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Teologia 3 Guenzi. Riassunti per studenti non frequentanti, Dispense di Teologia

- G. PIANA, Introduzione all’etica cristiana, Queriniana, Brescia 2014 (Giornale di teologia, 367). - E. BORGHI, Il Discorso della montagna. Matteo 5-7, Claudiana, Torino, 2007 + C. Di SANTE, Decalogo: le dieci parole comandamento e libertà, Cittadella, Assisi, 2007. - P.D. GUENZI, Sesso/genere. Oltre l’alternativa, Assisi, Cittadella, 2011.

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 02/06/2018

Utente sconosciuto
Utente sconosciuto 🇮🇹

4.3

(3)

3 documenti

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Scarica Teologia 3 Guenzi. Riassunti per studenti non frequentanti e più Dispense in PDF di Teologia solo su Docsity! 1 INTRODUZIONE ALL'ETICA CRISTIANA di G. PIANA (ed. 2014): PREFAZIONE: l’etica cristiana, in particolare quella cattolica, è stata per molto tempo identificata con un’arida casistica negativa, ossia con una serie indefinita di norme che hanno lo scopo di segnare un limite invalicabile al comportamento umano e che finiscono per coartare la libertà dell’uomo. Questo modello ha deformato l’identità del messaggio morale evangelico. Infatti è di tutt’altro tenore la proposta della rivelazione: l’etica biblica si presenta con connotati esigenti e le istanze rinviano a modelli di perfezione, ma l’orientamento di fondo è positivo, promuovendo l’autentica crescita dell’uomo ed assicurandogli la felicità. Le norme evangeliche non sono precetti chiusi, ma sono norme aperte che proiettano l’uomo nel futuro, sono norme escatologico-profetiche, la cui attuazione è sempre parziale, poiché il contenuto coincide con la perfezione del Padre. La vita cristiana assume i connotati di un cammino di permanente conversione: essa diviene impegno a un costante rinnovamento interiore, che ha come obiettivo la sequela di Gesù. PARTE PRIMA: I FONDAMENTI: 1) CRISI E ATTUALITA’ DELLA DOMANDA ETICA: L’etica attraversa una crisi che mette in discussione i modelli tradizionali medianti i quali si è strutturata. C’è mancanza di solidi pilastri sui quali poggiare le proprie scelte e questo crea insicurezza e lacerazione interiore. Sintomi che rivelano la gravità della crisi affiorano sia sul terreno dei vissuti personali che dei comportamenti sociali: • Vissuti personali: la caduta di normative, come quelle nell’ambito della vita sessuale, rimette in discussione i valori, provocando agnosticismo morale, caduta in uno stato di amoralità e difficoltà a discernere ciò che è giusto, con conseguente scetticismo e visione utilitarista (che sostituisce l’istanza etica); • Comportamenti sociali o etica pubblica: cadono i pilastri della convivenza civile, viene meno la convergenza attorno a valori unitari, con piattaforme diverse di valori e parametri di comportamento diversi e non condivisi (emblematica la situazione della vita politica italiana: da tessuto valoriale comune per combattere il Fascismo e portare avanti la Resistenza alla nascita di sistemi differenziati). Alla radice della crisi: la ricerca delle cause: a) L’avanzare di una cultura individualista = accentuata privatizzazione dei comportamenti e degli stili di vita (in particolare di quelle istanze kegate ai bisogni ed ai desideri soggettivi del benessere, della felicità, dell’autorealizzazione). Abbiamo il ritorno al “soggetto” che può essere visto in due modi: può condurre al recupero della persona in quanto essere relazionale e quindi soggetto molto aperto agli altri e alla società oppure determinare il ripiegamento dell’individuo su se stesso ed una riduzione della socialità, che finisce per rendere evanescenti delle “evidenze etiche”; b) L’affermarsi del fenomeno della complessità = nell’ambito della società si assiste a una crescente complessità dei sistemi organizzativi e gestionali con il rischio di ingovernabilità. Gli effetti di tale mutamento si fanno sentire anche in campo SOCIALE ed ETICO. In campo sociale si ha una moltiplicazione delle appartenenze ed un alto livello di differenziazione che conduce 2 ad una crescente destrutturazione del tessuto collettivo e provoca la sostituzione delle classi sociali con le corporazioni, perciò la creazione di una società neo-corporativa. In campo etico il bene comune viene sostituito dalla ricerca dell’interesse privato o di gruppo. Nel capo etico il bene "comune" è sostituito da interessi privati, la politica diviene politica "di scambio" tra corporazioni. Laddove l’interesse prevale sull’ideale e sulla ricerca del bene comune lo spazio per l’etica rischia di essere del tutto vanificato. c) Riguarda il sistema economico = il capitalismo selvaggio ha assunto i tratti di un’ideologia totalitaria, ovvero una sorta di “pensiero unico” che si ispira alle logiche dell’efficienza produttiva e del consumo, e che tende ad estendersi a tutti gli ambiti della vita. Le concezioni utilitariste finiscono per ripiegare l’uomo su una visione pragmatica della vita e dell’azione sociale, conducendo ad un’allarmante flessione della tensione morale. d) Lo sviluppo del fenomeno di secolarizzazione = processo di “disincantamento del mondo” (come lo chiama Weber) si è trasformato da crisi del “sacro” in crisi del “senso o del “fondamento”. Il