceri, come testimoniato dall’ugonotto che, incaricato di redistribuire i fondi che i suoi confratelli liberi si impegnavano a versare per tutti gli ugonotti in catene, ma sorvegliato pesantemente proprio perché le autorità conoscevano queste pratiche, era costretto ad usare un intermediario, che fu un turco di nome Isouf, che eseguì il compito per diversi anni prima di morire in battaglia, poi sostituito da un altro turco di nome Aly (questi atteggiamenti, annota, lo fecero emozionare profondamente). Annotò anche come ci fossero due tipologie di turchi, quelli asiatici, da lui considerati fedeli e onorevoli, e quelli africani, considerati «marmaglia africana». Possiamo quindi vedere come i galeotti fossero un gruppo disparato ma nel quale potevano formarsi forti legami, nonostante le differenze culturali. Dobbiamo osservare che le attività svolte dai galeotti, descritte nella testimonianza ‘precedente, preoccuparono sempre più i commercianti e quindi le autorità, che con iltempo tentarono di frenare le loro attività con misure speciali. A. Malta i prigionieri servivano soprattutto a riempire le navi dell'Ordine, mentre quelli che rimanevano a terra erano usati per lavori di manutenzione. Questi erano tutti di proprietà dell'Ordine, ma come dicono varie testimonianze anche tutti i privati possedevano schiavi, che erano liberi di muoversi al mattino ma dovevano tomare in prigione la sera. Altri schiavi ancora. Nel XVI secolo si stima che in Spagna fossero presenti circa 50.000 schiavi, di cui la maggior parte concentrati in Andalusia, soprattutto a Siviglia. La loro composizione era mista, con una maggioranza di musulmani. Venivano solitamente impiegati in: agricoltura, orticoltura, industria tessile, di cuoio e vimi. Le donne invece erano usate come domestiche o inviate in città a compiere lavori manuali come la tessitura, i cui ricavi andavano al padrone. Questi erano gli usi per gli schiavi privati. Quelli pubblici invece erano impiegati in: galee, miniere, lavori pubblici e arsenali. In Portogallo la popolazione servile era altrettanto importante e la maggioranza era composta da neri. Anche in Italia gli schiavi erano diffusi e si trovavano anche in famiglie modeste, ebree o in commità religiose. Un turco prigioniero dei cristiani. I musulmani schiavizzati facevano fine diverse, tra chi moriva in cattività e chi veniva affrancato e si integrava a fatica. In generale però la schiavitù fu un trauma per molti, ma non molte testimonianze ci sono giunte (perlopiù indirette, come quelle edulcorate dell’Inquisizione). L'unico a fomire una propria autobiografia fu il soldato turco Osman Aga, che durante la sua schiavità durata 11 anni (dal 1688) attraversò Croazia, Ungheria e Austria. I suoi genitori erano di Belgrado, ma il padre militare si trasferì con la moglie a Temesvr, capitale di distretto regionale e centro delle operazioni belliche contro l'Austria. Nato nel 1671, fin da giovane si dedicò a equitazione, armi, brigantaggio e razzie, partecipando a piccole battaglie che lo fecero notare all’aga, che lo nominò capitano di uno squadrone di giannizzeri e partecipò a varie azioni contro gli austriaci. Venne catturato a Lipova, dopo che si era atresa. Vestendosi da civile e dissimulando il rango, contratto con l'ufficiale la cifra per il riscatto e partì alla volta di Temesvàr insieme al musulmano che si era fatto garante per lui e altri 4 musulmani, partiti anche loro sotto cauzione. Giunto in città, trovo i fratelli e raccolse la somma necessaria e alcuni doni, ripartendo verso Seghedino, ma giunti sul luogo scoprirono che l'ufficiale aveva seguito le truppe verso il Danubio. Allora il gruppo si diresse verso l’esercito e na notte incontrarono un gruppo di persone a cui voleva chiedere del cibo, ma questi lo incatenarono e stavano per ucciderlo, quando si accorsero che i suoi compagni sarebbero stati testimoni (questi riuscirono a scappare). Infine, riuscì a fuggire, con i polsi incatenati, e a raggiungere l'ufficiale, che a stento lo riconobbe, denunciando i suoi rapitori e riottenendo i suoi beni, con cui pagò la cifra pattuita con l'ufficiale, che però mon volle lasciarlo andare, giustificandosi con il fatto che non voleva metterlo in pericolo. Dopo una marcia con l’esercito austriaco, venne chiuso in un fienile con portarono in dono al papa nell'ottobre 1518. Dopo 14 mesi di soggiorno a Roma, durante i quali non arrivò mai una proposta dal Marocco per la sua liberazione, decise di convertirsi prendendo il nome di Giovanni Leone l'Africano. Da quel momento fu praticamente libero e iniziò a dedicarsi all'attività di copista, raggiugendo una grande fama anche come autore. Le sue principali opere furono: sezione araba del dizionario arabo/ebreo/latino - revisionò la traduzione latina del Corano del cardinale de Viterbo - Cronica mucamettana (oggi persa) - Cosmographia e geographia de Africa (completata nel 1596, divenne un'opera famosissima, ristampata più volte, punto di riferimento per molto tempo perle conoscenze sull’Africa in Europa). Tornando alla rete catecumenica della Controriforma, troviamo nuove fondazioni in tutta Italia: Venezia, 1557 - Bologna, 1568 - Mantova, 1574 - Ferrara, 1584 - Modena, 1629 - Reggio Emilia 1632. Tutte queste strutture puntavano più alla conversione degli ebrei, anche se vi troviamo musulmani. Troviamo un Collegio dei catecumeni anche a Torino, fondato nel 1653 ma diretto per la maggior parte a convertire i protestanti. Altre strutture di conversione che non siano Case catecumeni le troviamo a Genova (opera pia dei turchi battezzati, XVIII sec.) e a Napoli (vescovo fonda nel 1576 una confratemita di devoti che istruiva gli schiavi per la conversione - nel 1601 i gesuiti fondano una congregazione di schiavi per istruire gli schiavi musulmani - apre una Casa di catecumeni nel 1637 - nel 1721 è fondato un collegio di schiavi presso il monastero di San Giovanni a Carbonara di Napoli). Anche altri ordini religiosi portarono avanti le opere di conversione, tra qui troviamo il caso particolare dei cappuccini presenti negli eserciti veneziani, che si impegnavano a convertire i soldati musulmani provenienti dall'Impero ottomano e ingaggiati da Venezia per le guerre contro le altre potenze cristiane. In Italia il proselitismo continuò fino alla fine dell'Antico Regime. A Malta le conversioni furono affidate ai Gesuiti. In Spagna, nonostante l'assenza di strutture di catecumeni, si registrano varie conversioni. In Portogallo venne creata un primo Collegio dei catecumeni nel 1579 (da notare la data: era l'anno seguente alla battaglia dei Tre Re e probabilmente la sua fondazione risponde al progetto di convertire la massa di immigrati provenienti dal Marocco, che fuggiva dal muovo sultano), che chiuse dopo poco. A prendere le redini delle opere di conversione furono i gesuiti. Nel 1584 venne istituito un muovo Collegio, sotto il controllo regio, dove i membri erano mantenuti alle spese della corona fino al battesimo. Dobbiamo registrare che anche i battesimi dei musulmani comuni (e quindi non solo dei principi) era eseguito in pompa magna, con grandi celebrazioni e processioni (certo meno sfarzose di quelle dedicate ai principi). L'educazione fomitagli sembra non sia stata in grado di trasformare i neofiti in portoghesi, cosa che scontarono sulla loro pelle, venendo costantemente visti di traverso e costretti ai lavori umili, data l'incapacità di parlare bene la lingua. Sulle conversioni, notiamo uno zelo cristiano ambivalente: sc da una parte si voleva convertire per “salvare” le anime degli infedeli, dall’altra si cercava sempre di limitare il più possibile queste conversioni (lo storico Salvatore Bono ha raccolto numerose domande di conversione di musulmani, soprattutto galeotti, ai quali con molta probabilità non è stata data riposta. Questo perché non si voleva perdere braccia per i remi: spesso, anche se si convertivano, i galeotti, contrariamente alle loro speranze, non venivano liberati). Sotto lo sguardo sospetto dell'Inquisizione. Non disponiamo delle vere condizioni di questi neofiti, e se ne disponiamo è perché vennero demuciati all’Inquisizione. Un esempio è quello di Gabriele Tedesco, palestinese di 26 anni che tentò di tornare all’islam, cosa che gli costò la condanna a 5 anni di prigione. Durante la prigionia l'Inquisizione tentò di ricondurlo al cristianesimo ma dopo 3 anni lo condannò a morte, commutandogli poi la pena mandandolo sulle galee, in ui contimiò ad affermare che le due religioni fossero uguali. Venne arso vivo nel 1640. Altri neofiti che non furono obbligati probabilmente furono spinti alla conversione dall'ambienti in cui vivevano («conversione di prossimità», B. Bennassar): sradicati dalla terra d'origine e impossibilitati a tornarvi, molti si convertirono per tentare di essere liberati e quindi entrare nella società, ma a seguito della conversione era raro venire liberati, portando molti (come testimoniato dai documenti inquisitoriali) a rigettare la nuova fede. Oltre a questi casi, probabilmente ci furono anche molti che alla fine riuscirono ad integrarsi, ma il generale e costante tentativo (o tentazione) di tornare nella propria patria è spia di un malessere che affliggeva i musulmani conversi, timorosi di un castigo divino o rimasti estranei alla società che li circondava. VI. Turchidiognisorta Moriscos ostinati e moriscos invisibili. Nella Penisola iberica si sviluppò quello che B. Vincent chiama «islam tardivo», da parte di un piccolo numero di musulmani “tollerati” dalle autorità e presenti a Malaga, Granada, Cordoba, Siviglia, Cadice, Gibilterra, Cartagena, Granada, ecc. Sono quindi numerose queste comunità semi legittime, e la loro presenza è testimoniata anche da contemporanei. Accanto a questi moriscos discendenti da moriscos indigeni troviamo anche coloro che erano tomati in Africa del Nord prima di ritornare in Spagna, che erano guardati male anche dai moriscos che erano rimasti in Spagna, sospettandoli di praticare un islam corrotto dalla conversione forzata. A questi si aggiungevano anche i transfughi maghrebini. Sopravvissero clandestinamente alcune pratiche islamiche e alcuni svilupparono un'attesa messianica che garantiva centralità ad arabo e islam nella unificazione del mondo. Su una delle tante comunità di moriscos abbiamo il libro di Trevor Dadson, nel qual segue per 3 secoli la storia della minoranza dei moriscos