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Studi di iconologia - Panofsky, Appunti di Storia Dell'arte

Riassunto del saggio di Panofsky.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 25/07/2023

M.Rmondi
M.Rmondi 🇮🇹

4.6

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Scarica Studi di iconologia - Panofsky e più Appunti in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! PANOFSKY – STUDI DI ICONOLOGIA: I TEMI UMANISTICI NELL’ARTE DEL RINASCIMENTO Introduzione di Giovanni Previtali Panofsky è stato, per l’Italia, lo studioso dei contenuti, della concretezza, della razionalità; il distruttore dei miti romantici del genio, del capolavoro, dell’arte per l’arte. Si tratta di una raccolta di saggi che egli stesso mise insieme quando, costretto dai nazisti a rifugiarsi negli usa (1933), volle presentarsi al pubblico di lingua inglese: Studies in Iconology. Humanistic Themes in the Art of Renaissance (NY 1939). Due dimensioni imprescindibili: quella del “warburghismo” e quella dell’ “iconologia”. Per quanto riguarda il primo aspetto -> il volume è costruito con materiale del fecondo periodo giovanile dell’autore, con i metodi di ricerca appresi dal suo maestro, il prof. Aby Warburg. È attraverso questa raccolta che un pubblico non esclusivamente specialistico ha potuto toccare con mano dei temi iconografici largamente noti (“Padre Tempo” o “Amore Cieco”) ed è attraverso questa raccolta che molti studiosi di lingua inglese hanno imparato ad apprezzare quella straordinaria conoscenza della letteratura e della mitologia classiche e dei loro modi di trasmissione nel Medioevo. L’immagine popolare dell’Istituto Warburg come “laboratorio specializzato per lo studio dei più difficili enigmi iconografici” e del warburghismo come un mondo iconografico che studia gli aspetti programmatici, letterari ed eruditi delle opere d’arte, deve molto a Panofsky. Per il secondo aspetto – la definizione di un’iconologia – il volume viene ad introdurre nel mondo anglosassone una problematica germanica che non mancò di suscitare diffidenza. NB: Panofsky è tedesco e siamo nel periodo dell’avvento del Nazismo -> nel 1945 la parola “iconologia” non aveva ancora messo radici – anzi, suscitò disagio, soprattutto in mondo anglosassone. Nel 1952 la situazione appare però capovolta e l’assimilazione di Panofsky alla cultura americani sembra un fatto compiuto. Il problema che si pone -> la traduzione. Panofsky finì per accettare il condizionamento del nuovo ambiente angolasassone – dato che ogni sistema linguistico ha un’elasticità limitata c’era il rischio, nella traduzione, di una perdita di quel contenuto che poteva apparire confuso e incomprensibile ai colleges americani. In altre parole, Panofsky, che se ne rendesse conto o no, ottenne la penetrazione della tradizione storiografica warburghiana negli usa al prezzo però di mettere tra parentesi proprio il carattere distintivo di quella iconologia su cui all’inizio aveva puntato. Il termine ostico “iconologia” finisce, alla fine, per essere universalmente accolto a patto però che venga a coprire quasi esattamente la stessa area semantica della vecchia “iconografia”. Questa regressione da iconologia a iconografia gli viene immediatamente rimproverata da uno storico del’arte, Otto Paecht. Dall’analisi di Paecht appaiono due elementi che servono a illuminare la posizione di Panofsky: - La constatazione, del tutto corretta, dell’abbandono del metodo iconologico - L’indicazione della motivazione di questo abbandono in un desiderio di “razionalizzazione” del fatto artistico. Questo secondo elemento ci mette sulla strada per capire le ragioni più profonde dell’accettazione, da parte di Panofsky, della riduzione americana della iconologia ad iconografia. La polemica contro il modo di vedere soggettivo dei moderni per cui l’opera d’arte è qualcosa di irrazionale faceva parte, almeno fino al 1921, al bagaglio culturale di Panofsky e può essere fatto rientrare in un movimento abbastanza vasto di repulsione verso quello che Gombrich ha chiamato l’”espressionismo storiografico” – da qui la pretesa di “razionalizzazione” del suo metodo storiografico! Ma il carattere precario di questa presunta “razionalizzazione” dell’opera d’arte non sfuggì nemmeno allo stesso P. Se infatti ogni opera d’arte può essere ridotta ad un significato razionale, e questo significato può essere nascosto così che l’opera ne diventi il simbolo, cosa ci garantisce allora l’oggettivismo interpretativo? Se tutto è metafora, come possiamo stabilire dove ha termine la trasfigurazione generale metaforica della natura e dove comincia il simbolismo specifico concreto? Panofsky risponde così: “temo che non ci sia altra soluzione che nell’uso dei metodi storici temperato dal buon senso”. Per il Panofsky degli anni Trenta, il compito più alto dell’interpretazione era quello di penetrare nello “strato ultimo del senso essenziale”. L’interpretazione di un’opera “giungerà a cogliere il suo senso vero e proprio quando riuscirà a cogliere e a rilevare la totalità dei momenti della sua emanazione”. Ciò che a Panofsky sfuggiva è che la connessione non può essere cercata tra le forme simboliche e le epoche ma solo fra le opere dell’uomo e l’uomo-artista risalendo alla struttura della società divisa in classe. CAPITOLO PRIMO: INTRODUZIONE I. L’iconografia è quel ramo della storia dell’arte che si occupa del soggetto o significato delle opere d’arte, in quanto contrapposto alla forma di essere. Cerchiamo quindi di definire la distinzione tra soggetto o significato da un lato, forma dall’altro. Fa subito un esempio della vita quotidiana – un conoscente che mi saluta per strada togliendosi il cappello. Quando identifico automaticamente un oggetto (signore) e il mutare di un dettaglio in quanto evento (togliersi il cappello), ho già oltrepassato i limiti della percezione puramente formale e sono penetrato in una prima sfera di soggetto o significato. Parliamo qui di significato fattuale. Dal modo in cui il mio conoscente esegue quell’atto potrà essere in grado di avvertire se è di buono o cattivo umore – sfumature psicologiche che investiranno il gesto di un significato ulteriore, che chiameremo significato espressivo. Significato fattuale e significato espressivo costituiscono la classe dei significati primari o naturali. Poi -> questo gesto è frutto del mondo occidentale (residuo del mondo medievale della cavalleria) – quindi si introduce un ragionamento sui costumi e sulle tradizioni culturali, peculiari di una determinata civiltà. Perciò quando interpreto il togliersi il cappello come saluto cortese, vi riconosco un significato secondario o convenzionale. Questo differisce da quello primario o naturale nel senso che è intellegibile anziché sensibile. E infine: oltre a tutto questo, il gesto definisce la personalità di quell’uomo, condizionata dal suo essere uomo del XX secolo e dal suo background culturale, sociale, nazionale e personale. Il significato così scoperto può denominarsi significato intrinseco o contenuto. Esso ha carattere essenziale, il significato primario e il significato secondario hanno carattere fenomenico. Trasferendo i risultati di quest’analisi dalla vita quotidiana ad un’opera d’arte, possiamo distinguere nel