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Sul cinema, un'arte della complessità - Edgar Morin - Riassunto e domande d'esame, Appunti di Estetica del Cinema

Riassunto di "sul cinema, un'arte della complessità" di Edgar Morin, comprende anche parti richieste molte volte all'esame della professoressa. Riassunto dettagliato.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 18/07/2022

Bea.Lore09
Bea.Lore09 🇮🇹

4.6

(66)

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Scarica Sul cinema, un'arte della complessità - Edgar Morin - Riassunto e domande d'esame e più Appunti in PDF di Estetica del Cinema solo su Docsity! Le parti sottolineate in giallo sono state più volte chieste in sede d’esame Sul cinema: Un’arte della complessità – Edgar Morin Sul cinema Capitolo 1 (p.3): Il cinema o l’umanità complessa L’umanità esiste e si evolve anche attraverso e grazie alle immagini, ai media e al cinema. Le immagini, i media e il cinema sono vieppiù quanto rende il mondo esperibile, comprensibile, interpretabile e agibile, al punto che sono divenuti fattori costitutivi dell’esperienza, della comunicazione. Edgar Morin considera il film come il “medium-matrice”, ossia l’originario generatore tecnico, estetico e culturale dal quale derivano le numerose tipologie di audiovisivi circolanti nel sistema mediale. Il cinema è il riflesso di tutte le molteplicità umane, è uno specchio dell’umanità, e questo specchio di umanità è l’invenzione integrale dell’umanità, “un fenomeno umano totale”. Il cinema è dunque assunto da Edgar Morin, in primis, come immagine: il cinema è l’effetto e al contempo la causa dell’evoluzione complessa dell’essere umano e perciò “un’arte della complessità”. Da ciò deriva un metodo di indagine ad anello ricorsivo: esplorare l’uomo alla luce del cinema e delle scienze umane, esplorare il cinema alla luce delle scienze umane e le scienze umane stesse alla luce del cinema. Il cinema è quindi concepito come dispositivo (medium), per un’indagine al contempo multidimensionale e globale dell’uomo, della sua evoluzione e del suo conoscere. Il cinema è considerato poi come fenomeno eteroclito ossia complesso – dal latino complexus, derivato da complector, che significa “intrecciare, abbracciare, comprendere” quanto è composto di parti eterogenee e interdipendenti – poiché, coniugando dimensioni molteplici, convoca necessariamente un’indagine interdisciplinare e transdisciplinare, capace di provocare una rivoluzione della conoscenza: questo perché il cinema è tale da rimettere in questione ogni scienza che lo metta in questione. Specificità del cinema: qualità generativa e creativa, improntata in seguito alla dialogica, intesa come relazione generativa tra opposti complementari. La dialogica è una delle componenti di un metodo di conoscenza improntato non tanto alla staticità di concetti e nozioni contrapposti quanto piuttosto al dinamismo e alla metamorfosi dei fenomeni studiati → metodo fondato sul principio dialogico, che consente a E. Morin di andare oltre alle dicotomie concettuali emerse in seno alla tradizione delle scienze umane e a lungo espresse (media studies, visual studies, film studies). Anche grazie alla ricerca sul cinema, s’impone una prima concezione dell’umanità che vede le dimensioni individuale, sociale e di specie unificate e articolate tramite interrelazioni multiple all’interno di un’unità molteplice e che studia l’esperienza cinematografica, tenendo conto delle influenze reciproche fra le variabili psicologiche, sociologiche e antropologiche, per riconoscerla come soggettivamente determinata, storicamente e geograficamente situata e psicologicamente universale. In tal modo, si configura una concezione del pubblico non come massa passiva e indifferenziata, ma come istanza composta da soggetti attivamente impegnati nel processo culturale. 1 Edgar Morin formula la nozione “complesso immaginario di proiezione-identificazione-transfert”, inteso come istanza operante nell’esperienza cinematografica sia individuale sia collettiva, sia di fruizione sia di creazione, e concepito come Urphanomen dell’esperienza estetica o snodo centrale di interazione fra la dimensione immaginaria e quella reale, sorta di analogon psichico dei rapporti di scambio fra l’essere vivente e il suo contesto. La concezione di complesso immaginario/reale di proiezione-identificazione-transfert si lega a un’idea del cinema come istanza ibrida tecnico-magica. Il medium cinematografico è assunto, in questo quadro, assai meno come strumento di artificializzazione dell’esperienza estetica e assai più come mezzo dell’estensione e dell’intensificazione del transfert e al contempo come ambiente tardo moderno d’elezione della dialogica fra reale e immaginario → homo complexus (p.12). Dalla nozione di complesso immaginario/reale di proiezione-identificazione-transfert sorge una ricerca che si concentra sui processi della mediatizzazione cinematografica e che assume un carattere uniduale, in quanto contempla due sfere d’azione, distinte eppure interrelate: la mediazione culturale, studiata nelle sue valenze antropo-sociali, e la mediazione estetica, analizzata come funzione relazionale tra i soggetti umani e tra questi e il cosmo. Osservato attraverso la prima sfera d’azione, il cinema appare come forma e organizzazione delle funzioni culturali delle singole società e della specie umana, ed è indagato in funzione dei suoi rapporti con i contesti, i modelli, i generi e gli stili espressivi, che Edgar Morin concepisce come altrettante manifestazioni di miti, simboli, archetipi e stereotipi, nelle quali l’arcaico e il moderno si fondono e confondono, rispondendo a bisogni sociali e individuali, affettivi e immaginari, al contempo trans-storici e trans-nazionali. In questo quadro di analisi, il cinema si rivela come una koine globale che determina la condivisione planetaria sia di un linguaggio iconico universale, sorta di esperanto naturale, sia di paradigmi al contempo culturali ed estetici, cognitivi e sensibili. La dimensione estetica del cinema si manifesta, in tal modo, come un campo di possibilità culturali inedite e di pratiche sociali multiple e innovative, che si apre a una dimensione planetaria. La dimensione visuale, invece, appare a E. Morin come quella propria di un anthropos universale. Essa costituisce una sorta di lente comune, per nulla neutra, attraverso cui le società e le culture osservano e interpretano il mondo, guardandosi sempre più reciprocamente. Critica all’occidentalocentrismo. Tuttavia, Edgar Morin vede emergere nel cinema anche un sincretismo cosmopolita che costituisce una componente fondamentale della cultura planetaria, improntata all’ibridazione o alla contaminazione tra le singole tradizioni e anche tra i diversi immaginari sociali. La mediazione cinematografica si rivela a Edgar Morin capace di diffusione globale anche in quanto si fa interprete di disposizioni antropiche universali e di pulsioni psichiche primarie – come eros e thanatos – a cui offre espressione, rendendo possibile l’accesso delle masse all’individualità e dando vita a una cultura d’anima, dove sono all’opera processi di metamorfosi e rigenerazione di miti, archetipi, topoi, simboli, icone, paradigmi estetici, tutti allo stesso modo immessi in un perpetuo scambio con forme estetiche, narrative, antiche e moderne. Inoltre, l’interesse nell’ambito della ricerca sulla mediazione culturale verte assai più sui processi della mitopoiesi. La mediazione estetica attuata nel cinema rende possibile nell’esperienza dell’audiovisivo quel modo di conoscenza soggettiva e sensibile o comprensione dell’essere umano. Il transfert, invece, permette di osservare l’essere umano attraverso una mitopoiesi in divenire e duplicamente incarnata dai divi e dal pubblico, all’interno di una dimensione esistenziale ibrida, al confine tra reale e immaginario, essendo l’intero processo incentrato su un ego-involvement destinato a moltiplicarsi nei new media e nel social networking. 