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T. Hölscher e Salvatore Settis: il linguaggio dell’arte romana, Dispense di Storia dell'arte antica

Sintesi dettagliata di T. Hölscher "Il linguaggio dell’arte romana: un sistema semantico" e di Salvatore Settis "Un’arte al plurale: l’impero romano, i Greci e i posteri".

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 01/09/2022

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Scarica T. Hölscher e Salvatore Settis: il linguaggio dell’arte romana e più Dispense in PDF di Storia dell'arte antica solo su Docsity! Prolegomena allo studio dell’arte romana Alcuni equivoci sono penetrati stabilmente nell’immagine che si ha dell’arte romana per il fatto che non si considerò abbastanza il modo tutto particolare nel quale sorse e si sviluppò la civiltà artistica che ebbe in Roma il suo cento economico e politico. Gli equivoci più diffusi si possono condensare in due formule: l’una, proposta da parte della critica neoclassica, che considerava l’arte di età romana semplicemente “arte greca sotto il dominio romano” nella sua fase di finale decadimento (con questo generico concetto di “decadenza” si credette di poter spiegare il dissolversi della tradizione ellenistica negli ultimi secoli dell’impero); l’altra che tendeva a considerare l’arte romana come un prodotto diretto del “genio” o addirittura della “razza” romana. Di fronte a queste semplicissime proposte di interpretazione, la realtà storica si dimostra ben più complessa. Salvatore Settis parla dell’arte romana come di “un’arte al plurale”, mentre Tonio Hölscher insiste sull’aspetto comunicativo, riconoscendo nell’arte romana un vero e proprio “sistema semantico”. T. Hölscher Il linguaggio dell’arte romana: un sistema semantico Questo libro sviluppa una nuova teoria per la comprensione del linguaggio figurativo romano. Trattando l'arte romana come un sistema semantico, Holscher stabilisce una connessione tra le forme artistiche e i messaggi ideologici in esse contenuti. Dall’età repubblicana in poi, a disposizione degli artigiani si trovavano tante composizioni e forme succedutesi nell’arte greca dalla fine del secolo VI a.C. sino al tardo ellenismo (intorno alla metà del secolo II a.C.) e poi come congelate in un repertorio canonico non troppo ampio entro cui potere trascegliere a seconda delle occasioni, dei contenuti e dei valori da esprimere: per le scene di battaglia, per esempio, si ricorse a modelli ellenistici ricchi di pathos e complessità spaziale, mentre per manifestare le sanctitas, gravitas, auctoritas e dignitas delle autorità statali fu sentita come maggiormente adeguata la ripresa di tradizioni formali più «classiche». Di qui derivò, soprattutto dai secoli II-I a.C., con anticipazioni in Grecia, la creazione nel mondo romano di un «sistema semantico» rimasto piuttosto stabile nei secoli e valido in tutto l’Impero, utilizzato spontaneamente nella pratica delle officine e recepito altrettanto naturalmente nelle abitudini visive degli osservatori; un sistema comunque con margini di flessibilità, visto che nessun teorizzatore cercò di comporlo in uno schema rigido. L’esempio greco Un fenomeno basilare dell’arte romana quale il forte influsso da parte della Grecia, pur senza essere negato, non viene neppure mai assunto come effettivo oggetto teoretico. Alla base di questa omissione stava l’istanza di originalità, che doveva garantire il carattere autonomo della “romanità”. Fintanto che l’arte romana era vista come “dipendente” dai modelli greci, essa non poteva soddisfare l’istanza di originalità. A lungo condizionante è stato il giudizio di Johann Joachim Winckelmann nella Storia dell’arte dell’antichità (1764), dove tentò di sistematizzare lo sviluppo dell’arte greca secondo una parabola biologica. Il suo declino sarebbe cominciato dopo la morte di Alessandro Magno, per cui del periodo di decadenza avrebbero fatto parte tanto l’arte ellenistica quanto quella greca sotto i Romani. Senz’altro non è molto produttivo considerare l’arte romana semplicemente come un proseguimento di quella greca; ma d’altra parte il suo carattere specificamente “romano” non può essere neppure individuato in una struttura formale di base autonoma, che costituisca un’antitesi in rapporto all’arte greca. In ogni fase della storia romana si è fatto ricorso a tipi codificati di scene e di figure provenienti da periodi diversi dell’arte greca e impiegati contemporaneamente nei vari periodi dell’arte romana. Il pluralismo che regnava nella scelta dei modelli era tale da non poter essere determinato dal gusto unitario di un’epoca intera, né da quello di vari gruppi sociali e nemmeno