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Stratificazione Sociale: Livelli e Differenze Sociali, Schemi e mappe concettuali di Sociologia

La stratificazione sociale è il fenomeno che definisce la presenza di una disuguaglianza interna a una società, con diverse possibilità di accesso alle risorse sociali per gli individui. Le forme e le conseguenze di questa stratificazione, dalla separazione sociale alle teorie funzionaliste. Vengono analizzate le forme di stratificazione storiche, come quella per caste, e le forme moderne, come la stratificazione per status e la mobilità sociale.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

In vendita dal 07/03/2024

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Scarica Stratificazione Sociale: Livelli e Differenze Sociali e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Sociologia solo su Docsity! La stratificazione sociale La nostra esperienza sociale si configura fin dagli inizi come un’esperienza di differenze, alle quali corrispondono diverse collocazioni su un’ideale scala sociale: alcuni gruppi o categorie sembrano disporre di opportunità e risorse che ad altri sono precluse o accessibili in misura minore. È questo il fenomeno a cui facciamo riferimento quando parliamo di stratificazione sociale. La stratificazione sociale può dunque definirsi come la presenza, all’interno della società, di una disuguaglianza e cioè di una molteplicità di livelli, che si differenziano per le diverse possibilità di accesso alle risorse sociale di cui godono gli individui che compongono ciascuno di essi. Forme di stratificazione sociale sono presenti in tutte le società, sia attuali sia passate, e per tale motivo questo fenomeno costituisce un tema di estremo interesse per la sociologia. Diverse forme di stratificazione sociale • La stratificazione sociale ha assunto forme diverse a seconda dei periodi storici. Nel mondo antico era legata all’esistenza della schiavitù. Gli schiavi erano persone private della loro libertà, poiché appartenevano ed erano sottomessi ad altri individui che li utilizzavano per le mansioni lavorative più faticose o meno gratificanti. La schiavitù era largamente diffusa e probabilmente veniva percepita come “naturale”, anche se allo stesso tempo si avvertiva l’esigenza di giustificarne l’esistenza. • Un’altra forma di stratificazione è quella per caste, tipica della società indiana. È molto rigida, immodificabile e legittimata su base religiosa: a una casta si appartiene per nascita e non se ne può uscire in alcun modo. Esistono quattro caste principali e una riservata agli intoccabili, reietti del sistema sociale, ma spesso le caste si dividono a loro volta in sottocaste inferiori, e queste in gruppi minori. Alla pratica della separazione si associa la convinzione che ci si contamini entrano in contatto, anche indiretto, con caste inferiori (è proibito anche il minimo contatto sociale tra persone di caste diverse). Tale sistema è ormai ufficialmente abolito ma è ancora diffuso nella pratica sociale quotidiana. • Nel mondo moderno questa realtà ha assunto forme differenti, espresse da nozioni specifiche, in particolare quelle di classe e di ceto, su cui si è incentrata l’analisi dei classici della sociologia. La stratificazione secondo Marx Per Marx la società è divisa classi e il criterio fondamentale che determina la stratificazione sociale è di tipo economico: è il rapporto intrattenuto con la proprietà dei mezzi di produzione che decreta la classe di appartenenza e non altre caratteristiche (come il potere o il prestigio) che ne sono piuttosto la conseguenza. La nozione di stratificazione si lega immediatamente a quella di conflittualità. Tra le classi sociali il rapporto è di conflitto perenne poiché le loro reciproche posizioni sono generate dalla lotta per l’appropriazione delle risorse. La classe di appartenenza determina la posizione che un individuo occupa all’interno della società, ma essa non genera necessariamente in quello stesso individuo una reale percezione della propria posizione. Marx chiama questa condizione falsa coscienza, che minaccia soprattutto i membri delle