2 L’identificazione non può tuttavia ridursi alla proiezione. Essa è anche l’effetto di un processo di introiezione o di involuzione per mezzo del quale lo spettatore non soltanto si identifica con l’eroe, ma identifica lui a sé. Il soggetto sente come soggettivo, personale o proprio, ciò che gli è esterno o estraneo (p.36 ex. Eracle per i Greci, Gesù per i fedeli). Proiezione e identificazione sono transfert di sensi inversi, legati da transfert reciproci, e non si possono separare nello studio dei processi immaginari. Il complesso immaginario determina la vita immaginaria. È la proiezione di desideri, paure, aspirazioni, bisogni che creano immagini, e le alienano, o che si aggrappano sia a immagini già esistenti all’esterno, sia a oggetti, oppure, al mondo. Il complesso immaginario è un analogon psichico dei rapporti di scambio fra l’essere vivente e il suo ambiente. Le attività immaginarie non riguardano soltanto i sistemi immaginari (miti, magie), ma irrigano piuttosto la vita affettiva e si infiltrano da tutte le parti nella vita pratica. La dialettica del reale e dell’immaginario è un dato umano fondamentale. Il complesso immaginario presenta un’infinità di tipi, di strutture, di stati. Il primo “stato” corrisponde alla magia in quanto visione del mondo. Nell’universo magico, i transfert proiettivi e introiettivi si traducono in una sorta di alienazione reciproca tra il soggetto (l’uomo), da una parte, e l’ambiente (il cosmo), dall’altra. Quando i nostri stati soggettivi si staccano da noi, fanno corpo con il mondo e sembrano persino costituire la realtà del mondo. Pertanto, il complesso immaginario, nel suo stato magico, si traduce anzitutto nella tendenza manifesta all’antropomorfizzazione di ciò che non è umano e alla cosmomorfizzazione di ciò che è umano; si traduce nel tema del doppio, spettro oggettivo dell’uomo; infine, si traduce in nuclei pietrificati di PIT. L’antropo-cosmomorfismo, che è una tendenza magica del complesso immaginario, si esprime nel grande mito arcaico dell’analogia del microcosmo (l’uomo) e del macrocosmo (l’universo), legati da transfert e da scambi incessanti. Per ciò che concerne l’essere umano, il complesso magico tende a fissarsi su un’immagine alienata, dotata di vita autonoma, uno spettro corporeo analogo all’originale umano reale: il doppio. L’esperienza del doppio, alter ego (proiezione) e allo stesso tempo ego alter (identificazione) della persona umana, è universale nell’umanità arcaica. Ognuno di noi vive accompagnato dal proprio doppio, invisibile o visibile. Il doppio si manifesta nei sogni, nei riflessi. Dopo la morte, il doppio va a vivere in mezzo agli altri spettri o spiriti. Ricordiamo però che l’uomo è anche homo faber, non solo homo imaginarius, quindi esiste in lui un pensiero tecnico che ubbidisce a un’altra logica, sperimentale e già razionale. I miti, i feticismi, le alienazioni delle società moderne, degli amori individuali, delle religioni presentano, sotto nuovi aspetti, gli stessi processi mitici, feticistici, alienanti di quelli dell’umanità arcaica. La soggettività estrema si compie in magia, allo stesso modo l’allucinazione, visione apparentemente oggettiva, è il colmo della visione soggettiva. La magia riappare ogni volta che i nostri stati soggettivi fanno corpo con il mondo esterno o con uno dei suoi elementi, e viceversa. I PIT immaginare si agitano nei sentimenti che circolano tra il soggetto e il suo ambiente, ambiente che continua a essere rischiarato da una coscienza realistica. Sentimento e realismo interagiscono condizionandosi vicendevolmente tra loro. Si può parlare così di un complesso realista-sentimentale o “affettivo”. Allo stadio magico si sovrappone lo stadio realista-sentimentale, poi lo stadio razionale-empirico. In ogni società si potrebbero trovare i tre stati. Lo stato affettivo si differenzia dal primo per il riflusso delle forze proiettive sotto la pressione sia di una coscienza razionale-empirica sia di bisogni individuali più esigenti. L’identificazione trascina dietro di sé la proiezione, mentre nel complesso magico si verifica piuttosto l’inverso. 5 La spinta estrema della proiezione è ostacolata o frenata dal sentimento realistico. I miti ecc. che continuano ad alimentare la magia devono conciliarsi con la realtà nuova, tanto più che i bisogni di identificazione sono diventati esigenti: l’uomo si sente soggetto e vuole appropriarsi individualmente delle virtù di cui dispongono i suoi spettri, i suoi eroi, che devono assomigliargli sempre di più di modo che si possano mettere in atto i processi di identificazione. Lo stato affettivo si definisce in relazione alla vita affettiva, ecco perché i PIT non sfociano nell’antropo-cosmomorfismo ma in stati d’animo. Il doppio è scomparso, è rientrato all’interno del corpo e si è dissolto nell’anima. Il doppio corrisponde quindi al complesso magico mentre l’anima corrisponde al complesso realista- sentimentale. Lo sviluppo attuale della cultura dei mass media ci rivela una crescita prodigiosa di una cultura d’anima, condizionata da fattori realisti-sentimentali. Il culto delle star, generato dal settore estetico-ludico, sta proponendo sempre più star vicine all’umanità media nelle loro abitudini, che permettono ai fedeli di assomigliare a loro (trucco, pettinatura, atteggiamenti ecc.). Tutte le tecniche della cultura dei mass media tendono oggi a favorire l’identificazione immaginaria, così come a esaltare le passioni dell’anima, e in primo luogo l’amore. Il terzo “stato” è quello razionale-empirico, nel quale si coniugano un atteggiamento di sottomissione e un atteggiamento di orgoglio nei confronti del mondo considerato come un insieme di fatti. Ciò che impedisce costantemente all’atteggiamento razionale di diventare magico è il ricorso abituale all’empirismo, non soltanto perché c’è una proiezione costante degli schemi sui fatti, ma perché c’è la tendenza costante a ridurre la spiegazione all’identificazione dei fenomeni. Il quarto “stato è quello estetico-ludico, riguardante le partecipazioni-gioco. La partecipazione estetica si effettua secondo dei PIT apparentemente magici: lo spettatore di cinema è posto davanti a giochi di luce e ombra. Sono proiezioni-identificazioni che danno corpo ed esistenza a personaggi e trasformano lo schermo in finestra aperta sul mondo vivo. Gli eroi del film hanno preso le nostre anime, le hanno adattate ai loro corpi e alle loro passioni, e noi viviamo attraverso loro, posseduti da loro. Nello stesso tempo, però, lo spettatore è cosciente di essere solo uno spettatore. Ciò che è importante è che la realtà apparente del mondo immaginario non è per niente indebolita né alterata dal fatto di sapere che è solo un’illusione. Nell vita estetica l’uomo è spettatore, ed è quindi fisicamente passivo. Nella vita ludica, invece, l’uomo non è più semplice spettatore, ma interviene in una praxis condizionata dalla sua partecipazione immaginaria. L’importante è che ci sia coscienza di gioco. Spesso però il gioco, nella sua esaltazione, può smettere di essere un gioco per diventare una passione, e questa passione può distruggere i controlli empirico-razionali (ex. partite di calcio che degenerano in rissa). Pertanto, i complessi immaginari non sono soltanto immaginari, ma si celano tutti quanti nella vita pratica. Possiamo dire che c’è un’osmosi costante tra l’immaginario e il pratico. L’immaginario è una delle componenti essenziali della realtà umana, e ci permetterebbe anche di esaminare in modo più aperto i problemi della vita affettiva e dei processi umani totali. 