di Villarrubia de los Ojos, dove nel 1502 mudéjares accettarono la conversione forzata ed ottennero dal re il privilegio di essere assimilate ai vecchi cristiani. Nel corso del secolo successivo la comunità vide una forte crescita demografica ed economica (alcuni membri giunsero ad occupare cariche istituzionali ed ecclesiastiche), abbandonando coltempo le pratiche islamiche fino al punto che non era più possibile distinguerli facilmente dai vecchi cristiani, con cui intrattenevano rapporti cordiali, che non li chiamavano più moriscos (solo l'Inquisizione continuò a farlo) ma «quelli del barrio». Il loro livello di integrazione è dimostrato dalle differenze spiccanti tra loro e i deportati granadini del 1571. Siamo quindi di fronte a un'integrazione completa. Questa però non salvò la comunità dai decreti di espulsione. Nella primavera 1611, compreso che anche loro sarebbero stati presi di mira, opposero resistenza, scrivendo al sovrano, ricordandogli il privilegio concessogli da re Ferdinando e venendo sostenuti dal signore di Villarrubia, conte di Salinas, membro del «consiglio dei ministri» e presidente del Consiglio del Portogallo, interessato a ‘mantenere quegli uomini che lavoravano per lui. Nonostante ciò, i moriscos dovettero vendere le loro cose per Yespulsione, con i primi viaggi nel luglio 1611, terminati a settembre. In totale 720 persone furono portate verso la Francia, ma 250, cludendo la scorta, fuggirono, rifugiandosi in una proprietà del conte di Salinas. Tomati alle loro case, i vecchi cristiani li difesero, affermando che fossero legati alla religione di Cristo tanto quanto loro. Seguendo il loro esempio, tutti i moriscos della regione tornarono nelle proprie case. Il conte di Salazar preparò la controffensiva e nel dicembre 1611 ordinò la vendita dei beni dei moriscos, che però non acquistò nessun vecchio cristiano. Nel febbraio 1612 venne emanato un nuovo ordine di partenza c in giugno i moriscos del villaggio vennero portati a Cartagena, dove non trovarono alcun elemento per accoglierli prima della partenza programmata. Gran parte degli espulsi allora fuggì, tornando nelle proprie case. Nella primavera 1613 il conte Salazar richiamò all'ordine i padroni che nascondevano i moriscos e guidò personalmente un contingente che catturò alcune centinaia di moriscos, espellendoli o inviandoli nelle miniere. La caccia all'uomo continuò e nel 1614 in Consiglio di Stato considerò finite le operazioni di espulsione. Dadson poi dimostra che nel 1620 molti muovi cristiani tomnarono a Villarrubia e riottenero, mediante processi e negoziati, tutti i beni in precedenza venduti. Come fecero, nonostante le persecuzioni, a tornare? A loro favore giocarono la testardaggine nel voler tomare nel luogo che era propriamente casa loro, il sostegno del loro signore, il conte di Salinas, e del figlio di lui, e il sostegno ricevuto dai vecchi cristiani, che li consideravano ormai cristiani a pieno titolo. Dadson infine aggiunge che questo processo non fu proprio di Villarrubia, ma si ritrova anche nella Mancia, nell’Estremadura, nella valle di Ricote e nella Murcia. In Francia, invece, un'ordinanza del 22 febbraio 1610 aveva autorizzato i ‘moriscos che volessero restare nel regno a stabilirsi a nord della Dordogna. In seguito venne loro vietato l'entrata nel regno, che non impedì comunque il loro afflusso anche dopo la morte di Enrico IV. Anche qui convissero i convertiti al cristianesimo, quelli al protestantesimo (vista come religione più vicina all'islam per il suo monoteismo accentuato e la sua iconoclastia) e quelli che continuarono a praticare in segreto l'islamismo. Troviamo gmuppi di moriscos sparsi per tutta Europa: quelli di galeotti impiegati nelle galee - quelli che transitavano soprattutto nelle città italiane (Venezia in particolare) e ad Amsterdam (i Paesi Bassi erano molto tolleranti) - i mercanti, soprattutto a Livomo, dove aumentavano i flussi commerciali (poi cacciati però). Mercanti di passaggio. In tutti i porti curopei era possibile trovare mercanti musulmani, il cui numero però era esiguo e su cui non si sa praticamente nulla, dato che non possedevano alcuna struttura, e quindi archivi, in terra cristiana. La posizione dei mercanti dei due schieramenti religiosi spesso era definita dai trattati di reciprocità, che garantivano la libertà di commercio, l'incolumità dei beni e delle persone e verso il XVIII secolo anche una certa libertà di movimento per i cittadini dei due paesi contraenti (alcuni esempi: 1230, Tunisi-Genova; 1419, Venezia-Ottomani (pace) - Inghilterra e Ottomani/Barbareschi, ripetuti nel tempo - Francia-Persia - Marocco Portogallo/Toscana/Spagna/Due Sicilie). Un primo tipo di scambi sono quelli definibili come «commercio di prossimità», riguardanti le regioni limitrofe musulmane e cristiane, in cui si facevano piccoli scambi oppure si commerciava in caso di offerte eccezionali. Porteremo due esempi: uno mediterraneo e uno continentale. Partiamo con quello mediterraneo, sviluppatosi tra Tunisi, Malta e Palermo in seguito ai continui scontri che portarono con il tempo a conoscersi sempre più, sfociando, soprattutto all'apice della guerra di corsa nel XVII secolo, in