crollo delle ideologie, delle metafisiche classiche e delle grandi narrazioni religiose vanifica la possibilità di domande forti, la perdita di grandi domande di senso e di fondamento e la conseguente assenza di un preciso quadro valoriale al quale ispirare la propria condotta→ si traduce nel ripiegamento su un’etica “debole” di carattere procedurale, dove conta l’elaborazione di norme che consentano di far fronte, di volta in volta, alla complessità delle situazioni. Attualità della domanda etica: La crisi dell’etica mette in discussione i modelli tradizionali di comportamento, ma anche la sua plausibilità, anche se si accompagna a un’insistita sollecitazione a recuperarne l’istanza, soprattutto per lo stato di disagio esistenziale in cui versa oggi la condizione umana. La manca di solidi pilastri su cui poggiare le proprie scelte suscita insicurezza, lacerazione interiore e rende ardua la definizione della propria identità e la progettazione della propria realizzazione personale. Sul piano sociale l’impossibilità di convergere attorno a una piattaforma di valori condivisi impedisce l’instaurarsi di forme di convivenza e lo sviluppo di comportamenti solidali. Tutto ciò impedisce il discernimento di alcune questione attuali→ due settori da richiamare all’attenzione che hanno a che fare rispettivamente con la formazione del costume e con la manipolazione delle sorgenti ultime della vita: 1) L’informatizzazione = ha dato luogo ad una vera mutazione antropologica: il predominio del linguaggio logico-matematico a scapito di quello simbolico e lo sviluppo di relazioni “virtuali”, danno origine ad una nuova soggettività caratterizzata dall’acquisizione di grandi abilità tecniche e alla riduzione degli spazi del senso critico e della creatività. Sembra verificarsi quella dipendenza dell’uomo dalla tecnica, definita da Umberto Galimberti “Psiche e Techne”, rendendo anacronistica ogni forma etica. Alla negazione dello spazio per l’etica corrisponde una crescente esigenza di ricorso ad essa per dare regolamentazione a processi altrimenti destinati a penalizzare i soggetti più marginali e per superare il pericolo di nuove e pesanti forme di alienazione. L’estensione smisurata dell’informazione va di pari passo con la dequalificazione del comunicare. Il potere esercitato dal mezzo è tale da sostituirsi allo stesso messaggio (= il medium secondo McLuhan è divenuto il messaggio) e a creare dipendenza all’uomo. La fissazione di regole che disciplinano l’uso dei media e la decodificazione dei processi ad essi sottesi diventano istanze ineludibili che reclamano il ricorso all’etica come via per restituire un corretto sviluppo alla comunicazione interumana; 5 I precetti della legge sono adesione totale dell'alleanza, la legge è senso pratico della promessa: credere è un modo di agire. La certezza della fede è la constatazione che la promessa di salvezza trova compimento nella persona di Gesù. La fede è la nozione più complessa e più importante del Nuovo Testamento: speranza, carità, facoltà del giusto. Dio è tutto: viene chiesto all'uomo di prendere coscienza di essere una creatura, e di unirsi con legame profondo e attivo a Dio. L'etica cristiana, quindi è una morale religiosa, non un'ascesi, è mistica dell’incontro e dell’unione con Dio ed è un’etica teocentrica che fa dell’accoglienza del dono divino e dell’affidamento totale di sé a Dio il presupposto per vivere nella dedizione incondizionata di sé ai fratelli. 1.C) In cristo e nello Spirito: l’alleanza trova piena attuazione in Cristo, Gesù non è soltanto colui che proclama l’alleanza o la fa, è l’alleanza nella sua persona. In Cristo Dio si è totalmente dato all’umanità, gli uomini sono chiamati a divenire figli nel Figlio. L'esistenza cristiana diviene risposta di amore alla chiamata suprema di Dio: egli ha dato la sua vita per noi. Gesù è ragione e principio della vita morale del cristiano, che è rinascita, rigenerazione, vita nuova in Cristo. L'indicativo di salvezza della partecipazione alla vita di Dio in Cristo diventa imperativo di salvezza: imitare Cristo fino al dono totale di sè. Cristo, per la sua originalità, non può essere assunto a modello come un qualsiasi uomo. E' mediatore con il Padre. Dobbiamo rivestirci di Cristo, essere fedele significa divenire immagine del Figlio: vita operosa in Cristo, con Cristo e in Cristo. Il momento culminante di questa partecipazione-imitazione è il mistero pasquale, in cui trova piena attuazione il dono che Cristo ha fatto di se stesso per la vita degli uomini e del mondo. Emblematico è il caso del battesimo (ripropone in maniera figurata i due momenti della morte e della resurrezione): lo Spirito di Cristo pone l'esistenza sotto il regime della "grazia", conferendogli capacità di costruire il regno. La morale cristiana è cristocentrica, cristonomica, pneumatologica: viviamo in Cristo, con Cristo e per Cristo, i credenti sono chiamati a vivere come lui: è legge suprema dell’esistenza cristiana, è modello della condotta, che libera l'uomo alla conquista della pienezza di vita. Tutto ciò può avvenire grazie all’influenza dello Spirito che informa, conferisce fecondità e potenza realizzatrice all’attività umana→ morale dell’alleanza diventa morale dello Spirito. L’accoglienza del dono di Dio che coincide con la rigenerazione umana in Cristo e nello Spirito si attua nella fede.: è però un'opzione, richiede assenso incondizionato al suo progetto. 