6 Capitolo 4 (p.53): Per una sociologia del cinema Tutti sanno che si va al cinema per dimenticare, per passare il tempo, per identificarsi con il protagonista del film. Con il cinema si è finalmente realizzato l’incontro dell’immaginario e della macchina, ed è così nata una civiltà del cinema, une nuova era dell’umanità, una rivoluzione della conoscenza. Il cinema è un’arte, ed è anche un’industria, ma è qualcosa di più. La profondità del cinema è la profondità della “psiche” o del corpo sociale. Il cinema non è nient’altro che un riflesso, l’immagine di un’altra cosa. L’estetica dei film si è sviluppata soprattutto in Francia. Discipline la psicologia o la sociologia sezionano il cinema in parti. Ciò che manca però alla filmologia è un’antropologia, cioè una scienza dell’uomo. La filologia senza antropologia non è altro che un aggregato di conoscenze separate: c’è l’esigenza di far sì che le scienze umane si compenetrino fra loro in una unità. Oggi più che mai tutte le strade conducono all’uomo. Quella aperta dal cinema è la più breve, la più diretta. Ha a che vedere con la psicologia, la sociologica, l’estetica, l’economia, la politica, la morale, la psicoanalisi, e molte altre ancora. La totalità cinematografica è di una tale portata da corrispondere alla totalità umana. Il cinema è il riflesso di tutte le molteplicità umane, è uno specchio di umanità, e questo specchio di umanità è l’invenzione integrale dell’umanità. L’antropo-sociologia del cinema postulo tre grandi quadri di riferimento che le scienze umane non hanno ancora sufficientemente individuato: la vita quotidiana, il XX secolo e il divenire dell’uomo. La vita quotidiana rimane è il dominio della nostra propria “primitività”, del nostro arcaismo vissuto (arcaismo della società moderna). Non possiamo capire il cinema al di fuori del secolo che lo ha prodotto. Il cinema esprime a modo suo i problemi della società, la crisi del mondo contemporaneo, e ci fa riflettere. Il cinema è un’istituzione socioculturale e, in quanto tale, corrisponde a processi psichici fondamentali. La peculiarità del cinema è quella di presentare una soggettività (dei sogni, dei miti) oggettivata, un’oggettività (gli ambienti, gli esseri) soggettivata. L’uomo si produce da solo affermando la propria individualità. Capitolo 5 (p.67): A proposito del metodo di ricerca sul cinema La critica dei film vale quanto vale chi la fa, è a misura della sua cultura e della sua sensibilità. Inoltre, i film sono pieni di ricchezza di soggettività: si rivolgono al sentimento, alla partecipazione affettiva, raccontano di avvenimenti fittizi e romanzeschi. Ma i caratteri soggettivi, i fatti psichici collettivi, sono anche cose sociali, quindi possono essere studiate esternamente a noi, cioè oggettivamente. Ogni film deve essere esaminato come una cosa, questo perché tutto ciò che è filmico è in grado di darci informazioni sulle zone d’ombra delle nostre società che costituiscono ciò che possiamo chiamare: l’immaginario, l’onirismo, l’affettività collettiva. La maggior parte dei film ha poi una duplice polarizzazione: da un lato i film veicolano e riflettono usi e costumi, valori, tabù, pratiche reali, e per questo sono documentari che possono informarci della vita e del funzionamento stesso di una società; dall’altro i film propongono modelli ideali di condotta (con le star); mostrano situazioni immaginarie, cosicché le loro strutture romanzesche possono corrispondere a strutture oniriche o magiche. La maggior parte dei film sono cristallizzazioni complesse di realtà sociale e di immaginario sociale (essendo la realtà e l’immaginario entrambi oggettivati nel film). A questo proposito parliamo di un doppio bisogno: bisogno di ritrovare la realtà quotidiana e anche bisogno di evaderne. 7 Tuttavia se si considera il cinema occidentale, e in particolare quello americano, sembra che le influenze mimetiche rimangano nell’ambito dei comportamenti secondari (maniere, stili di comportamento, modi di parlare, abbigliamento, arredamento). Nessuna indagine ha potuto stabilire con certezza che il cinema eserciti un’influenza sulla delinquenza o la criminalità. Allo stesso modo nessuna indagine ha potuto provare che il cinema abbassi il “livello della moralità”. Il cinema comunque imprime il suo marchio, i suoi pattern sui costumi. Ogni cinema (di Hollywood, sovietico, giapponese ecc.) ha una funzione specifica. Se sono gli adolescenti a essere sempre più attratti dal cinema per il doppio leitmotiv del crimine e del sesso, ciò significa che esso svolge una funzione formativa o “civilizzatrice” nei loro confronti. Numero indagini, infatti, hanno dimostrato l’influenza del cinema sul love making o romantic love dei ragazzi (universalizzazione dei costumi su modello americano: ex. il bacio sulla bocca e i significati magici che lo riguardano). Si può anche pensare che, con il tema del pericolo, della morte e del crimine, il cinema risponda al desiderio profondo dell’adolescente di affermarsi come uomo attraverso il rischio della morte e l’assassinio, e offra a questi fantasmi un sostituto catartico. Il cinema è ben altro che un divertimento frivolo, o un pigro passatempo. Il cinema offre e offrirà sempre all’uomo un riflesso dell’uomo stesso e del mondo, nel quale egli troverà sempre il sogno e la magia del doppio e dove allo stesso tempo attingerà ininterrottamente una coscienza nuova. Capitolo 7 (p.85): Il ruolo del cinema Il cinema non è soltanto arte e industria messe insieme. È anche un nutrimento immaginario. Non si può capire il ruolo del cinema a partire da un film isolato e da un pubblico isolato; non si può tentare un’esperienza di laboratorio in vitro sull’effetto di un film. I questionari rivolti al pubblico possono rivelare preferenze e idiosincrasie, talvolta stratificate secondo l’età, il sesso, la classe sociale, la nazionalità. Ma che dire dell’influenza inconscia o parzialmente inconscia dei film? Si rimane ai confini, incapaci di penetrare all’interno delle coscienze. Tuttavia le migliori inchieste condotte sul pubblico, quelle di Lazarsfeld, confermano che tra i film e i suoi consumatori il rapporto non è direttamente o immediatamente operativo. Lo spettatore dispone di una certa autonomia che si manifesta sotto tre aspetti: la relativa autonomia della scelta, la relativa autonomia della mente, le varie persone cui si delega il giudizio nelle scelte. La relativa autonomia della scelta è ciò che Lazarsfeld chiama “autoselezione”, nel senso che lo spettatore di un film può scegliere la sala cinematografica ed eventualmente disdegnarle tutte (constatazione banale ma trascurata da chi crede che sul pubblico pesi un’irriducibile fatalità esterna). La relativa autonomia della mente si manifesta, nel modo più significativo, con l’effetto boomerang (ex. Il Risveglio dell’istinto di Claude Autant-Lara del 1960, invece di provocare un interesse erotico, suscitò risate e sarcasmo). Il relativo giudizio nella scelta viene effettuato a profitto degli opinion leader che sono stati studiati da Lazarsfeld. Le inchieste hanno dimostrato che a orientare la scelta di uno spettacolo o di un programma, all’interno di un gruppo, sono determinati leader di opinione culturale. I leader sono persone informate, capaci di trascinare gli altri (in una famiglia possono essere il figlio o la figlia, in una classe un compagno avveduto ecc.). Il loro ruolo non è quello di riflettere semplicemente l’influenza della pubblicità sul gruppo di cui orientano l’opinione, ma anche quello di rappresentare i valori estetici dominanti in quel gruppo. In un sistema concorrenziale, e comunque in un’economia di mercato, l’autonomia relative del pubblico è una delle componenti del problema globale. 