circuiti commerciali che fornivano occasione di guadagno e di inserimento nel territorio nemico. In consolato francese in Tunisia fornisce uno sguardo privilegiato su queste attività di scambio: tra alcune città sulla costa della reggenza e Palermo e Malta si sviluppò una rete di commercianti musulmani, dei cui commerci abbiamo testimonianza: vi erano enormi differenze tra transazioni e modi di comunicazione; gli atti erano redatti dal cancelliere del consolato in italiano ed erano firmati in latino e arabo, applicandovi poi due sigilli in entrambe le lingue. Gli accordi riguardavano le più disparate materie e le parti coinvolte potevano essere cittadini della città portuale, mercanti, comandati di navi, ufficiali, parenti di schiavi detenuti nella Cristianità. Il consolato di Tunisi era quindi un microcosmo che era probabilmente riprodotto in altri luoghi. I mercanti musulmani raramente si stabilivano presso la Cristianità, ma molto più spesso diventavano soci conaltri cristiani. Segnaliamo anche che essere schiavo non precludeva l’entrata nell'attività commerciale e che anche in periodo di guerra questi scambi non si fermavano. Esistevano rapporti commerciali anche tra nemici di lunga data: Algeri/Tripoli- Malta/Palermo e Malta-Egitto. In particolare, i Cavalieri accordavano salvacondotti per i mercanti musulmani che volevano commerciare presso l'isola, pratica poi scemata nel XVIII secolo, spingendo i musulmani a fare affidamento ad intermediari cristiani. Un altro circuito commerciale cristiano-musulmano lo troviamo in Ungheria, dove l'accordo che pose fine alla dominazione ottomana in quell'area prevedeva la possibilità per i mercanti Turchi di portare i propri prodotto sui mercati di Belgrado c altre città ungheresi. Non furono però molti i Turchi a cimentarsi in questi scambi, ma piuttosto i cosiddetti «greci», coloro che abitavano i Balcani ottomani ma non erano musulmani. Comunque il volume dei commerci era piccolo. Un circuito più regolare e stanziale si sviluppò tra Impero ottomano e costa adriatica italiana. Troviamo mercanti musulmani ed chrei (provenienti dall'Impero ottomano) ad Ancona, Recanati e Lanciano. Con il crescere dell'intolleranza religiosa il centro degli scambi si spostò a Venezia, dove la presenza di mercanti musulmani era antica e dove ottennero anche il diritto di residenza. Il periodo di pace tra 1573-1645 fu fondamentale per la regolarizzazione dei traffici. Nel 1575 i commercianti ottomani vennero sistemati al Fondaco de’ Turchi a San Matteo di Rialto, dove i mediatori che trattavano con loro dovevano dirigersi. Dato il numero elevato, vennero trasferiti al Fondaco de’ Turchi sul Canal Grande, nel 1621, dove un grande edificio venne riadattato per fornirgli depositi, bagni e un luogo di preghiera. La loro concentrazione rispondeva anche a una azione di controllo sulle loro attività (evitare lo spionaggio) c perciò vi era un guardiano al suo ingresso che lo chiudeva alla sera, per evitare che si nuovessero. All'interno della struttura si trovavano divisi i mercanti dell'Anatolia (tappeti, stoffe, pelli di cammello) e quelli dei Balcani (cera, lana, pellami). In città si trovavano anche Armeni, Greci, Ebrei (che risiedevano nel ghetto ebraico) c Persiani (tenuti divisi dai musulmani ottomani date le ostilità). Solitamente i Turchi giungevano ad aprile e ripartivano ad ottobre, non tentarono mai di stabilirsi permanentemente a Venezia e dal XVIII si osserva che iniziarono a confondersi sempre più coni locali, parlando italiano e vestendo alla veneziana. Le transazioni commerciali avvenivano a Rialto, in presenza di un intermediario e un interprete (compensato). I mercati turchi e levantini erano anche accolti a Spalato (porto franco organizzato alla fine del XVI secolo dall'ebreo portoghese Daniel Rodriga), in Dalmazia, punto di incontro tra le rotte balcaniche ottomane e quella marittima veneziana. Abbiamo una testimonianza del luogo di Exliya Celibi, del 1633, viaggiatore che descrisse le numerosissime botteghe e magazzini colmi di mercanzie. Era giunto insieme a una delegazione per trattare il rilascio di prigionieri, e prima che iniziasse la trattativa ci fu il tradizionale scambio di doni con il governatore: i Turchi gli diedero tn turbante ricamato in oro e due grandi fazzoletti, mentre il generale diede ad ogni membro della delegazione (47) dieci pellicce, dieci abiti, dieci rotoli di raso, 300 monete di argento, 100 ducati, un orologio, un cannocchiale e un libro di carte geografiche. Dobbiamo segnalare che da questo periodo in avanti, a causa delle continue guerre, la presenza turca nei mercati veneziani andò costantemente calando (l'ultimo mercante turco abbandonò la città nel 1839). Alle transazioni tra professionisti si aggiungevano commercio occasionale (inviati ottomani di passaggio a Venezia acquistavano casualmente alcuni prodotti) e «commercio amministrato» (cit. K. Polanyi - personale inviato direttamente dal sovrano per l'acquisto di particolari prodotti). Queste tipologie di scambio le ritroviamo, oltre che a Venezia, in Inghilterra, Paesi Bassi c Francia. Un caso particolare erano le relazioni commerciali tra Marocco/Algeri-Inghilterra/Paesi