soggetto o significato i medesimi tre stati: 1) Soggetto primario o naturale articolato in fattuale ed espressivo. Lo si coglie identificando le pure forme (linee, colori, bronzo, pietra etc) come rappresentazioni di oggetti naturali (come essi umani, animali, piante, case etc etc) e identificandone le relazioni come eventi; e percependo poi caratteristiche espressive (come il carattere luttuoso di un certo gesto o l’atmosfera intima di un interno etc) il mondo delle pure forme come portatrici di significati primari o naturali potrà denominarsi mondo dei motivi artistici. L’enumerazione di tali motivi costituirebbe una descrizione preiconografica dell’opera d’arte. 2) Soggetto secondario o convenzionale. Lo si coglie rendendosi conto, ad esempio, che un gruppo di figure intente a mangiare intorno a una tavola e in certe pose rappresenta l’Ultima Cena. Ciò facendo colleghiamo motivi artistici con temi o concetti. I motivi così riconosciuti come portatori di un significato secondario possono chiamarsi immagini e le combinazioni di immagini possiamo definirle storie e allegorie. L’identificazione di tali immagini, storie e allegorie è il campo di studio dell’iconografia nel senso più stretto del termine. 3) Significato intrinseco o contenuto. Lo si coglie accertando quei principi interni che evidenziano l’atteggiamento di una nazione, di un’epoca, di una classe, di una convenzione filosofica o religiosa. Nel concepire così le pure forme, i motivi, le immagini, le storie e le allegorie come manifestazioni di principi più interni, interpretiamo tutti questi elementi come valori simbolici. La scoperta di questi valori simbolici è l’oggetto di quanto può chiamarsi iconografia in senso più profondo. Come si giunge quindi ad una corretta descrizione preiconografica, ad una corretta analisi iconografica in senso stretti cin lo scopo di attingere il significato intrinseco o contenuto? Nel caso della descrizione preiconografica che resti entro il confine dei motivi: possiamo basarci sull’esperienza pratica (chiunque sa distinguere un animale da una pianta, ad esempio) ma può capitare che la gamma della nostra esperienza personale non sia sufficiente. In tal caso dovremo ampliare il raggio della nostra esperienza (consultando libri, chiedendo ad esperti). antipodo – era essenzialmente pittore, non disegnatore. Profili luminosi contro uno sfondo di nuvole grigie; alberi fantastici; foschie bluastre su tiepide acque, splendore del sole -> questi erano i fenomeni che lo affascinavano e per catturarli sviluppò una tecnica sorprendente e personale simile a quella dei suoi contemporanei fiamminghi e veneziani. Il ritrovamento di Vulcano: Uno dei suoi primi quadri, è generalmente ritenuto una rappresentazione del mito di Ila e delle ninfe ma a questa interpretazione possono muoversi diverse obbiezioni. Secondo il mito Ila era il favorito di Ercole, che egli accompagnò nella spedizione degli Argonauti. Nel mito si racconta di come Ila si allontanò dal gruppo durante una sosta per recuperare dell’acqua per la cena (gli altri in cerca di legno per fare un nuovo remo ad Ercole che aveva spezzato con la sua forza) ma giunto al fiume Ascanio, le Naiadi si innamorarono della sua bellezza e lo trascinarono giù in acqua. Ma in questo quadro non è presente alcuna caratteristica che ci aspetteremmo (una brocca per la raccolta d’acqua, il fiume). La scena è anzi ambientata in un prato fiorito e le donne presenti non sembrano nell’atto di un ratto amoroso ma intente a raccogliere fiori, alcune addirittura appaiono sorprese. Inoltre, la posizione del ragazzo ci sottolinea una certa storpiatura degli arti. Si tratta della caduta o del ritrovamento di Vulcano, piuttosto. Gli scrittori classici sono unanimi nell’affermare che Vulcano fu scaraventato giù dal monte Olimpo e non venne riammesso. A dire di certi autori questa caduta ne provocò la celebre zoppaggine, secondo altri fu la sua zoppaggine a causare la caduta (gli dei se ne sarebbero liberati). Il rinascimento e il medioevo generalmente concordano sulla versione secondo cui fu gettato giù dall’olimpo in tenera età e proprio dalla madre che ne aborriva la deformità. È questo mito il soggetto autentico del quadro di Piero di Cosimo. Perché circondato da sole donne? L’artista ha scelto questa soluzione, altrimenti avrebbe potuto seguire altre fonti secondo cui Vulcano fu allevato dalle scimmie (versione che riprende, tra l’altro Boccaccio) -> NB: Vulcano: Dio del Fuoco -> fuoco che permette agli uomini di scoprire e inventare le Arti e i Mestieri. Mantenere vivo il fuoco come elemento conduttore alla formazione delle prime unità sociali, all’invenzione del linguaggio e degli edifici. Si erano avute, fin dall’inizio dell’età classica, due opinioni in contrasto circa la vita primeva dell’uomo: un primitivismo “molle” o positivistico (Esiodo) che vedeva questa prima forma di esistenza come un’età dell’oro in confronto alle fasi successive che avevano condotto ad una Caduta della Grazia; e un primitivismo “duro” o negativismo che vedeva questa fase come una fase bestiale. Quest’ultima filosofia immagina il sorgere dell’umanità come un processo naturale dovuto alle doti innate degli esseri umani, la cui civiltà ebbe inizio con la scoperta del fuoco. NB: Vitruvio – fuoco alle origini dell’architettura – esigenza di riunirsi, di creare riparo. Questa interpretazione di Vulcano getta luce anche su un altro dipinto di Piero di Cosimo (recentemente acquistato dalla Nation Gallery del Canada), Vulcano ed Eolo Maestri dell’umanità. Per stile e carattere generale questo dipinto è molto simile a quello di “Ila”, anche a livello tecnico-strutturale. Si è desunto che appartenessero ad un unico gruppo. Se fosse vero, l’interpretazione del quadro precedente come Ritrovamento di Vulcano a Lemno è esatta e il soggetto del secondo dipinto farebbe parte anch’esso della storia di Vulcano. Il quadro di Ottawa presenterebbe Vulcano come protoartefice e primo maestro della civiltà umana. L’elemento decisivo è lo sfondo con i lavoratori intenti alla costruzione di case primitive – scene simili nelle xilografie più tarde che illustrano lo stesso testo di Vitruvio! Assumendo questo punto di partenza, ogni elemento di questa composizione di spiega facilmente. In primo piano a sx Vulcano all’incudine. Il vecchio accasciato dietro il fuoco è Eolo, il dio del vento. Vento e fuoco -> elementi fondamentali per l’opera del fabbro! Cosa avrebbe tra le gambe Eolo? Forse gli otri dove avrebbe, secondo il mito, sigillato i venti cattivi? In un famoso passo, Virgilio colloca la fucina di Vulcano su una delle isole vicino a Lipari. Il giovane dormiente in primo piano e il gruppo familiare dietro di lui – si connettono al personaggio di Vulcano nell’interpretazione della letteratura classica. Essa illustra la semplice felicità della civiltà primitiva, di una civiltà basata sul principio autosufficiente della vita familiare. Si connette poi ad un altro aspetto di Vulcano descritto da Virgilio – al lavoro, insieme ai suoi discepoli, già all’alba, mentre ancora la gente comune dorme. È l’alba di un nuovo giorno che, nello stesso tempo, simboleggi l’alba della civiltà. Da un punto di vista puramente iconologico, il quadro di Ottawa può confrontarsi