10 Dal momento che è vero che lo spettatore dispone di un’autonomia relativa, l’influenza del cinema non può essere concepita come un effetto unilaterale della produzione sul consumatore. Siamo nel campo di un’influenza reciproca, anche se a priori si può pensare che la funzione del sistema produttivo sia più determinante della reazione del pubblico consumatore o meno. Sono dunque da rifiutare tutte le concezioni che intendono le funzioni del cinema come una sorta di modellamento della mente dello spettatore, come se fosse cera. Anche lo spettatore più passivo è attivo su un determinato piano, è attore nell’ambito di un dialogo atipico. Questo dialogo sembra squilibrato dal momento che, per un verso, il film sviluppa un discorso, propone temi, immagini, azioni mentre lo spettatore può rispondere solo approvando o rifiutando, decretando il successo o il fallimento del film. Ma questo dialogo è meno squilibrato, se si considera non solo il rapporto isolato tra il film e lo spettatore, ma anche la storia di questo rapporto, la storia del cinema, che è la storia di un adattamento esso stesso senz’altro relativo e incerto, tuttavia reale e sempre in movimento tra l’offerta e la domanda. Se, nel cinema americano, certi tipi di film tendono a scomparire (melodramma) e altri rimangono (western), ciò è forse dovuto al fatto che esiste un adattamento relativo a determinati bisogni del pubblico. Questi bisogni non esistono in sé e per sé, in quanto la nozione di pubblico non può essere isolata rispetto ai condizionamenti sociologici: gli spettatori sono esseri umani di una data società in un dato momento. Siamo dunque portati a considerare il nostro problema come globale e dialettico: i film da una parte, i bisogni del pubblico dall’altra, sono in relazione con il tipo di civiltà e con la struttura sociale globale al cui interno essi emergono. Un altro aspetto del dialogo film-spettatore è quello che chiamiamo “proiezione-identificazione”. Per lo spettatore il film prende vita nel momento in cui egli può proiettare sulle azioni e sui personaggi i propri bisogni, le proprie paure, i propri entusiasmi, in una parola i propri stati psichici, e se riesce a identificare con sé stesso e con i suoi propri problemi i protagonisti e gli eventi del film. Difficilmente si possono dissociare proiezione e identificazione (con la proiezione si tende a identificarsi con il protagonista del film, mentre con l’identificazione si riconduce il protagonista del film a sé: doppio movimento in senso inverso ma che orienta il protagonista verso lo spettatore e lo spettatore verso il protagonista attraverso transfert continui e variabili). C’è dunque un complesso di transfert tra lo spettatore e il film che si attua attraverso il complesso di proiezione-identificazione. Possiamo pensare che gli effetti del film, e le funzioni profonde del cinema, siano determinati dagli avatar che derivano dal processo di proiezione-identificazione. Ci possono anche essere effetti informativi o cognitivi elementari. La pubblicità, la stampa tendono sempre a rendere individuali i loro messaggi, a far emergere protagonisti o personaggi principali, a moltiplicare lo human touch. La proiezione-identificazione è al centro del nostro problema. Esempio: dialettica del ricco e del povero (pp.89-91): prendiamo un film A il cui protagonista sia un ricco e simpatico personaggio; e un film B il cui protagonista sia un miserabile e simpatico personaggio. Sia lo spettatore ricco sia lo spettatore povero potranno godere di entrambi i film e trovare simpatici sia l’uno che l’altro protagonista. Tuttavia nella vita reale, ci sono forti probabilità che lo spettatore ricco si distolga con insofferenza da un vagabondo e che lo spettatore povero consideri con invidia o risentimento il miliardario. La sala cinematografica ha modificato il rapporto reale. Lo spettatore povero, cioè, ha potuto non soltanto identificare con sé il povero del film B, ma anche proiettare sul ricco del film A la propria voglia di ricchezza (e identificarsi così con lui in modo effimero). Lo spettatore ricco ha potuto proiettare sul vagabondo il proprio bisogno di evasione, di libertà, di sfuggire alla propria vita (e così identificarsi con lui in modo transitorio), mentre ha potuto identificarsi con il protagonista A. 11 L’effetto di questi due film sarebbe analogo e allo stesso tempo differente sui due spettatori: effetto di evasione per il ricco nel caso del film B, effetto di evasione per il povero nel caso del film A. L’identificazione può comportare effetti mimetici e svolgere una funzione esemplare. Così, la dialettica della proiezione-identificazione si apre a possibilità infinitamente variabili e divergenti, ma si orienta su due grandi linee di forza: la prima riguarda l’identificazione, il mimetismo e l’emulazione; la seconda concerne la proiezione, la catarsi, la liberazione. Aggiungiamo una terza linea di forza. Supponiamo che lo spettatore ricco ne abbia abbastanza della sua ricchezza, il film B gli fa venire l’idea di lasciare tutto per diventare simile allo spensierato vagabondo, ma lui non ha la volontà effettiva di cambiare la propria vita, e così sognerà costantemente l’evasione. Supponiamo che lo spettatore povero, vedendo il film, ne abbia abbastanza della propria miseria, e si metta a sognare di continuo la ricchezza. Questi due film provocherebbero fantasmi ossessivi, una psicosi di insoddisfazione. Così, tra la mimesi e la catarsi ci sarà una sorta di psicosi che può nascere, del resto, sia dai fantasmi di identificazione sia dai fantasmi di proiezioni. Di qui la terza linea di forza: proiezione ossessione vs psicosi identificazione. Il risultato della proiezione può essere, per un verso, l’evasione e, per l’altro, l’alienazione. In altre parole, la proiezione non si risolverebbe solo in catarsi, sorta di purificazione immediata delle passioni e dei desideri, ma si prolungherebbe in evasione mentale fuori dal mondo reale e questa evasione potrebbe esprimere un’alienazione, cioè una vita dove la linfa psicologica dell’individuo, alimentando un fantasma immaginario e sogni aberranti, esulerebbe dalla propria essenza. Ma questa prospettiva non è una condanna. Il bisogno di evasione nel sogno è un bisogno reale dell’essere umano, e non c’è essere vivente che non alieni una parte della propria linfa in miti, valori, idee ecc. Lo spettatore evade nei propri bisogni profondi, in particolare nel bisogno profondo di stabilire un rapporto autentico con un altro individuo, cioè l’amore; un film di amore immaginario è un’evasione ma lo è nelle profondità del bisogno. Il risultato dell’identificazione può essere una prassi. Gli eroi del film diventano modelli che cerchiamo di imitare: e possiamo cercare di farlo non soltanto nei gesti e negli atteggiamenti, ma nel loro modo di volere la felicità, persino nella concezione che hanno della vita. Questa volontà di imitazione sarà tanto più attiva quanto più lo spettatore avrà riconosciuto i propri problemi, la propria immagine, il riflesso di sé e il suo doppio sullo schermo. Ma intendiamoci, l’identificazione non approda necessariamente alla prassi. Il tutto è infinitamente variabile, secondo i film, secondo gli individui. Bisogna ricorrere alla sociologia per cercare di capire le funzioni o i ruoli effettivi del cinema. Si tratta di considerare globalmente il problema degli spettatori intesi non più soltanto come spettatori ma come uomini e donne appartenenti a gruppi sociali, a classi, a nazioni, a una cultura, a una civiltà. Per quanto riguarda il cinema, i grandi temi sono i seguenti: star system, strutturazione dei film intorno a personaggi simpatici coinvolti nella doppia problematica dell’amore e dell’aggressione (minaccia, pericolo, crimine, avventura), e conclusione con l’happy end. L’elemento nuovo che si sviluppa a partire dal 1930 nella “cultura di massa”, e in modo singolare nel cinema, è la tematica dell’happy end: è l’istante di felicità eterna che conclude il film (il protagonista invece di patire riesce a realizzarsi, trionfa sulle avversità, e alla fine del film diviene immortale con un bacio d’amore), non tanto il “e vissero felici e contenti ed ebbero molti figli” della fiaba. 