da singole persone. Si può quindi affermare che l’arte romana non ha regolato la scelta dei suoi modelli in base allo stile o al gusto, bensì primariamente in base ai contenuti e ai temi. Essa ha di volta in volta ripreso prototipi diversi da periodi diversi dell’arte greca in funzione di ambiti tematici differenti. Questi prototipi, orientati secondo il contenuto, furono mantenuti, in linea di massima, durante tutto il corso della storia dell’arte romana, indipendentemente dallo stile proprio di ciascun singolo periodo. Il motivo della battaglia e quello della solenne cerimonia statale mostrano chiaramente che per determinati temi si sceglievano determinate forme di rappresentazione appartenenti a periodi diversi dell’arte greca. La scelta delle forme era dunque fondata sul contenuto: 1 1. le scene di battaglia: le rappresentazioni romane di battaglie riprendono una maniera di rappresentazione tipica dell’arte ellenistica. Le figurazioni di battaglie dell’età classica risolvevano lo svolgersi degli eventi in monomachie. Ciascun personaggio era posto in relazione esclusivamente con il suo diretto avversario; i vari gruppi di combattetti non erano invece legati da nessun rapporto effettivo tra di loro. La nuova concezione spaziale del primo ellenismo prevedeva invece un intreccio di azioni di più personaggi posto all’interno di uno spazio continuo, premessa necessaria per la distinzione dei destini individuali, che vengono colti secondo molteplici sfaccettature. Tutto ciò viene esposto con un pathos finora inconcepibile. La concezione che sta alla base di queste immagini di battaglia ha una controparte letteraria nella storiografia “tragica” dell’ellenismo. Gli storici di questo indirizzo si proponevano di far rivivere la storia in prima persona ai lettori, destando pathos, e muovendo a spavento e ira, a terrore e compassione. Per ottenere questi effetti i generi letterari dovevano sforzarsi particolarmente di raggiungere un’evidenza quasi visiva. Di fatto, già Aristotele aveva espresso per la tragedia l’istanza di plastica chiarezza (ἐνάργεια) e come fine quello di condurre gli eventi come davanti agli occhi. Storiografia tragica e arte figurativa in età ellenistica sono dunque legate dall’effetto emozionale cui mirano e dai motivi e mezzi formali impiegati. 2. il cerimoniale di stato: nel complesso furono le tradizioni greche del V e del IV secolo a guadagnare il sopravvento a Roma, in quanto atte a esprimere l’ordinamento dello stato romano. Il linguaggio formale dell’arte classica venne ripreso per la realizzazione di un nuovo stile rappresentativo, mediante il quale poter raffigurare la dignitas e l’auctoritas, idee-guida strettamente inserite nel sistema di valori romano. Le forme greche classiche risultarono adeguate, ad esempio, per il tema della solenne cerimonia di stato, come dimostra il fregio grande dell’Ara Pacis, che rappresenta la solenne cerimonia di fondazione, cui partecipano il princeps, gli alti dignitari e la famiglia imperiale. La composizione dei personaggi sull’Ara Pacis mostra notevoli affinità con il fregio partenonico e altri rilievi classici. Il sistema semantico Un principio basilare dell’arte romana è che la scelta delle forme era fondata sul contenuto. Nella statuaria, ad esempio, si vede che, nel complesso, per dei ed eroi di tradizione elevata si preferivano le nobili forme della piena classicità o addirittura del tardo arcaismo e dello stile severo (in particolare, le opere di Policleto servivano da modello per quelle figure del mondo mitico e divino caratterizzate da una bellezza fisica ideale), mentre per figure librate e danzanti come Vittorie e Menadi si sceglievano le forme mosse dello stile ricco della fine del V secolo; per le divinità dall’apparenza vaga come Apollo, Bacco e Venere si ricorreva molto spesso a modelli del IV secolo, per gli atleti nella loro agilità (ma anche per lo scattante Mercurio) alla tradizione lisippea. Va da sé che non mancano eccezioni a quella che non è una norma vincolante (anche se si tratta pur sempre di una chiara tendenza), come dimostrano due complessi di opere d’arte di grandi dimensioni: 1. l’allestimento della Villa dei Papiri: l’apparato statuario della Villa dei Papiri a Ercolano è concepito come collegamento antitetico dell’attività politica e di una vita ritirata volta alle gioie dello spirito. Di conseguenza, la scelta dei modelli artistici è fondata su una prospettiva in primo luogo tematica. Le non molte statue di dei manifestano la propria autorità come figure-guida di questa concezione di vita mediante forme classiche, in parte addirittura arcaiche. Altri temi però richiedevano modelli