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Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Storia dell'Arte MedievaleIconografia classicaArte del Rinascimento

Riassunto completo e dettagliato del libro “Studi di iconologia” di Panofsky per l’esame di Storia dell’arte moderna.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 07/09/2022

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Scarica Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! Studi di iconologia – I temi umanistici nell’arte del Rinascimento Erwin Panofsky Capitolo I – Introduzione Iconografia: ramo della storia dell’arte che studia il soggetto o il significato delle opere, in quanto contrapposto alla forma di esse. Con suffisso “grafia” da “graphein” (=scrivere) indica un modo di procedere descrittivo, dunque l’iconografia descrive e classifica le immagini; è utilissima per fissare la date, la provenienza o l’autenticità delle opere. 3 strati: 1. Soggetto primario o naturale: può essere fattuale o espressivo; si coglie identificando le forme (configurazioni di linee o colori) come rappresentazioni di oggetti (esseri umani, piante, animali, case…); identificandone le relazioni come eventi e percependo le caratteristiche espressive. Dunque queste forme così identificate come portatrici di significati naturali o primari saranno motivi artistici e l’enumerazione di tali motivi è in sé una descrizione preiconografica dell’opera d’arte. 2. Soggetto secondario o convenzionale: si coglie collegando i motivi artistici con temi e concetti, dunque così i motivi saranno portatori di un messaggio secondario o convenzionale e possono essere chiamati immagini. Le combinazioni di immagini saranno chiamate storie o allegorie. Le immagini che trasmettono l’idea di nozioni astratte e generali (Fede, Lussuria…) sono dette personificazioni o simboli e le combinazioni di esse formano appunto le allegorie. 3. Significato intrinseco o contenuto: si coglie attraverso i principi interni tipici di una nazione, un’epoca, una classe, una convinzione filosofica o religiosa; essi si manifestano sia attraverso metodi compositivi che attraverso il significato iconografico. Concependo dunque le forme come manifestazioni di principi interni interpretiamo questi elementi come valori simbolici; l’interpretazione di essi (a volte sconosciuti o differenti dall’intenzione reale dell’artista) è l’oggetto dell’iconografia in senso più profondo. La corretta analisi di immagini, storie e allegorie è alla base di una corretta interpretazione iconografica in senso più profondo. Nel caso della descrizione preiconografica gli oggetti ed eventi, la cui rappresentazione mediante linee e colori e volumi costituisce il mondo dei motivi, si possono identificare sulla base dell’esperienza pratica. È possibile che la gamma della nostra esperienza personale non sia sufficientemente ampia; in tali casi dovremo dilatare il raggio della nostra esperienza pratica consultando un libro o un esperto. È impossibile giungere ad una descrizione preiconografica corretta, o identificazione del soggetto primario, semplicemente mediante l’indiscriminata applicazione della nostra esperienza pratica all’opera d’arte; infatti mentre crediamo di identificare i motivi sulla base della nostra pura e semplice esperienza pratica, in realtà leggiamo “quel che vediamo” secondo il modo in cui gli oggetti ed eventi sono stati espressi dalle forme in condizioni storiche variabili, così facendo assoggettiamo la nostra esperienza pratica a un principio di controllo che potremo chiamare la storia dello stile. L’analisi iconografica, occupandosi di immagini, storie ed allegorie anziché di motivi, presuppone una familiarità con temi o concetti specifici quali sono trasmessi dalle fonti letterarie, siano esse acquisite mediante pertinenti letture, o per tradizione orale. Quando si viene alle rappresentazioni di temi che si discostino dalle storie bibliche o da scene storiche o mitologiche solitamente note alla persona colta media, tutti noi siamo “aborigeni australiani” e dobbiamo cercare di familiarizzarci con ciò che gli autori delle rappresentazioni avevano letto o conosciuto. Mentre una familiarità con temi e concetti specifici trasmessi attraverso fonti letterarie è materiale indispensabile e sufficiente per un’analisi iconografica, non ne garantisce l’esattezza. Un quadro del pittore seicentesco veneziano Francesco Maffei, che rappresenta una donna bella e giovane con una spada nella mano sinistra e nella destra un piatto da portata, su cui posa il capo di un uomo decapitato, e stato pubblicato come ritratto di Salomè su un piatto. Se lo interpretiamo come ritratto di Salomè, i testi rendono conto del piatto, ma non della spada; se lo interpretiamo come ritratto di Giuditta, i testi rendono conto della spada, ma non del piatto (se dipendessimo dalle sole fonti letterarie, ci ritroveremmo in alto mare); dovremo domandarci se, prima di Maffei, esistessero ritratti che rappresentassero indiscutibilmente Giuditta, con ingiustificabili piatti; oppure ritratti che ritraessero indiscutibilmente Salomè con ingiustificabili spade. Incontriamo in Germania e nell’Italia settentrionale diversi quadri cinquecenteschi che dipingono Giuditta con un piatto; non esiste quindi un tipo di Salomè con una spada. Possiamo concludere che anche il quadro di Maffei rappresenta Giuditta, e il motivo del piatto è stato trasferito, ma quello della spada no perché: - La spada era attributo fissato e onorifico di Giuditta, di molti martiri e di Virtù come la Giustizia, la Fortezza, ecc., pertanto non la si poteva trasferire a una fanciulla lasciva. - Durante il XIV ed il XV sec. il piatto con la testa di san Giovanni Battista era divenuto in se stesso un’immagine devota, specialmente nei paesi nordici e nell’Italia settentrionale. L’interpretazione del significato intrinseco o contenuto, nell’occuparsi di quanto abbiamo definito valori simbolici esige qualcosa di più che la familiarità con temi o concetti specifici quali sono trasmessi dalle fonti letterarie. Quando intendiamo impadronirci di questi principi fondamentali, che sottendono la scelta e la presentazione di motivi, ci occorre una facoltà mentale di “intuizione sintetica”, la quale dev’essere controllata da una comprensione profonda del modo in cui, in condizioni storiche variabili, le tendenze generali ed essenziali della mente umana si sono espresse mediante temi e concetti specifici. Lo storico dell’arte dovrà verificare quanto costituisce a suo avviso il significato intrinseco dell’opera, in base a quanto ritiene costituisca il significato intrinseco di quanti documenti della civiltà storicamente relazionati a quell’opera egli possa padroneggiare, e in questa ricerca di significati intrinseci o contenuti le diverse discipline umanistiche s’incontrano su un piano comune. Quanto intendiamo quindi esprimerci con estremo rigore dovremo distinguere fra tre strati di soggetto o significato, tra i quali quello inferiore viene solitamente confuso con la forma, mentre il secondo è dominio privilegiato dell’iconografia nel suo senso ristretto. A qualsiasi livello ci si muova, le nostre identificazioni ed interpretazioni dipenderanno dal nostro bagaglio personale, e per questa ragione appunto andranno corrette e controllate mediante la comprensione profonda dei processi storici, la somma totale dei quali si può chiamare tradizione. Il problema particolare dell’iconografia rinascimentale: I primi scrittori italiani di storia dell’arte, come Lorenzo Ghiberti, Leon Battista Alberti e Giorgio Vasari, ritennero che l’arte classica fosse stata abbattuta agli inizi dell’era cristiana. Le ragioni di quella rovina erano state le invasioni barbariche e l’ostilità del clero e dei padri paleocristiani. Quei primi autori avevano torto in quanto non si era avuta, durante il Medioevo, una rottura completa con la tradizione: le concezioni classiche, letterarie, filosofiche, scientifiche ed artistiche erano sopravvissute attraverso i secoli, particolarmente dopo essere state rimesse in auge sotto Carlo Magno ed i suoi seguaci. Erano pero nel giusto in quanto l’atteggiamento generale nei riguardi dell’antichità era fondamentalmente cambiato quando ebbe inizio il movimento rinascimentale. Nella rappresentazione ci aspetteremmo la presenza di un vaso o altro recipiente che indicherebbe lo scopo dell’allontanarsi di Ila, il predominio dell’acqua nello scenario, un’amorosa aggressione da parte delle Naiadi, e infine un dibattersi riluttante da parte di Ila. La scena però è situata in un prato fiorito l’ampolla d’acqua che compare sullo sfondo a sinistra è un puro motivo paesaggistico del tutto irrilevante con l’azione principale, le sei fanciulle non mostrano la minima eccitazione amorosa, delle sei fanciulle, quella sinistra ferma il passo in un gesto di sorpresa, quella a destra appare, malgrado la perdita dei suoi fiori, piuttosto divertita, la sua vicina addita il ragazzo, infine la figura centrale soccorre, in atto di materna protezione, il giovinetto ai suoi piedi mentre, se egli fosse Ila, dovrebbe trascinarselo giù verso il basso. Senza alcun dubbio abbiamo qui una scena di sorpresa, di gentilezza e di ospitalità. Il ragazzo dalle gambe arcuate presenta una positura curiosamente storpia e contorta: solo un evento esiste nella mitologia classica e seguenti che sia coerente con questa rappresentazione, ovvero la caduta o piuttosto il ritrovamento di Vulcano. Vulcano o Efesto fu scaraventato giù dal monte Olimpo e non venne riammesso al palazzo degli dei prima di un considerevole intervallo di tempo; secondo alcuni fu scacciato bambino, secondo altri quando era già cresciuto, comunque egli trova temporaneo rifugio nell’oceano o nell’isola di Lemno. Il Medioevo e il Rinascimento generalmente concordarono nell’accettare una versione uniforme, secondo la quale Vulcano era stato precipitato dall’Olimpo in tenera età perche sua madre ne aborriva le deformità e atterrò sull’isola di Lemno, dove fu ricevuto ospitalmente e allevato con sollecitudine dagli abitanti. Il giovane Vulcano, caratterizzato dall’evidente rigidità del ginocchio sinistro, è piovuto proprio in mezzo al prato dove le sue fanciulle raccoglievano i fiori. Gli abitanti di Lemno non vengono mostrati come gruppi di isolani di ambo i sessi, ma sono rappresentati esclusivamente da giovinette di aspetto simile a ninfe: quanto il primo Rinascimento conosceva di mitologia classica era tratto frequentemente da fonti post classiche e tutto ciò che tali fonti post classiche avevano da dire sulle esperienze giovanili di Vulcano si fondavano sul commento a Virgilio di Servo che dice che fu precipitato da Giove sull’isola di Lemno perché era deforme. Qui fu allevato dai Sintii, i quali non appaiono in alcun altro contesto della letteratura latina ed ebbero così una grande varietà di letture: tra le interpretazioni troviamo che egli fu allevato con assenzio, per altri fu allevato dalle scimmie e per altri dalle ninfe. La lettura “ab simiis” fu accettata da Boccaccio, il quale spiega l’inattesa presenza delle scimmie nell’affresco su Vulcano in Palazzo Schifanoia a Ferrara; ma le scimmie, egli argomenta, sono comparabili agli umani in quanto imitano il comportamento dell’uomo, proprio come l’uomo imita i procedimenti della natura praticando le arti e i mestieri; ma per praticare le arti e i mestieri all’uomo occorre il fuoco, e Vulcano del fuoco è la personificazione. Di conseguenza per Boccaccio il racconto secondo cui Vulcano fu ritrovato e allevato dalle scimmie costituisce l’espressione allegorica del fatto che gli uomini non poterono applicare le proprie innate doti alle arti e all’industria prima di aver scoperto il fuoco e di aver appreso a mantenerlo vivo. Dopo di che Boccaccio loda i molteplici poteri del fuoco, sottolinea che Vulcano aveva dovuto essere considerato non solo il fabbro e l’artefice di ogni sorta di cose artificiali ma anche il fondatore stesso della civiltà umana, in quanto manteneva deliberatamente vivo il fuoco e quindi aveva condotto alla formazione delle prime unita sociali. Per confermarlo Boccaccio cita in esteso un capitolo di Vitruvio, conferisce così autorità ad una dottrina che era positivamente antireligiosa, e dunque si sente costretto ad aggiungere che lo scrittore romano era evidentemente ignorante nei riguardi della Bibbia. Si erano avute, fin dall’inizio stesso della speculazione classica, due opinioni in contrasto circa la vita primeva dell’uomo: - Primitivismo molle o positivistico: formulato da Esiodo dipingeva la primitiva forma di esistenza come un’età dell’oro, in confronto alla quale le fasi successive erano soltanto stadi successivi di un’unica prolungata caduta dalla grazia. Idealizza la condizione iniziale del mondo e si trova pertanto in armonia con un’interpretazione religiosa della vita - Primitivismo duro o negativistico: immaginava la primitiva forma di esistenza come uno stato genuinamente bestiale, cui l’umanità era fortunatamente sfuggita attraverso il progresso tecnico e intellettuale. Era realistico nella sua ricostruzione della condizione iniziale del mondo e si adattava perfettamente entro lo schema di una filosofia razionalistica. Tale filosofia immagina il sorgere dell’umanità come un processo interamente naturale dovuto esclusivamente alle doti innate della razza umana, la cui civiltà ebbe inizio con la scoperta del fuoco. L’importanza culturale del fuoco era stata esaltata dai filosofi evoluzionistici e, nella poesia mitica, si era lodato il Dio del Fuoco quale maestro dell’umanità; in Atene Efesto e Atena avevano in comune un tempio e condividevano gli onori della grande