2) La conversione: il dinamismo della vita morale: La conversione è una delle categorie più importanti attraverso le quali si definisce la condotta del credente. Dio sollecita l'uomo ad invertire rotta, mutare atteggiamento interiore. Conversione→ SUBH nell’Antico Testamento e METANOIA nel Nuovo Testamento. 2.A) Conversione religiosa e morale: sono strettamente intrecciate: Conversione religiosa = è soprattutto presente nella letteratura profetica, tempo del pre esilio e dell'esilio, momento difficile per il popolo d'Israele che conosce decadenza politica, religiosa e adesione ad idoli stranieri. Questa conversione ha l’obiettivo di ritrovare il Dio vero, riallacciando il rapporto di comunione con lui. Nel Nuovo Testamento la conversione religiosa ha decisamente il primato, è accoglienza nella fede della persona di Gesù che è venuto a portare la salvezza. Paolo coglie il peccato come condizione dell'uomo di impotenza e morte: la conversione è liberazione 6 attraverso il battesimo, passaggio alla vita; Conversione morale = nell'Antico Testamento essa è presente soprattutto nella la lettura sapienziale, in stretto rapporto con uno stile di religiosità chiamato “giudaismo”, incentrato attorno alla meditazione della Legge. Conversione concepita come il ritorno all’osservanza della legge ed il peccato è la sua violazione, con rischio di formalismo. Nel Nuovo testamento (Vangelo di Luca, in particolare nelle parabole della misericordia) è messa a fuoco la dimensione morale della conversione, quindi, la fede in Cristo è appello morale a fare proprie le istanze del regno, adempiendo la volontà del Padre e conversione come un “rivolgersi a Dio”, ammettendo la propria colpa e riconoscendo il bisogno di misericordia. 2.B) La vita cristiana come conversione continua: la conversione è dono del Signore, esige dall'uomo riconoscimento della condizione di peccato e attesa operosa del riscatto: buona notizia, possibilità che Dio offre all'uomo di entrare con lui in rapporto filiale. Parabola del figlio prodigo: l'uomo che si converte è consapevole di essere peccatore, si pente e confessa rimettendosi al giudizio di Dio senza scuse. Da questo origina gioia: ricreare comunione di vita con Dio in Cristo, con collaborazione ed impegno morale di costante conversione, perseguendo la perfezione del padre fino ad offrire la propria vita. Non solo il peccatore deve mettere in atto la conversione ma anche chi è nel giusto perché deve mettere permanentemente in atto la morte al peccato→ obiettivo è servizio ai fratelli: la comunione con Dio richiede riconoscimento della sua presenza nell'uomo. 2.C) L’ideale della perfezione e la logica delle beatitudini: l’annuncio della “vicinanza” del Regno influenza l'etica: la signoria di Dio è criterio per interpretare ed agire. Nesso tra proclamazione della “buona notizia” e il comandamento deve essere inteso in senso cristologico: Gesù è luogo in cui si realizza il Regno, mondo nuovo senza dolore e male, fondato sull'amore. Senso della conversione è la sequela di Gesù: comportamento etico da cui discende l’imitazione di Gesù e l’assunzione ad imperativo morale delle proprie scelte, adesione ad un'etica della perfezione volta a portare a compimento le Leggi antiche, radicandole nel cuore→ adesione che si traduce in un’etica della perfezione. Le antitesi del discorso della montagna fanno risalire allo spirito e all'attenzione della qualità del cuore: le "beatitudini" elencate da Gesù (povertà, purità di cuore, …) sono logica del regno, richieste radicali ai discepoli. Nel discorso alla montagna si rivela la singolare autorità di Gesù, a cui bisogna far riferimento per cogliere le richieste radicali rivolte a chi vuole essere suo discepolo. 2.D) Una morale escatologico-profetica: la prospettiva cui l’agire tende è dunque una prospettiva escatologica radicata nel "già", ma anche nel "non ancora" del Regno→ la signoria di Dio irrompe nel presente, ma è anche evento futuro. La tensione escatologica ha un’immediata rilevanza etica. È richiesta capacità di rapportarsi al Regno nella storia, discernendo dagli eventi storici. Il dinamismo di conversione proietta la vita in avanti, come stimolo a migliorare sapendo che Dio conosce il nostro limite umano: le "beatitudini" e i “ma io vi dico” (ossatura del discorso della montagna) non sono precetti, ma norme escatologico-profetiche verso l'ideale di perfezione mai esauribile. A rendere possibile questo è la speranza, ferma convinzione che Dio rimanga fedele alla promessa: come la categoria dell’alleanza rinvia alla fede, quella della conversione rinvia alla speranza, attuazione dell'alleanza in Cristo come eredità della vita eterna. La morale cristiana è una morale escatologica alimentata dalla speranza: l’adesione a questa verità imprime alla condotta umana una permanente tensione verso una meta mai pienamente raggiungibile in questo mondo, che proprio per questo stimola il credente a trasformare di continuo la propria condotta. 