con i due pannelli di cassone (uno a Monaco e l’altro a Strasburgo) che rappresentano il mito di Prometeo e di Epimeteo. In entrambi i casi l’immaginazione dell’artista si concentra sul Risveglio dell’umanità e in ambedue i casi ciò che induce questo risveglio è il fuoco. Tuttavia, i due pannelli sono di età più tarda e sembrano appartenere all’ultimo periodo dell’artista – differiscono per stile ed esecuzione dalle composizioni di Vulcano. Inoltre, descrivono una fase della civiltà umana ormai lontana dallo stadio primitivo. Gli edifici sullo sfondo sono più evoluti, la fase “tecnologica” della vita umana è stata completata e il prossimo passo da compiere non potrà che condurre all’autonomia mentale. I mitografi più tardi – soprattutto Boccaccio – hanno sempre insistito sul fatto che il fuoco di Vulcano personifichi il fuoco fisico che consente all’umanità di risolvere i problemi pratici, quello di Prometeo è un fuoco celeste e rappresenta la chiarezza della conoscenza infusa nel cuore dell’ignorante. Vi è però un’altra serie di piccoli pannelli dell’artista che si connette con i quadri di Vulcano a livello di stile, di periodo e di atteggiamento estetico. Questa serie consiste in: - Scena di caccia e Ritorno dalla caccia (Metropolitan NY). Scena della caccia: caratterizzata da morte (cadavere in primo piano) + battaglia di tutti contro tutti. La scena del ritorno: l’uccidere feroce è terminato, si porta a casa il bottino. - Paesaggio con animali (Oxford): le passioni protoumane sembrano essersi placate, si evidenzia un certo progresso verso la civiltà (c’è una capannina, anche se rozza + primitivi vasi) ma ancora presenti strane creature derivanti dall’accoppiamento tra uomini e animali. Questi tre pannelli raffigurano la fase della storia umana che precedette gli sviluppi tecnici e sociali indotti dall’insegnamento di Vulcano, in altre parole l’età della pietra contrapposta all’età del metallo. Non vi sono utensili di alcun tipo né vestiti, pervade la nudità. Ignoranza dell’umanità circa l’uso del fuoco – accentuata dal leitmotiv di tutta la serie: incendio della foresta che “devasta” in tutti e tre i pannelli. Si tratta di un vero e proprio attributo iconografico che già appariva in Lucrezio, Plinio, Vitruvio. Si riconosce unanimemente che le due serie, questa e quella di Vulcano, si connettano sia a livello cronologico sia a livello tecnico: forse progettate come un programma decorativo unico e forse originariamente nella stessa collocazione. L’ipotesi si accorda con quanto detto da Vasari - secondo lui l’artista avrebbe dipinto per la casa di Francesco del Pugliese “diverse storie di figure piccole”. Sempre da Vasari apprendiamo che queste scene, dopo la morte del committente, siano state “levate” – quindi no affreschi ma pannelli! Vi sono dunque buoni motivi per presupporre che questa serie di tre e quella di due con le scene di Vulcano siano state dipinte per il medesimo committente. Chi era Francesco del Pugliese? Dai biografi dell’epoca viene descritto come un ricco mercante, bandito dalla città nel 1513 per aver insultato il nome di Lorenzo de Medici. Alcuni pensano che la testa di Vulcano nel dipinto di Ottawa ritragga quella del committente. Ma sarebbe assurdo tentare di collegare la scelta del tema primordiale alla biografia politica del committente. Sappiamo che Piero di Cosimo era sempre stato affascinato da questo tema e da questa dimensione – lo dimostra anche un’altra serie di dipinti simili ai pannelli di NY e di Oxford, anch’essi destinati ad una casa di un patrizio fiorentino. Tuttavia, dal punto di vista stilistico sono un po’ più avanzati e da un punto di vista iconografico si trovano nel mezzo tra la serie di Vulcano e quella di Prometeo, in quanto raffigurano il contributo di Bacco alla civiltà umana, particolarmente con la scoperta del miele. Anche in questo caso descritti da Vasari che nomina il committente, Giovanni Vespucci e il tema del secondo dipinto, le disavventure di Sileno. Rintracciamo l’asino di Sileno. Sileno compare altre due volte nella composizione. A sx giace al suolo mentre i suoi amici, tra questi Bacco e Arianna, ridono guardando i bambini che raccolgono il fango per spalmarglielo sulla faccia. Il pannello della scoperta del miele mostra Bacco con un grande sorriso ed Arianna. Il dio ha condotto il suo tiaso fino a un basso prato, qui ci sono Sileno e compagni, di tutte le età e d’ambo i sessi. Il gruppo più numeroso è intento a produrre un rumore – per far sì che uno sciame d’api si raduni su un ramo dell’albero cavo. È Ovidio a spiegarci il consumo di focacce dolci dette “liba” durante i riti bacchici, il nome deriva dal nome latino di Bacco, Liber. Fu Bacco, di ritorno dall’Asia, ad insegnare agli uomini ad accendere i fuochi e ad onorare gli dei. Che le focaccine dolci si offrissero a Bacco era dunque pertinente perché a lui si faceva credito la scoperta del miele. I devoti di Bacco godono della scoperta e di propria volontà cercano nei boschi i favi di miele. Sileno però, avido e pigro, guida il suo asino presso un olmo cavo. Così viene punto sul cranio pelato. Questo racconto di Ovidio spiega gran parte degli elementi presenti nei due pannelli ma nonostante questo Piero ha interpretato il racconto in modo personale. La versione di Piero differisce da tutte le altre rappresentazioni di processioni bacchiche in quanto non raffigura il corteggio del dio come una moltitudine di devoti estatici ma come una fantastica tribù nomade. La visione nettissima che ha Pietro delle condizioni primitive e il suo discostarsi da un’interpretazione dionisiaca per giungere ad una pastorale è più che uno scherzo, nonostante sia evidente l’intento parodico – Piero vuole sottolineare un aspetto che il racconto ovidiano tocca ma non elabora – Bacco, come Vulcano, costituì un’influenza civilizzatrice. Trasforma la visione poetica di un culto orgiastico in un quadro fantasticamente reale di vita primitiva, che segna un progresso nella civiltà. Piero concepiva l’evoluzione umana come un processo dovuto alle innate facoltà e talenti della razza umana. Simpatizzava con l’elevarsi dell’umanità al di sopra della bestialità dell’età della pietra ma si rammaricava di ogni passo che andasse al di là di quella fase innocente – un atteggiamento di questo tipo, senza precedenti nel primo rinascimento, può spiegarsi su un piano psicologico. Ed effettivamente Vasari, a pochi anni dalla morte dell’artista, ne immortala un ritratto psicologico. Viene descritto come un uomo solitario, odiatore dei rumori urbani ma appassionato di passeggiate; aborriva il suono delle campane e viveva di uova sode che si preparava in anticipo per risparmiare sul fuoco; il fulmine lo spaventava ma amava guardare i temporali. Una delle espressioni di Vasari ci fornisce una chiave per comprendere la sua vera natura: “si contentava di veder salvatico ogni cosa, come la sua natura”. Nei suoi quadri ci troviamo di fronte non a un uomo civilizzato che anela alla felicità primitiva ma alla reminiscenza subconscia di un primitivo cui è capitato di vivere in un periodo di squisita civiltà. CAPITOLO TERZO: IL PADRE TEMPO La reintegrazione dei motivi e dei temi classici non è che uno degli aspetti del movimento artistico rinascimentale. Il