Bassi, basate soprattutto su basi politiche: i primi sfruttavano i conflitti interni alla cristianità per acquistare armi, mentre i secondi legittimavano la vendita di armi in quanto sarebbero state usate contro gli avversari cattolici (ricordiamo che in teoria era proibita la vendita di armi all'infedele). Oltre ai commerci di prossimità e agli scambi “diplomatici”, il resto dei traffici era dominato dai cristiani: i mercanti Turchi e maghrebini raramente si stabilivano in territorio cristiano, nonostante i trattati ne garantivano la possibilità. La maggioranza dei mercanti ottomani che si stabilivano in territorio cristiano era greco, armeno o ebreo, c li troviamo a Marsiglia, Ancona, Anversa, Vienna, Lipsia 0 Leopoli. Comunque, qualche commerciane musulmano si stabilì in Italia, Spagna e Francia. A Roma ne troviamo w esiguo numero (che non superò mai il 60), concentrato presso la chiesa di Santa Maria del Popolo, venendo però evitati dalla popolazione. Sorprendente risulta la loro sostanziale assenza nel porto di Livorno, in cui dal 1593 il Granduca aveva promosso lo stabilirsi dei mercanti stranieri, garantendone la libertà di culto. A Marsiglia invece troviamo tma fortissima ostilità verso lo straniero, soprattutto se orientale. Nella prima metà del ‘600 i commercianti locali ostacolarono quelli armeni, riuscendo a far imporre una tassa del 20% sulle loro merci, costringendoli a spostarsi ad Amsterdam e Livorno. Tornarono nel 1680 grazie alla politica di apertura di Colbert, ma venne vietato a loro l’accesso al porto nel 1687. Con la stessa caparbietà si impegnarono a tenere fuori Ebrei, Greci e Turchi (i meno tollerati). La presenza di mercanti islamici è testimoniata dalla loro continua richiesta di accedere o poter creare propri luoghi di culto, così come previsto dai trattati (nei paesi musulmani i mercanti cristiani disponevano di propri luoghi di culto e cimiteri), a cui i marsigliesi si opposero costantemente, che riuscirono a impedime lo stabilirvisi ma non il passaggio presso Marsiglia, I cattivi rapporti dei marsigliesi fronte al sultano dovevano abbassare gli occhi e allontanarsi indietreggiando, in Francia si pretendeva che gli inviati musulmani praticassero lo stesso rituale). Il dialogo tra due potenze avveniva di fronte ad altri rappresentanti di altre potenze, che osservavano con attenzione i modi di accoglienza (per poi riprodurli a loro volta se iori) e i risultati delle trattative (per poi offrire qualcosa di pari valore od ottenere concessioni di pari valore). Dietro la maschera di cordialità si giocava come una partita agonistica, in cui si tentava di prevalere in qualsiasi modo, incluso il cerimoniale, che puntava a sovrastare la controparte. I cerimoniali applicati con gli ambasciatori musulmani erano applicati allo stesso modo a quelli cristiani, dimostrando una coscienza cavalleresca che imponeva di accogliere nei migliori dei modi anche l'infedele. Una caratteristica degli incontri diplomatici era che se veniva introdotta una novità in un paese, in poco tempo anche gli altri vi si adeguavano. A Venezia, per esempio, le regole da seguire nelle cerimonie erano catalogate nel Libro delle cerimonie. Notiamo come delle 337 cerimonie pubbliche tenute tra 1556-1607, 171 furono ricevimenti di delegati stranieri o nunzi pontifici, durante i quali tutto era regolato: numero di senatori per accogliere l’ambasciata, vestiti per Yincontro, valore della catena d’oro da donare e l'ordine di magistrati e nobili nelle uscite. Ora portiamo un esempio di accoglienza riservata ad un ambasdatore ottomano. Dal momento dell'arrivo, l'ambasciatore era assistito dalla Repubblica (trasporto, sistemazione, vitto, alloggio, spettacoli e visite erano tutti a carico di Venezia). Prima di accedere in città, l'ambasciata era messa in quarantena (2 settimane se tutto andava bene), potendo però ricevere visite c donativi. Arrivati al Lido, l'ambasciata faceva tappa al palazzo del Consiglio dei Dicci per poi dirigersi verso la residenza assegnatagli (in questo frangente venivano accolti e accompagnati da un gruppo di patrizi). Gli ambasciatori trascorrevano la maggior parte del tempo con nobili veneziani ed erano messi a loro disposizione dei veneziani di estrazione popolare per i loro bisogni. Il palazzo a loro dedicato era ‘normalmente situato alla Giudecca ed era arredato alla “orientale”. Alla grande ricchezza ostentata dai veneziani, le ambasciate ottomane dovevano ostentarne ancora di più, per sottolineare la superiorità del sultano, mediante la grossa composizione del seguito (a volte anche scortato da giannizzeri), il valore dei regali, la sontuosità di abiti e turbanti. Il ricevimento ufficiale avveniva nella sala del Collegio e poi presso Palazzo Ducale (alla presenza dei curiosi). Gli Ottomani erano accolti da senatori con toga scarlatta e condotti in sala sino ala cospetto del doge, che li invitava a sedersi alla sua destra, dando inizio alla serie di incontri, pubblici e privati, diplomatici. Gli Ottomani erano anche tenuti a prendere parte a una serie di visite in cui si mostravano i “gioielli” di Venezia, come la chiesa di San Marco, le Mercerie, l’Arsenale, le vetrerie di Murano, le botteghe