7 3) Il primato della carità: il contenuto della vita morale: L'alleanza è comunione di amore offerta da Dio all'uomo: esige disponibilità dell'uomo ad amare i fratelli. La perfezione cui la conversione tende come a proprio traguardo ha come oggetto la carità. Carità: amore pieno, globale, radicato nelle diverse facoltà umane e dal quale scaturiscono emozioni, sentimenti, pensieri che implicano il coinvolgimento integrale della persona. Agapè, caritas in latino = amore che viene da Dio e a lui fa ritorno, amore che si è definitivamente incarnato nella persona di Gesù e che reclama dal discepolo una risposta della stessa natura. 3.A) Il messaggio di Gesù: nell'antico Testamento, il principio unitario dei dieci comandamenti è "amare Dio". L’esperienza dell’amore gratuito di YHWH obbliga Israele a rispondere con il secondo “dovere” all’amore del prossimo: "amerai il tuo prossimo come te stesso", nesso confermato dalla corrispondenza tra la prima e la seconda tavola. Obiettivo di Gesù è quello di dare unità alle varie prescrizioni della legge che si erano moltiplicate nel periodo del giudaismo; sintetizza quindi le esigenze morali del Testamento ebraico riproponendole in un’ottica nuova. Gesù sintetizza le esigenze morali del Vecchio Testamento con novità: Un primo aspetto di novità della proposta di Gesù è fare opera di unità di fronte alla mole di prescrizioni esistenti in Israele (nel periodo precedente la venuta di Gesù rabbì Hillel aveva proposto una formula unificatrice: Ciò che è sgradito a te non farlo nemmeno al tuo prossimo). Tutta la legge e i profeti trovano nel duplice comandamento dell’amore la loro sintesi ed il loro compimento, perché la volontà di Dio si compie nell’amore. Come la riconciliazione con il fratello, nel discorso della Montagna, è più importante del sacrificio, così il culto ha il suo assoluto criterio nel comandamento dell’amore, Dio vuole misericordia e non sacrificio. La conferma che la carità occupa un ruolo centrale per la vita morale del credente, ponendosi come criterio di valutazione del comandamento si torva anche negli scritti giovannei e paolini. Giovanni insiste sulla novità del comandamento di Gesù e pone l’accento sul fatto che esso ha come modello Gesù stesso. Anche Paolo segnala la centralità della carità per l’agire morale e mette in luce come essa sia la naturale conseguenza della salvezza donata e costituisce perciò la risposta adeguata alla vocazione dell'uomo, che vivifica i comandamenti. L’amore è per Paolo il valore supremo che supera ogni “conoscenza” e ridimensiona ogni altro valore e ogni altra virtù. Un secondo aspetto di novità che caratterizza l’interpretazione fornita da Gesù a proposito del comandamento agapico (agape = amore disinteressato, fraterno, smisurato) riguarda l’amore di Dio e del prossimo: dice che amore di Dio e del prossimo sono tra loro uniti e reciprocamente interdipendenti: noi amiamo perché Dio ci ama per primi (Giovanni sottolinea questa unità). Bisogna raggiungere l’unità tra amore di Dio e amore del prossimo al punto di poter parlare di un unico comandamento, mettendo in evidenza che l’amore di Dio si incarna nell’amore del fratello, e come la possibilità di amare il fratello in un determinato modo provenga dall’essere partecipi dell’amore di Dio. Unico comandamento è l'amore di Dio, incarnato nell'amore del fratello proprio perché ci rendiamo partecipi dell'amore di Dio con la fede, che è quindi la scoperta che Dio è Amore, e conduce all'osservanza pratica delle sue parole. Il rapporto tra fede e amore è messo in evidenza da Giovanni: la fede rinvia alla trascendenza di Dio ed alla scoperta che Egli è Amore e tale scoperta conduce all’osservazione pratica delle sue parole. La carità, quindi, rende trasparente la vera fede, che è coinvolgimento in una relazione d’amore (agire umano→ determinato da fede→ da essa scaturisce imperativo morale→ che è al tempo stesso rivelazione della fede). 10 cristiano, è la norma concreta alla quale egli deve ispirare la propria condotta. Il Vaticano II integra perfettamente la fede con l’agire morale e mette in relazione ethos umano ed ethos evangelico. La salvezza si rivolge all’essere dell’uomo in quanto persona, riflettendosi perciò immediatamente sul suo agire. L’esistenza cristiana ha il suo metro decisivo in cristo, che è insieme la norma più concreta (persona individuale) e più universale (misura di tutti e di ciascuno in ogni situazione). La necessità di un impegno operoso, conseguenza dell'adozione dello Spirito di Cristo nella carità (disposizione radicale di sé per i fratelli) è pienezza della vita divine, Gesù è paradigma essenziale della condotta. Il cristocentrismo proposto dal Vaticano sottolinea che al centro del messaggio cristiano non vi è un principio astratto ma una persona ovvero Cristo nella quale si è reso visibile l’amore di Dio. La vita cristiana riceve il suo senso ultimo dalla partecipazione alla vita di Cristo liberamente accolta nella fede e resa operante nella carità. 