classi subalterne: il monopolio delle idee, esercitato da chi detiene il potere, porta i membri delle classi subalterne a introiettare le idee e i valori socialmente dominanti e in tal modo preclude loro la possibilità di prendere coscienza dello sfruttamento a cui sono soggetti. La stratificazione secondo Weber Per Weber la società è divisa in ceti. Weber ritiene che il fenomeno sia ben più articolato e complesso di come viene concepito da Marx, dal momento che il concetto marxiano di classe isola solo il fattore economico della stratificazione sociale. Accanto a quello economico, Weber individua altri due fattori che determinano le differenze sociali: lo status e il potere. Lo status può definirsi come il livello di prestigio sociale detenuto da un gruppo o da un individuo, che risulta indipendente rispetto al reddito. Infatti, individui o gruppi di modesta condizione economica potrebbero godere di un certo prestigio sociale, oppure una grande ricchezza potrebbe non garantire uno status a essa adeguato. La stratificazione in base allo status dà luogo ai ceti, insiemi di persone che hanno uno stile di vita simile, derivante dalla nascita e dall’educazione ricevuta. Ma i ceti sono determinati anche dal potere: la lotta per la sua acquisizione dà origine ai partiti, ossia gruppi di individui uniti da interessi e obiettivi comuni, che competono tra loro per assicurarsi la direzione politica o amministrativa, in modo da portare a compimento i propri progetti. Il programma di un partito può rispecchiare gli interessi e le aspirazioni di una precisa classe sociale o di classi sociali differenti. Dunque, anche per Weber il tema della stratificazione è legato al conflitto, alla tensione tra i diversi soggetti e i rispettivi interessi, poiché chi riesce a godere di determinate risorse sociali tende a difendere il proprio vantaggio e ad escludere gli altri, provocando così la loro reazione. La prospettiva funzionalista A differenza delle posizioni di Marx e Weber, focalizzate sulla conflittualità, la teoria funzionalista considera il sistema sociale come caratterizzato dall’integrazione sociale: ogni sistema è infatti un’unità organica, formata da parti interdipendenti che concorrono a determinarne la stabilità e l’equilibrio. In questa prospettiva anche la stratificazione sociale svolge una specifica funzione, in quanto va compresa per il ruolo che riveste all’interno della realtà sociale. Un’esposizione chiara dell’interpretazione funzionalista della stratificazione è fornita da due studiosi statunitensi, Davis e Moore. La tesi è che la stratificazione sia una condizione necessaria per garantire produttività ed efficienza al sistema sociale: il suo scopo specifico consisterebbe nel collocare adeguatamente le persone nella struttura sociale e nel motivarle nella direzione del suo rafforzamento. Secondo questo punto di vista, in ogni società esistono status e mansioni più rilevanti di altre, che richiedono capacità speciali e addestramento per chi le vuole raggiungere. Per spingere le persone ad affrontare i sacrifici necessari al conseguimento di tale status, occorre incentivarti con ricompense adeguate, sia di tipo materiale sia di tipo morale. Se questo meccanismo venisse meno nessuno sarebbe attirato da carriere importanti che sono fondamentali per i membri della società (come il medico), con grave danno per la comunità. Nell’ottica funzionalista, pertanto, la stratificazione è un meccanismo positivo e una condizione necessaria che aiuta la società a risolvere problemi decisivi per la sua sopravvivenza. Le critiche al funzionalismo A questa teoria sono state mosse diverse obiezioni. Tumin, collocabile nell’area delle “teorie del conflitto”, sostiene che l’esistenza di posizioni sociali più rilevanti di altre non sia una causa della stratificazione, ma piuttosto una sua conseguenza. Infatti, se in una società ci sono alcune classi tradizionalmente considerate superiori ad altre per prestigio e valore, i ruoli che gli individui ricoprono in esse saranno quelli più ambiti e importanti, indipendentemente dalla loro reale utilità sociale. In questo senso il sistema delle