metodo più largamente usato si potrebbe chiamare re-interpretazione delle immagini classiche. Tali immagini o venivano investite di un nuovo contenuto simbolico di carattere profano ma assolutamente non classico oppure venivano asservite alle concezioni specificamente cristiane. Mentre l’arte medievale si era appropriata dei motivi classici senza troppo riflettervi, il rinascimento cercò di giustificare questa pratica su basi teoriche – Durer: “i pagani attribuivano la massima bellezza a Venere, noi lo faremo con la Vergine”. Mentre le immagini classiche venivano così deliberatamente reinterpretate, esistono numerosi casi in cui le tradizioni classiche riportate in luce si fondevano quasi naturalmente con le tradizioni medievali. Panofsky parla di pseudomorfosi: certe figure del rinascimento risultarono investite di un significato che, malgrado l’apparenza classicheggiante, non era comparso affatto nei rispettivi prototipi classici. L’arte del rinascimento riuscì spesso a tradurre in immagini quanto l’arte classica aveva giudicato inesprimibile. In questo capitolo e nel prossimo proporrà due esempi di pseudomorfosi: Padre Tempe e il Cieco Cupido. Il padre tempo ha diversi attributi: soprattutto la falce e la vecchia età, attributi che ricorrono anche nelle rappresentazioni più contemporanee (es. della Bowey Savings Bank). In epoca rinascimentale e barocca era generalmente anche alato e con il petto nudo. Attributo frequentissimo è la falce o falcetta, a volte una clessidra, un serpente o un dragone. Alcuni dei tratti di queste immagini più elaborate possono rinvenirsi nelle rappresentazioni classiche o tardoantiche dell’idea del tempo. Da una parte troviamo l’idea di tempo come kairos – del breve e deciso momento che segna una svolta nella vita degli umani o nell’evoluzione dell’universo. Questa concezione si illustrava con la figura originariamente conosciuta come Opportunità – forma d’uomo (nudo) in movimento, di solito giovane, dotato di ali sulla schiena e sulle caviglie – attributi: rasoi, bilancia. Questa figura sopravvisse fino all’undicesimo secolo ed ebbe poi la tendenza a fondersi con la figura della Fortuna. Dall’altro lato, l’opposto esatto dell’idea di Kairos trova rappresentazione nell’arte antica, precisamente nella concezione iraniana del tempo come Aion, vale a dire il divino principio della creatività eterna. Queste immagini si connettono al culto di Mitra – sinistra figura alata con una testa di leone e artigli leonini, avviluppata da un serpente e con una chiave in ciascuna mano; oppure dipingono la divinità orfica di Phanes, presentando un bel giovane alato circondato dallo zodiaco. Ma in nessuna di queste vediamo attributi come falce o clessidra. In generale, le immagini antiche del tempo sono caratterizzate o da simboli di rapidità e precario equilibrio o da simboli di potenza universale e fertilità. Quando si giunse dunque ad introdurre questi attributi specifici del Padre Tempo? La risposta risiede nel fatto che il termine greco per il tempo, Chronos, era molto simile al nome Kronos, il Saturno romano, il più vecchio e temibile degli dei, patrono dell’agricoltura e recante un falcetto. Come decano del Pantheon era vecchio. Quando il culto religioso a saturno si disintegrò, questa fortuita similitudine tra le parole Chronos e Kronos venne addotta a prova della identità reale tra le due concezioni. I neoplatonici accettarono questa identificazione per il fatto chr Kronos, padre degli dei, era la mente cosmica così come Chronos, il tempo, era il padre di tutte le cose, il saggio veglio costruttore. Dunque, è nell’iconografia di Kronos-Saturno che dovremmo cercare, più che in quella del tempo, per trovare qualche prova ulteriore. Nella figura però di Kronos/Saturno non erano presenti le ali, i sostegni o le grucce. Ciò si alterò durante il medioevo. ➔ Calendario trecentesco noto come il Cronografo o Calendario di Filocalo, il De Universo di Rabano Mauro (copia di Montecassino) Nel corso del tempo le “Dieu Amour” viene ritratto non solo come bambino ma anche come adolescente, alato o splendidamente abbigliato, spesso siede su un trono o in un bel giardino, sulla cima di un albero (Apuleio). Spesso armato di fiaccola, strale o arco e freccia o due archi uno scuro e uno chiaro con frecce d’oro per generare amore e nere per estinguerlo. In queste descrizioni poetiche, come nelle opere d’arte ad esse ispirate, Amore non è mai cieco → credenza platonica: l’amore penetra bell’animo umano per mezzo del più nobile organo di senso, la vista! Cupido cieco → sviluppo di questa concezione può osservarsi in quell’altro gruppo di fonti letterarie che abbiamo classificato come “mitografia moraleggiante”. L’elegia di Properzio descrive l’immagine di Cupido e ci offre anche una spiegazione allegorica dei suoi aspetti caratteristici: l’aspetto infantile simboleggia il comportamento illogico degli amanti, le ali l’instabilità volubile delle emozioni amorose, le frecce le ferite incurabili che l’amore può infliggere. Gli autori tardoantichi, che trasmisero poi questo materiale mitografico al Medioevo, procedettero esattamente sulle medesime linee di Properzio – durante l’epoca medievale si svilupperà poi il tema della ciecità – ma questo aspetto non è positivo o lusinghiero! Cupido è nudo e cieco perché priva gli uomini degli abiti, dei possedimenti, del buon senso e della salvezza ed è cieco perché non gli importa non si rivolga, la gente è da lui accecata. Per l’osservatore moderno la benda sugli occhi di Cupido significa, se qualcosa significa, una scherzosa allusione al carattere irrazionale delle sensazioni e delle scelte amorose. Secondo i criteri dell’iconografia tradizionale, la cecità pone Cupido nel lato oscuro del mondo morale, la cecità allude e trasmette solo sensazioni negative – impossibilità di vedere + ciò che impedisce di vedere. La cecità si associa pertanto sempre al male – con alcune eccezioni: es. la cecità di Omero serviva per tener intatta la sua mente rispetto agli appetiti terreni, la cecità della Giustizia ne assicura l’imparzialità. Ma queste due interpretazioni in realtà sono estranee al pensiero classico e medievale, sono elucubrazioni umane di origine assai recente. L’attributo della benda → Risaliamo ad una tradizione medievale che consiste in un’associazione tra Giorno – sole – vita- nuovo testamento e notte-luna-morte- antico testamento. Diverse rappresentazioni della crocifissione dove simboli del bene sono sulla destra (es personificazione della chiesa) e simboli del male sulla sinistra (es personificazione sinagoga). La versione più completa di questa tipologia la ritroviamo nei Vangeli di Uta (XI sec) → Personificazione della chiesa = vita; personificazione della sinagoga = morte. In questo caso la sinagoga non è ancora accecata. Ma verso la stessa epoca la cecità aveva cominciato a denotarsi con un nuovo simbolo, la benda. Questo simbolo fece la sua comparsa in una miniatura intorno al 975 dove la Notte (“caeca nox”) è rappresentata da una donna bendata – il motivo giunse poi a farsi trasferire prima alla personificazione della sinagoga e poi alla Morte. La morte bendata → prime rappresentazioni efficaci nei cicli delle facciate di Notre Dame de Paris, Amiens e Reims. Così