1.B) Verso un’ermeneutica esistenziale: le sollecitazioni del concilio hanno dato luogo allo sviluppo di alcuni modelli interpretativi nei quali esperienza religiosa ed esperienza etica risultano connesse ed interdipendenti. Tra questi modelli spiccano in modo particolare quello del rapporto tra REGNO DI DIO e SEQUELA DI CRISTO, tra INDICATIVO E IMPERATIVO, e infine quello legato alla rilettura del DISCORSO DELLA MONTAGNA, in cui si rende particolarmente evidente l’incidenza dell’azione divina sui contenuti dell’ethos del credente. • La sequela nell’orizzonte del Regno: la categoria “regno di Dio” designa l’attuazione della signoria di Dio sulla storia nella persona di Gesù. La sequela assume in questo contesto il carattere di servizio alla causa del Regno. L’evento-cristo costituisce il momento in cui la signoria di Dio sulla storia raggiunge il culmine e conferisce alla libertà del credente la possibilità di affrontare le conflittualità esistenti nel mondo. La tensione in avanti, derivante dalla presenza degli eschata, sollecita il costante impegno del credente a cambiare il mondo. La mediazione etica tuttavia, può rendere ambigua l'interpretazione. La soluzione di salvare l'agire morale cristiano senza sottrarlo alla mondanità è partecipare alla "Kenosi" di Cristo, ossia alla sua rinuncia di essere in doxa ed accetta il modo di essere di uno schiavo. La salvezza divina non avviene in maniera separata dal mondo, ma nascostamente nel mondo nell’umile obbedienza del Figlio di Dio→ la piena assunzione dell’ethos umano, liberato dalle tentazioni legaliste e sottratto alla logica dell’interesse individuale per fare propria la logica dell’abnegazione e del dono di sé; • La connessione tra indicativo e imperativo: l’esistenza cristiana è descritta come un cambiamento interiore, come rinascita, da cui discende l’esigenza di una radicale trasformazione degli stili di vita. Il primato dell’operare divino è sottolineato soprattutto dalla teologia paolina: la vita del credente è incorporazione a Cristo e partecipazione ai suoi misteri, in particolare a quello pasquale e il dinamismo della vita morale è lo sviluppo di tale incorporazione e di tale partecipazione. L’evento pasquale si mostra all’intelligenza della fede come il perno attorno cui ruota la salvezza, momento in cui Gesù si immola per darci la possibilità di una "nuova vita". Lo scarto tra Dio e azione umana non può essere del tutto superato, la possibilità di raccordo tra i due è frutto di un dono all’altro, che lascia intatta la distanza e si risolve nell’accoglienza gioiosa dell’amore di Dio. Il nesso sequela-imitazione non si può trovare in una situazione di piena continuità essendo Gesù un modello incomparabile e dunque inimitabile. Ciò che è richiesto all’uomo è il coinvolgimento dell’intera esistenza in una 11 decisione e in un impegno, caratterizzati da una forma di radicalismo, che implica l’adesione obbediente di tutta la persona al disegno di Dio; • “E’ stato detto agli antichi…ma io vi dico”: il pieno recupero del fondamento cristologico viene soprattutto dalla rilettura del messaggio di Gesù al cui centro vi è la richiesta al discepolo di una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei. Il senso di questa richiesta è presente nelle antitesi del discorso della montagna. In questo contesto bisogna far riferimento allo stretto rapporto che esiste tra cristologia e antropologia: l’antropologia in quanto messa a fuoco della costitutiva apertura dell’uomo alla salvezza è il presupposto della cristologia; la cristologia invece costituisce una radice profonda cui l’antropologia è ancorata. Ma è soprattutto legata alla capacità di far interagire tra loro cristologia narrativa e cristologia riflessiva, nella quale si rende trasparente il significativo influsso storico che la fede esercita sulla ragione morale. L'efficacia della fede si misura nei presupposti all'azione. La fede incontra una ragione morale situata in un certo contesto, ma si proietta sull'agire ispirando fiducia fondata sulla consapevolezza che il tempo presente è riscattato. Contributo della cristologia alla teologia morale è indicare che il cristiano non vive la legge naturale, ma un'interpretazione di essa attraverso Cristo: non è una morale universalmente comunicabile né un dato, ma una meta escatologica che non ci deve però far perdere l'identità dell'evento singolare. 1.C) Il recupero del Gesù nella storia: esistono dei rischi connessi a delle comprensioni riduttive che vengono proiettate sui testi biblici e su quelli della tradizione ecclesiale, in particolare per la riflessione morale. Per superare questi limiti bisogna far riferimento all’approccio fenomenologico e far riferimento diretto alla persona di Gesù e alla sua prassi messianica. • L’orizzonte fenomenologico: la riproposizione di alcuni momenti essenziali della vicenda storica di Gesù con la preoccupazione di farne emergere il senso consente il recupero del nesso tra fede e forme dell’agire, nesso evidente soprattutto nella predicazione di Gesù. Il vangelo che Gesù annuncia e che ha al centro la proclamazione dell’ingresso del Regno nella storia, influenza profondamente il modo che egli ha di intendere il comandamento di Dio rivolto alla libertà dell’uomo. Liberazione di sé impone però l’impegno a fare proprio un cammino di permanente conversione. La prassi di Gesù diventa quindi un modello alla quale il discepolo deve riferirsi per comprendere il significato della legge nuova. Il rapporto tra la legge nuova e la persona di Gesù è strettissimo. Il discepolo deve ispirare la propria condotta alla storia di Gesù, in questo