festa Chalkeia, essendo considerati comuni fondatori della civiltà ellenica e padroni di tutti i buoni artigiani. L’interpretazione vitruviana di Vulcano getta luce sull’iconografia di un quadro meno noto di Piero di Cosimo che si trovava un tempo nella collezione di un Lord scozzese ed e stato recentemente acquistato dalla National Gallery del Canada, ad Ottawa. Per lo stile e il carattere generalmente questo dipinto e palesemente assai vicino a quello di Ila: stesi su tele grossolane e le loro dimensioni sono quasi identiche; i due quadri dunque fanno parte di un unico gruppo con soggetto la storia di Vulcano. Il quadro di Ottawa presenta Vulcano come protoartefice, primo maestro della civiltà umana; sullo sfondo 4 vigorosi lavoratori erigono la struttura di una casa primitiva, possiedono già alcuni utensili come chiodi, martelli e seghe ma impiegano ancora tronchi d’albero non squadrati, il che corrisponde esattamente a quanto Vitruvio e numerosi suoi seguaci rinascimentali ci dicono circa la primissima fase tecnologia della civiltà umana. In primo piano a sinistra può vedersi lo stesso Vulcano all’incudine mentre brandisce il martello e sembra che stia creando una nuova invenzione. Il vecchio accasciato dietro il fuoco è Eolo, il dio dei venti, e la sua presenza determina il luogo della scena: in un passo famoso, Virgilio colloca l’officina di Vulcano su una dell’isole situate tra le coste della Sicilia e l’isola di Lipari, ove Eolo regnava; dunque i mitografi più tardi giunsero ad immaginare una stretta associazione tra Vulcano ed Eolo, che infine furono pensati come collaboratori (così la figura di Eolo nel quadro di Piero di Cosimo diviene comprensibile). I due grossi oggetti che preme con le mani sono otri di cuoio che servono al medesimo scopo dei mantici azionati a piedi nelle illustrazioni del “Libellus de imaginibus deorum”, ma è pure possibile che fosse a conoscenza del racconto di Omero, di Eolo che aveva sigillato i venti cattivi in otri di vino. Cammello che emerge dietro una roccia e la giraffa che guarda con curiosità si possono spiegare con la soddisfazione di Piero per le cose che la natura fa per stranezza. Il giovane dormiente in primo piano e il gruppo familiare dietro di lui si connettono pur essi al personaggio di Vulcano interpretato dalla letteratura classica: illustrano la semplice felicità della civiltà primitiva, pacifica e autosufficiente perché fondata sul principio della vita familiare. Il contrasto tra il giovane addormentato e il gruppo sociale ideale vicino a lui possiede un significato specifico in relazione alla personalità di Vulcano: Virgilio caratterizzava Vulcano, lo zelante, mattiniero lavoratore già al lavoro di notte, mentre la gente ordinaria, rappresentata dalla figura raggomitolata in primo piano, è ancora addormentata; soltanto l’alacre giovane coppia si alza dal primo sonno. È dunque l’alba di un nuovo giorno che simboleggia l’alba della civiltà. Cosi il quadro di Ottawa corrisponde in modo dimostrabile al quadro di Hartford nonsoltanto per lo stile e la dimensione, ma anche dal punto di vista iconografico. Vasari menziona un dipinto di Piero di Cosimo oggi perduto o almeno sconosciuto che mostra Marte e Venere con i suoi Amori e Vulcano. Questo quadro, raffigurando in vero un terzo capitolo della vita di Vulcano, avrebbe ben potuto ricostruire il terzo elemento di un’unica serie corrente. Il quadro di Ottawa può confrontarsi con due pannelli uno a Monaco, l’altro a Strasburgo, che rappresentano il mito di Prometeo e di Epimeteo, in ambedue questi casi l’immaginazione dell’artista si concentra sul risveglio dell’umanità grazie al fuoco. Tuttavia i pannelli di Prometeo sembrano appartenere all’ultimissimo periodo dell’attività di Piero, e differiscono per lo stile e l’esecuzione dalle composizioni su Vulcano, oltre a differirne per contenuti e atmosfera: soppressione rigorosa dei dettagli realistici e pittoreschi in favore della semplicità e della concentrazione drammatica descrivono una fase della civiltà umana che ha superato definitivamente lo stadio primitivo rappresentato nel quadro di Vulcano. I mitografi più tardi, specialmente Boccaccio, hanno sempre insistito sul fatto che Vulcano personifica il fuoco fisico, mentre la torcia di Prometeo accesa alle ruote del carro del sole reca il fuoco celeste che rappresenta la chiarezza della conoscenza infusa nel cuore dell’ignorante. Vi è però un’altra serie di piccoli pannelli di Piero di Cosimo che si connette con i quadri vulcanici non soltanto intellettualmente ma anche quanto allo stile, al periodo, all’atteggiamento estetico e forse alla destinazione. Questa serie consiste: 1. Scena di caccia e del Ritorno alla caccia, ambedue al Metropolitan Museum di New York 2. Paesaggio con animali, un tempo posseduto dal principe Paolo di Iugoslavia, ora all’Ashmolean Museum di Oxford. Questi tre pannelli raffigurano la fase della storia umana che precedette gli sviluppi tecnici e sociali indotti dall’insegnamento di Vulcano, in altre parole l’età della pietra. Hanno tutti e tre in comune l’assenza delle conquiste accentuate nel quadro di Ottawa (vestiti, utensili ecc.). L’ignoranza dell’umanità circa l’uso del fuoco è visibilmente accentuato dal leitmotiv di tutta la serie: l’incendio della foresta che può vedersi devastare i boschi e atterrire gli animi in tutti e tre i pannelli. Si tratta di un attributo iconografico piuttosto che di un concetto capriccioso, poiché è identico al famoso incendio della foresta che ha perseguitato la fantasia di Lucrezio, Diodoro Siculo, Plinio, Vitruvio e Boccaccio. Entro questo programma generale di umanità primitiva i due dipinti del Metropolitan Museum sembrano tra loro più strettamente connessi di quanto ciascuno di essi si collega al pannello di Oxford, non soltanto per la dimensione ma anche per il contenuto: nei due quadri del Metropolitan prevale una sfrenata passionalità: - Scena di caccia: vi è orrore e morte, con uno spaventoso cadavere in primo piano, non appaiono donne nella composizione, né vi si può discernere traccia alcuna di attività costruttiva. - Ritorno dalla caccia: presenta la medesima forma di esistenza di una luce poco più serena. L’uccidere feroce è terminato e si porta a casa il bottino sulle ingegnose imbarcazioni. Un uomo è raffigurato nell’atto di costruire una nuova zattera, le signore qui non sono assenti. - Pannello di Oxford: passioni protoumane si sono placate e si evidenzia un certo progresso verso la civiltà. Vi è una capannina presso la quale si possono vedere figure affaccendate con primitivi vasi, l’uomo in secondo piano a destra porta, anziché pelli non conce, un abito rozzo di guaio. La foresta e ancora gremita delle strane creature derivanti dall’accoppiamento promiscuo tra uomini ed animali, che dividono l’ambiente con leoni, cervi ecc. Questi animali e semianimali non sono tanto pacifici, quanto spossati dalla fuga e abbruttiti dal terrore per l’incendio della foresta. Anche l’uomo è ora consapevole di semidei classici, che incarnano e rivelano i principi naturali indispensabili al progresso dell’umanità. L’ossessione di Piero per le nozioni primitivistiche e la sua capacità di portarli alla vita col pennello sono spiegate da Vasari: nei suoi quadri la vita primitiva non è trasfigurata in uno spirito di sentimentalismo utopistico, ma rimessa in scena con il massimo realismo e concretezza. Piero infatti non idealizza, ma realizza le prime fasi dell’evoluzione dell’uomo in modo che le più fantastiche tra le sue creature, come gli animali con volto umano, siano una pura applicazione di teorie evoluzionistiche serie; le capanne di ceppi non regolari, le imbarcazioni bizzarramente conformate, tutti i dettagli pittoreschi sono fondati su ricerche archeologiche e trovano un parallelo soltanto nelle illustrazioni scientifiche. Capitolo III – Il Padre Tempo La reintegrazione di motivi e dei temi classici è un aspetto del movimento artistico rinascimentale. Più grande e più pericoloso dal punto di vista del cristianesimo, era il numero di opere nelle quali lo spirito rinascimentale non si confinava alla restaurazione dei tipi classici, ma mirava ad una sintesi figurativa ed emotiva tra il passato pagano e il presente cristiano. A tale sintesi si perveniva con metodi diversi: il metodo più largamente usato si potrebbe chiamare re-interpretazione delle immagini classiche, ciò poteva essere fatto: - Per via di contrasto, ovvero quando nell’affresco di Filippino Lippi in Santa Maria Novella, San Filippo esorcizza il drago di fronte ad uno sfondo architettonico pieno di simboli pagani (immagini investite di un nuovo contenuto simbolico di carattere profano, ma assolutamente non classico). - Per via di assimilazione, come il caso in cui Cristo ripete i motivi dell’Apollo del Belvedere (immagini assoggettate alle concezioni specificatamente cristiane). Esistono numerosi altri casi in cui le tradizioni classiche riportate in luce si fondevano quasi naturalmente con le tradizioni medievali tuttora vive: alcuni tra gli abbigliamenti o attribuiti medievali avrebbero continuato ad aderire alla forma rimodellata, inserendo cosi nel contenuto dell’immagine nuova un elemento medievale. Ciò portò al fenomeno della pseudomorfosi, ovvero il fatto che certe figure del Rinascimento risultarono investite di un significato che non era comparso affatto nei rispettivi prototipi classici, sebbene fosse stato frequentemente nascosto nella letteratura classica. Il Padre Tempo: degli attributi che servono a rendere riconoscibile una personificazione, presenta soltanto la vecchiaia e la falce. Nell’arte rinascimentale e barocca, il Padre Tempo è generalmente alato e per la massima parte nudo; alla falce o il si aggiungono una clessidra, un serpente o un dragone che si morde la coda, ovvero lo zodiaco, e in molti casi egli cammina su grucce. Nessuna delle combinazioni che costituiscono il tipo del Padre Tempo nel senso moderno può ritrovarsi nell’arte antica; in essa scopriamo due tipi principali di concezioni di immagini: 1. Rappresentazioni del tempo come Kairos: il breve e decisivo momento che segna una svolta nella vita degli esseri umani o nell’evoluzione dell’universo. Questa concezione si illustrava con la figura originariamente conosciuta come Opportunità, che veniva raffigurata in forma di un ragazzo nudo in movimento, con allusione al mutare del luogo; era dotato di ali sulla schiena e sui piedi, e sul capo aveva un ciuffo da cui si poteva afferrare. I suoi attributi erano un paio di bilance e, in un periodo più tardo, una o due ruote. A causa di questo carattere astrusamente allegorico la figura di Kairos sopravvisse fino all’XI secolo fondendosi con la figura della Fortuna. 2. L’opposto esatto dell’idea di Kairos trova rappresentazione nella concezione iraniana del tempo come Aion: il divino principio della creazione eterna ed inesauribile. Queste immagini o si connettono a quel culto di Mitra, nel qual caso presentano una sinistra figura alata con una testa di leone, strettamente avviluppato da un enorme serpente e con una chiave in ciascuna mano, oppure dipingono la divinità orfica Phanes, un giovane alato circondato dallo zodiaco e dotato di numerosi attributi di potenza cosmica, anch’egli cinto dalle spire di un serpente. Le immagini antiche del Tempo dunque sono caratterizzate da simboli di rapidità di spostamento e precario equilibrio, o da simboli di potenza universale e fertilità infinita, ma non da simboli di decadenza e distruzione. L’espressione greca per indicare il tempo, Chronos, era assai simile al nome di Kronos, il titano padre di Zeus; era patrono dell’agricoltura, recava di solito un falcetto, ed era un anziano. Quando il culto religioso gradualmente si disintegrò, questa similarità tra le parole Chronos e Kronos portò ad un’unione tra le due concezioni, che per verità avevano alcuni tratti in comune. I neoplatonici infatti interpretarono Kronos, il padre degli dei e degli uomini, come la Mente Cosmica e fusero questa concezione con quella di Chronos, il padre di tutte le cose, il saggio veglio costruttore. I dotti autori del IV e del V secolo a.C. cominciarono a dotare Kronos di attributi nuovi come il dragone o il serpente che si morde la coda, con lo scopo di sottolineare il significato temporale. Ma la sintesi che fece sorgere l’immagine del Padre Tempo come la conosciamo ebbe numerose vicissitudini: nell’arte classica Kronos è una figura di perfetta dignità, caratterizzata da un falcetto, da un velo sul capo e da una postura lugubre col capo che riposa sulla mano, dunque non compaiono mai le ali. Questa figura si alterò durante il Medioevo, in cui l’immagine classica viene riesumata occasionalmente tanto nell’arte bizantina che in quella medio bizantino: rappresentazioni di Saturno che ripetono il tipo classico (visto probabilmente nella casa dei Dioscuri a Pompei) si trovano: - Nelle copie di un calendario trecentesco noto come il Cronografo del 354 o come Calendario di Filocalo. - Nei planetaria che compaiono nei trattati astronomici di origine carolingia e bizantina. - Nei manoscritti dell’XII secolo delle Omelie di San Gregorio, ove sono mostrati avvenimenti del mito di Saturno tra altre scene che rappresentano l’immoralità degli dei pagani; nella miniatura in questione egli divora la pietra in fasce che ha rimpiazzato Giove neonato. - Nelle illustrazioni al capitolo De diis gentilium dell’enciclopedia De universo di Rabano Mauro, che ci è giunta in due copie diverse, una eseguita a Montecassino nel 1023, l’altra fatta nella Germania meridionale nella prima metà del XV secolo. Durante il tardo Medioevo l’arte occidentale abbandonò le