12 Alcuni elementi emersi da un sondaggio: 1. Persistenza di uno stereotipo di emigrato “slavo” peggiorativo o comico È ancora attivo nel cinema di oggi uno stereotipo ereditato dai film d’anteguerra, ossia l’avventuriera slava, emigrata, socialmente declassata, seduttrice fatale e crudele (nome dell’eroina: Wanda – concetto generico che designa a priori la ragazza dai facili costumi, o la cattiva; questo nome di seduzione e malefico esotismo risparmia cattive contaminazioni ai nomi femminili francesi). A nostro giudizio, oggi non si tratta più tanto di un pregiudizio sfavorevole circa la donna slava, quanto piuttosto di un mezzo per evitare alla donna francese il discredito della donna cattiva e per creare del pittoresco erotico e semi-vamp, servendosi di un po’ di esotismo. Ecco perché, nel cinema francese, la ragazza facile e la ragazza pericolosa hanno nomi slavi o mediterranei (ex. Wanda, Sonia, Lola, Nicky). Altro personaggio cosmopolita femminile è l’eccentrica. Il personaggio della donna slava, nel cinema francese, è dunque profondamente caratterizzato sia dal cosmopolitismo sia dall’anima slava. Nei film di “fuorilegge” appare con una certa frequenza il tema dell’avventuriero slavizzato e prima di tutto apolide. Il tratto essenziale è il cosmopolitismo, la slavità è secondaria. O se si vuole, lo stato di apolide è il contenuto dello stereotipo, la slavità ne è la forma. 2. Persistenza di uno stereotipo “mediterraneo” peggiorativo o comico Tra i trafficanti di droga, di armi, di donne e altri poco di buono del cinema francese, troviamo abbastanza di frequente dei tipi “mediterranei”, di provenienza più o meno definita (gli italiani sono i meno antipatici, ma riconoscibili per il sentimentalismo e il gusto per le belle ragazze). Tra questi, il “levantino” svolge quasi sempre un ruolo nefasto. In generale, comunque, la levantinità è più suggerita che espressa veramente, e tende a confondersi con la mediterraneità. È sullo slavo o sul levantino che si fissano i caratteri peggiorativi dello “straniero cattivo” che, però, nel cinema francese, rimane frequentemente privo di ogni riferimento a una nazionalità precisa. 3. Tendenza all’indeterminazione e al sincretismo dei “cattivi” stranieri Si potrebbe affermare che esiste una nazionalità “straniera”, caratterizzata da un accento bizzarro, i lineamenti strani, il nome esotico. Accanto al tipo mediterraneo levantino o allo slavo, è individuabile il cosmopolita intriso di “germanità”. Il “faccendiere senza scrupoli” pone un problema particolare, in quanto corrisponde naturalmente al vecchio stereotipo dell’ebreo métèque, ma il cinema francese di oggi evita di giudeizzare il métèque, non solo per le ragioni attenenti al fatto che oggi è difficile trattare, sia pur con leggerezza, come si faceva prima della guerra, problemi che si pongono in termini tragici, ma anche perché molti personaggi di origine ebraica che operano nell’industria del cinema sono particolarmente sensibili all’antisemitismo, anche latente. Il risultato è che tutta una serie di tratti che appartenevano allo stereotipo dell’ebreo è stata spostata su uno stereotipo artificiale di straniero sincretistico. Questo straniero cosmopolita mantiene vagamento un nome dalla consonanza tedesca, come molti nomi ebrei, oppure prende un nome vagamente slavo o armeno. Oggi i vari tabù politici, sociologici ed economici orientano e allontanano verso la levantinità, la slavità o l’indeterminazione sincretica di numerose categorie di stranieri. Bisogna poi sottolineare che la rappresentazione dello straniero cosmopolita, apolide o métèque, dipende dagli attori che dominano sul mercato. 15 Malgrado la nazionalità evidente di certi attori, è possibile denazionalizzarli per attribuir loro delle nazionalità diverse (fenomeno dell’intercambiabilità legato al carattere sincretico dello straniero: un attore dotato di una fisionomia o di un accento un po’ esotico può interpretare i tipi di straniero più diversi). Questa tendenza all’internazionalità sincretica è un tratto dell’attuale evoluzione dei cinema francese. Prima della guerra, i film di spionaggio schieravano i servizi segreti contro il comando tedesco. Oggi non c’è più nessun comando tedesco, ma solo delle spie straniere di origine imprecisata. Questa tendenza sincretica corrisponde all’estensione del mercato del cinema francese fuori dai confini nazionali. I film di coproduzione accelerano questo movimento e tendono a cancellare tutto ciò che potrebbe conferire un aspetto peggiorativo a una nazionalità ben precisa. D’altra parte, alla rappresentazione dello straniero sono ormai connessi alcuni problemi politici complessi. C’è attenuazione degli stereotipi peggiorativi riguardanti una determinata nazionalità. Nei film francesi ambientati nel dopoguerra non c’è più nessuna potenza nemica localizzata (prima della guerra, la nemica era la Germania). C’è un nemico misterioso, indeterminato, temibile, che si istituisce attraverso agenti cosmopoliti. A volte anche i film sui gangster cercano di mostrarli dall’interno, nella loro complessa umanità e attenuano ancora di più l’aspetto peggiorativo legato a certi stranieri o a certi cosmopoliti. In questo modo lo “straniero cattivo” diventa sempre più métèque e sempre più cosmopolita. Gli aspetti più marcati del métèque si trovano nei film sulla droga, sul traffico di armi, sulla tratta delle bianche; quelli più evidenti del cosmopolita si possono trovare nei film di spionaggio. Così si accentua una sorta di archetipo (molto vicino all’archetipo dello straniero nelle società arcaiche) dove il carattere straniero è una qualità generica che ingloba i più svariati elementi etnici. Sarebbe comunque interessante fare una semiologia del “brutto ceffo” secondo i criteri occidentali, per comprendere meglio cosa alimenti gli stereotipi del “cattivo straniero” orientalizzato. Capitolo 9 (p.117): L’Oriente interpretato da Hollywood L’alibabadismo è un avatar hollywoodiano de Le mille e una notte. L’eroe dell’alibabadismo, Zarak, è un brigante buono, un Robin Hood persiano, trapiantato nel Khyber Pass in epoca vittoriana e perseguitato da un infame visir. L’orientalità è molta e intensa. L’eroe è simpatico, coraggioso e innamorato di una donna, Selma. Ma questo eroe non è del tutto “positivo”: è ancora impregnato di una musulmanità barbara, non ha ancora potuto domare i suoi istinti primitivi (ex. picchia la donna che ama in un eccesso di gelosia, taglia la lingua a un uomo ecc.). All’eroe manca il self control del giustiziere occidentale che riesce a colpire immancabilmente i cattivi e a risparmiare sempre i buoni (ex. uccide per errore un santo eremita). È per questo che gli viene negata la buona sorte dell’eroe hollywoodiano: l’happy end. Zarak deve espiare la sua violenza primitiva, e forse anche i morti che ha sulla coscienza. Tuttavia avrà l’anima salva perché sceglie il campo della civiltà, incarnata dall’esercito inglese (il film si conclude sulla tomba dell’eroe dove stanno in raccoglimento l’ufficiale inglese che lui ha salvato e la donna amata). Nel cinema di Hollywood, chiunque si macchi di un’empietà deve morire. In Zarak ritroviamo i grandi stereotipi dell’orientalità, tipici del cinema occidentale, e cioè: folla brulicante, mercati pittoreschi, mangiatori di fuoco, incantatori di serpenti, giocolieri, danza del ventre, musulmanità superstiziosa (ex. orrore per la carne di maiale o prosternazione all’ora delle preghiere), crudele despota/tiranno orientale, torture e mutilazioni. È nella danza esotica che l’erotismo del cinema occidentale può spingersi oltre con le audacie, superando così i tabù e l’accerchiamento della censura. Tra le danze esotiche, la danza “orientale” è quella che privilegia i movimenti del bacino, delle anche e delle cosce. 