Cupido Cieco cominciò il suo cammino in alquanto sinistra compagnia: si univa alla Notte, alla Sinagoga, all’Infedeltà, alla Morte e alla Fortuna. Entro questo gruppo, era specificamente associato alla Fortuna e alla Morte. Quest’immagine del Cupido Cieco (o cupido mitografico per distinguerlo dall’amore poetico), si evolvette in modi diversi a seconda delle condizioni storiche. In area tedesca, ad esempio, abbiamo una tendenza alla personificazione femminile, una donna cieca e nuda ma senza benda intenta a scoccare frecce. Francia e Fiandre tendono a mantenere l’abbigliamento principesco e l’aspetto più maturo. Fu nel Trecento e nel Quattrocento italiano che il processo di “pseudomorfosi” doveva completarsi. Qui Cupido non muta più di sesso, si riduce però di taglia e fu privato dell’abbigliamento – riassumeva l’apparenza del puer alato di tradizione classica. Vd Cupido cieco di Piero della Francesca → in San Francesco ad Arezzo. Vediamo un ritorno al classico (putto alato e nudo) + benda. Ma questa immagine fa contraltare con un gruppo di rappresentazioni più “demoniache” in cui si mostra un Cupido non solo bendato ma anche con gli artigli (attributo diavolo). Un esempio lo ritroviamo nell’allegoria giottesca della Castità a San Francesco d’Assisi. Qui addirittura ha zampe di grifone! Cupidi con zampe di grifone si ritrovano poi anche nel Quattrocento in cassoni, illustrazioni per volumi, arazzi e affreschi (vd affresco del castello di Sabbionara) – e lo si ritrova a piedi o su un carro. Tuttavia, questa piccolo mostro era di atteggiamento tanto simile ai nudi putti che cominciò a invadere l’arte del Trecento con funzione puramente decorativa. La discussione sulla cecità o sulla non cecità di Cupido restò assai viva nella letteratura rinascimentale – ma la differenza si trasferì ad un livello puramente umanistico degenerando in un puro jeu d’esprit o ad associarsi alle teorie neoplatoniche dell’amore. Quanto aveva costituito nel medioevo un’alternativa tra l’amore poetico e il cupido mitografico sfociò ora in una rivalità rinascimentale tra amor sacro e amor profano. Si genera poi la rivalità tra Eros ed Anteros che nel rinascimento venne spesso fraintesa come lotta tra amore sensuale e virtù. Anteros viene spesso rappresentato come bel giovane dagli occhi chiari che lega lo sconfitto e bendato eros (cupido) a un albero e ne brucia le armi. CAPITOLO QUINTO: IL MOVIMENTO NEOPLATONICO A FIRENZE E NELL’ITALIA SETTENTRIONALE (Bandinelli e Tiziano) La rappresentazione di Cupido che si sbenda di Luca Cranach il Vecchio – personificazione dell’amore veggente → ci mostra la popolarità raggiunta dalla teoria platonica sull’amore nel primo quarto del XVI secolo. All’epoca di Cranach questa teoria era già stata volgarizzata ed era già stata introdotta nel sistema filosofico dei contemporanei. Tale sistema aveva avuto origine nell’Accademia Platonica fiorentina, un gruppo scelto di uomini legati insieme da amicizia, dal gusto per la convivialità e la cultura umana e un culto quasi religioso di Platone ed un’ammirazione per Marsilio Ficino. Egli modellava la propria vita su quella di Platone e divenne interprete di un’accademia nel senso moderno. Questa accademia comprendeva fior fior di nomi: Lorenzo il Magnifico, Pico della Mirandola, Angelo Poliziano. Il compito che Ficino si era assunto era triplice: - Rendere accessibile mediante traduzioni con commento, i documenti originali del platonismo (comprendendo non solo Platone ma anche i platonici come Plotino) - Coordinare questa massa di informazioni in un sistema coerente e vivente e capace di iniettare un significato nuovo nell’intera eredità culturale dell’epoca - Armonizzare questo sistema con la religione cristiana Il sistema di Ficino mantenne una posizione intermedia tra concezione scolastica – secondo la quale Dio è posto al di fuori dell’universo finito – e le teorie panteistiche successive – secondo le quali l’universo è infinito e Dio si identifica con esso. Secondo il sistema di Ficino Dio ha creato il mondo “pensando a sé stesso”, egli non si trova nell’universo, l’universo è in lui. L’universo, così singolarmente distinto eppure non separato dall’essere supremo, si sviluppa in quattro gerarchie: - La mente cosmica: regno puramente intellegibile e celeste - L’anima cosmica: incorruttibile ma non più stabile. È il regno delle pure cause (non delle pure cose!) - Il regno della natura: corruttibile perché composto di forma e materia - Il regno della materia: privo di forma e di vita, contribuisce al regno della natura Queste gerarchie sono connesse l’una all’altra, una corrente ininterrotta che fluisce dall’alto verso il basso e viceversa. Non esiste un luogo infernale – anche il regno della materia, il mondo sotterraneo, non è considerato malvagio. Il regno della natura, tanto pieno di vigore e bellezza in quanto manifestazione della influenza divina, quando è posto a contrasto della mancanza di forma, è allo stesso tempo un luogo di bruttezza e conflitto senza fine. Per un neoplatonico fiorentino non è incoerente trovare diletto nella presenza dello spirituale entro il materiale o lamentare che il mondo terrestre sia una prigione. In quanto riflesso dello splendore divino, la vita terrena partecipa alla purezza beata del regno sopraceleste; in quanto forma di esistenza indissolubilmente legata alla materia condivide le sue tenebre e la sua pena. Secondo Ficino e i suoi seguaci, l’anima consiste di cinque facoltà raggruppate sotto i nomi di anima prima e anima secunda. - Anima secunda: anima inferiore, vive a stretto contatto con il corpo e comprende le facoltà di generazione, nutrimento e crescita, quella dei cinque sensi, la percezione interiore o immaginazione. È un’anima non libera, determinata dal fato - Anima prima: anima superiore: comprende le facoltà della ragione e la mente. La ragione è più vicina all’anima inferiore, la mente può invece afferrare la verità contemplando le idee celesti. La ragione è discorsiva, la mente intuitiva e creativa. Tutto ciò spiega la posizione unica dell’uomo nel sistema neoplatonico: ha in comune le facoltà della sua anima inferiore con gli animali, ha in comune la mente con l’intelletto divino ma non ha in comune la ragione con null’altro in tutto l’universo. La ragione è esclusivamente umana, è una facoltà irraggiungibile per gli animali ma troppo bassa per le entità celesti. Definizione di Ficino per l’uomo: “anima razionale che partecipa della mente divina e che usa il corpo”. Questa posizione è al tempo stesso sublime e problematica. L’idea dell’amore è l’asse stesso del sistema filosofico ficiniano. L’amore è la potenza motivante per far sì che Dio effonda la sua esistenza nel mondo e che fa sì che le sue creature cerchino di riunirsi a lui. Amore è per Ficino, un nome per indicare quella corrente che ritorna in se stessa da Dio e dal mondo a Dio; l’individuo che ama si inserisce in questo circuito mistico. L’amore è sempre desiderio ma non ogni desiderio è amore. Solo quando il desiderio si rende consapevole di una meta ultima, merita il nome di amore. Quest’ultima meta è quella divina bontà che si manifesta in bellezza e l’amore potrà essere definito come “desiderio di bellezza”, desiderio di fruire bellezza. Questa