figurazioni carolinge che caddero nell’oblio fino al XV secolo: si riteneva che Saturno avesse un carattere sinistro, in quanto veniva associato alla vecchiezza, alla povertà e alla morte. Solo nell’ultimo quarto del XV secolo i neoplatonici fiorentini ritornarono al concetto plotiniano di Saturno, onorandolo come esponente e patrono della contemplazione filosofica e religiosa profonda, identificando Giove con la pura intelligenza pratica e razionale. L’immaginazione astrologica non cessò mai di sottolineare queste implicazioni sfavorevoli: Saturno appare nella massima parte dei casi come un vecchio tetro e ammalato di aspetto rustico; il falcetto o la falce sono spesso sostituiti da una zappa o da una vanga, anche quando si era presentato come sovrano in trono e incoronato, e la vanga tende a trasformarsi in un sostegno o in una gruccia, a indicare la vecchiezza e decrepitezza generale. Nelle illustrazioni mitografiche, che si erano evolute esclusivamente in base alle fonti letterarie, l’aspetto di Saturno si sviluppa dal fantastico al terrificante e al repulsivo: nel primo esempio noto, il disegno di Regensburg del 1100 circa, egli porta un ampio velo, reca una falce e il drago che si morde la coda. Il tipo standard si sviluppò nel XIV secolo, quando si comincia ad illustrare l’Ovidio moralizzato e i miniaturisti non si facevano scrupolo di dipingere l’atto di divorare un bambino vivo: quest’immagine di cannibalismo doveva diventare il tipo accettato nell’arte tardo medievale e infine si fuse con le rappresentazioni astrologiche, così che talvolta troviamo una combinazione della castrazione col cibarsi del bambino, o una combinazione del pasto con il motivo della gamba di legno. La scena del pasto e la castrazione continuano nel tardo Rinascimento e nell’arte barocca (es. affreschi di Villa Lante di Giulio Romano). Tale era la situazione quando gli artisti cominciarono ad illustrare i Trionfi del Petrarca: l’apparenza esteriore del tempo non e stata descritta dal poeta se non per il suo “andare leggero”, perciò gli illustratori avevano piena libertà di rappresentarlo nella forma preferita. Il Tempo di Petrarca era un’allarmante potenza concreta e gli illustratori decisero di fondere l’innocua personificazione del Tempo con le immagini sinistre di Saturno: dalla prima ripresero le ali, dalla seconda l’aspetto tetro e decrepito, le grucce e tratti strettamente saturniani come il falcetto e il motivo cannibalesco. Che questa nuova immagine personificasse il Tempo viene spesso indicato e sottolineato mediante una clessidra e talvolta mediante lo zodiaco o il drago che si morde la coda. L’origine della figura del Padre Tempo è mezza classica e mezza medievale, mezzo occidentale e mezzo orientale, e illustra tanto la grandiosità astratta di un principio filosofico quanto la voracità maligna di un demone distruttivo. La figura del Padre Tempo viene impiegata come espediente per indicare il trascorrere dei mesi, degli anni o dei secoli; in altri ancor più numerosi casi la figura del Padre Tempo è investita di un più preciso significato: può agire sia come distruttore, sia come rivelatore, sia come potenza universale inesorabile che, attraverso un ciclo di procreazione e distruzione, determina quella che potremmo chiamare la continuità cosmica. Il Tempo dunque in un primo momento si è appropriato delle qualità del cannibale Saturno che brandisce il falcetto, ed è entrato in relazione sempre più stretta con la Morte, e in seguito fu dall’immagine del Tempo che verso gli ultimi anni del XV secolo le rappresentazioni della Morte cominciarono a desumere la caratteristica clessidra e le ali, come nel caso della tomba berniniana per Alessandro VII (1671-78). Il Tempo a sua volta poteva raffigurarsi come ministro della Morte, che egli provvede di vittime, o come demone dai denti di ferro ritto in mezzo alle rovine. Questa concezione del dente del Tempo è resa in modo estremamente letterale nel frontespizio di una pubblicazione seicentesca delle Cento statue romani risparmiate dall’invidioso dente del tempo: in essa vediamo il Padre Tempo con la falce e il serpente che si morde la coda tra frammenti di architetture e di statue, che morde il Torso del Belvedere esattamente allo stesso modo in cui il vecchio Saturno era stato raffigurato mentre divora i suoi figli. Il Tempo come Rivelatore è noto da molti proverbi e locuzioni poetiche, ma anche da innumerevoli rappresentazioni di soggetti quali la Verità rivelata o salvato dal Tempo, la Virtù vendicata dal Tempo, l’Innocenza giustificata dal Tempo; l’interpretazione artistica del tema del Tempo e della Verità sono state trattate in un articolo del dottor Saxl; 2 arazzi come esempi: 1. Nella Galleria degli Arazzi a Firenze ne è in mostra uno su cartone di Angelo Bronzino, eseguito dal maestro tessitore fiammingo Jan Rost: in questa composizione, chiamata l’ Innocenza del Bronzino (in un inventario del 1549), l’Innocenza è ritratta mentre minacciata dalle potenze del male, simboleggiate da quattro animali selvaggi che rappresentano l’Invidia, la Furia, l’Avarizia e la Perfidia; l’Innocenza è salvata dalla Giustizia, che reca una spada e una bilancia, mentre il Tempo alato, con sulla spalla una clessidra traforata, abbraccia una giovinetta e nel frattempo le toglie il velo, così l’Innocenza diventa personificazione della Verità. Poeti come Lucrezio o Oppiano esaltavano l’amore come forza onnipresente e onnipotente, ma la concepivano quale principio naturale e non metafisico, che pervadeva, ma non trascendeva l’universo materiale. Nella poesia lirica si dipingeva l’amore come la più forte tra le passioni umane. Il credo cattolico attrasse invece l’Oriente islamico e fu adottato dai padri della Chiesa, i quali trasformarono la teoria platonica dell’amore in una teoria della divina caritas: il concetto di caritas fu esteso successivamente al disinteressato amore dell’uomo per Dio e per i suoi fratelli, così la caritas stava in aspro contrasto con le diverse forme di amore sensuale. Questo contrasto si attenua quando i poeti del XII secolo sublimarono l’amore sensuale in quanto i Trovatori ed i loro seguaci chiamarono Amour o Minne, mentre la teologia del XII secolo deviava verso il misticismo emotivo e le passioni religiose si concentravano sulla Vergine Maria. La concezione di amore sensuale dunque si spiritualizzò, e su questa base il XIII sec. riuscì ad attingere una riconciliazione temporanea tra cupiditas e caritas: una simbiosi inestricabile tra l’oggetto concreto dell’amore umano e un’entità metafisica di carattere più o meno religioso (es. donna angelo degli stilnovisti). Petrarca riumanizzò e risessualizzò l’oggetto della sua passione, infatti la Laura di Petrarca non cessa mai di essere una creatura umana reale: l’antitesi teologica tra caritas e cupiditas riappare dunque in Petrarca come tensione psicologica. I poeti più rappresentativi del Dolce Stil Novo non si attentano di dare alcuna descrizione visiva dell’Amore perche lo identificano come un principe tanto spirituale e sublime da trascendereper definizione il regno dell’esperienza dei sensi. Gli autori di poesia epica allegorica descrivono il Signor Amore e le Dieu Amour come figura visibile o piuttosto come visione: Cupido è ritratto non più come un bambino, ma come un adolescente di aspetto principesco, alato, splendidamente abbigliato, col capo cinto da una corona o da un serto; spesso siede su un trono o compare in un bel giardino, preferibilmente in cima a un Albero (motivo che può farsi risalire fino ad Apuleio), è armato di una fiaccola o di arco e frecce o di due archi, uno liscio di legno bianco o avorio, l’altro scuro e nodoso (ciascun arco ha frecce appropriate: d’oro per suscitare amore e nere, generalmente di piombo, per estinguerlo). La bellezza di Amore è spesso comparata a quella degli angeli e Dante giunge fino a caratterizzare Amore esattamente negli stessi termini impiegati dal Vangelo di Marco per descrivere l’Angelo che rivela alle tante donne la risurrezione di Cristo; in queste descrizioni poetiche Amore non è mai cieco. Un commentatore cinquecentesco del Petrarca nota, parlando dell’immagine di Amore, che sarebbe biasimevole se gli organi per mezzo dei quali l’amore nasce e piace, cioè gli occhi, fossero ciechi, “non essendo altro d’amore principio che la bellezza”. Nel XIV secolo alcuni poeti compiono digressioni per insistere sul fatto che Cupido non è cieco. Un’elegia di Properzio non soltanto descrive l’immagine di Cupido, ma offre anche una spiegazione allegorica dei suoi aspetti caratteristici: l’aspetto infantile simboleggia il comportamento illogico degli amanti; le ali indicano l’instabilità volubile delle emozioni amorose, e le frecce le ferite incurabili che l’amore affligge all’anima umana. La poesia romana dunque aveva già elaborato un’interpretazione moralizzante dell’immagine di Cupido, che era nettamente pessimistica poiché l’amore veniva concepito come esperienza pericolosa e penosa; negli scritti mitografici questa interpretazione dell’amore come fonte di rischio persistete si sviluppò. Gli autori tardoantichi, che trasmisero il materiale mitografico all’Eta di Mezzo, procedettero esattamente sulle medesime linee di Properzio, dunque l’attenzione degli scrittori medievali restava focalizzata sul piccolo idolo nudo di pagana memoria, e la disapprovazione del suo significato si acuiva a causa della loro visione teologica. Successivamente viene aggiunta la cecità agli altri attributi di Cupido; non v’e descrizione del pagano Cupido successiva al Mythographus III che non insista sulla sua cecità. Interpretazioni allegoriche di questo difetto: Cupido è nudo e cieco perché priva gli uomini degli abiti, dei possedimenti, del buon senso e della saggezza; è cieco perche non gli importa ove si volga e perché la gente è da lui accecata. I pittori dunque gli coprono gli occhi con una benda per sottolineare che le persone innamorate non sanno dove vadano, essendo prive di giudizio e discriminazione, e guidate dalla pura passione. 2 correnti di pensiero: 1. Scrittori che interpretano allegoricamente come sopracitato la cecità di Cupido. 2. Poeti rinascimentali e barocchi che parafrasano questa moralizzazione tradizionale, dicendo che Cupido cieco era stato inventato e stigmatizzato dai mitografi moraleggianti. Per l’osservatore moderno la benda sugli occhi di Cupido significa una scherzosa allusione al carattere irrazionale e alquanto sconcertante delle sensazioni e delle scelte amorose, ma secondo i criteri dell’iconografia tradizionale, la cecità di Cupido lo pone definitivamente sul lato oscuro del mondo morale. La cecità si associa pertanto sempre al male, se si eccettua la cecità di Omero, che si riteneva servisse a tenere la sua mente intatta rispetto agli appetiti sensuali, e quella della Giustizia, che si intendeva assicurasse l’imparzialità; ambedue queste interpretazioni sono comunque estranee sia al pensiero classico sia a quello medievale. Nel Medioevo troviamo un’associazione fissata tra il Giorno (governato dal Sole), e la Vita e il Nuovo Testamento e tra la Notte (governata dalla Luna) e la Morte e il Vecchio Testamento; queste connessioni sono sottolineate in numerose rappresentazioni della crocifissione, ove i diversi simboli del bene, compresa una personificazione della Chiesa, compaiono alla destra del Cristo mentre i simboli del male, compresa una personificazione della Sinagoga, si trovano alla sua sinistra. Verso l’XI sec., la cecità aveva cominciato ad essere mostrata mediante un simbolo nuovo: la benda; essa comparve in una miniatura intorno al 975, ove la Notte è rappresentata da una donna bendata. Il motivo nuovo giunse a farsi trasferire prima alla ottenebrata Sinagoga, poi, con ulteriore espansione del concetto, a personificazioni come l’Infedeltà e la Morte. La Sinagoga bendata era comunemente connessa con il verso di Geremia; la si trova fin dalla metà del XII secolo e doveva presto diventare una figura tipica nell’arte e nella letteratura medievale. La Morte bendata appare un poco più tardi: le prime sulla facciata ovest di Notre-Dame de Paris, Amiens e Reims, dove una sinistra femmina bendata, la Morte, è raffigurata nell’atto di dilaniare la sua vittima, ma il motivo della benda persistette spesso anche quando la Morte era ormai rappresentata come un puro scheletro. Dunque la Morte, la Fortuna e Cupido erano ciechi non solo come personificazioni di uno stato di mente ottenebrato, o di una forma di esistenza priva di luce, ma anche di una forza attiva che si comportava come persona priva di vista. Quest’immagine di cupido cieco si evolse in modi diversi a seconda delle condizioni storiche; l’arte tedesca, forse a causa del fatto che le parole Liebe e Minne sono ambedue di genere femminile, mostra una forte tendenza a personificare Cupido cieco mediante una figura femminile; in Francia e nelle Fiandre l’influenza della tradizione pittorica costituitasi per l’attrattiva del Roman de la Rose era tanto forte che il Cupido mitografico che si trova nelle illustrazioni dell’Ovidio moralizzato, sebbene bendato, tendeva a serbare l’abbigliamento principesco e l’aspetto maturo del Dieu Amour. Fu nel Trecento e nel Quattrocento italiano che il processo di quanto abbiamo chiamato pseudomorfosi doveva completarsi: qui Cupido, senza mutare sesso, si ridusse di taglia, fu privato dell’abbigliamento e si sviluppò cosi nel garzone o putto popolare dell’arte rinascimentale e barocca che riassumeva l’apparenza del puer alatus classico, eccezion fatta per la sua cecità di recente acquisto. Il tipico Cupido del Rinascimento, quale è esemplificato nell’ affresco di Piero