16 Il colpo di genio dell’erotismo hollywoodiano consiste nell’aver sostituito la danzatrice orientale bruna e carnosa con una bellezza “nordica”, bionda, con gli occhi blu o verdi, gambe lunghe, vita sottile e fianchi formosi. È così che la svedese Anita Ekberg fa scintille nel ruolo asiatico di Selma: è la danza della schiava d’amore, della prostituta, sotto il pretesto e l’alibi di un’apparente “orientalità”. Selma ama Zarak con cuore innocente e gli rimane fedele. È il personaggio “positivo” del film, poiché si sforza di umanizzare un uomo non ancora emancipato rispetto alla sua etnia barbara. La donna innamorata incarna i valori culturali supremi del cinema americano. In una parola, Selma partecipa profondamente dell’occidentalità. Selma coincide con il grande archetipo femminile del cinema hollywoodiano del dopoguerra: l’eroina con il cuore puro e il fare della puttana. Hollywood ha elaborato e proposto al mondo questo tipo di good bad girl che risponde ai bisogni contradditori dell’amore: una donna che suscita il desiderio, come la prostituta, ma che allo stesso tempo offre la tenerezza di una sorella o di una madre: ecco il grande mito. Ma questo mito è anche il riflesso della vita reale: la donna della civiltà occidentale, che si trucca e si veste per accendere perennemente il desiderio degli uomini, è anche un’Emma Bovary alla ricerca dell’anima gemella. Ogni donna, nei suoi sogni, è già una piccola cortigiana d’Oriente incrociata con una Isotta: ecco spiegata la scelta di far interpretare un personaggio orientale a una bellezza svedese. Potrebbe stupirci che l’esotismo cinematografico tenga in così poco conto le nazionalità reali. Ma la realtà psicologica ha la meglio sulla realtà geografica: il mondo straniero è uno, è l’estraneità che lo unifica. All’interno di questa estraneità, le nazionalità possono essere facilmente intercambiabili. Ù Ogni film “esotico” cerca di conciliare due bisogni contraddittori: permettere allo spettatore l’evasione in un mondo ignoto e, nello stesso tempo, consentirgli di riconoscere l’ignoto: di qui gli stereotipi esotici che indicano dove il sogno occidentale va a cercare le sue spezie. Nello stesso momento in cui cerca di fuggire da sé stesso, lo spettatore vuole ritrovarsi: ha bisogno di eroi nei quali sia possibile identificarsi: sono i grandi avventurieri bianchi, i conquistatori ecc. Ma viene un momento in cui lo spettatore osa entrare nella pelle di un personaggio esotico: un meticcio, comunque interpretato da un attore occidentale. Comunque sia l’integrazione non può essere totale: l’orientale non è ancora degno dei campi elisi cinematografici che solo l’happy end rende accessibili. La morte è il suo castigo e al tempo stesso la sua purificazione. Così il grande paradiso dell’onirismo occidentale gli viene ancora una volta rifiutato. Capitolo 10 (p.123): Il marsigliese cinematografico Il francese del sud si è cristallizzato nel “marsigliese” sugli schermi cinematografici. In Honoré de Marseille di Maurice Régamey del 1956 (pp.123-126) tutto è prevedibile, è un cliché. Honoré è il tipico marsigliese, a cui non piace lavorare, né faticare. Per rendere un po’ più piccante il personaggio, gli autori del film gli hanno attribuito uno dei tratti del “francese medio” cinematografico, sensibile al fascino delle ragazze condiscendenti, e portato all’infedeltà coniugale. Il “francese medio” ha spesso un amico gaffeur. La moglie di Honoré risponde allo stereotipo non meno classico della matrona meridionale. Gli autori hanno poi introdotto due elementi che fanno parte della vulgata cinematografica nazional: la gag del vicino maldestro, da un lato, la sequenza di parastriptease (concorso di bellezza in costume con una serie di pin-up), dall’altro. 17 Il cinema, così come è l’arte del primo piano (il volto), è anche l’arte dell’immensità del campo: la sua eloquenza si trova nei movimenti delle folle, delle macchine, delle cose, della natura, della vita stessa. La parola si cancella. Solo la musica è in grado di accompagnare le visioni ammirevoli. Il teatro invece non può evocare questi movimenti o questi spettacoli se non indirettamente. Non può rappresentarli e, consapevole della sua debolezza rispetto al cinema, non osa più rappresentarli. Qui ancora la poesia deve concentrarsi sulla voce. La magia del teatro risiede nella presenza di uomini su scene quasi nude. La magia sta nella parola, una recitazione che si sforza di andare da un’anima all’altra. Capitolo 15 (p.159): Amanti e peccatori Uno stereotipo è una tipizzazione semplificata di elementi presenti nella realtà, ma è superficiale e riduttivo, e spesso è una caricatura. In Peccatori in blue jeans, le reazioni del pubblico sono determinate dalla sensibilità di ognuno nei confronti del problema della giovinezza. Ognuno si sente coinvolto, che uno sia giovane, adulto, vecchio o decrepito. Il problema della giovinezza è lo specchio teso davanti al nostro volto, perché ciò che l’adulto guarda nello specchio è il suo volto da giovane. È una delle rare occasioni (questo film) in cui ciascuno parla veramente, cioè senza saperlo, di sé stesso. Capitolo 16 (p.165): Hiroshima, mon amour Il film di Alain Resnais è il prodotto di un incontro tra la letteratura di Marguerite Duras e il cinema a un livello del tutto nuovo. Due aspetti: da un lato, lirismo ed esperienza; dall’altro, preziosismo. È su questo orizzonte che emerge ciò che c’è di più elementarmente biologico: due corpi umani attorcigliati nell’amore (una francese e un giapponese). Questo amore infrasociale, spezzato sul nascere dalla vita sociale (lei deve ripartire per la Francia), instaura subito la lotta contro l’oblio. Idea dell’asocialità dell’amore, l’unica forza che, una volta liberata, la società non può convincere, dirigere, canalizzare, è la grande forza di comunicazione. Ma questo tema è anche in contrappunto con il tema dell’oblio. Marguerite Duras pone una riflessione sulla disintegrazione a catena, che parte dalla bomba atomica e che raggiunge l’essere umano nella sua individualità stessa. Capitolo 17 (p.169): Metamorfosi e deterioramento Prima di fare un giudizio su un film, dovremmo cercare di delucidare i nostri meccanismi di partecipazione, o almeno tener conto della relatività primaria che implica la relazione affettiva film- spettatore. Per di più questa relazione non è fissata una volta per tutte. Dopo la proiezione, la memoria lavora: le immagini registrate fanno sogni: come giudicare un film senza tener conto di questo potere nutritivo che alla lunga il tempo rivela? Non ci sono da un lato i capolavori, che si conservano imbalsamati per l’eternità, e dall’altro le opere fallite, ci sono solo metamorfosi e deterioramenti. Tutto ciò dovrebbe incitarci a sospendere il giudizio e a praticare l’autoanalisi. Prima di parlare di Un re a New York di Charlie Chaplin, bisogna accennare alle due grandi correnti di partecipazione che dividono l’universo dei fan di Chaplin: da una parte, i vecchi fedeli che hanno difficilmente o per niente accettato la metamorfosi; dall’altra parte, gli evoluzionisti che aderiscono al nuovo corso. Ecco, il film non ha ancora trovato oggi la sua universalità, o meglio, la sua linea di galleggiamento nella memoria collettiva (film ibrido). 