bellezza è diffusa in tutto l’universo ed esiste in due forme simboleggiate dalle “Due Veneri”: - La prima Venere, Venus Coelestis, figlia di Urano e non ha madre. Abita nel luogo supremo, sopracelestiale dell’universo, nella zona della mente cosmica. Può compararsi alla Caritas, la mediatrice tra le mente umana e Dio - La seconda Venere, Venus Vulgaris è figlia di Zeus, la sua dimora è posta nel regno dell’anima cosmica Ogni Venere è accompagnata da un Eros o Amor congeniale. L’amore celeste contempla lo splendore della beltà divina, il figlio della seconda Venere prendo possesso delle facoltà intermedie dell’uomo, immaginazione e sensi. In Ficino ambedue le Veneri e ambedue gli amori sono onorevoli e degni di lode ma esiste, tuttavia, una differenza tra una forma contemplativa d’amore e una più attiva (che trova soddisfazione entro la sfera del visibile). Questa filosofia, come si può immaginare, stimolò l’immaginazione dei contemporanei e ben presto, da Firenze, si diffuse sempre di più toccando altri pensatori → es. Bembo e Castiglione: loro scopo era intrattenere i lettori e la loro reazione alla filosofia neoplatonica venne definita “essenzialmente estetica”. La differenza tra Ficino da una parte e Bembo e Castiglione dall’altra è indicativa anche della differenza tra Firenze e Venezia. Mente l’arte fiorentina si basa sul disegno, la saldezza plastica, l’arte veneziana si fonda sul colore e sull’atmosfera, sulla ricchezza pittorica e l’armonia musicale. Questo contrasto è illustrato da due composizioni, una fiorentina e una veneziana, che traducono in immagini la teoria platonica dell’amore: - Incisione di Baccio Bandinelli, La zuffa di Cupido e Apollo (Combattimento tra Ragione e Amore), 1545: raffigura due gruppi di divinità classiche ognuno su una sponda. Il gruppo di sx con Saturno (pensiero profondo), Mercurio (acutezza), Diana (castità) ed Ercole (virtù virile) è guidato da Giove e Apollo. Il secondo gruppo, quello a dx, consiste in Vulcano e i suoi aiuti ed è guidato da Venere e da un Cupido satiresco. Al di sopra del gruppo di apollo il cielo si rischiara, dietro a quello di Cupido c’è un tempio in fiamme. I lettori attenti di Ficino e Pico coglieranno che questa battaglia ingaggiata da Cupido, Venere e Vulcano contro Apollo, illustra da una parte le relazioni tese tra l’anima inferiore e la ragione, dall’altro la posizione peculiare della mente. Nella battaglia tra ragione e impulsi inferiori la Mente non interviene né influenza il risultato. - Amor Sacro e Amor Profano, Tiziano, 1515. In questo caso abbiamo l’influenza degli Asolani di Bembo. Le due composizioni differiscono molto ma hanno alcuni punti in comune. In entrambe la figura preminente ha nelle mani un vaso pieno di fuoco celeste e in entrambi i casi si esprime un contrasto tra principio sublime e uno meno elevato, il tutto nel “paysage moralisé” bipartito. Le due donne nel quadro di Tiziano sono somiglianti ad una coppia di personificazioni descritte da Cesare Ripa sotto il titolo di Felicità Eterna e Felicità Breve. La felicità eterna è una giovane donna bionda, bella e nuda, la fiamma nella mano destra simboleggia l’amore di Dio. La felicità breve è una signora riccamente agghindata, tiene in mano un vaso pieno di gemme e d’oro, simbolo della vana ed effimera felicità → vd arazzi medievali amor sacro e amor profano → ma qui idea di un contrasto morale e teologico → nel quadro di Tiziano vediamo un documento di umanesimo neoplatonico. Le sue figure non esprimono un contrasto tra bene o male ma simboleggiano un unico principio secondo due diverse modalità di esistenza e due gradi di perfezione. Titolo originale: “Geminae Veneres” →Rileggendolo in chiave ficiniana, la figura nuda rappresenterebbe la Venere celeste (bellezza eterna e universale), la seconda è la Venere volgare che simboleggia la forza generatrice che crea immagini visibili e tangibili di bellezza sulla terra: umani, animali, fiori, alberi, oro, gemme. Entrambe sono degne di lode, ciascuno a suo modo. Mentre Bandinelli mostra Regione e Sensualità in lotta amara e incerta, Tiziano dipinge un’armonia mirabile tra bellezza intellegibile e bellezza visibile. In breve: in un caso abbiamo il neoplatonismo nell’interpretazione fiorentina, nell’altro un’interpretazione di un rappresentante del Rinascimento veneziano al suo culmine. Malgrado la sua originalità, il quadro di Tiziano non è indipendente dalla tradizione precedente. Lo schema della sua composizione deriva da un tipo assai antico, che potremmo definire con il termine “quadro di contrasto”: una rappresentazione di due figure allegoriche che simboleggiano e sostengono due principi morali o teologici divergenti. Il caso della nudità → è particolare. In Tiziano è la nudità che esprime l’abbandono delle cose materiali e la vicinanza al divino; nelle rappresentazioni passate, soprattutto in epoca romana, bizantina e medievale, la nudità è sintomo di povertà e svergognatezza. Fu necessario lo spirito protorinascimentale per interpretare la nudità di Cupido come simbolo della natura spirituale dell’amore. La figura della Nuda Veritas, ad esempio, divenne una delle personificazioni più popolari dell’arte rinascimentale e barocca → già incontrata nelle rappresentazioni della Verità svelata dal Tempo! Per definire il posto della Tomba di Giulio II di Michelangelo dobbiamo guardare anche al primo progetto. Secondo questo (1505), la tomba doveva essere un monumento isolato di dimensioni impressionanti con all’interno una camera funeraria ovale. Il piano inferiore avrebbe presentato una serie di nicchie con gruppo di Vittorie, fiancheggiate da urne e da Prigioni. Sugli angoli, quattro grandi statue: Mosè, San Paolo, la Vita Activa e la Vita Contemplativa. Una piramide gradonata conduceva ad una seconda piattaforma, con due angeli che recavano la bara. Un angelo “pareva che ridesse che l’anima del pontefice era passata a gloria celeste”, l’altro “che piangesse e si dolesse per la morte di questo uomo”. In più quarantasette altre statue di marmo e rilievi di bronzo che rappresentavano le imprese del pontefice. Nel 1513, alla morte del Papa, si decise di trasformare il monumento in un curioso ibrido tra mausoleo e sepolcro addossato. Il programma iconografico divenne ancora più complesso. La parte inferiore quasi inalterata, quella superiore si arricchì di altre statue, mentre si ridussero i rilievi in bronzo. Il 1516 segna l’anno di un tormentoso processo di riduzione. Quella che era stata una struttura tridimensionale si accostò ora alla forma di una tomba a parete. Parte inferiore inalterata ma quella superiore del 1513 venne abbandonata in favore di un secondo piano parallelo a quello inferiore. L’elemento centrale era una nicchia con il pontefice sollevato da due angeli. Nel 1526 questo progetto intermedio si ridusse ad una tomba a parete pura e semplice. Il numero di statue si ridusse a sei: una Sibilla, un Profeta, una Madonna, il Mosè e due Prigioni (ora al Louvre). Ma questi ultimi non si adattavano più al programma tanto che M stesso propose, dieci anni dopo, di toglierli del tutto e di sostituirli con le figure di Rachele e Lia, personificazioni della vita attiva e di quella contemplativa. Tuttavia, proprio quando si era