della Francesca in San Francesco ad Arezzo, lo rappresenta come un fanciullo alato o praticamente nudo e pertanto costituiscono i più precoci ritorni al tipo classico. Vi sono però immagini che mostrano Cupido bendato e con artigli, come in uso per le immagini del Diavolo e talvolta della Morte.; un esempio e nell’allegoria giottesca della Castità in San Francesco ad Assisi: qui Cupido e il suo nudo compagno Ardor vengono scacciati dalla Torre della Castità dalla Morte; l’intera composizione è impostata sulle linee di un’espulsione dal Paradiso. Cupido è dipinto come un fanciullo di 12/13 anni, con le ali e una corona di rose, gli occhi sono bendati ed è interamente nudo; anziché piedi umani ha zampe di grifone, questo tipo si riscontra: - In alcuni tondi e pannelli da cassone del Quattrocento, e vi è un Cupido artigliato, coronato di rose e ornato di cuori in un arazzo cinquecentesco che illustra il Trionfo dell’Amore di Petrarca. - Nell’affresco del castello di Sabbionara di Avio troviamo Cupido cieco, raffigurato in piedi su un cavallo al galoppo. Così il Cupido dalle zampe di grifone esiste in due versioni indipendenti: a piedi e con la filza di cuori oppure su un cavallo senza; ambedue le versioni derivano da una fonte comune che mostra in combinazione la filza di cuori e il cavallo. Francesco da Barberino scrisse un trattato intitolato “Documenti d’amore”, le illustrazioni di tale trattato combinano i tratti delle versioni di Sabbionara e di Assisi: mostrano la nuda fanciullesca figura di Cupido, le ali, gli artigli, le rose, la faretra, la filza di cuori e il cavallo. Barberino distingue: - Amore Divino: l’amore consentito agli umani. - Illecite passioni sensuali: troppo basse per meritare il nome d’amore. Si sforza di glorificare l’Amore Divino e commenta un’immagine escogitata in passato da quelli che egli chiama “i saggi”. Quest’immagine aveva rappresentato il Cupido mitografico, ma Barberino la interpreta in modo tale che ogni dettaglio si trova investito di un nuovo e favorevole significato: salvo per il fatto che Cupido non è bendato, il quadro descritto in questo poema può essere adoperato per ricostruire l’immagine tradizionale che è stata il prototipo sia del Cupido di Assisi e quello di Sabbionara. Questo prototipo, che raffigurava il meno santo tra i tipi di amore, deve essere stato immaginato parecchio tempo prima che Barberino scrivesse il suo trattato, deve aver contenuto un cavallo che simboleggiava l’amante e deve aver mostrato gli artigli che Barberino spiega come zampe di falcone, a simboleggiare la salda presa dell’Amore Divino; esse originariamente erano state senza dubbio zampe di grifoni secondo l’immagine del Cupido mitografico descritta da Boccaccio, ed avevano denotato un carattere più diabolico che angelico. Emergono due fatti: 1. Nel XIV secolo la cecità di Cupido aveva un senso tanto preciso che la sua immagine poteva mutarsi da una personificazione dell’Amore Divino ad una personificazione dell’illecita Sensualità, e viceversa, semplicemente aggiungendo o rimuovendo la benda. 2. Il familiare tipo rinascimentale di Cupido, il nudo fanciullo cieco con l’arco, nacque come piccolo mostro, creato per finalità edificanti. Questo piccolo mostro era di atteggiamento tanto simile ai nudi putti che cominciavano in quel medesimo torno di tempo ad invadere l’arte del Trecento con funzione puramente decorativa, dunque la fusione fu inevitabile: il tipo di Assisi venne umanizzato sia in senso letterale che figurativo e attraverso l’imitazione consapevole dei modelli classici si evolse nel tipico Cupido rinascimentale: fanciullo nudo alato, armato di arco e frecce, con gli occhi coperti dalla benda, ma non più sfigurato nell’aspetto dalle zampe di grifo. Quando quest’immagine nuda e fanciullesca divenne comune il motivo della benda cessò di essere portatore di un significato specifico; la maggioranza degli artisti rinascimentali presero ad usare Cupido cieco e Cupido veggente quasi a caso (nelle illustrazioni dei Trionfi di Petrarca appaiono indiscriminatamente ambedue i tipi). In realtà la discussione sulla cecità o non cecità di Cupido restò assai viva nella letteratura rinascimentale, peraltro con questa differenza, che si trasferì ad un livello decisamente umanistico: talvolta gli autori esercitarono l’ingegno nell’opportuna parafrasi delle antiche moralizzazioni corpo una forma inerente alla materia, l’anima una forma unicamente ad esso aderente. E come lo spiritus mundanus interconnetti il mondo sublunare a quello traslunare, uno spiritus humanus interconnette il corpo con l’anima. Ora, l’anima consiste in cinque facolta raggruppate sotto il nome di anima prima ed anima secunda. L’anima secunda, o anima inferiore, vive a stretto contatto col corpo e consiste di quelle tre facolta che nello stesso tempo dirigono le funzioni fisiologiche e ne dipendono: la facolta della generazione, nutrimento e crescita; la percezione esterna, vale a dire i cinque sensi che ricevono e trasmettono i segnali dal mondo esterno; e la percezione interiore o immaginazione, che unifica questi segnali dispersi in immagini psicologiche coerenti. L’anima inferiore non e libera, ma determinata dal fato. L’anima prima comprende due facolta: la Ragione e la Mente. La ragione e piu vicina all’anima inferiore; coordina le immagini fornite dall’immaginazione secondo le regole della logica. La Mente puo afferrare la verita contemplando direttamente le idee sopracelesti. Mentre la Ragione e discorsiva e riflessiva, la Mente e intuitiva e creativa. La Ragione e coinvolta nelle esperienze. La Mente comunica con l’intellectus divinus e persino le partecipa. La Ragione e libera e puo permettersi sia di lasciarsi trasportare dalle sensazioni e dalle emozioni inferiori, sia di superarle. Il che significa conflitto. La Mente deve illuminare la Ragione durante il contrasto. Poiche la Ragione puo vincere gli impulsi della natura inferiore dell’uomo soltanto volgendosi per illuminazione ad un’autorita superiore, e pertanto la Mente e spesso costretta a considerare un turbamento che si svolge al di sotto del suo livello, anziche guardare in alto, come le e piu proprio, al regno sopraceleste, al di sopra di lei. La posizione unica dell’uomo ha in comune le facolta della sua anima inferiore con i brutti animali; ha in comune la Mente con l’intellectus divinus; non e in comune pero la Ragione con null’altro in tutto l’universo. E questo il senso della definizione che Ficino da dell’uomo, come anima razionale che partecipa della mente divina, e che usa il corpo. L’uomo e il legame che connette Dio e il mondo. Con gli impulsi sessuali che vacillano tra sottomissione e rivolta, la sua Ragione che si trova alternativamente dinnanzi al fallimento e al successo, e persino la Mente che, pur sottratta a qualsiasi rischio, spesso e distratta dal suo specifico compito, l’anima immortale dell’uomo e sempre miserabile nel corpo; in esso dorme, sogna, delira e soffre, ed e colma di nostalgia senza pace, che soddisfera infine soltanto quando tornera la, donde e venuta. Quando l’anima umana si riprende dalla caduta e comincia a ricordare, per quanto oscuramente, le sue esperienze pre esistenziali, la Mente puo distaccarsi da tutto l’indiretto turbamento che normalmente ne inceppa l’attivita; l’uomo puo allora attingere, anche durante la sua vita sulla terra, a una beatitudine temporale che nel contempo ne garantisce la redenzione nella vita ultraterrena. Questa beatitudine temporale e duplice: la Ragione umana, illuminata dalla Mente umana, puo applicarsi al compito di perfezionare la vita e il destino umano sulla terra; e la sua Mente puo penetrare direttamente entro il regno dell’eterna verita e bellezza. Nel primo caso l’uomo pratica le virtu morali comprese sotto il nome di iustitia, emula i personaggi biblici di Lea e di Marta e cosmologicamente si lega a Giove. Nel secondo caso aggiunge le virtu teologiche a quelle morali e si dedica alla vita contemplativa seguendo l’esempio di Rachele e della Maddalena e ponendosi sotto la tutela di Saturno. C’era entro l’Accademia platonica qualche divergenza di opinione. Landino si sforza di essere imparziale. Confronta iustitia e religio a due ali ciascuna delle quali solleva l’anima a piu altre sfere. Cerca di raggiungere un compromesso osservando che Marta e Maria sono state sorelle ed erano vissute sotto il medesimo tetto e che ambedue erano state gradite agli occhi del Signore. Ficino fu piu radicale nell’esporre la causa della vita contemplativa. Per lui l’apprendimento intuitivo, non la razionale messa in pratica di valori terreni, e praticamente l’unica strada per raggiungere la beatitudine temporale. La felicita totale giunge soltanto in quei momenti squisiti in cui la contemplazione si leva sino all’estasi. Questa beatitudine ineffabile, sperimentata dalle Sibille, dai profeti ebrei e dai mistici cristiani e quanto Platone descrive come la bella frenesia del poeta, il rapimento del veggente, l’ebrezza del mistico, e l’estasi dell’amante. Di queste quattro forme di follia ispirata, il furor amatorius, che e, nelle parole di Ficino, una morte volontaria, e la piu potente e sublime. Non poteva scorgere alcune differenza essenziale tra l’eros platonico e la caritas cristiana. Quando Ficino dono ad un amico una copia del suo commento al Convito platonico, con una del suo trattato De christiana religione, scrisse a mo’ di spiegazione : “Ecco l’Amor che ti avevo promesso, ma ti mando anche la Religio per farti comprendere che il mio amore e religioso e la mia religione e amatoria”. L’idea dell’amore e l’asse stesso del sistema filosofico ficiniano. L’amore e la potenza motivante che fa si che Dio effonda la sua essenza nel mondo. Secondo Ficino amor non e che e un altro nome di quella corrente che ritorna in se stessa da Dio al mondo e dal mondo a Dio. L’amore e sempre desiderio. Quando non si relaziona ai poteri conoscitivi, il desiderio resta una pura urgenza naturale pari alla cieca forza che fa crescere le piante o cadere la pietra al suolo. Soltanto quando il desiderio, diretto dalle virtu cognitive, si rende consapevole di una meta ultima, merita il nome di amore. L’amore andra pertanto definito come desiderio di fruire la bellezza o desiderio di bellezza. Tale bellezza e diffusa in tutto l’universo ed esiste in due forme che sono simboleggiate dalle due Veneri di cui si parla nel Simposio platonico. La Venus Coelestis, figlia di Urano e non ha la madre, il che significa che appartiene ad una sfera totalmente immateriale, in quanto la parola mater veniva associata alla parola materia. Abita il luogo supremo vale a dire la zona di lamenti cosmica e la belta da lei simboleggiata e lo splendore primario ed universale della divinita. Puo pertanto compararsi a Caritas, la mediatrice tra la mente umana e Dio. La Venus Vulgaris e figlia di Zeus-Giove e di Dione- Giunone. Sua dimora e la zona posta tra la Mente Cosmica e il mondo sublunare, cioe il regno dell’Anima Cosmica. La bellezza da lei simboleggiata costituisce pertanto un’immagine particolarizzata della belta primaria, non piu divorziata dal mondo corporeo, ma in esso realizzata. Mentre la Venere celeste e intelligenza pura, la seconda Venere e una vis generandi, che, come la Venus Genetrix di Lucrezio, da vita e forma alle cose della natura ponendo cosi la bellezza intellegibile alla portata della nostra percezione e della nostra immaginazione. Ciascuna delle due Veneri e accompagnata da un Eros o Amor congeniale. L’amore celeste o amor divinus si impadronisce della suprema facolta umana, cioe la Mente o intelletto, e la costringe a contemplare lo splendore intellegibile della belta divina. Il figlio della seconda Venere, l’amor vulgaris, prende possesso delle facolta intermedie dell’uomo, cioe l’immaginazione e la percezione dei sensi, e lo spinge a procreare una similitudine della divina bellezza nel mondo fisico. In Ficino ambedue le Veneri e ambedue gli amori sono onorevoli e degni di lode, poiche ambedue perseguono la creazione della bellezza, sebbene ciascuna alla propria maniera. Una differenza di valore tra una forma contemplativa d’amore che sale dal visibile e particolare all’intelligibile ed universale ed e una forma attiva d’amore che trova soddisfazione entro la sfera visibile, mentre nessun valore puo conferirsi al desiderio puro. Soltanto chi si trovi alla prima fase dell’esperienza visibile, fase inevitabile, sulla via della bellezza intellegibili ed universale raggiunge lo stadio di quell’amore divino che lo rende eguale ai santi ed ai profeti. Che soddisfi della bellezza visibile resta entro il dominio dell’amore umano. E chi non sia sensibile neppure alla bellezza visibile, o s’irretisca nell’orgia o abbandoni per i piaceri sensuali uno stadio contemplativo gia raggiunto, cade preda di un amore bestiale che secondo Ficino e piu una malattia che un vizio: e una forma d’insania causata dalla ritenzione di umori dannosi entro il cuore. Personalmente Ficino conduceva una vitacasta e sobria, come a suo avviso si conveniva alla dignita del dotto, preservandone la salute. Sfida le classificazioni morali allo stesso modo in cui l’intera sua filosofia sfida le alternative come l’ottimismo o il pessimismo, l’immanenza o la trascendenza, il sensismo o il concettualismo. Questa filosofia deve stimolare l’immaginazione di tutti coloro che anelavano a forme nuove di espressione dei conflitti paurosi ma fecondi dell’epoca: conflitti tra liberta e coercizione, fede e pensiero. La lode di un amore sublime separato dagli impulsi bassi, pur consentendo una gioia intensa per la bellezza visibile e tangibile, necessariamente allettava il