diversi. Nel peristilio a giardino una resa convincente del movimento di due lottatori in procinto di battersi fu ottenuta riallacciandosi a Lisippo, che Quintiliano elogia per essersi particolarmente avvicinato alla veritas. Infine modelli ancor più recenti, di età ellenistica, furono ripresi per i numerosi personaggi del tiaso dionisiaco che popolavano sia l’atrio che parte del giardino: Satiri che danzano o che suonano il flauto, fauni, putti, anche un Pan che si accoppia con una capra, e inoltre diversi animali. Ma il richiamo all’eterogeneità dei modelli e degli schermi di rappresentazione, insieme al significato dei loro contenuti, non basta a chiarire tutto in questo complesso figurativo. Infatti, molte delle immagini di questo allestimento non sono copie in senso stretto da originali antichi, bensì adattamenti di opere greche o addirittura creazioni ex novo nello stile dei modelli greci. E in tutti i casi, dalle copie fedeli alle creazioni ex novo, è sempre chiaramente riconoscibile la mano degli scultori che hanno realizzato i pezzi. Il gusto della prima età imperiale influenza dunque in vari modi la ricezione dei modelli. 2. i rilievi dell’Ara Pacis: l’Ara Pacis, con la sua pluralità di livelli, è un’ottima pietra di paragone per stabilire fino a che punto possiamo afferrare la maestria e la flessibilità dei romani nella ripresa dei modelli. Nel fregio grande è il tipo della scena di “processione classica” a determinare l’aspetto d’insieme; esso trasmette all’evento nel suo complesso il carattere del decoro solenne, della dignitas e auctoritas dei personaggi e delle grandi corporazioni religiose dello stato. Ciononostante i singoli 2 Le opere figurative contengono sia i tipi di rappresentazione (in quanto formule tematicamente fondate e quindi stabili nel lungo periodo) sia l’elaborazione stilistica (in quanto espressione di un gusto e di un habitus comuni). A seconda del tema si potevano riprendere modelli di epoche diverse dell’arte greca, presentando nello stesso tempo questi elementi eterogenei in uno stile unitario. Lo stile permetteva, in singole epoche, regioni ecc., di riassumere gli elementi semantici eterogenei in un habitus unitario, stabilendo un confine rispetto ad altre epoche, regioni, ecc. Il sistema semantico, per lo più statico, veniva così caratterizzato da un aspetto del mutamento collettivo: i modelli tipologici, nonché i temi, venivano selezionati secondo i gusti mutevoli delle varie epoche. Il ritratto è significativo come caso estremo del rapporto tra tipo e stile. Nel ritratto infatti il fattore dello “stile dell’epoca” traspare molto più decisamente che in altri ambiti artistici. Evidentemente, nell’ambito di un mondo di immagini che diventava sempre più un repertorio di segni per concetti astratti, la persona umana agente veniva sentita come l’unica realtà concreta. • «stile d’epoca»: concetto per cui in ogni Stato nazionale ogni periodo storico ha avuto un suo stile specifico, nel senso che si riconoscerebbe nel linguaggio artistico un inconfondibile denominatore comune da intendere come una realtà in grado di lasciare segni ovunque, su marmi, metalli, stucchi, affreschi e argille e non solo, consentendo di distinguere per esempio un prodotto giulio-claudio da un altro adrianeo o da un altro ancora severiano e di stabilire la contemporaneità di opere d’arte prive di una sicura cronologia. • «stile di genere»: la teoria dello «stile di genere» è basata in parte sulla constatazione che opere d’arte realizzate nel medesimo periodo possano essere stilisticamente assai differenti. Le opere d’arte romana rientrano spesso in talune classificazioni tipologiche (per es., rilievi funerari con ritratto) o tematiche (narrazione storica), che richiedono modi diversi di rappresentazione. Questi sono stili «di genere». Per esempio, la scena di sacrificio dell’Ara di Domizio Enobarbo risulterà più vicina ad altri rilievi con scene di sacrificio, piuttosto che ai rilievi con soggetto mitologico cui materialmente è associata. Questa somiglianza si può attribuire allo «stile di genere» abitualmente usato nelle scene di sacrificio nei monumenti romani a carattere ufficiale. D’altra parte, non solo il soggetto, ma anche la sua importanza, per esempio in taluni contesti architettonici, influenzò spesso lo «stile di genere». Conclusione Lo specifico compito richiesto al sistema formale dell’arte romana consisteva nel soddisfare le pretese di un’élite colta così come le necessità della larga popolazione dell’Impero. Il linguaggio figurativo poteva servire sia come espressione di conoscenze storiche e di una condotta di vita elitaria, sia come sistema di comunicazione