disuguaglianze consolidato tenderebbe a conservarsi e autoriprodursi. dignitosa. Questa immagine rappresenta in modo efficace quella che i sociologi chiamano povertà assoluta, cioè la mancanza delle risorse necessarie per soddisfare i bisogni umani fondamentali (cibo, vestiario, abitazione). Fino al XIX secolo questa condizione era ampiamente diffusa, come dimostrano ad esempio gli studi condotti sulla popolazione di Londra e di York da Booth e Rowntree. Oggi la povertà assoluta permane come un dato drammatico in molti paesi in via di sviluppo. Quando si parla di povertà nei paesi industrializzati si fa riferimento a un concetto diverso, cioè al concetto di povertà relativa introdotto dal sociologo Townsend, in base al quale la condizione di vita di una persona o di una famiglia può essere definita solo a partire dall’ambiente sociale in cui vive. In base a tale prospettiva si definisce povero chi, pur potendo soddisfare i bisogni di base, manca delle risorse per raggiungere quelle condizioni che sono abituali o prevalenti nella società di appartenenza. La soglia oltre la quale un individuo o una famiglia possono dirsi poveri, la cosiddetta soglia di povertà, viene solitamente stabilito in base a un sistema di riferimento internazionale che definisce povero una persona che disponga di un reddito o consumo non superiore alla metà di quello nazionale procapite. La nuova povertà Nelle moderne società industriali esiste una categoria di persone che possiamo definire nuovi poveri, cioè individui o nuclei familiari che vivono in condizioni dignitose per i quali tuttavia le opportunità e le comodità che qualificano il tenore di vita medio di una società costituiscono un traguardo irraggiungibile. Fattori più significativi associati alla condizione di povertà sono l'elevato numero di componenti e l’immigrazione, e per quanto riguarda altre variabili sociodemografiche, i dati mostrano che l’incidenza della povertà è maggiore in presenza di bassi livelli di istruzione e di profili professionali non qualificati. Una condizione tipica del nostro tempo legata a fenomeni come la precarizzazione del lavoro e le frequenti rotture dei nuclei familiari è la cosiddetta povertà fluttuante, ossia il verificarsi di condizioni di disagio economico temporaneo più o meno prolungato dovuto all'insorgenza di eventi improvvisi che peggiorano la qualità di vita degli individui. La perdita imprevista dell'occupazione, un divorzio, un abbandono da parte del partner, una malattia o un incidente possono esporre le persone situazioni di improvvisa povertà. Approcci multidimensionali alla povertà Finora ci siamo limitati a una lettura monodimensionale della povertà, riguardante il reddito disponibile o il livello di spesa possibile di un individuo o di una famiglia. Recentemente si sono affermati i cosiddetti approcci multidimensionali al problema della povertà che partono dall'assunto che il reddito sia solo una delle dimensioni possibili che qualificano come povera la situazione di un individuo o di un nucleo familiare. A tal proposito l'economista Sen sostiene che la valutazione e la misurazione della povertà devono assumere come punto di riferimento la qualità globale della vita, alla cui definizione non concorrono solo i beni materiali ma anche l’uso che l'individuo può farne e le scelte che ha la possibilità di attuare. La consapevolezza dell’irriducibilità della povertà a parametri puramente economici è stata recepita anche da organismi internazionali, in particolare l’ONU, che ha introdotto tra gli indicatori del benessere dei paesi membri il cosiddetto Indice di Sviluppo Umano o ISU, che si avvale di una scala da 0 a 1 ed è la combinazione di quattro indici: la speranza di vita, l’indice di alfabetizzazione, l’indice di scolarizzazione e il PIL per abitante. Sono ritenuti paesi a basso sviluppo umano quelli in cui l’ISU è inferiore a 0,5, ma può capitare che paesi con un consistente tasso di poveri rivelino un ISU alto o molto alto; oppure che Stati con una più modesta percentuale di persone in povertà assoluta presentino un ISU basso.
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