gusto di una societa raffinata. Cosi le opere canoniche che espongono la teoria platonica dell’amore, cioe il commento di Ficino al Convito platonico, piu tardi generalmente citato come il Convito di Ficino e il commento dovuto a Pico della Mirandola di un lungo poema di Girolamo Benivieni, versificare della dottrina ficiniana, ebbero scarso seguito per quanto riguarda i libri strettamente filosofici. I Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo sono l’unico trattato cinquecentesco che possa considerarsi opera di un pensatore costruttivo. Esercitarono un’influenza immensa sia diretta che indiretta su artisti, poeti e quelli che potremmo chiamare pensatori poetici, da Michelangelo a Giordano Bruno, tasso. Determinarono una valanga di Dialoghi d’Amore e sembrano aver esercitato nella societa del Cinquecento un ruolo non dissimile dai volumi semipopolari di psicanalisi dei nostri giorni. Quella che era stata una filosofia esoterica divenne un tipo di gioco sociale. Prototipi di tali dialoghi sono gli Asolani di Pietro Bembo e il Cortigiano del conte Baldassarre da Castiglione che dichiara il proprio debito al Bembo facendone il portavoce della dottrina platonica. Per comprensione reale della filosofia ficiniana, gli Asolani, e il Cortigiano sono di gran lunga superiori a tutti gli altri campioni della specie, alcuni dei quali rivelano una maggiore propensione alla titolo corretto, Geminae Veneres, si puo comprendere il quadro ed e il dotto, piuttosto che l’osservatore ingenuo, a trovarne ardua l’interpretazione. Mentre Bandinelli e complicato e severamente lineare, Tiziano e semplice sensualmente coloristico. E mentre Bandinelli mostra Ragione e Sensualita in lotta amara e incerta, Tiziano dipinge un’armonia mirabile tra bellezza intellegibile e bellezza visibile. In un caso abbiamo il neoplatonismo nell’interpretazione di un manierista fiorentino, nell’altro nell’interpretazione di un rappresentante del Rinascimento veneziano al suo culmine. Il quadro Di Tiziano non e indipendente dalla tradizione precedente sia nell’iconografia che nella composizione. Il Rinascimento sapeva bene che Prassitele aveva scolpito due statue famose di Venere, una vestita, l’altra nuda, e che quella nuda, dopo essere stata rifiutata dagli abitanti di Coo, era divenuta la gloria di quelli dell’isola di Chio. Forza di questa informazione che Mantegna fu consigliato di includere due Venere, una vestita e l’altra nuda nel suo Trionfo del dio Como. Che queste due Veneri dovessero gia intendersi come rappresentati della Venere celeste e di quella terrestre o naturale non si puo dimostrare, ma sembra assai probabile che alcuni tra i dotti amici di Isabella d’Este, per la quale viene eseguita la pittura di Como, erano autorita celebri sull’amore platonico e Luciano si era riferito al nudo di Cnido come alla Venere Celeste. Lo schema della composizione deriva da un tipo antico che ben potrebbe definirsi col termine “quadro di contrasto”: una rappresentazione di due figure allegoriche che simboleggiano e sostengono due principi morali o teologici divergenti. Tali contrasti erano frequenti nella letteratura classica, mentre l’arte classica si era limitata alla rappresentazione piu drammatica di gare vere e proprie, quali quella tra Apollo e Marsia o tra le Muse e le Sirene. Fu necessaria l’accentuazione cristiana sulla parola per far nascere un tipo di dialogo che potesse adattarsi alle dispute tra personificazioni astratte. Mentre le figure partecipanti al dibattito rappresentano concetti come Natura e Ragione, o Natura e Grazia, una di esse e spesso nuda mentre l’altra e vestita; ed e possibilissimo che il rovescio della medaglia francese di Costantino, ove Natura e Grazia sono presentate ciascuna su uno dei lati della Fonte della Vita, fosse ben noto a Tiziano, in quanto era loro il dritto della stessa medaglia gli scultori della Certosa di Pavia. Una miniatura bizantina ove e presentato a San Basilio tra la Felicita mondana e la Vita celeste, la donna vestita rappresenta il principio piu elevato e viceversa, mentre nelle Geminae Veneres di Tiziano, il ruolo e invertito. E la nudita e un motivo iconografico. Nella Bibbia e nella letteratura romana era spesso concepita come reprensibile, in quanto indicava poverta o svergognatezza. In senso figurativa era quasi sempre identificata con la semplicita. Tutte le cose sono nude e aperte agli occhi di Dio. La nuda virtus e la virtu vera apprezzata ai buoni, vecchi tempi quando non contavano ricchezze e distinzione sociale. Alla fine dell’epoca classica la nudita in concreto era divenuta ormai tanto rara nella vita pubblica da doversi spiegare come qualsiasi altro elemento iconografico, tale spiegazione poteva dunque essere tanto sfavorevole che favorevole. I medesimi autori che si affannavano a denigrare le nudita di Cupido e di Venere, interpretavano la nudita delle Grazie come segno di intatta amabilita e sincerita. La teologia morale medievale distingueva quattro significati simbolici delle nudita: la nuditas naturalis, condizione naturale dell’uomo che induce all’umilta; la nuditas temporalis, poverta di beni terreni che puo essere volontaria; la nuditas virtualis, simbolo dell’innocenza; e la nuditas criminalis, segno di lascivia, vanita e dell’assenza di ogni virtu. La pratica artistica aveva in sostanza rifiutato l’ultima di queste quattro varieta, e dovunque l’arte medievale fissi un contrasto deliberato tra una figura nuda ed una, la mancanza vestita di abiti designo il principio inferiore. Fu necessario lo spirito protorinascimentale per interpellare la nudita di Cupido come simbolo della natura spirituale dell’amore o per impiegare una figura interamente nuda a rappresentare una Virtu. Nicola Pisano pote riutilizzare un Ercole nudo come personificazione della Fortezza gia intorno al 1260, ma non prima del 1302-1310 che suo figlio Giovanni oso includere nel gruppo delle Virtu che, nel suo pulpito del Duomo di Pisa, sostiene la regale figura di Maria-Sponsa-Ecclesia, una Temperanza o Castita modellata in base ad una Venus pudica classica. Iconograficamente queste personificazioni ignude delle virtu possiedono ancora un carattere strettamente ecclesiastico, il che vale pure per le prime rappresentazioni della Verita nuda, la quale appare per la prima volta in compagnia di una Misericordia vestita, ad illustrare il verso del salmo 84. Nel Quattrocento italiano pero il concetto di Verita nuda comincio a trasferirsi sul piano secolare. Ne fu responsabile Leon Battista Alberti, che nel suo trattato Della pittura richiamo l’attenzione dei pittori di mentalita moderna sulla Calunnia di Apelle, quale e descritta da Luciano: la condanna e punizione di una vittima innocente tardivamente vendicata dal Pentimento e della Varieta. Nella sua descrizione di questa allegoria Alberti seguiva la fedele traduzione del testo greco. Mentre Luciano, che tace sull’aspetto esteriore della Verita, ha descritto il Pentimento come piangente e pieno di vergogna, l’Alberti rovescia la situazione dicendo: dopo il Pentimento appariva una fanciulla vergognosa e pudica, chiamata la Verita. Mentre il pentimento implica un senso di colpa simile alla vergogna, la Verita non e concepibile sia vergognosa e pudica, salvo che per la sua nudita: e evidente che l’Alberti gia immaginava la Verita come figura nuda del tipo della Venus Pudica, quale appare nel pannello di Botticelli e in numerose altre parafrasi e rappresentazioni del tema della Calunnia. Cosi la figura della nuda Veritas divenne una delle personificazioni piu popolari dell’arte rinascimentale e barocca. La nudita in quanto tale, specialmente se messa contrasto col proprio opposto, fini per venire intesa come simbolo della verita in senso filosofico generale. E col sorgere del movimento neoplatonico giunse a significare l’ideale ed intellegibile opposto al fisico e sensibile, l’essenza semplice e vera in contrapposizione alle sue svariate e mutevoli immagini. Amor sacro e profano sembra l’unica composizione in cui Tiziano abbia consapevolemente pagato un tributo alla filosofia neoplatonica. Tuttavia l’ideale delle Due Veneri, una simboleggiante il principio etico, l’altra quello puramente naturale, non manca e nella sua opera successiva. Mentre composizioni quali le numerose varianti della Venere sdraiata glorificano la dea come divinita della bellezza fisica e dell’amore sensuale, altri la idealizzano come protettrice della felicita matrimoniale. Venere appare in due dei piu famosi quadri simbolici di Tiziano: la cosiddetta Allegoria del marchese Alfonso d’Avalos al Louvre, la cosiddetta Educazione di Amore alla Galleria Borghese. L’Allegoria detta del d’Avalos presenta un distinto e solenne signore in armatura che accarezza con affetto ma con rispetto il seno di una giovane, la quale tiene pensosa in grembo un gran globo di vetro. Tre le figure che le si accostano da destra: Cupido alato, che reca sulla spalla un fascio di bacchette, una ragazza coronata di mirto la cui espressione e il cui gesto manifestano intensa devozione ed una terza figura che solleva un ampio cesto di rose e guarda il cielo con eccitazione gioiosa. Il soggetto di questa composizione e la felice unione di una coppia di fidanzati o di sposi novelli. Il gesto del signore si trova in rappresentazioni come il Fidanzamento di Giacobbe e Rachele o nella Sposa ebrea di Rembrandt; e le tre figure aggiunte sono Amore, Fede e Speranza dotati degli attributi speciali opportuni all’occasione. Cupido rappresenta l’amore per definizione, e simbolo di unita. L’appassionata fanciulla dietro di lui e caratterizzata come la Fede in base all’espressione ed al gesto, ma grazie al suo serto di mirto si qualifica per lo speciale ufficio di Fede Maritale; quanto al mirto, la pianta perenne di Venere e quindi simbolo di eterno amore. La terza figura e identificabile con la Speranza per lo sguardo estatico e per il cesto di fiori. Ma che si tratti specificamente di rose trasmettere un significato parallelo alla sostituzione della faretra di Cupido con un fascio di bacchette, poiche la rosa denota la piacevolezza quale sempre deve essere tra gli amici, essendo tra loro continua unione di volonta. Il significato del globo ◊ Il dottor Otto Brendel suggerisce l’interpretazione di armonia, uno dei significati piu comuni della sfera in quanto la forma piu perfetta. Ma che la sfera sia di vetro indica che tale armonia si rompe facilmente. L’uomo, mentre solennemente prende possesso della sua sposa, le consacra il suo amore, la sua fede e la sua speranza. Ella, accettando sia il suo imperio che la sua devozione si sente responsabile di una cosa tanto perfetta e delicata: la loro comune felicita. Il quadro di Tiziano e un ritratto allegorico ma anche mitologico. La relazione affettuosa tra una bella donna e un uomo in armatura, combinata alla presenza di Cupido, suggerisce Marte e Venere. Mente alcuni tra i seguaci e gli imitatori di Tiziano cercano di variare gli elementi allegorici della composizione d’Avalos, altri la impiegano a modello per ritratti doppi di coppie eleganti mascherate da Marte e Venere. E il caso di un dipinto di Paolo Veronese, di due dipinti di Paris Bordone, uno dei quali si puo dimostrare sia un quadro di matrimonio poiche, la sposa e raffigurata come coglie una cotogna, frutto matrimoniale; e di un quadro di Rubens. Un’unione tra bellezze e valore sembra piu naturale dell’unione tra bellezza e abilita d’artigiano. In realta Esiodo e Pausania attestano che Marte era il legittimo sposo di Venere gran tempo prima che Omero la sposasse a Vulcano, e che avessero avuto una figlia di nome Armonia. Nella mitografia antica e medievale si protrasse e negli scritti piu eruditi del Rinascimento. Fu data per scontata da un poeta bizantino di nome Massimo Planude, che descrive il matrimonio di Marte e Venere, come se ma ella fu andata sposa a Vulcano. Resto sempre alla base di speculazioni cosmologiche e astrologiche. In Lucrezio che interpreto Venere come la grande forza generatrice della natura, ella Le linee oblique vengono sostituite da orizzontali o verticali e i volumi di scorcio tendono a frontalizzarsi o a ortogonalizzarsi. Le linee orizzontali e verticali, e anche i piani frontali o ortogonali, sono ulteriormente accentuati dal fatto che frequentemente servono da loci per due o più punti significativi della figura. L’intera disposizione sembra quindi determinata da un sistema interno di coordinate. 