della Drapperia, il mercato di Rialto e una serie di feste. Il programma di un’ambasciata era quindi impostato e il suo scopo era duplice: 1. Mostrare il proprio splendore c potenza agli inviati ottomani; 2. Distrarre il popolo con questi personaggi esotici e mostrargli la posizione internazionale occupata dalla Serenissima. Un ambasciatore della Porta ottomana nella Francia del XVII secolo. La monarchia francese aveva istituzionalizzato un cerimoniale per i ricevimenti degli ambasciatori che prevedeva una serie di cariche specifiche (e venali): gentiluomo della camera delre che accoglieva l'ambasciatore al porto e l’assisteva per tutto il soggiorno; un gentiluomo che seguiva l'invitato e copriva tutte le spese necessarie per il mantenimento dell'ambasciata; un segretario-interprete che si univa al seguito dell’ambasdiatore facendogli da traduttore; un introduttore degli ambasciatori che li accompagnava e presentava agli interlocutori, lo accompagnava agli incontri del re e doveva essere sempre disponibile per soddisfare le sue esigenze; l'introduttore era aiutato d un segretario dell’accompagnatore degli ambasciatori. Tutte queste figure poi riportavano fatti e comportamenti degli invitati al segretario degli Affari esteri e al sovrano, alcuni scrissero memorie. La residenza permanente per gli ambasciatori era l'Hotel des Ambassadeurs, a Parigi. Ora descriviamo il caso di un inviato ottomano a Parigi nel 1669. Il modello cerimoniale era simile a quello veneziano nelle lince generali, ma per comprendere bene il modo in cui dignitari musulmani erano accolti nella Cristianità ci è utile ripercorrere la vicenda dell'inviato Suleyman Aga, descritta dal cavaliere d’Arvicux. L'inviato si imbarcò il 21 giugno 1669 su un bastimento francese (e non una nave da carico, dimostrando il fasto della Francia) accompagnato da 3 vascelli del re. Giunse a Tolone il 4 agosto, dove venne accolto da un gentiluomo della Casa del re che gli procurò l'alloggio e gli pagò le spese del tragitto. Sistemato nel palazzo del Comune, venne portato a visitare la città. Partì poi per Marsiglia, Lione, Orléans, Fontainebleau e il villaggio di Issy. Durante i 3 mesi di questo viaggio all’ambasciatore erano state ‘mostrate le ricchezze della Francia, mentre ad ogni tappa era seguito da una folla di curiosi, la cui gran parte mobilitata dalle autorità per dare all'evento un carattere festoso. Il segretario agli Affari esteri, Hugues de Lionne, si era informato presso il cavaliere d’Arvieux sul cerimoniale del gran visir per le udienze straniere, ottenendo i consigli di non dare più di quanto il sultano dava solitamente e di preparare dei servitori che eseguissero alla lettera le richieste dell’ambasciatore. La prima udienza e le successive ricalcarono quindi le usanze ottomane. (Sc la situazione era critica e di tensione con l’altra parte, le autorità si impegnavano a trattare con distacco inviato e il re si mostrava sgarbato nei colloqui). La prima udienza si svolse a Suresnes, dove l’invitato notò di non essere stato accolto. Venne accompagnato in una stanza dove lo attendevano domestici e funzionari del segretario di stato (assente). Dopo il caffè l'ambasciatore dovette attendere parecchio tempo prima di essere ricevuto. Il colloquio ebbe luogo in un lussuoso salone isolato, dove era stato eretto un letto coperto da un drappo dorato e cuscini di broccato d’oro. Il ministro, in piedi, si tolse e rimise velocemente il cappello, mettendosi nel letto, mentre l'ambasciatore venne fatto accomodare su uno sgabello. Dopo un breve colloquio l’invitato si rifiutò di consegnare la lettera del sultano al segretario, affermando che l'avrebbe data solo al re in persona. Dopodiché terminò l’incontro, a cui seguì un secondo incontro uguale al primo. L'aspetto antagonistico teatralizzato degli scontri risponde probabilmente a diversi fattori: trattare l'inviato come venivano trattati quelli francesi a Istanbul; sottolineare che il re non fosse disposto a cedere nessun vantaggio; protestare con gli scarsi doni dell’ambasciatore; forse anche perché era considerato un semplice inviato e non un ambasciatore (bisogna ricordare che nell'Impero ottomano le due figure non erano differenziate). L'ambasciatore ottomano entrò a Parigi il 3 dicembre, venendo condotto in corteo (composto da: funzionari e guardie francesi - ufficiali turchi - inviato - funzionario che copriva le spese - guardie della prevostura), attorno al quale si formò una calca che osservava l’arrivato, allHotel de Venise, dove gli furono messe a disposizione 3 carrozze. L'udienza reale ebbe luogo 2 giorni dopo a Saint-Germain-en-Laye. L'inviato, che indossava sontuosi abiti, percorse l’ultimo tratto a cavallo e scortato da due file di guardie del re, mentre attorno a lui si accalcava la solita folla di curiosi. Entrò nella galleria dell’incontrò, decorata con lussuose tappezzerie e adomata da tappeti, al cui fondo si trovava la pedana del re, che indossava un abito broccato in oro ricoperto di diamanti e un cappello dalle piume bianche con una spilla in diamante. L'inviato avanzò a testa bassa, facendo riverenze, e rimase in attesa che il sovrano si alzasse per consegnargli la lettera, ma