dimostrata inevitabile la riduzione a tomba, Michelangelo fece un ultimo disperato sforzo per compensare con la potenza plastica la mancanza di grandiosità architettonica. Siamo nel 1532 e tenta di inserire quattro prigioni grandi per potenza di volume e violenza di movimento. Un progetto sublime, come gli ultimi progetti dell’artista. I rilievi avrebbero immortalato le imprese del papa, i prigioni avrebbero personificato o le province assoggettate dal papa o le quattro arti liberali. Sarebbe un errore però interpretare la tomba, anche nella sua prima versione, come puro monumento trionfale all’antica. Non si può concepire come monumento della pura gloria umana. Nella Tomba di Giulio non c’è contrasto tra cielo e terra e le figure plastiche sembrano fare da intermediari tra una dimensione e l’altra. Grazie ad essi l’apoteosi del pontefice appare non una trasformazione miracolosa ma un’ascensione graduale – una resurrezione non in senso cristiano ma nel senso della filosofia neoplatonica. La vita activa e la vita contemplativa (Landino!) sono le due strade che conducono a Dio. Mosè e Paolo sono considerati dai neoplatonici come esempi supremi di chi, attraverso una sintesi peretta di azione e visione, avesse attinto l’immortalità spirituale anche durante l’esistenza terrena. Le figure sulla piattaforma simboleggiano le potenze che assicurano l’immortalità agendo da intermediari tra mondo celeste e mondo terrestre. Il significato delle Vittorie e dei Prigioni poi, non è da ridurre a un mero simbolismo trionfalistico ma assumono un significato morale. Es. prigioni → simboli dell’anima umana imprigionata nei propri desideri naturali. Ma i prigioni di Michelangelo trasmettono un significato più specifico. Es. schiavo morente del Louvre accompagnato da una scimmia → attributo della pittura (tradizione iconografica) Ma la scimmia è connessa anche allo schiavo ribelle (notiamo il muso dietro il ginocchio sinistro del prigione). La scimmia deve così assumere un significato non specifico ma generale. Il significato più comune della scimmia era di tipo morale: più strettamente simile all’uomo per l’aspetto e per il comportamento rispetto ad ogni altro animale, eppure priva di ragione → simbolo di ciò che nell’uomo è subumano (libidine, ghiottoneria, svergognatezza). Il denominatore comune dei Prigioni sarebbe quindi la natura animale. E ciò richiama alla mente il fatto che i neoplatonici avevano definito l’anima inferiore come “ciò che l’uomo ha in comune con le bestie brute”. Se i Prigioni impersonano l’anima umana ridotta in schiavitù dalla materia e pertanto paragonabile all’anima degli animali bruti, i gruppi di Vittoria personificano l’anima nella sua condizione di libertà, capace di vincere le basse emozioni. Il contenuto della Tomba di Giulio II appare così un trionfo non in senso politico e militare, quanto in senso spirituale. Il secondo grande progetto di Michelangelo nel campo dell’arte funeraria, la Cappella medicea, non riuscì neppure a realizzarsi completamente. Ma in questo caso il monumento esistente, lasciato incompiuto nel 1534 quando M abbandonò per sempre Firenze, è documento incompiuto ma non distorto delle due ultime intenzioni. Il programma definitivo può definirsi una riaffermazione più elaborata delle idee che so incarnavano nel secondo progetto per la Tomba di Giulio II, ove l’elemento platonico era stato subordinato – ma non sacrificato! – a quello cristiano. Alla morte di Lorenzo de medici il Giovane, nel 1519, si decise di impiegare la Sacrestia Nuova di San Lorenzo come cappella commemorativa per la generazione più giovane della famiglia. Doveva ospitare le tombe dei due “Magnifici”, Lorenzo e Giuliano e di due Duchi, Lorenzo Duca di Urbino e Giuliano il giovane. Originariamente M aveva progettato di unire queste quattro tombe in una struttura libera. A questo progetto rinunciò in favore di due tombe parietali doppie. La soluzione definitiva si trovò assegnando le pareti laterali ai Duchi, mentre la Sacra Conversazione sulla parete d’ingresso si fondeva con le tombe dei Magnifici. Abbiamo dei disegni ma sono, ahinoi, incompleti per capirne la struttura. Questo materiale documentario, tuttavia, ci permette di osservare la crescita del programma iconografico. Il monumento libero (disegno frammento 48) comprende dei rilievi, quattro dei quali simboleggiano le Stagioni + otto figure in lutto. La madonna e i santi, le effigi dei defunti e gli dei fluviali sdraiati sotto i sarcofaghi sono stati in connessione col progetto a tomba doppia (frammento 47). Il programma definitivo comprendeva i seguenti elementi: 1. La doppia tomba dei Magnifici di fronte all’altari. Sopra i sarcofagi era prevista la Madonna Medici fiancheggiata dalle statue dei santi Cosma e Damiano. Al di sopra di esse altre piccole statue → una delle quali è stata identificata come il David del Bergello di Donatello. 2. Le tombe di Giuliano e Lorenzo de Medici, oltre alle figure che troviamo in Sal Lorenzo (le figure sedute dei duchi +le quattro ore del giorno), comprendevano anche: - Due dei fluviali sdraiati sul basamento di ciascuna tomba - Statua della terra in lutto e del cielo sorridente nelle nicchie che fiancheggiano la statua di Giuliano - Un’elaborata decorazione plastica della cornice – troni vuoti in cima a pilastri binati. Inoltre, si progettò di adornare le ampie lunette che sormontano le tombe con affreschi. Nella lunetta al di sopra delle tombe dei Magnifici sarebbe stata dipinta la resurrezione di Cristo, la lunetta al di sopra delle tombe dei Duchi avrebbe presentato il serpente di bronzo da un lato e una Giuditta dall’altro. Ciascuna delle tombe ducali dipinge un’apoteosi quale è concepita da Facino e dal suo circolo: l’ascensione dell’anima attraverso le gerarchie dell’universo neoplatonico. I neoplatonici fiorentini chiamavano il regno della materia il “mondo sotterraneo”. Non è pertanto azzardare identificare gli dei fluviali posti, come sono, sul fondo dei monumenti, con i quattro fiumi dell’Ade (Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito). Questi fiumi erano importanti sia nell’inferno dantesco sia nel Fedone platonico! In Platone, come in dante, rappresentano le quattro fasi della punizione espiatoria che attende l’anima dopo la morte. In Landino e Pico significano il quadruplice aspetto della materia che riduce in schiavitù l’anima umana al momento della nascita. Se, dunque, gli Dei fluviali di Michelangelo rappresentano quanto Pico chiama “il mondo sotterraneo” (il mondo della pura materia), le Ore del Giorno poste in zona immediatamente superiore rappresentano il mondo terrestre, il Regno della Natura. Tale regno, che include la vita terrena dell’uomo, è l’unica sfera soggetta al tempo. Che le figure dell’Alba, del Giorno, del Crepuscolo e della Notte abbiano l’intento di designare la potenza distruttiva del tempo è evidenziato dalle stesse parole di Michelangelo! L’Aurora che si sveglia con disgusto profondo per la vita, il Giorno convulso in una furia impotente e senza ragione, il Crepuscolo esausto da una fatica indicibile, la Notte dagli occhi non del tutto chiusi, non riesce a trovare riposo vero. Particolare rappresentazione di un tempo inesorabile. Gli Dei fluviali ci mostrano il quadruplice