3. La rigidezza di questo sistema rettangolare opera, tuttavia, come principio dinamico. Mentre vengono eliminati alcuni motivi obliqui, altri sono invece mantenuti e risultano esaltati dal netto contrasto con le direzioni fondamentali. Inoltre la simmetria spesso consente un’antitesi tra le due metà e sono frequenti gli angoli di 45 gradi. Le linee dritte e le superfici piane sono neutralizzate da gonfie convessità. Nei disegni e nelle sculture non finite tali contrasti diventano ancor più netti per il fatto che il modellato interno non è raggiunto mediante i tratti prolungati curvilinei. È interessante confrontare la trasformazione delle opere di M nelle mani dei suoi seguaci o copisti con la trasformazione dei prototipi nelle mani di M. Si scopre che gli imitatori imitano quelle figure che noi abbiamo considerato michelangiolesche, testimoniando così del fatto che lo stile di M non è tardo rinascimentale, né manieristico, né barocco. Nel tardo Rinascimento le figure, di norma, sono costruite intorno ad un asse centrale che fa da perno per un movimento libero eppure equilibrato. La loro libertà è disciplinata secondo quello che Adolf Hildebrand ha chiamato principio della Reliefanschauung, norma specifica che si applica agli stili classico e classicistico: il volume è purificato della sua “qualità torturante” così che l’osservatore, anche se si trova davanti ad una statua a tutto tondo, può risparmiarsi la sensazione di essere tratto intorno a un oggetto tridimensionale. È organizzato, in primo luogo, in modo da offrire un’apparenza armoniosa (simmetria, angoli moderati e accentuazione contorni ondulanti); in secondo luogo, in modo da chiarire le struttura dei corpi tridimensionali. Gli si presenta quindi un quadro libero da eccessivi scorci, da sovrapposizioni ostruttive ecc. Pertanto, esteticamente, una statua del pieno Rinascimento è più un rilievo che un oggetto rotondo. La figura serpentinata manieristica, all’opposto, non solo non evita, ma gode di quanto Hildebrand ha chiamato “la qualità torturante del tridimensionale”. Le contorsioni e gli scorci delle figure manieristiche non potrebbero comprendersi se non venissero integrate dall’immaginazione dello spettatore. Di conseguenza una statua manieristica “s’incomincia a volgere poco a poco… e così gli vien fatto questa grandissima fatica con cento vedute o più”. Ciascuna di queste vedute essendo ugualmente interessante e incompleta rispetto alle altre, lo spettatore si sente in realtà costretto ad aggirarsi intorno alla statua e non è per caso che l’epoca manieristica abbonda di statue liberamente immerse nello spazio, mentre le statue del pieno Rinascimento preferibilmente erano situate in nicchie addossate al muro. In contrasto col principio manieristico della veduta molteplice, o della scultura a vedute aggiranti, il Barocco abbandona il gusto manieristico della composizione aggrovigliata e delle positure contorte a favore di una libertà apparentemente illimitata nella disposizione, nella luce e nell’espressione; e le statue barocche non ci inducono più a girar loro attorno, perché si fondono con lo spazio circostante in un quadro visuale coerente. Il suo aspetto è quello di una scena teatrale. Anche monumenti liberi, come la Fontana dei Quattro Fiumi di Bernini, o le innumerevoli statue secentesche nei giardini, offrono una pluralità di aspetti a veduta singola. Lo stile maturo di Michelangelo, che avversava le statue liberamente situate, differisce dal Manierismo in quanto le sue figure, con poche eccezioni, costringono l’osservatore a concentrarsi su una veduta predominante che lo colpisce come completa e definitiva. Ciò differisce dal Barocco in quanto questa veduta predominante non si fonda su un’esperienza visiva soggettiva, ma sulla frontalizzazione obiettiva. E differisce dal tardo Rinascimento in quanto l’effetto estetico e psicologico di tale frontalizzazione è opposto a quello che si ottiene dall’applicazione del principio di Hildebrand. M rifiuta di sacrificare la potenza del volume all’armonia dello schema bidimensionale; in certi casi la profondità delle sue figure ne supera persino la larghezza. Egli tortura l’osservatore, non conducendolo intorno alla figura ma bloccandolo di fronte a volumi che sembrano incatenati a una parete e le cui forme esprimono una muta e mortale battaglia di forze incatenate tra loro per sempre. La figura serpentinata dei manieristi, presentando una veduta avvolgente, sembra consistere di una sostanza molle che può stirarsi e torcersi in ogni direzione. Essa trasmette l’impressione di una situazione insicura ed instabile, che comunque potrebbe trasformarsi in equilibrio classico se la versatilità senza scopo delle figure fosse guidata da una forza stabilizzante di controllo. In M, tale forza non manca; all’opposto, ciascuna delle sue figure è assoggettata a un sistema volumetrico di rigidezza egizia. Ma il fatto che questo sistema volumetrico sia stato imposto ad organismi di una vitalità lontana dagli schemi egizi, crea l’impressione di un conflitto interiore senza fine. Ed è appunto tale conflitto interiore che si esprime nelle “distorsioni brutali, proporzioni incongrue e composizione discorde” delle figure michelangiolesche. La loro felicità è essenziale e inevitabile. Era nell’aria un malessere culturale, in ragione alla recente presa di coscienza dell’incompatibilità fra cristianesimo medievale e classicismo. Ma non è solo questo sconforto derivante da una situa storica transitoria a riflettersi nelle figure michelangiolesche: esse soffrono dell’esperienza umana in se sessa. Talvolta si giunge a un punto di rottura, tanto che la loro energia vitale si spezza. Anche dove non sono raffigurati impedimenti fisici concreti, come nei Prigioni o nei soldati della Battaglia di Cascina, i loro movimenti sembrano irrigiditi dall’inizio o paralizzati prima di completarsi, e le più terrificanti contorsioni non sembrano mai sfociare in azione effettiva: la completa quiete manca nel mondo michelangiolesco come la completata azione. Mentre il movimento trionfante del giovane conquistatore nel gruppo della Vittoria o il gesto di condanna del Cristo nel Giudizio Universale sembrano frenati da riflessiva tristezza, gli atteggiamenti di riposo non connotano tranquillità pacifica ma l’assolto esaurimento. Così le figure di M sono concepite in relazione alle superfici di un blocco rettangolare, sono modellate dai caratteristici tratteggi incrociati che sembrano colpi di scalpello, sono confinate ai limiti del proprio volume plastico anziché fondersi con lo spazio, e le loro energie si consumano in un conflitto interno di forze che si stimolano e si paralizzano l’un l’altra. Tutti questi principi stilistici e consuetudini tecniche possiedono un significato più che formale: sono sintomatici dell’essenza stessa della personalità di M. Che la poesia di M sia colma di concetti platonici venne già osservato dai contemporanei. Persino lui, un fiorentino il cui culto e la conoscenza dotta di Dante era proverbiale, non poté impedire al proprio pensiero e al proprio linguaggio di tingersi di elementi preficiniani. Lo studio serio della Divina Commedia non poteva mancare di approfondirne l’interesse per le dottrine dell’”Accademia Platonica”. Nessuno leggeva Dante senza commento e delle 10/11 edizioni di Dante stampate prima del 1500 9 sono commentate da Cristoforo Landino, nel quale ogni verso del poeta è interpretato su basi neoplatoniche. M aveva familiarità con questo commento ed è probabile che conoscesse il commento di Pico sulla Canzona d’Amore del Benivieni. In un artista italiano del ‘500 la presenza di influenze neoplatoniche è facilmente spiegabile, ma tra i suoi contemporanei M fu l’unico che adottò il neoplatonismo nella sua totalità, e non come sistema filosofico convincente o come moda del giorno, ma come giustificazione metafisica di se stesso. Le sue proprie esperienze emotive (es quella con Vittoria Colonna) si accostavano all’idea dell’amore platonico nel senso più puro. Mentre la credenza neoplatonica nella “presenza dello spirituale nel materiale” offriva uno sfondo filosofico al suo entusiasmo estetico e amoroso per la bellezza, l’opposto aspetto del neoplatonismo, l’interpretazione della vita umana come forma irreale, deviata e tormentosa d’esistenza era in armonia con lo scontento di se stesso e dell’universo, nel quale consiste la firma stessa di M. Egli potrebbe definirsi l’unico platonico genuino tra i molti artisti che il neoplatonismo influenzò. Così i versi di M differiscono dalle produzioni pi eufoniche dei suoi contemporanei in quanto hanno il suono stesso della verità. In essi le familiari nozioni neoplatoniche esprimono le medesime realtà psicologiche che si manifestano nelle sue opere d’arte. La tenace preferenza per la scultura per via di levare e la sua preoccupazione per la forma del blocco conferiscono un significato psicologico alle poesie in cui riafferma l’interpretazione allegorica di Plotino circa il processo mediante il quale la forma di una statua viene districata dalla pietra recalcitrante. La bellezza delle sue figure, offuscate come in trance oppure splendenti nell’eccitazione di un furor divinus, riflette la neoplatonica fede che quanto la mente rapita ammira nello specchio delle single forme e delle qualità spirituali non è che un riflesso dello splendore della luce divina di cui l’anima si è compiaciuta prima della sua discesa alla terra. Quando M parla del corpo umano come del carcer terreno dell’anima immortale, egli trasmette questa metafora nelle torturate positure della lotta e della disfatta. Le sue figure simbolizzano la battaglia ingaggiata dall’anima per sfuggire al carcere della materia, ma il loro isolamento plastico denota l’impenetrabilità di quel carcere. Leonardo Da Vinci, avversario di M sia nella vita che nell’arte, professava una filosofia diametralmente opposta al neoplatonismo. In Leonardo, le cui figure sono libere da ogni impiccio, l’anima non è imprigionata mediante il corpo, ma il corpo è imprigionato per mezzo dell’anima. Per Leonardo la morte non significa liberazione e rimpatrio dell’anima che, secondo la credenza neoplatonica, poteva ritornare donde era venuta quando il corpo avesse cercato di incarcerarla, ma significava la liberazione e il rimpatrio degli elementi che son lasciati liberi quando l’anima ha cessato di legarli assieme. L’opera di M riflette questo atteggiamento neoplatonico non solo nella forma e nei motivi, ma anche nell’iconografia e nel contenuto. Egli ricorre al neoplatonismo nella sua ricerca di simboli visuali della vita e del destino umano, quali egli stesso sperimentava. Tale simbolismo neoplatonico è particolarmente evidente nella Tomba di Giulio II e nella Cappella Medicea. Infatti, fin dai tempi più antichi, l’arte funeraria ha manifestato le credenze metafisiche dell’uomo in modo più diretto e più inequivocabile di qualsiasi altra forma di espressione artistica. Gli antichi egizi desideravano provvedere al futuro del morto, anziché glorificarne la vita passata. Le statue e i rilievi funerari avevano lo scopo di provvedere l’estinto di tutto quanto gli fosse necessario nell’oltretomba: cibo, bevanda, schiavi, piaceri della caccia ecc. Il vagabondo spirito del morto sarebbe entrato nella camera funeraria da una porta simulata, sarebbe scivolato entro la sua statua funeraria e l’avrebbe usata. L’immobilità stessa delle statue egizie testimonia il fatto che non avevano lo scopo di ritrarre un essere umano dotato di vita vera e propria, ma di ricostruire per sempre un corpo umano che attendeva di essere rimesso in vita da una potenza magica. I Greci, più preoccupati della vita sulla terra che della vita nell’aldilà, rovesciarono questa concezione. L’arte sepolcrale classica divenne retrospettiva e rappresentativa, mentre l’arte sepolcrale egizia era stata prospettiva e magica. Col declino della civiltà classica e la concomitante invasione di credenze orientali, l’arte funeraria tornò a focalizzarsi sul futuro anziché sul passato, ma il futuro veniva ora concepito come transizione a un piano di esistenza del tutto diverso e non come continuazione della vita sulla terra. L’arte funeraria tardo antica e paleocristiana produsse simboli che anticipano la salvezza spirituale dei defunti. La vita eterna era garantita dalla fede e dalla speranza, anziché dalla magia, e veniva concepita come ascensione dell’anima immortale. Negli esempi pagani quest’idea si esprimeva direttamente in monumenti come i sarcofagi clipeati, dove le immagini degli estinti sono levate in alto da Vittorie, e veniva indirettamente suggerita dalla rappresentazione di scene bacchiche o di miti. L’arte paleocristiana poté facilmente adottare ambedue questi espedienti, con l’unica differenza che alle Vittorie si sostituirono gli Angeli e che le scene e i simboli cristiani presero il posto di quelli pagani. Per diversi secoli l’arte funeraria cristiana si astenne dal dipingere l’esistenza trascorsa del morto, eccettuati i fatti dei santi, le cui tombe erano templi più che sepolcri e le allusioni simboliche a qualità ed azioni memorabili da un pv ecclesiastico. Si sviluppano poi le tombe monumentali gotiche a parete, dette enfeus, che derivavano dalle tombe a nicchia frequenti in epoca pagana e paleocristiana e che avevano lo scopo di conferire forma visibile alla teoria della salvezza elaborata dalla teologia tardo medievale. Sul sarcofago riposa l’effige giacente (gisant) dell’estinto, pianto da personaggi in lucco e fiancheggiato da preti che celebrano i riti del servizio funebre. Questa scena è sormontata dall’immagine protettiva della Vergine e l’intera struttura è coronata dall’immagine del Cristo o di Dio Padre. Quando l’ondata gotica invase l’Italia, questo schema dell’enfeus venne adottato su larga scala e fu Giovanni Pisano a segnare la strada per un suo ulteriore sviluppo. A parte il fatto che i personaggi in lutto e l’immagine del coronamento di Dio sono spesso eliminati in esempi più tardi, la disposizione generale rimase più o meno la stessa, anche quando le forme gotiche furono sostituite da quelle classicheggianti e resta tuttora riconoscibile nelle tombe a parete rappresentative in tutto il Rinascimento. L’unico mutamento di M trasmettono, peraltro, un significato più specifico. Da lungo tempo è noto che lo “Schiavo morente” del Louvre è accompagnato da una scimmia, che emerge dall’informe massa di pietra e si è pensato che possa costituire un attributo che designa questa figura come personificazione della Pittura. Tale spiegazione concorderebbe con le tradizioni iconografiche e con l’asserzione di Condivi che i Prigioni rappresentassero le Arti, ma non è compatibile col fatto che una scimmia è pure connessa con lo Schiavo ribelle. La scimmia non può pertanto interpretarsi come simbolo specifico volto a distinguere un singolo prigione