senso l’antropologia appare come diretta conseguenza della cristologia. La Pasqua costituisce il momento della piena comprensione del comandamento. • Nel segno del mistero: il senso dell’agire non può essere del tutto “spiegato” ma soltanto “evocato”. Il messaggio cristiano è aperto al “mistero”, esperienza morale e di fede sono unite: l'esperienza di fede rinvia all'esperienza morale, che a sua volta conferisce all'esperienza di fede un concreto indirizzo esistenziale. Alleanza, conversione, regno di Dio, sequela, carità, ecc. sono categorie che hanno una valenza religiosa e una valenza etica in quanto evidenziano il rapporto che si istituisce tra l’uomo e Dio e mettono l’accento sulla necessità di fare propri nuovi modelli di comportamento da incarnare nelle scelte quotidiane. Comunque la distinzione resta: fede come esperienza interiore che illumina l'esistenza; ethos ambito in cui la fede si rende trasparente. Distinguere non significa separare: ortodossia e ortoprassi vanno ricomprese nel segno di una feconda reciprocità: sono ricevuti dall'alto, la loro accoglienza con la libertà umana genera la capacità di accogliere l'altro e conferisce alla libertà la possibilità di realizzarsi nel quadro di una rete relazionale. 12 1.D) La prassi messianica come paradigma: il fondamento dell’agire morale del cristiano sta nella singolarità di Gesù che fornisce precise indicazioni, che scaturiscono dal farsi del Regno nella persona di Gesù. La categoria che definisce al meglio questo modo di essere di Gesù che coinvolge persone e prassi è la PRASSI MESSIANICA. Fondata sul riconoscimento dell’umanità di Gesù e del suo essere da Dio, tale categoria aiuta a superare la frattura tra il Cristo della fede e il Gesù della storia. La Fede è l’atto in cui la libertà umana si manifesta come la libertà davanti a Dio e per Dio. Gesù rivela la signoria di Dio come potenza liberatrice. La potenza di Dio che Gesù rende manifesta nella concretezza della storia umana attraverso la prassi (per esempio attraverso i miracoli) rende trasparente come la volontà di Dio tenda a liberare l’uomo da tutti i condizionamenti, anche materiali, per renderlo disponibile alla sequela. Nello stesso tempo attraverso la morte di Gesù ci dice che dobbiamo comunque continuare a confidare in Dio. La prassi di Gesù quindi va in due direzioni: da un lato stimola il processo umano di liberazione, dall’altro lo trascende in una salvezza che solo Dio può dare. La croce non è un simbolo astratto è la rinuncia a un messianismo di potenza che non si sarebbe dimostrato rispettoso della precarietà e dell’ambivalenza della condizione umana. Attraverso la sua prassi messianica Gesù delinea la figura di ciò che l’esistenza umana può diventare se fa spazio all’accoglienza del Regno. L’annuncio del Regno è la proclamazione della possibilità di una comunione conviviale da estendere a tutti ed è nello stesso tempo sollecitazione ad agire per dare piena attuazione a tale comunione. Accogliere nella fede il Regno significa confidare nella potenza di Dio che si è resa efficace nella persona di Gesù, significa aderire in assoluta libertà al progetto divino, sapendo che solo attraverso questa adesione tale progetto si fa concreto nella storia degli uomini. Rapporto fede e libertà: sembra un’antitesi ma non è così perché la fede, che sta alla radice dell’esperienza cristiana e che costituisce il primo atto morale, è un atto libero che fonda a sua volta la vera libertà e la orienta verso la perfetta attuazione. L’esemplarità di Gesù non ha un carattere condizionante, il contagio della sua libertà storica è ciò che spinge ogni essere umano a esercitare i favori degli altri un’analoga libertà. Dio non aliena la libertà dell’uomo, la riconosce fornendo ad essa il suo ultimo fondamento, però ci ricorda che tale libertà non è assoluta, bensì libertà da vivere nel contesto di un tessuto di relazioni, non è libertà da, ma libertà per, come libertà che si afferma pienamente nel momento in cui si apre verso un traguardo che la trascende e la invera trasformandola in libertà per amare. Le parabole attraverso le quali Gesù illustra la realtà del Regno confermano che non si limitano a descrivere la realtà, ma rinviano ad una sua possibile trasformazione, obbligandoci a guardare in un’ottica diversa il nostro comportamento. Pur facendo riferimento alla vita quotidiana esse introducono elementi scandalosi e sorprendenti che mettono sotto processo le nostre abitudini mentali e la nostra condotta consolidata e convenzionale. La prassi messianica di Gesù diventa la prassi del discepolo la cui sequela è frutto della partecipazione alla vita di Dio, ma insieme anche della libera iniziativa umana. Ha origine dall’alto e si incarna nella vita quotidiana del discepolo e della comunità cristiana, e comporta adesione alle grandi indicazioni del discorso della montagna. Il discorso della montagna è adesione ad un ethos nuovo, che appartiene al genere letterario del paradosso e dell’utopia e obbliga i discepoli, ma sono indicazioni insufficienti a dare conto della globalità della chiamata evangelica. L'esperienza cristiana è recuperata nella sua unità originaria, il cui principio unificante è lo Spirito, sorgente dell'agapè, comandamento di Dio radice