aspetto della materia come fonte di male potenziale; le quattro ore del giorno si dipingono il quadruplice aspetto della vita terrena come condizione di sofferenza concreta. C’è connessione tra queste dimensioni. I quattro elementi simboleggiati dai fiumi (Acheronte-Aria, Flegetone-fuoco, Stige-Terra, Cocito-Acqua) sono i quattro elementi degli umori umani che ne determinano la psicologia e le azioni → i quattro umori si associano alle quattro stagioni e alle quattro ore del giorno. Secondo questo schema cosmologico (già menzionato nell’arazzo di Flora del Bronzino!), le ore del giorno di M comprendono l’intera vita della natura fondata sui quattro elementi → a loro volta in relazione con i quattro fiumi: Acherone con l’Aurora, il fiammeggiante Flegetonte con il Giorno, il lugubre Stige con il Crepuscolo e il Cocito, la palude delle lacrime, con la Notte → a loro volta in relazione con i quattro umori → Acheronte-Stige-umor sanguigno, Flegetonte-Giorno-umor collerico, Stige-Crepuscolo-umore melanconico, Cocito-Notte-umor flemmatico. Dal regno inerte della materia e del regno torturato dalla natura, soggiogato dal tempo, emergono le immagini di Giuliano e Lorenzo il Pensoso. Le immagini di Giuliano e Lorenzo denotano un contrasto preciso che si nota nella postura, nei gesti ma anche negli attributi che li caratterizzano → si tratta di un contrasto che si descrive negli antichi termini dell’antitesi tra vita attiva e vita contemplativa. Giuliano come vis activus, Lorenzo come vis contemplativus → ma in termini neoplatonici non c’è distinzione netta → solo attraverso una vita attiva e contemplativa, secondo i neoplatonici, gli uomini possono attingere al tempo stesso alla beatitudine terrena e all’immortalità eterna. Vediamo una composizione “aperta” in Giuliano e una più “chiusa” nel pensatore Lorenzo → la statua di Giuliano è posta sopra il virile Giorno e la fertile Notte, quella di Lorenzo sopra la Vergine Aurora e l’anziano Crepuscolo. Vediamo una connotazione saturniana in Lorenzo e gioviane in Giuliano. ➔ Lorenzo: viso pensieroso e malinconico, la mano sinistra che copra la bocca col gesto saturnino del silenzio, il gomito poggia sul forziere, simbolo della parsimonia saturniana. ➔ Giuliano: scettro principesco e con la mano sinistra offre due monere → simbolo di magnanimità, attributo gioviano. Tanto Giuliano quanto Lorenzo hanno diritto ad un’apoteosi neoplatonica → zona alta delle tombe ducali: rappresenta la sfera sopraceleste. I trofei al centro connotano il trionfo definitivo sulle forme inferiori di esistenza; i bambini spaventati e accovacciati rappresentano le anime non nate costrette alla discesa nelle sfere inferiori; il trono vuoto è uno dei simboli più antichi per rappresentare una presenza invisibile di un immortale (preparazione dei troni vuoti per il giudizio universale → Hetoimasia: da Daniele 7.9 ma già rappresentata in ambito pagano e romani). Anche per la cupola si era pensato ad un affresco → lettera di Sebastiano del Piombo → rappresentazione di una scena di Ganimede. Platone credeva che il mito di Ganimede fosse stato inventato dai cretesi per giustificare le relazioni amorose tra uomini e ragazzi giovani, Senofonte lo spiegava come allegoria morale per denotare la superiorità della mente rispetto al corpo. La versione più realistica del tema di Ganimede si interpretò come mito astrale → durante il medioevo si fece un parallelo tra Ganimede e san Giovanni Battista → durante il rinascimento si optò per un’interpretazione che connettesse il mito di Ganimede con la teoria neoplatonica del furor divinus. Vd commento di Landino alla Commedia → ratto di Ganimede = Ganimede simbolo della mente, in contrapposizione alle facoltà inferiori → il suo rapimento denota la salita della Mente ad una condizione di contemplazione rapita e la figura dell’aquila sottolinea ancor di più l’idea di salita verso le cose alte. In questo caso Ganimede rappresenta quindi il furor divinus ma ancora di più il furor amatorius, nel senso della passione veramente platonica. Il disegno di Ganimede, donato all’amato Tommaso Cavalieri, era accompagnato da un secondo disegno recante la rappresentazione di Tizio, uno dei quattro grandi peccatori torturati nell’Ade (punizione simile a quella di Prometeo). Punito per aver attentato a Latona, madre di Apollo e Diana → la sua punizione come allegorie delle torture causate da immoderato amore. Il Ganimede che sale al cielo sulle ali dell’aquila → estasi dell’amore platonico che porta ad una beatitudine olimpica Tizio torturato da un avvoltoio → agonie della passione sensuale che riduce l’anima in schiavitù. Un’interpretazione similmente soggettiva della moralità mitologica può osservarsi in una terza composizione fatta da Michelangelo per Tommaso Cavalieri: la Caduta di Fetonte, mortale audace che aveva cercato di sfidare i limiti umani. La composizione donata al Cavalieri denota il senso di inferiorità che si manifesta nelle prime lettere di M al nobiluomo. Senso di umiltà → forma trascendentale e platonica d’amore. Probabilmente metteva in relazione la sua presunzione nello scrivergli con la temerarietà di Fetonte. Ultima delle composizioni eseguite sicuramente per Cavalieri: Il baccanale di Putti. Sette putti che portano un cervo morto + bambini che preparano tutto per bollire un porcellino + Pan femmina che nutre un bambino umano. quest’opera appare pervasa da spirito pagano! Diversi motivi presi dai sarcofaghi romani e alcuni presi dai pannelli Vespucci di Piero di Cosimo. Il contenuto simbolico ci appare di difficile comprensione. Convenzionalmente il Baccanale era legato alla lussuria ma leggiamo invece una rappresentazione dei sette Peccati Capitali (da sx a dx: Gola, Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Invidia e Accidia). La scena del baccanale di putti di sviluppa entro l’ambito di funzioni naturali primitive: bere, mangiare, nutrizione dei bambini e il sonno. Se il volo di Ganimede simboleggia l’ascensione rapita della mente, se la punizione di Tizio e la caduta di Fetonte esemplificano il destino di chi è incapace di controllare la propria sensualità e l’immaginazione, il Baccanale di putti (dove non c’è traccia di tensione erotica), potrebbe essere l’immagine di una sfera ancora più bassa: la sfera della vita puramente vegetativa. Prendiamo poi ad esempio altre composizioni del medesimo periodo (non c’è certezza se donate o eseguite per Cavalieri) – no connotazione mitologica ma potenza visionaria di Michelangelo: - Il Sogno: giovane vigoroso avviluppato a sogni peccaminosi ma svegliato dalla tromba di un angelo misericordioso. Anche questa allegoria è tinta di metafisica neoplatonica → il giovane si poggia su una sfera (instabilità), ma richiama il globo terrestre e pertanto la situazione in cui è posta la Mente umana, posta appunto tra la vita sulla terra e quelle nel regno celeste. - Gli Arcieri: nove figure nude, due delle quali femminili, che lanciano frecce ad un bersaglio sospeso al petto di un’erma. Le figure non prendono la mira con libertà però, ma sono ben posizionati e ben disposti. Elemento sconcertante è che, se si esclude la rappresentazione dell’arco del satiro, nessuno degli arcieri ha
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