dall’altro, ma deve essere un simbolo generale, che ha lo scopo di illustrare il significato dei prigioni intesi come classe. Il significato più comune della scimmia era morale: simile all’uomo per l’aspetto e lasciva, veniva impiegata come simbolo di qualsiasi cosa che nell’uomo fosse subumana, della libidine, dell’invidia e della svergognatezza. Così il denominatore comune dei prigioni, indicato dalla scimmia, sarebbe natura animale. E ciò richiama il fatto che i neoplatonici avevano definito l’Anima inferiore come quanto l’uomo ha in comune con le bestie brute. Da questo pv le scimmie, che designano l’Anima inferiore, sono attributi perfettamente logici dei prigionieri incatenati. I Prigioni simboleggiano l’anima umana in quanto è priva di liberta. Possiamo rammentare le similitudini del carcer terreno e della prigion oscura, sia l’espressione platonica per il principio che lega l’anima incorporea al corpo materiale: esso era chiamato vinculum, che significa “legame di connessione” o “ceppi”. Alcune frasi nelle quali Ficino descrive l’infelice condizione dell’anima in seguito alla discesa del mondo materiale, potrebbero servire come parafrasi dei Prigioni di M, che originariamente avrebbero dovuto essere 20 e in infiniti atteggiamenti di rivolta ed esaurimento (lo schiavo morente non sta morendo). Se i Prigioni impersonano l’anima umana ridotta in schiavitù dalla materia, e pertanto paragonabile all’anima degli animali bruti, i gruppi di Vittoria personificano l’anima nella sua condizione di libertà, capace di vincere le basse emozioni mediante la ragione. I Prigioni e le Vittorie si integrano l’un l’altro, in modo da fornire un’immagine della vita umana sulla terra. Tuttavia, le mere vittorie della ragione, per quanto degne siano di lode e gloria nei rilievi scenici con le imprese del pontefice, non bastano ad assicurargli l’immortalità. La vita terrestre, per quanto meritoria, resta una vita nell’Ade. Si può attingere la vittoria eterna attraverso quella potenza suprema dell’anima umana che non partecipa alle lotte terrestri e che illumina più che conquistare: la mens o intellectus angelicus, il cui duplice aspetto è simboleggiato dalle figure della Vita Attiva e Contemplativa ed è personificato da Mosè e San Paolo. Così il contenuto della tomba di Giulio II è un trionfo non tanto in senso politico e militare, quanto in senso spirituale. Il pontefice è immortalato non solo mediante la fama temporale, ma anche attraverso l’eterna salvezza, e non solo in quanto individuo, ma anche come rappresentante dell’umanità. L’equilibrio perfetto tra l’elemento pagano e cristiano era già considerato poco ortodosso all’epoca in cui il pontefice morì. Nel progetto del 1513 l’elemento cristiano veniva rafforzato enormemente dall’aggiunta della cappelletta con la Madonna e i santi, evidente ritorno al tipo enfeu. Nel 1542, scartati parimenti Prigioni e Vittorie, venne totalmente eliminata la simbolizzazione della sfera terrestre. Il risultato finale non solo testimonia una frustrazione individuale dell’artista ma anche il fallimento del sistema platonico nello sforzo di pervenire a un armonia tra le tendenze divergenti della cultura post medievale: un monumento alla concordanza tra Mosè e Platone si era trasformato in un monumento controriformistico. Tombe medicee a San Lorenzo: Il secondo grande progetto di M nel campo dell’arte funeraria, la Cappella Medicea, non riuscì neppur esso a realizzarsi completamente. In questo caso il monumento esistente, lasciato incompiuto nel 1534 quando M abbandonò definitivamente Firenze, è documento incompiuto, ma non distorto, delle sue ultime intenzioni. Il programma definitivo, fissato verso la fine del 1520, può definirsi una riaffermazione più elaborata delle idee che s’incarnavano nel secondo progetto per la Tomba di Giulio II, dove l’elemento platonico è stato subordinato a quello cristiano. M non perseguì direttamente queste concezioni, ma vi ritornò dopo diversi tentativi in altre direzioni. Alla morte di Lorenzo de’ Medici il Giovane, nel 1519, si decise di impiegare la Sacrestia Nuova di San Lorenzo come cappella commemorativa per la generazione più giovane della famiglia, al medesimo modo in cui la Sacrestia Vecchia era stata impiegata per la generazione più anziana. Doveva ospitare le tombe dei due Magnifici, Lorenzo e Giuliano, e dei due Duchi, Lorenzo duca di Urbino e Giuliano il Giovane duca di Nemours. Originariamente M aveva progettato di unire queste 4 tombe in una struttura libera. A questo progetto si rinunciò in favore di due tombe parietali doppie sui fianchi, una per i Duchi, l’altra per i Magnifici, mentre la parete d’ingresso opposta all’altare sarebbe stata adornata da una Madonna fiancheggiata dalle statue dei santi della famiglia Medici, Cosma e Damiano. La soluzione definitiva si trovò assegnando le pareti laterali ai soli Duchi, mentre la Sacra Conversazione sulla parete d’ingresso si fondeva con le tombe dei Magnifici in una composizione unificata. Per le singole tombe dei Duchi, ci è rimasto solo un disegno indiscutibile e persino qui la tomba sembra essere unica per l’aspetto, più che per l’iconografia e la destinazione. Lo spazio centrale, essendo un perfetto quadrato, non si sarebbe adattato a una statua – ritratto, mentre le figure sedute che fiancheggiano il sarcofago danno l’impressione di ritratti anziché di figure allegoriche, per non dire di santi. Sembra perciò probabile che il disegno, sebbene rappresenti solo un sarcofago, fosse concepito originariamente per le doppie tombe. Successivamente si adottò la composizione per singole tombe, col che dovettero eliminarsi le due statue sedute su ciascun fianco del sarcofago. Questo materiale, per quanto incompleto, ci consente di osservare la crescita del programma iconografico. Il monumento libero comprende solo rilievi (4 dei quali rappresentano prob le 4 Stagioni) e 8 statue di figure in lutto. La Madonna e i santi, le effigi dei defunti e gli dèi fluviali sdraiati sotto i sarcofagi sono stati progettati in connessione col progetto a tomba doppia e l’idea di sostituire le Ore del Giorno con le 4 Stagioni sembra apparire ancora più tardi. Il programma definitivo comprendeva i seguenti elementi: 1. La doppia tomba dei Magnifici di fronte all’altare. Sopra i sarcofaghi senza immagini, avrebbe presentato la “Madonna Medici”, fiancheggiata da statue dei santi Cosma e Damiano e, al di sopra di esse, piccole statue, una delle quali è stata identificata col David del Bargello. 2. Le tombe di Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Otre alle figure sedute dei Duchi e delle Ore del Giorno, avrebbero mostrato: a) Due Dèi fluviali, sdraiati sul basamento di ciascuna tomba. b) Statue della Terra in Lutto e del Cielo Sorridente nelle nicchie che fiancheggiano la statua di Giuliano, la figura della Terra sopra quella della Notte e la figura del Cielo sopra quella del Giorno. Il soggetto delle corrispondenti statue nella tomba di Lorenzo è materia di discussine: dovevano forse essere Verità e Giustizia, oppure qualcosa di simile alla Iustitia e alla Religio del Landino. c) Un’elaborata decorazione plastica della cornice, con troni vuoti in cima a pilastri binati (ancora si vedono ma privati degli sfondi riccamente ornati), un trofeo al centro e due coppie di giovani accosciati, uno dei quali è identificato col Giovane accosciato di Leningrado, sopra le nicchie laterali. Inoltre, si progettò di adornare le ampie lunette che sormontano le 3 tombe con affreschi. Nella lunetta al di sopra della tomba dei Magnifici sarebbe stata dipinta la Resurrezione di Cristo, mentre la lunetta al di sopra delle tombe dei Duchi avrebbe presentato il Serpente di bronzo da un lato e, forse, la storia di Giuditta dall’altro. Ambedue le statue di Giuliano e Lorenzo de’ Medici si volgono verso la Madonna. In realtà, è alla Sepoltura di testa che devono volgersi, per osservare i mediatori della salvezza, la Vergine Maria e i santi, e la grande testimonianza dell’immortalità nel senso cristiano, cioè la Resurrezione di Cristo. Allo stesso tempo ciascuna delle tombe ducali dipinge un’apoteosi: l’ascensione dell’anima attraverso le gerarchie dell’universo neoplatonico. I neoplatonici fiorentini chiamavano il regno della materia il mondo sotterraneo. Non è pertanto azzardato identificare gli Dèi fluviali con i quattro fiumi dell’Ade, che svolgevano un ruolo impo nel Fedone platonico e nell’Inferno dantesco, ma i neoplatonici fiorentini li interpretavano in modo diverso. In Platone e in Dante significavano le quattro fasi della punizione espiatoria, che attende l’anima umana dopo la morte. In Landino e Pico significavano il quadruplice aspetto della materia che riduce in schiavitù l’anima al momento della nascita. Non appena essa ha abbandonato la propria dimora superceleste e ha passato il Lete, che le fa dimenticare la felicità della sua precedente esistenza, si trova “priva di gioia”, è colpita dalla pena (Stige); cade in preda di “ardenti passioni” (Flegetonte) e resta sommersa nella palude di un terreno dolore (Cocito). Così i 4 fiumi dell’Ade rappresentano “tutti quei mali che scaturiscono da un’unica fonte: la materia” e che distruggono la felicità dell’anima. Se dunque gli Dèi fluviali di M rappresentano quanto Pico chiama il mondo sotterraneo, il mondo cioè alla pure materia, le Ore del Giorno rappresentano il mondo terrestre, cioè il Regno della Natura, costituito da materia e forma. Tale regno, che include la vita terrena dell’uomo, è l’unica sfera soggetta al tempo. Che le figure dell’Alba, del Giorno, del Crepuscolo e della Notte abbiano l’intento di designare la potenza distruttiva del tempo è evidenziato dalle parole di Michelangelo e da Condivi, che afferma che il Giorno e la notte dovevano simboleggiare, insieme, il Tempo che consuma tutto; a suo dire M aveva persino progettato di aggiungere a queste due figure un topo, perché di continuo rode e consuma come il tempo che divora ogni cosa. Nella Cappella Medicea quest’idea ha assunto forma in 4 figure che, senza precedenti nell’iconografia anteriore, trasmettono un’impressione di pena intensa e irreparabile, non diversamente dai Prigioni della Tomba di Giulio II. Gli Dèi fluviali dipingono quindi il quadruplice aspetto della materia come fonte di male potenziale e le quattro Ore del Giorno dipingono il quadruplice aspetto della vita terrena come condizione di sofferenza concrea; è facile vedere l’intrinseca connessione tra le due serie di figure. Per un pensatore rinascimentale è del tutto evidente che le 4 forme della materia, simboleggiate dai 4 fiumi dell’Ade, non potevano essere che i 4 elementi. D’altro lato, questi stessi 4 elementi unanimemente si ritenevano co – essenziali con i 4 umori che costituiscono il corpo umano e determinano l’umana psicologia. E questi quattro umori a loro volta di associavano con le 4 Stagioni e con le 4 Ore del Giorno. Secondo questo schema cosmologico, già menzionato con l’arazzo del Bronzino di “Flora”, le Ore del Giorno di M in realtà comprendono l’intera vita della natura, fondata sui 4 elementi, e possono porsi in relazione con i 4 Dèi fluviali in modo coerente: - Acheronte avrebbe avuto il suo posto sotto l’Aurora, poiché entrambi corrispondevano all’elemento dell’aria e dell’umor sanguigno. - Fegetonte sotto il Giorno, poiché entrambi corrispondevano al fuoco e all’umor collerico. - Lo Stige sotto il Crepuscolo, poiché corrispondono alla terra e all’humor melancholicus. - Il Cocito sotto la Notte, poiché corrispondono all’acqua e all’umor flemmatico. Le Ore del Giorno di M non personificano i Quattro Temperamenti, ma illustrano le varie influenze conturbanti e deprimenti cui l’anima umana è soggetta finché vive in un corpo composto di principi materiali. Per i neoplatonici, specialmente per M, le condizioni “sanguigna” e “flemmatica” differiscono da quella “collerica” e “malinconica”, ma non sono affatto più felici di esse. Dal regno inerte della materia e dal regno torturato della natura, soggiogato dal tempo, emergono le immagini di Giuliano e Lorenzo, quest’ultimo come “Pensoso”. Queste immagini, fiancheggiate da figure che annunciano la transizione da una forma inferiore di esistenza a una superiore, non sono né ritratti di individui viventi, né personificazioni di ideali astratti. Esse ritraggono le anime immortalate degli estinti, anziché la loro personalità empirica, e il rapporto compositivo che intrattengono con le Ore del Giorno sotto di loro rammenta quei sarcofagi romani, in cui l’immagine del defunto è recata oltre la sfera della vita terrena. Le immagini di Giuliano e Lorenzo de’ Medici denotano un contrasto preciso, che si esprime no solo nelle loro positure ed espressioni, ma anche attraverso gli attributi distintivi che li caratterizzano; è l’antica antitesi tra la vita attiva e la vita contemplativa. Dal pv neoplatonico non vi è contraddizione tra il fatto che i Duchi vengano rappresentati come anime immortalate e il fatto che Giuliano sia rappresentato come uomo attivo e Lorenzo come uomo contemplativo. All’opposto, tali caratterizzazioni ne spiegano l’apoteosi, poiché solo conducendo una vita contemplativa e attiva, governate dalla iustitia e dalla religio gli uomini possono sfuggire al circolo vizioso della pura esistenza naturale ed attingere la beatitudine temporale e l’immortalità eterna. Come potranno ritrarsi secondo i canoni neoplatonici l’ideale uomo contemplativo e l’uomo attivo? Designando il primo come perfetto votato a Saturno, e il secondo come perfetto votato a Giove. Plotino aveva già interpretato Saturno come Mente Cosmica e Giove come Anima Cosmica. Di conseguenza, l’anima umana si