di tutti i comportamenti. L'uomo ha necessità di porsi un'etica tradotta in norme, che evidenzino i 15 esiste conflitto tra azione divina e libertà umana: l'agore umano è capacità di farsi investire di grazia. L'azione celebrativa vede scambio tra soggetti, riconoscimento di una comune appartenenza come base per affermare l'identità di ciascuno. L'uomo guadagna in ragione: interazione sociale come piena affermazione della soggettività, riformulazione della prassi cristiana in modello simbolico che accoglie istanza sociale e creatività del singolo. L'azione liturgica conferisce unione tra oggettivo e soggettivo, tra impegno e dono: responsabilità dell'uomo è agire verso Dio, con rispetto del dinamismo relazionale. I sacramenti sono la chiesa, la chiesa è sacramento: l'etica cristiana si muove nella chiesa, mediatrice per il genere umano, dono di Dio. L’etica cristiana, radicandosi nell’azione celebrativa, acquisisce un orizzonte di significato nuovo e un proprio specifico dinamismo. La prassi cristiana ha infatti origine a partire dall’agire divino che si rinnova nella storia mediante l’attuazione di una salvezza che non è potere dell’uomo ma che deriva dall’alto. L’agire è risposta a un dono e lo stesso contenuto della risposta è radicalmente determinato dal dono. 2.D) L’EUCARESTIA fonte e culmine dell’agire morale: l’eucarestia è il sacramento dal quale scaturiscono più immediatamente orientamenti concreti per l’agire quotidiano. La pasqua di Cristo che in essa viene celebrata diventa pasqua della chiesa e del credente. La prassi cristiana diventa una continua celebrazione del mistero della morte e della resurrezione del Signore. Segnaliamo tre grandi orientamenti che discendono dalla considerazione della prassi cristiana in quanto prassi eucaristica: • Un’etica della sovrabbondanza: l’eucarestia è innanzitutto manifestazione della sovrabbondanza divina la quale supera ogni bisogno e ogni aspirazione umana. In essa si rende trasparente l’assoluta gratuità dell’amore→episodio della moltiplicazione dei pani e della trasformazione dell’acqua in vino (nozze di Cana) sono collegati all’eucarestia e confermano ciò che è stato detto. Dio non agisce mai secondo la logica della semplice risposta al bisogno, ma secondo la logica che va oltre ogni bisogno e ogni aspirazione dell’uomo, l’eucarestia è l’evento nel quale si condensa questa logica di Dio. L’agire del credente deve fare propria la legge della sovrabbondanza. Il credente è colui che, cosciente di vivere dei doni di cui è stato beneficato, si fa a sua volta donatore, sapendo che la sua risposta è comunque sempre imperfetta e che esige pertanto un costante rinnovamento. Non siamo noi ad andare incontro a Dio, è lui che ci viene incontro per primo; a noi spetta soltanto creare le condizioni per poterlo accogliere→ l’atto fondamentale che deve stare alla base dell’agire cristiano è perciò l’atto del rendimento di grazie. Chi crede deve porsi non solo di fronte a Dio ma anche di fronte alla realtà creata, espressione dei suoi doni. • Un’etica della convivialità: nelle parabole di Gesù il convito è un’immagine privilegiata per descrivere l’unione degli uomini con Dio e tra di loro nel Regno dei cieli. Mediante la comunanza conviviale con pubblicani e peccatori, Gesù tende a dimostrare che in lui e attraverso di lui si opera la conciliazione e la comunione definitiva dell’umanità con Dio. L’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli è l’apice di questa rivelazione. Gesù è l’ospitante che mediante il suo convito offre la comunione con se stesso e con il Padre. Cammino tra i discepoli e Gesù e per mezzo suo con il Padre è il fondamento della comunione dei discepoli tra loro. L’unità dei fedeli che partecipano al pane eucaristico: la contraddizione tra la celebrazione e il comportamento quotidiano chiama l'uomo ad acquisire una mentalità nuova, del dono di sé e della disponibilità a servire. L'eucarestia è azione in cui Cristo si dona alla comunità e unisce i suoi membri: la Chiesa come corpo di Cristo è comunità eucaristica: punto in cui trae l'origine l'attività comunitaria è la vitalità della chiesa, strumento di Dio per cui la convivialità eucaristica diviene vissuta: è un'esigenza teologale 16 che porta all'imperativo etico che trova attuazione nella corporeità storico-sociale della chiesa. L'agire del credente trova verità in condivisione e servizio, dono permanente di sé agli altri. • Un’etica del Regno: l’eucarestia, sacramento della chiesa, ne rivela infine anche la proiezione nel futuro verso la pienezza del Regno. Nell'evento eucaristico c'è il "già" del Regno, che stimola gli altri al "non ancora": partecipazione reale che dà spinta escatologica. La Pasqua di Cristo diviene così, nell’azione eucaristica, la forma della nostra vita attuale di uomini in cammino e la promessa della vita futura. La conversione del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore nell’eucarestia, sta ad indicare che l’insieme della realtà creaturale ha già fatto il suo ingresso nel mondo nuovo inaugurato da Dio in Cristo, mondo che attende di essere portato a compimento anche grazie all’intervento umano. Si rende così evidente da un lato il valore cristiano della creazione e dall’altro il valore cosmico dell’incarnazione; dimensione cristiana della creazione e dimensione cosmica dell’incarnazione fondano il valore ‘cristiano’ della realtà terrestre e l’impegno della chiesa nel mondo. L'agire umano concorre a liberare l'universo dalla schiavitù in cui è caduto in conseguenza del peccato e trasforma il mondo con attuazione dell'eucarestia. Il momento liturgico ha il suo culmine nella comunione agapica in quando riacquista fecondità nell’ethos di un impegno nel mondo che assume la forma di un perenne rendimento di grazie. 