20 Capitolo 18 (p.177): Ivan il Terribile Al momento in cui la guerra è alle porte, il regime offre all’autore Ejzenstejn la possibilità di trattare un passato convenzionale e arbitrario, che diventa di immediata utilità politica. Applicando lo schema staliniano al primo zar di tutte le Russie, Ejzenstejn ha identificato Stalin a Ivan. Si può immaginare che l’autore abbia visto Stalin, al momento della guerra, come il salvatore della “Terza Roma”. Il potere in quanto tale non è mai messo in causa, ma è costantemente giustificato come terrore che combatte un altro terrore. Felicità / Crisi Capitolo 19 (p.185): Gli idioti Il quartiere dei Lillà di René Clair è il primo film “tipicamente” francese che risenta in modo così netto di un’influenza “tipicamente” italiana, quella del personaggio di Gelsomina de La strada. Si sa che il problema di Gelsomina è quello di “essere inutile”, e ci ricordiamo bene della sua gioia quando “il folle” le rivela che anche un sasso seve a qualcosa. Gelsomina prova a sé stessa e all’universo la propria “utilità” votandosi a un bruto che, alla fine, avrà il cuore riscaldato da questa fonte di amore, molto tempo dopo ch’essa si è spenta. Juju, esattamente come Gelsomina, si crede inutile e si vuole “utile”; come Gelsomina, è un povero spirito, rifiutato da tutti, disprezzato da tutti. Come Gelsomina, il suo amore si fissa sul peggiore degli individui e conquista la propria “utilità” in un amore disinteressato e totale per un essere che “non la merita affatto”. C’è di più: “l’idiota”, protagonista in molti film neorealisti italiani, diventa protagonista centrale del film francese, che eclissa il fuorilegge. Se consideriamo l’idiota nella sua accezione più vasta di innocente, vengono fuori tutti gli eroi comici, tutti gli eroi bambini del cinema, e allora scopriamo che, se si esclude il classico originario, l’idiota è con l’avventuriero uno dei personaggi chiave del cinema occidentale. Secondo Edgar Morin, il personaggio dell’idiota-miserabile provoca una doppia reazione: innocente, ci purifica dalla nostra cattiveria; miserabile, si rivolge a un sentimento forte in colui che non ha mai conosciuto la miseria. Il cinema è la levatrice dei nostri sogni. Anzi dà volto a questi sogni. È certamente più facile, per lo spettatore, identificarsi con un avventuriero temerario, o con un gangster virile, piuttosto che con un idiota ridicolo. E l’idiota rimane perlopiù il pagliaccio comico dal quale ci si distanzia sempre attraverso la scarica elettrica del ridere. Capitolo 20 (p.189): Arthur e Marilyn A partire dal 1947 una grave crisi investe il cinema americano: il pubblico diserta le sale. Il cinema reagisce: gli viene inoculata una rinvigorente dose di sessualità: Marilyn Monroe. Dal 1930 al 1945, i due tipi elementari di star, la vergine innocente e la vamp impura, si dissolvono per combinare i loro elementi in una sorta di sintesi: la good bad girl (apparenze della vamp – abiti vaporosi, vita equivoca, frequentazioni losche – alla fine del film ci rivela che nascondeva tutte le candide virtù della vergine – bontà naturale, anima pura, cuore generoso). Dopo il 1947 l’erotizzazione si accentua per riprendersi gli spettatori che fuggono verso il campeggio o la televisione, ma continuano a fuggire. 21 Siamo in un’epoca del cinema dove gli spettatori possono idolatrare le loro star a patto che il loro adorabile corpo sia santificato da un’adorabile anima. Se Marilyn deve diventare una grande star, deve andare oltre il suo personaggio esclusivamente sessuale, arricchirlo di innocenza: deve elevarsi alle norme della good bad girl. Marilyn si è dunque conquistata un’anima. La commedia divertente umanizza definitivamente Marilyn. Marilyn è nel profondo candida. Il peccato in lei non c’è. La Marilyn ventilata è diventata una Marilyn “Cadum”. Interviene un elemento nuovo: l’insoddisfazione di Marilyn. La personalità dei comuni mortali si fissa e si pietrifica all’uscita dell’adolescenza. L’accesso alla dimensione di star però può indurre un nuovo processo di formazione della personalità. Si diventa star acquisendo, attraverso la dialettica dei rapporti che si stabiliscono tra l’attore e le sue immagini (di film, di pubblicità), una personalità nuova e superiore, al contempo mitica e reale. Ogni star vuole nobilitare la propria immagine, cioè nobilitare sé stessa. Marilyn è una grande star, vuole essere una grande attrice. È l’epoca dei capricci di Marilyn negli studios. La pubblicità di Hollywood, per trarre il maggior vantaggio dalla situazione, lancia allora i “complessi” di Marilyn, infarinati di psicoanalisi. Le riviste spiegano le provocazioni di Marilyn con la sua timidezza, le esibizioni con il suo complesso di inferiorità, l’insoddisfazione con la sua infanzia infelice. Tutto quello che Marilyn fa per superare il proprio mito è subito mitificato da Hollywood, ma non è più Hollywood che fabbrica Marilyn, è Marilyn che costruisce sé stessa. Come il bambino che vuole istruirsi si rivolge al professore, la star che vuole istruirsi si rivolge al “genio”: lo scrittore Arthur Miller, con cui si sposa. Grace Kelly è stata l’anti-Marilyn. I suoi abiti sobri, il rifiuto a posare nuda, la discrezione fecero di lei il simbolo della ragazza di famiglia perbene, tuttavia prigioniera del mondo borghese e cattolico (ex. matrimonio come contratto d’affari). Marilyn si oppone a Grace Kelly come il romanzo vero della vita si oppone al falso racconto di fate. Una pubblicità perbenista diceva che ogni uomo vorrebbe passare una notte con Marilyn Monroe e la vita con Grace Kelly. Arthur Miller ha sapientemente invertito i termini. Capitolo 21 (p.195): Elogio de Il grido Il grido di Michelangelo Antonioni del 1957 è frutto di una combinazione intima tra il senso profondo di una storia, questa stessa storia e i mezzi formali di una tecnica raffinata. I grandi registi italiani scelgono questa Italia del Nord per parlarci dei sogni e dei segreti della vita interiore. È l’Italia delle tristezze e delle malinconie, dei fallimenti e delle attese, della pena degli uomini e della pena del cuore. Tutto il film si svolge tra il momento in cui un uomo è colpito a morte e il momento in cui cade. È dunque, di fatto, la storia di un’agonia, di cui nulla ci è mostrato esteriormente. Il film è intriso di una vita interiore suggerita dal paesaggio. Il regista ci fa vedere Aldo con una oggettività distaccata in apparenza, che è il segreto di ogni grande realismo, che ci permette di osservare e di giudicare. L’implicazione di Antonioni nel realismo estetico è tragica perché ci fa vedere un uomo-giocattolo, schiacciato da forze che lo sovrastano, e alla fine distrutto. È l’uomo automatizzato che rimane quando ogni autonoma spinta si è spenta in lui e quando l’energia vitale si è prosciugata in lui. Il cinema attribuisce sempre solo alle donne i temi profondi dell’amore. Non si è mai visto un uomo agonizzare d’amore per tutto un film. Eppure, i fatti di cronaca dimostrano che anche gli uomini sono capaci di disperazione e di follia. Sono come Aldo, degli esseri condotti all’estrema debolezza, all’estrema frustrazione, perché hanno perso ciò che era essenziale