riteneva dotata della “potenza di pensiero” da Saturno e dalla “potenza di agire” da Giove. Per i neoplatonici fiorentini era del tutto definirsi auto parodie; ed una connessione precisa esiste tra il Baccanale michelangiolesco e i pannelli Vespucci di Piero di Cosimo, non solo per lo schema generale della composizione, ma anche per i singoli motivi; la Pan femmina che nutre un bambino deriva dal gruppo nella Scoperta del Miele di Piero. Dx e sx sono rovesciate rispetto all’elemento preso in prestito, ma la similarità formale è incontrovertibile e si estende persino a dettagli come il motivo del braccio della madre incrociato diagonalmente al corpo. Il contrapposto viene usato da M per esprimere disperato abbattimento e letargia. Vi è ben scarsa ilarità nell’intera scena. Il gruppo intorno all’animale morto ci colpisce più in quanto patetico che lieto, pochi tra i bambini appaiono felici e Sileno offre un aspetto di mortale torpore. Il contenuto simbolico della composizione è di difficile comprensione. Convenzionalmente, le scene orgiastiche di baccanali si associavano alla Lussuria, ma tale interpretazione sarebbe troppo moralistica per l’atteggiamento generale di Michelangelo. In mancanza di una soluzione migliore, possiamo ricordare l’esposizione che Landino dà del mito di Ganimede. Nella sua fuga alle sfere superiori, la Mente lascia dietro di sé le facoltà inferiori del’anima, quella sensoriale (5 sensi e immaginazione) e quella vegetale (generazione, nutrimento e crescita). La scena del Baccanale di putti si sviluppa entro l’ambito di queste funzioni naturali primitivissime: mangiare, bere, la nutrizione di bambini e il sonno ebbro, tutto messo in azione da esseri troppo giovani o troppo poco distinti dagli animali, o troppo privi della propria coscienza e dignità per essere pienamente umani. Il Baccanale di putti, interamente privo di tensione erotica, potrebbe dunque essere l’immagine di una sfera ancora più bassa: la sfera della vita puramente vegetativa. Andrebbero a questo punto considerate le ulteriori composizioni del medesimo periodo, anche se non sappiamo se anch’esse fossero dedicate a Tommaso Cavalieri. Queste sono estremamente legate, per le qualità espressive, ai quattro disegni appena trattati. Mentre questi soggetti mitologici tradizionali sono investiti di un significato simbolico, le due composizioni che ora esamineremo sono invenzioni libere di carattere immaginario: rappresentano scene in cui attori sono personificazioni astratte vivificate dalla potenza visionaria di M. Una di tali composizioni, “il Sogno”, mostra un giovane poggiato su una cassa piena di maschere di ogni specie, con la parte superiore del corpo appoggiata al globo terrestre. Il giovane è cinto da un alone semicircolare di figure e gruppi minori schizzati secondo una maniera vaporosa e irreale, e pertanto riconoscibili come visioni oniriche; rappresentano i 7 Peccati Capitali (Gola, Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Invidia e Accidia). Ma un angelo o un genio alato, scendendo dal cielo, risveglia il giovane al suono di una tromba. Il significato di questa composizione è stato spiegato da Hieronymus Tetius, che afferma che questo giovane non altro denota se non la Mente umana che la virtù chiama indietro dai vizi, come se rimpatriasse dopo un lungo viaggio”. Quest’interpretazione risulta ulteriormente conformata dal ben noto significato delle maschere come simboli di inganno e falsità. In realtà il “Sogno” di M, che sfrutta un tipo rappresentativo piuttosto frequente nell’iconografia moralista, potrebbe chiamarsi una replica alla stampa di Dürer nota come “Il sogno del dottore” che, in realtà, è un’allegoria dell’accidia. In essa, un rimpinzato accidioso è mostrato addormentato presso la sua stufa, mentre il diavolo trae vantaggio dal suo sonno per sollecitarlo in modo da evocare la visione tentatrice della Venus Carnalis. Nel Sogno di M abbiamo un giovane avviluppato da sogni peccaminosi, ma svegliato dalla tomba di un angelo misericordioso. Persino quest’allegoria morale è leggermente tinta di metafisica neoplatonica. Che il giovane si appoggi a una sfera può spiegarsi col fatto che la sfera frequentemente rappresenta l’instabilità. Ma questa sfera è caratterizzata come globo terrestre, e connota pertanto la situazione della Mente umana, posta appunto tra la vita fallace e irreale sulla terra e il regno celeste donde discende l’ispirazione a destarla e a disperdere i sogni malvagi. Tetius allude a questo sapore neoplatonico della composizione quando parla del “ritorno della mente umana alla sua legittima dimora dopo un lungo viaggio”. La seconda composizione, i Saettatori, non è meno enigmatica del Baccanale di putti. Mostra 9 figure nude, due delle quali femminili, che lanciano frecce a un bersaglio sospeso al petto di un erma. Ma, a contrasto col piccolo rilievo in stucco della Domus Aurea di Nerone, che M prob assume qui a modello, le figure non prendono la mira deliberatamente: quattro dei saettatori corrono, uno s’inginocchia, due sono stesi al suolo e le due donne fluttuano nell’aria. Dietro, una figura satiresca tende un arco; due putti si mescolano tra gli arcieri, mentre altri due soffiano su un fuoco e lo nutrono di ceppi per indurire le punte delle frecce tuffandole, quando sono al calor rosso, in una coppa. Sotto l’erma si vede Cupido addormentato su un fagotto. Mentre l’arco teso dal satiro è reso meticolosamente, gli arcieri non hanno armi, sebbene si vedono nel bersaglio le frecce infisse. Gli incisori e i pittori che hanno copiato la composizione non hanno esitato a correggere quanto ritenevano fosse dovuto all’incompiutezza dell’originale. Ma il dedalo d’archi, corde e frecce che ne risulta è nocivo all’effetto della composizione, quindi si crede che gli archi e le frecce siano stati omessi di proposito, sebbene non necessariamente per ragioni estetiche, poiché M avrebbe potuto risolvere il problema armando le sue figure se così avesse voluto. Sembra possibile che l’omissione delle armi trasmetta un’idea precisa. Alcune delle figure corrono, altre fluttuano verso il bersaglio, altre cadono; è come se fossero sotto la spinta di una potenza irresistibile che le fa agire come se stessero tirando. Sembra che le armi possano essere state omesse per trasformare gli arcieri in strumenti di una forza al di là della loro volontà e coscienza, e tale interpretazione si adatterebbe agli altri elementi iconografici della composizione. Nel tentare di chiarire la definizione dell’amore come desiderio di bellezza, Pico della Mirandola distingue da desiderio inconscio e conscio: solo un desiderio che consapevolmente mira alla bellezza è amore. Il desiderio non ancora diretto dalla facoltà della cognizione è pura urgenza naturale, irresistibile e presente in tutto ciò che vive, mentre il desiderio consapevole è retaggio dei soli esseri razionali. Dato che fino ad oggi non è stata suggerita alcuna spiegazione convincente di questo quadro, sembra consentito tentar di connetterlo con questo passo di Pico. Interpretata come una fantasia sul tema del “desiderio naturale”, la composizione potrebbe spiegarsi come un’ardita immagine che illustri la potenza inesorabile e l’infallibile sicurezza del desiderio stesso, mentre la singola creatura può sbagliare e cadere. Le figure lanciate contro l’erma, che colpiscono con frecce che non possono aver tirato, tradurrebbero in un unico simbolo figurativo la concezione delle “creature dirette verso il proprio scopo da una potenza ad esse sconosciuta” con la metafora dei dardi “che colpiscono il bersaglio visto solo dall’arciere”. I putti e il satiro che preparano le armi e stimolano le forze degli arcieri potrebbero interpretarsi come personificazioni delle forze naturali attraverso le quali tali creature sono stimolate dall’azione. E il fatto che Cupido dorma illustrerebbe il contrasto fondamentale che Pico voleva chiarire: la dottrina secondo la quale il desiderio naturale, prima di essere controllato dalle potenze conoscitive, nulla ha che vedere con l’amore, sia terrestre che celeste. Riconsiderando l’iconografia delle opere michelangiolesche nella loro totalità, possiamo osservare che oggetti secolari si trovano solo nei suoi primi lavori, e poi di nuovo nel periodo tra 1525 e 1534 col ritorno definitivo a Roma, raggiungendo il culmine nelle fasi iniziali della sua amicizia col Cavalieri. Con l’eccezione del Busto di Bruto (più documento politico), nelle opere di M prodotte dopo il 1534 non si trova alcun soggetto secolare. Persino il suo stile si sviluppò gradualmente in direzione opposta agli ideali classici, e infine abbandonò i principi compositivi che si riscontrano nelle prime opere. I suoi contrapposti violenti avevano espresso un conflitto tra il naturale e lo spirituale. Nei suoi ultimi lavori il conflitto si placa, perché lo spirituale ha vinto la battaglia. Nel Giudizio Universale, che reca tutti i contrassegni di un periodo di transizione precedente lo sviluppo di uno stile “tardo”, troviamo ancora reminescenze del Torso del Belvedere, del gruppo di Niobe e di altre opere ellenistiche. I suoi ultimissimi lavori, in parallelo con i sonetti nei quali deplora il suo precedente interesse alle “favole del mondo” e prende rifugio in Cristo, rivelano una trasparenza incorporea e una intensità raggelata che richiamano l’arte medievale, e in diversi esempi può osservarsi l’impiego di prototipi gotici. Nelle ultime opere di M si risolveva il dualismo tra cristianesimo e classicismo, ma fu una soluzione che somigliava a una resa. Un’altra soluzione divenne possibile solo quando il conflitto tra queste due sfere cessò di essere reale, e ciò perché il principio stesso di realtà trapassò alla soggettiva coscienza umana. Questo si verificò nel Barocco, quando forme nuove di espressione artistica (dramma, melodramma e romanzo moderno) si svilupparono parallelamente al cartesiano Cogito ergo sum; quando la consapevolezza dei contrasti inconciliabili poté trovare sfogo nell’umorismo di Cervantes o di Shakespeare; e quando lo sforzo combinato delle diverse arti trasformò sia le chiese che i palazzi in grandiosi luoghi di spettacolo. Fu questa una soluzione attraverso la liberazione soggettiva, ma tale liberazione tendeva a una disintegrazione graduale, sia della fede cristiana che dell’umanesimo classico, i cui risultati sono evidenti al mondo d’oggi. Appendice – Il modello di creta nella casa Buonarroti Nel suo articolo sulla Tomba di Giulio II, Wilde cerca di dimostrare che il modello di creta nella Casa Buonarroti, da lui integrato dopo averne riscoperto la testa perduta, avrebbe dovuto essere il pezzo corrispondente al gruppo della Vittoria in Palazzo Vecchio, e non, come si era ritenuto, destinato al gruppo marmoreo in Piazza della Signoria, di cui erano stati incaricati M e il Bandinelli, e che venne infine eseguito da quest’ultimo, con Ercole che vince Caco. Vasari, nella Vita di Bandinelli, indica le dimensioni di un blocco di marmo cavato nel 1508 ma imbarcato nel 1525 per Firenze. Le registrazioni ufficiali del Comune di Firenze danno altre dimensioni del blocco, che era quadrato in pianta e ancora più slanciato. Ciò si adatterebbe al gruppo di Ercole e Caco del Bandinelli in Piazza della Signoria. Così le misure del modello in creta non militano contro il suo rapporto col progetto nella piazza. Per l’iconografia, i fatti noti sono: 1. Intorno al 16508 M aveva intenzione di usare il blocco per un gruppo di Ercole e Caco 2. Nel 1525 egli progettò invece di usarlo per un gruppo di ercole e Anteo 3. Nel 1528 gli venne dato l’incarico di fare una “figura insieme o congiunta con un’altra” come piace a lui. 4. In seguito egli ebbe l’intenzione di fare un Sansone con due filistei; tale composizione era nota a Vasari e ci è giunta in varie copie scolpite e disegnate. Mentre in realtà non vi è alcuna prova dell’intento di M di realizzare un gruppo di Ercole e Caco durante gli anni 1525-30 (anno in cui l’incarico andò al Bandinelli) non vi è neppure alcuna prova al contrario. Il contratto del 1528 gli dava carta bianca per il soggetto e l’asserzione di Vasari, secondo cui M aveva abbandonato il soggetto di Ercole e Caco in favore di Sansone con i filistei, non esclude la possibilità che egli avesse pure fatto il modello di un gruppo non menzionato da Vasari che presentava Ercole e Caco. Ciò sarebbe stato persino più coerente con l’incarico del 1528, che non solo menziona il fatto che il blocco era stato portato a Firenze nel 1525 per farlo somigliante a Caco, ma stipula pure esplicitamente un gruppo di sole due figure. Non è necessario quindi abbandonare l’antica ipotesi che il modello in creta di Casa Buonarroti fosse destinato a Piazza della Signoria, tanto meno in quanto: 1. Il modello in creta, come il gruppo di Sansone con i due filistei, ma diversamente da tutte le opere mature di M, offre una moltitudine di aspetti soddisfacenti. L’inclinazione del torace, che come segnala Wilde indebolisce da certi pv la simmetria assiale del gruppo, sarebbe stata controbilanciata dal braccio dx alzato con un bastone o una mascella. La composizione sembra più adatta a una piazza aperta che a una delle nicchie per la Tomba di Giulio II. 2. La testa scoperta da Wilde è quella di un combattente vigoroso e di aspetto volgare, barbuto e di mezza età. Questo tipo è coerente con i tratti tradizionali sia di Ercole che di Sansone, e in realtà è quasi identico a quello di sansone nel gruppo con i due filistei; ma ben difficilmente sarebbe stato adatto a comporsi con lo snello adolescente che si scorge nel gruppo della Vittoria.
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