capito che non lo avrebbe fatto, fu costretto ad “umiliarsi” salendo i gradini e appoggiando la lettera sulle ginocchia del re. Nonostante queste incomprensioni, l'inviato si diverti comunque e incontro moltissimi parigini che si recavano da lui a discorrere o ai pasti. L’inviato aveva fretta di ripartire, ma il re non si era ancora deciso ad inviare un ambasciatore alla Porta e il periodo invernale sconsigliava il viaggio per mare, quindi rimase ancora per molto tempo presso la capitale francese, dove venne accompagnato a visitarla insieme alla sua periferia e dove venne invitato a varie feste, cerimonie e banchetti. Alla fine, tornato a Tolone, si imbarcò il 22 agosto 1670, giungendo due mesi dopo ad Istanbul, dopo 16 mesi di viaggio. Suleyman Aga divenne, dopo la sua partenza, soggetto del Borghese gentiluomo di Moliere, che aveva composto questa commedia-balletto dietro richiesta del re che, volendo approfittare dell'immagine ancora fresca delle cerimonie per l'accoglienza e permanenza dell’inviato ottomano, voleva dilettare la corte durante un viaggio di caccia. Ancora in Francia: un imiato dello scià di Persia. Un'altra e più insolita ambasciata fu oggetto di una serie di stampe che fecero conoscere l'avvenimento a un pubblico più largo e per molto tempo, quella inviata dallo scià di Persia tra 1714-15. Il rappresentare questi rari eventi era una consuetudine in Europa: pitture, arazzi, incisioni, opere letterarie e soprattutto libelli erano gli strumenti utilizzati per dare risonanza a queste occasioni. Per quanto riguarda l'ambasciata di Mehmed Riza Bed, ci soffermeremo sugli scambi che ebbe con la società francese, tenendo conto che fu eccezionale (la Persia era un paese molto lontano che raramente inviava ambasciatori in Europa), difficile (inviato era difficile di carattere, violento e stravagante) e controversa (la sua insolenza faceva dubitare del suo rango, così come la sua provenienza provinciale e il fatto che fosse sempre stato un esattore delle tasse). A Marsiglia l'inviato venne accolto da due funzionari dell'intendente delle galee e dai magistrati cittadini. L'inviato era stato accompagnato da 18 persone e insieme a loro e alla scorta e ai funzionari francesi venne portato in corteo verso la casa in cui sarebbe stato ospitato. I cittadini avevano potuto assistere anche a un corteo prima, quando l’armeno Agobjan, giunto prima dell’ambasciatore, aveva portato in corteo i doni destinati al sovrano. Durante la sua permanenza venne invitato a balli, cene e spettacoli, e venne portato anche a visitare i principali luoghi cittadini. Alla sua partenza venne organizzato un ulteriore corteo. L’ambasciatore chiese ed ottenne di essere accolto in ogni città che passava (in totale 12) un corteo, che riuniva sempre una folla di curiosi, così come folle di curiosi si accalcavano presso l'Hotel des Ambassadeurs a Parigi. Notiamo che moltissime personalità di spicco andarono a fagli visita. Usi e costumi dei Francesy/usi e costumi dei Tiuchi in Francia. Mehmed Efendi scrisse una relazione del suo soggiomo in Francia. Di questa colpisce il fatto che le sue osservazioni seguano lo stesso schema dei rapporti francesi, ponendo attenzione a: tappe del viaggio, protocollo seguito, grado e ordine delle truppe di scorta, folla che si accalca. Turchi e Francesi, quindi, parlavano lo stesso linguaggio in questo ambito, o meglio, i Francesi erano riusciti nello scopo difar vedere all’inviato ciò che volevano vedesse. L'ambasciatore fu anche colpito dalla produzione artistica e letteraria, dalle specie animali sconosciute in Oriente e dalla presenza delle donne in pubblico, che non si limitavano a fare da comparse ma partecipavano attivamente alle attività. L'obiettivo dei Francesi di stupire l’invitato era stato raggiunto, ma non sempre era così: ad esempio, l'ambasciatore ottomano precedente a Mehmed non si era dimostrato stupito di nulla in particolare, così come non lo fu l'inviato persiano precedentemente citato. Una domanda che sorge sulle folle che si accalcavano è quella di cosa volessero vedere ed osservate. Una risposta a questo quesito ci arriva non direttamente da persone di queste folle ma dalle relazioni dei funzionari e dalle rappresentazioni grafiche. Emerge innanzitutto la curiosità dei Francesi, che tentavano in qualsiasi modo e in qualsiasi luogo di avvicinarsi per scrutare l'inviato orientale, per vedere Yesotismo degli orientali: abiti, aspetto fisico, bardature dei cavalli, armi, mobilio, uso del corpo, l'usanza di tenere pulito il corpo, abitudini alimentari, modi di stare a tavola (questi due erano tra gli clementi su cui si soffermava maggiormente la curiosità, come dimostra l'appunto di Mehmed, che afferma come tutti volessero soprattutto osservarlo mangiare), orari dei pasti, (sui pasti colpiva soprattutto la corta durata e le maniere giudicate rozze, come quelle di pulirsi bocca, barba e baffi, o quella di pulirsi le mani con la mollica di pane, o quella di ‘mangiare con le mani), il loro conformarsi alle abitudini occidentali (come ai pasti, durante i quali mangiavano tutte le portate e bevevano alcoliai), il tipo di cibi consumati (came non arrostita, riso, caffè c thè) e