visiva universalmente comprensibile. La connessione tra i due aspetti è evidente. I capolavori celebrati dell’arte greca erano diventati norme riconosciute per specifici temi e messaggi. A causa dell’uso molto intendo, le forme dei modelli si svilupparono fino a diventare formule correnti le quali, più che fissare una norma, designavano una cosa. Il rifarsi ai modelli classici diventò in questa maniera una pratica corrente, ripetitiva, spesso banale: si tratta di un trapasso senza soluzione di continuità dai valori culturali dei ceti elevati al comune linguaggio figurativo della popolazione imperiale. Questo linguaggio figurativo esteso e comprensibile ovunque ebbe una grande portata storico-culturale, rimanendo in vigore, nonostante alcuni cambiamenti singoli, in modo piuttosto costante per almeno due secoli a partire dall’inizio dell’età imperiale. È infatti evidente che, proprio in un’organizzazione statale così grande ed eterogenea come l’impero romano, un sistema di comunicazione comprensibile e utilizzabile con tale facilità veniva incontro a istanze urgenti. 5 Salvatore Settis Un’arte al plurale: l’impero romano, i Greci e i posteri La definizione di che cos’è “arte romana” è un problema complicato sia nel tempo che nello spazio e ha dato origine a diversi tentativi che, pur essendo molto utili a inquadrare alcuni elementi effettivamente riconoscibili nella produzione artistica romana, si sono rivelati incapaci di spiegarla nella sua complessità. Di fronte alla straordinaria complessità dell’arte romana la tentazione è di delimitarne il nocciolo, distinguendolo, come per esclusione, da altro che ne è cresciuto o che è cresciuto lì accanto. Al contrario, una concezione che rispecchi più da vicino lo sviluppo (in senso specificamente politico e territoriale) della storia di Roma non può che procedere per addizione. Per apprezzare correttamente sia la validità euristica che la problematicità di questa visione «additiva», essa va collocata in una cornice ancor più vasta: il millenario processo di definizione di aree di cultura artistica nelle regioni intorno al Mediterraneo. Si può così ipotizzare un modello additivo e diffusivo basato sulla sequenza di quattro momenti: 1. formazione di aree con specifica cultura artistica, con forte coerenza interna e fondamentalmente “equivalenti” l’una all’altra; 2. elaborazione, in alcune aree e non in altre, di tendenze e meccanismi di espansione, che possono ricalcare l’espansione politica, la conquista militare, la colonizzazione, i commerci, ma non necessariamente si riducono ad essi. In alcune aree la cultura artistica può svilupparsi con un tale grado di specificità e autoconsapevolezza da proporsi a modello e da essere accettata per tale in aree meno “attive”. I processi di accettazione del modello possono cambiare di volta in volta, in relazione alla funzione che gli oggetti d’arte assumono entro contesti dati; 3. processi di assimilazione delle culture artistiche “meno attive” (o recessive) a quella più “attiva” (o diffusiva). La cultura artistica di un’area “meno attiva” risulta così dalla combinazione fra ricezione del modello e resistenza ad esso. L’analisi di un tale processo di assimilazione, in quanto fondata sulla funzione degli oggetti, comporta l’ipotesi che un’area caratterizzata come recessiva adotti modi e forme propri di un’area diffusiva se e in quanto essi siano a) conosciuti, b) intesi e c) funzionali a esigenze specifiche dell’area “recessiva”. L’adozione di determinati modelli elaborati altrove sarà tanto più rapida, profonda e duratura quanto più essi rispondano a tali esigenze meglio della produzione artistica propria dell’area che li recepisce; 4. equilibrio fra differenziazione delle culture artistiche proprie di ciascuna area e standardizzazione del linguaggio, che consente la comunicazione fra loro di varie aree con differenti backgrounds figurativi. La formazione di un codice figurativo comune (koiné), in quanto finalizzato alla trasmissione di messaggi e di valori, deve essere centrata sulla funzione degli oggetti d’arte. Questo modello a quattro stadi può forse aiutare a comprendere come si possa parlare di “arte romana”, ma non in forza di una qualche specifica “romanità” che vi sia insita ab origine e debba poi ritrovarsi, immutata, a Efeso e a Magonza, in Mauretania e in Armenia, bensì precisamente in grazia di quella sua varietà, che tuttavia si articolava lungo un fitto reticolo di standards comuni, che rendevano un monumento di Italica comprensibile a un cittadino di Damasco (e viceversa), e che facevano blocco fra loro in conseguenza di una comune funzione e di un comune sistema di valori. Il