per la loro vita. 22 L’industria cinematografica non è riuscita a riconoscere e a soddisfare il nuovo bisogno di “realismo” che corrispondeva ai problemi del momento (guerra fredda, angoscia atomica, nuovi conflitti sociali) e le nuove esigenze di evasione (neo-esotismo, neo-erotismo, evasione nel passato). È solo tra gli anni 1950-1953 che si cominciò a riconoscere alcuni di questi bisogni, in particolare sotto l’impulso della concorrente televisione: diffusione del colore e del grande schermo (Cinerama, Cinemascope), film di evasione “turistica” girati in paesi e in continenti stranieri, film di evasione “storica” (Medioevo), emancipazione dalle restrizioni sull’erotismo (ammorbidimento del codice della decenza, nudità, star pin-up). Così dunque il cinema dei paesi alleati d’Occidente non seppe adattarsi, se non in ritardo, a un’evoluzione psicologica collettiva. La crisi delle sale cinematografiche provocò una concorrenza su scale internazionale che si espresse con una lotta sui mercati e con un aumento del costo medio dei film. È in questa congiuntura che la crisi del cinema francese era diventata particolarmente drammatica (accordi Blums-Byrnes). Come fu superata la crisi? Sul piano occidentale, fu la trasformazione del cinema nella sua forma (Cinemascope, generalizzazione del colore), nel contenuto e nello stile (temi nuovi o rinnovati). Per quanto riguarda il cinema francese, questo fece ricorso allo Stato (fu istituito il sussidio alla produzione) e riuscì poi a far esplodere i confini stretti del proprio mercato nazionale con una politica di esportazione e di coproduzione. Così, mettendo insieme erotismo, star, Cinemascope, sussidi dello Stato e mercato internazionale (e principalmente europeo), il cinema francese è riuscito a superare la crisi, accrescere la produzione, recuperare (in parte) il pubblico che aveva perso (p.220). Capitolo 24 (p.221): Cinema francese 1962 È alla crisi del cinema francese che dobbiamo quei rinnovamenti che nel loro insieme sono stati chiamati Nouvelle Vague. La crisi economica aveva favorito i film poco costosi, girati senza vedette, in set naturali, ma con una maggiore libertà artistica. Il carattere economico comune ai primi film della Nouvelle Vague è proprio questo basso costo. Così i nuovi arrivati incominciano a lavorare sull’espressione, sulla ricerca di più naturalezza, più spontaneità, più verità. Nel corso del 1961 anche la Nouvelle Vague è in piena crisi. I nuovi registi sono a un bivio: o perfezionano la ricerca stilistica diventando così poco comprensibili per il grande pubblico, e rischiando in questo modo di perdere il favore dei produttori, oppure diventano dei registi “normali” che fanno film a budget normale con delle vedette, che rientrano nella Vieille Vague. O ancora tentano un compromesso tra le due strade. Il 1962 vede la costituzione di una corrente di cinema-verità, basata su riprese spontanee fatte anche con la registrazione del sonoro in presa diretta. Capitolo 25 (p.231): Per un nuovo “cinema-verità” Il primo festival del film etnografico e sociologico di Firenze, intitolato Festival dei popoli, segnala la possibilità di un nuovo “cinema-verità”: il film documentario, non il film di finzione. Certo, è attraverso il cinema di finzione che il cinema ha raggiunto e continua a raggiungere le sue più profonde verità. Ma c’è una verità che il cinema di finzione non può contenere e che è l’autenticità del vissuto. Il cinema ha bisogno di messa in scena. Con la rinuncia a un’estetica formale, si possono scoprire terre vergini, esistenze che quell’estetica la possiedono segretamente in sé. 25 In We are the Lambeth Boys, Karel Reisz tenta di mostrarci come sono veramente i giovani nei loro svaghi. Tutto ciò non si è potuto ottenere se non attraverso un’osservazione partecipe, attraverso l’integrarsi del regista nel club dei ragazzi, e a prezzo di mille imperfezioni e rinunce, come per esempio le regole dell’inquadratura. Ma questo reportage ci apre una via prodigiosamente difficile, nuova. Si intuisce che il documentario vuole abbandonare il mondo della produzione per mostrarci il mondo del consumo. Il nuovo “cinema-verità” che cerca sé stesso possiede ormai la sua caméra- stylo che consente a un autore di redigere da solo il suo film, entrando nell’universo sconosciuto del quotidiano. Il cinema non potrebbe dunque essere un mezzo per spezzare quella membrana che ci isola l’uno dall’altro nella metro o per strada, o per le scale di un condominio? La ricerca del nuovo “cinema-verità” si muove come quella di un cinema della fraternità. Per riuscire nell’obiettivo, non si tratta soltanto di dare alla cinecamera quella leggerezza di stile che permette al regista di farsi coinvolgere nella vita degli uomini. Si tratta anche nello stesso tempo di fare in modo che colui che è filmato si riconosca nel proprio ruolo. Si sa che c’è una relazione profonda tra la vita sociale e il teatro dal momento che la nostra personalità sociale è fatti di ruoli che si sono incorporati in noi. È dunque possibile permettere a ognuno di recitare la propria vita davanti alla macchina da presa, e questa recita ha valore di verità psicoanalitica. Capitolo 26 (p.237): Come vivi? (note all’intenzione dei protagonisti del film) Punto di partenza: sei persone, che vivono tutte a Parigi e di ambienti diversi. Lo scopo di questa impresa è quello di portare l’interrogazione il più lontano possibile. Nessuno di loro rappresenta un “tipo sociale”, non c’è né “l’operaio tipo”, né “l’impiegato tipo” ecc., ma ognuno di loro ha avuto difficoltà a vivere, ad adattarsi. Questi personaggi sono presentati dall’équipe (senza commenti) individualmente nella cornice della loro vita quotidiana, casa, famiglia, lavoro, tempo libero. In certe condizioni, con un grande sforzo di verità, qualcuno invece di essere inibito dalla macchina da presa, invece di essere stimolato a recitare una parte, può liberarsi. La macchina da presa potrebbe permettergli di far emergere la propria vera natura. Del cinema si dice sia un mezzo di comunicazione di massa; gli spettatori comunicano con i loro miti, i loro sogni, si comunicano informazioni, documentari, svaghi. Il metodo che Edgar Morin e Jean Rouch hanno sperimentato consiste nell’eliminare l’inibizione provocata dalla macchina da presa e nell’evitare “la recita” in cui ognuno si costruisce subito un personaggio. Questo metodo mirava a far emergere la verità di ciascuno (impressione che la macchina da presa diventasse “psicoanalitica” in alcuni momenti). In effetti la “convivialità” tra individui, in un ambiente che non è lo studio cinematografico, ma il soggiorno di un appartamento, crea un clima di intimità, favorevole alla comunicazione. I personaggi si calano progressivamente e con naturalezza in sé stessi. C’è un po’ la possibilità che ci sia un confessionale senza confessore. La prima parte del film è “clinica”, si cerca di capire i problemi di ciascuno, della sua vita sociale, della sua vita personale. La seconda parte sarà consacrata alla domanda Che fare? Si cercherà di capire se hanno tutti delle prospettive, se pensano che ci sia una soluzione ai propri problemi, e quale sia. Sono problemi puramente individuali? La religione, la politica offrono risposte a queste domande? L’ambizione del film è che la domanda partita da due attori-ricercatori e incarnata in personaggi reali nel corso del film si proietti direttamente sul pubblico, e che all’uscita dalla sala ogni spettatore ponga a sé stesso l’interrogazione Come vivi? Che fai della tua vita? Non ci sarà la parola “fine”, ma un “seguirà” aperto su ognuno di noi. 26
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