l'ossessione ‘per la purezza degli alimenti (per i quali si portavano dietro i propri strumenti da cucina e i propri cuochi). Tutte queste differenze con il mondo cristiano vennero annotate e scaturirono considerazioni anche profonde su ciò che si vedeva, come quella di un articolo su «Le Mercure galant» del 1681, il cui oggetto era il soggiomo dell’inviato del Marocco e in cui veniva data una approfondita descrizione della religione musulmana in Marocco. Però ci restano anche testimonianze sconcertanti da cui trapela anche l’avversione provata verso i musulmani, dimostrata soprattutto dalle frequenti metafore zoologiche sul nemico mortale, che sembrava quindi solo un animale domestico o una bestia curiosa. Dare e avere. Altri scambi diplomatici. Un ultimo mezzo materiale di espressione del linguaggio diplomatico erano i doni offerti agli inviati orientali, pratica molto vecchia e ancora praticata tra XVI-XVIII secolo. Ma che tipologia di doni erano offerti? Tra gli stati più potenti, la questione era delicata. Di fronte alle pretese del sultano di essere il più grande sovrano del mondo, quelli cristiani dovevano tenergli testa. In particolare, il re di Francia, in competizione con quello spagnolo o l’imperatore per la supremazia nel mondo cristiano, voleva dimostrarsi potente ma allo stesso tempo non voleva dare l'impressione di essere un tributario della Mezzaluna. I doni francesi dovevano quindi dimostrare la grandezza e la ricchezza della Francia, senza però far trasparire qualsiasi segno di inferiorità. Abbiamo un esempio di scambi di doni con Mehmed Efendi, che li portò sia al re (un cavallo di Mitilene bardato con finimenti reali; un cavallo senza finimenti; una faretra con frecce intarsiate; 12 pezzi di stoffa d’oro e d’argento; una pelliccia di ermellino; 9 profumi) che al reggente (un cavallo con finimenti; 10 pezzi di stoffa; 3 fazzoletti; 6 profumi). In cambio, il re offrì all’inviato vari pezzi di manifatture francesi, per mostrare la loro capacità, facendo centro: alcuni regali li tenne il sultano. Dobbiamo sottolineare che tra i regali che destavano più stupore e attenzione erano gli animali esotici (che da molto tempo venivano donati ai sovrani europei, come l'elefante donato a Carlo Magno), tra cui pantere, leoni, struzzi, giraffe, elefanti, montoni, gazzelle, cammelli. Erano apprezzatissimi anche i cavalli arabi, famosi per la loro prestanza. I doni che venivano portati dall'Oriente spesso interessavano più della missione diplomatica stessa, come dimostra un articolo pubblicato a Lisbona, che parlava della visita dell'ambasdiatore ottomano a Berlino nel 1763, sulla quale si soffermava soprattutto sui doni portati dall’inviato. Cerimonie pubbliche/eventi mediatici. In questo capitolo ci concentreremo sull'insieme delle cerimonie che vedevano coinvolte personalità provenienti dall’'islam, prendendo Roma come punto di osservazione, che tra XVIEXVII secolo fu l'epicentro di numerosi progetti che attenevano all'Islam. Il progetto principale sviluppato a Roma era quello della conversione di eretici europei, musulmani infedeli e selvaggi d'oltremare, il cui obiettivo ultimo era il trionfo della vera fede e l'unione del mondo sotto la croce di Cristo. Questi progetti si sovrapponevano, dando luogo a manifestazioni pubbliche ripetute nel tempo. La conversione dei musulmani, come abbiamo visto, era occasione di cerimonie che dimostravano la vittoria “morale” sugli avversari, così come era uguale il significato e il tipo di celebrazione eseguita per la liberazione di schiavi cristiani. Anche le vittorie sul nemico islamico erano celebrate e il modello di queste celebrazioni era quello della celebrazione della vittoria a Lepanto (1571), dove a Roma fece l'ingresso trionfale il comandante pontificio, seguito da 5.000 soldati e 170 prigionieri turchi. Simili celebrazioni, che aumentarono sempre più di dimensione, vennero celebrate per le vittorie veneziane nella Guerra di Candia, dopo l’Assedio di Vienna (1683, culmine della propaganda religiosa che voleva mobilitare l'intera comunità cristiana con le enormi celebrazioni che seguirono la vittoria cristiana), dopo Buda (1686), Belgrado (1688), i trionfi in Italia dopo le vittorie della Lega santa in Morea e Dalmazia, la vittoria imperiale sui Turchi a Slankamen (1691). Nel 1619 si celebrò anche l'incoronazione di Ferdinando II, esaltando i simboli della difesa della Cristianità contro il pericolo ottomano. Anche l'incoronazione di Ferdinando II nel 1637 venne celebrata. Erano eseguite celebrazioni anche per nascite di principi ereditari, ‘matrimoni reali e morti di personalità importanti (come le esequie di Giovanni Sobieski, re di Polonia-Lituania ed eroe di Vienna, celebrate a Roma il 5 dicembre 1696). A volte le manifestazioni pubbliche potevano anche causare problemi diplomatici, come quando l'ambasciatore del sultano inviato a consegnare la lancia che trafisse Cristo si trovò ad osservare la celebrazione della caduta di Granada. Oltre a Roma, anche nelle altre città della Cristianità si estetizzò e teatralizzò il rapporto con i musulmani. Queste celebrazioni avevano una duplice finalità:
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