primo passo, e il primo sforzo, da fare per una definizione dell’arte romana è, dunque, di pensarla al plurale, cogliendone però, insieme, l’unità di funzione e di linguaggio. Un’arte «bipolare»? Dall’urgenza di definire le caratteristiche più intrinseche dell’arte romana sono derivate numerose teorie dualistiche, che individuano una bipolarità all’interno della stessa arte romana, ossia due filoni, che si alternano o che corrono paralleli. Il problema della “romanità dell’arte romana” si pone, al principio del suo sviluppo, in termini di distinzione dalla produzione artistica medio-italica ed etrusca; così come si ripone, più tardi, in termini di distinzione dall’arte provinciale romana, che si suppone differenziata dalla produzione artistica dell’Urbe. C’è tuttavia un terzo aspetto, non meno rilevante dei due appena menzionati (l’arte «italica» e quella «provinciale»), ed è la massiccia presenza di dislivelli di qualità e di linguaggio all’interno della stessa Roma. La compresenza di marcati dislivelli stilistici nella produzione artistica è, in tutto il corso della storia romana, una costante assoluta, per quanto ricca di variabili. Ne è derivata, di norma, una concezione dualistica dell’arte romana, che si è venuta cristallizzando, nella sua forma più avanzata e meglio formulata, in opposizione fra «arte aulica», o «senatoriale» (caratterizzata per l’aderenza a canoni «classici»), e «arte plebea». 6 Il quadro che risulta da un tal stato degli studi può essere rappresentato assai schematicamente come un triangolo isoscele, del quale due lati, uguali, siano l’arte «aulica» e la «plebea», mentre il terzo rappresenti l’arte «provinciale» e sia però segmentato per aree geografiche: Il problema è se per arte «romana» si debba intendere la somma dei tre lati; o di due; o di specifiche caratteristiche presenti e diffuse, ma che su ogni lato (e in ogni segmento) si aggiungano ad altri tratti, in sé non-romani: per esempio ellenistici, italici, gallici, ispanici e così via. Un tal quadro è virtualmente sincronico, ma è orientato verso una dimensione spiccatamente diacronica, che confluisce nella Tarda Antichità. E anzi, se per Bianchi Bandinelli l’arte «plebea» assume un ruolo centrale, è proprio in quanto essa anticipa il Tardo Antico. Ma anche nell’arte «italica» e in quella romana provinciale si sono ripetutamente constatati elementi precorritori dell’arte tardoantica. Una volta adottato dalla corte imperiale, il linguaggio (italico)-plebeo, fondendosi con quello provinciale, diventa quello della Tarda Antichità, per poi consegnarsi all’arte cristiana, e quindi al medioevo: Arte (medio-) italica, arte plebea, arte romana provinciale e arte tardoantica condividono una condizione di marginalità rispetto a un centro comune. Diventa dunque vitale, per una definizione dell’arte romana, chiarire in primo luogo natura e limiti di questo «centro» e il miglior modo di farlo è probabilmente di partire dai margini, individuando e mettendo in evidenza quanto essi hanno in comune tra loro. Uno degli assi portanti della visione di Bianchi Bandinelli è il carattere parimenti «romano» sia della produzione d’arte romano-aulica sia di quella romano-plebea. Nella prospettiva disegnata da Rodenwaldt, che ne costituisce il necessario antefatto, lo scarto fra l’uno e l’altro livello era implicito nell’uso stesso del termine “arte popolare”, che introduceva nell’arte romana una sorta di «periferia interna»: è in questo senso che l’ «arte popolare si può quasi chiamare un’arte provinciale dentro la stessa Roma», ben distinta dall’arte aulica ellenizzante. Per Rodenwaldt, si può parlare di un’arte romana unitaria solo a partire da Augusto: la prima «vera» arte romana è dunque quella colta e ufficiale, strettamente legata al gusto della corte e del principe. Per Bianchi Bandinelli, al contrario, l’arte augustea – che è sostanzialmente un neoatticismo – “manca di una sua cultura artistica originale”; l’«arte plebea», con audace inversione, si colloca al centro stesso dell’arte romana, e ne costituisce anzi come un originario serbatoio al quale il linguaggio aulico, di cui viene riaffermato il carattere grecizzante, si sovrappose senza mai imporsi del tutto. Ma, benché il modello di Rodenwaldt e quello di Bianchi Bandinelli differiscano profondamente nella valutazione dei due «poli» dell’arte romana, entrambi ne caratterizzano il percorso mediante la compresenza di uno stile colto, naturalistico, fortemente grecizzante, che caratterizza l’arte ufficiale, e di uno stile altro («popolare» o «plebeo»), che finirà per trionfare nella Tarda Antichità. 7
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