3)La prospettiva escatologica: La tensione escatologica, che alimenta di sé l’etica cristiana, fa dell’agire umano un agire sempre aperto al futuro. L’esistenza cristiana, fondata sulla prima manifestazione di Gesù, è proiettata verso la seconda venuta. C’è questo senso di speranza che si radica nella fede, nella conoscenza del mistero corroborata dai fatti. 3.A) L’ermeneutica della SPERANZA: la speranza è diventata negli anni ’70 uno dei principi architettonici del discorso teologico, una chiave interpretativa dell’intero messaggio cristiano. In questo contesto prende consistenza una concezione dell’esistenza cristiana in cui acquista maggiore centralità la prospettiva escatologica, l’attesa di cieli nuovi e di una nuova terra. La speranza cristiana che ha il suo fondamento nel Signore, ha come contenuto la visione di Dio, l’incontro definitivo con il Cristo glorificato che avrà luogo nella vita eterna. 3.B) Il radicamento cristologico: il fondamento della speranza cristiana è la persona di Gesù. La sua esistenza storica costituisce il “sì” straordinario di Dio all’umanità; ciò che rende possinile per l’uomo un futuro definitivo. Gesù è, enllo stesso tempo, la causa iniziale della speranza e colui che agisce nel credente per mantenerla viva e portarla alla pienezza. A rendere possibile la speranza non è la semplice analisi delle prospettive future, ma è la fede nella persona di Cristo e nella verità del suo mistero di morte e di risurrezione. La salvezza che raggiunge la sua pienezza con la risurrezione dei morti, è liberazione integrale dell’uomo nelle sue relazioni con Dio, con gli altri e con il mondo. L’evento pasquale è sorgente di una speranza illimitata, in esso Dio ha reso manifesto in modo irrevocabile il suo amore nei confronti dell’uomo e del mondo, chiamati a partecipare alla sua glorificazione. La morte e la resurrezione di Cristo sono promessa e compimento, non sono solo nel passato ma sono presenti anche nella vita futura. Incarnazione ed escatologia sono i due punti cardine attorno ai quali ruota l’esperienza cristiana. L’impegno nei confronti dell’al di qua deve essere radicale ma non assoluto: il credente è nel mondo 17 a pieno titolo di cittadinanza, ma non è del mondo in quanto aspira alla “città futura”. 3.C) Tra impegno e attesa: la teologia della speranza e la teologia della liberazione hanno concorso in misura rilevante a evidenziare il rapporto di continuità e di discontinuità che deve sussistere tra il presente e il futuro assoluto di Dio. La composizione dei due poli non è facile e comporta l’attenzione a due presupposti: • L’accettazione della storia come luogo in cui si manifesta la presenza di Dio. Grazie all’incarnazione la storia è pienamente accolta da Dio e il cristiano è chiamato ad impegnarsi in essa. • Percezione della storia come storia aperta al futuro assoluto. Il cristiano rifiuta tutte le concezioni relativiste nelle quali l’aspirazione dell’uomo al futuro non poggia su nulla. Egli aderisce a una concezione della storia che ne attribuisce l’origine, il senso e il finalismo all’impegno assunto da Dio con gli uomini in Cristo, conferendo all’azione umana la capacità di aprirsi ad un futuro degno di questo nome. Tra già e non ancora, l'agire del credente è in tensione. Il regno, dono di Dio, è legato alla disponibilità dell'uomo a coltivarne i “segni”: Cristo contiene un giudizio, rivelando la caducità della ricerca autosufficiente della salvezza, e la promessa, annunciando che le speranze non andranno deluse. Tensione giudizio-promessa è il parametro fondamentale con cui il credente si colloca difronte alla storia, l’orientamento di fondo è dato da quelle che Jurgen Moltmann chiama “riserve escatologiche”. Questa tensione dialettica è radicata nell'uomo, nell'inquietudine umana che nasce dall'aspirazione ad una comunione con la constatazione che nessuna relazione si rivela appagante, causando costante proiezione in avanti. L’escatologia cristiana rivela dunque all’agire umano la verità e il suo destino. Essa impegna il credente a rendere trasparenti nella storia le esigenze della giustizia e dell’amore. La fede ci garantisce che il progetto di un mondo nuovo è possibile, che gli sforzi per realizzarlo non sono vani. 3.D) L’etica della SPERANZA: la speranza escatologica conferisce alla vita morale cristiana il suo senso il suo stile e il suo slancio. Il cristiano è chiamato a darne piena testimonianza. La speranza genera uno stile di vita segnato da un’unica preoccupazione: quella di accogliere il Signore quando verrà. Il tempo che l’uomo oggi vive è un tempo intermedio tra la prima e la seconda venuta, in cui tutto ciò che conta è preparare il futuro e prepararsi ad esso. L’uomo deve quindi avere un atteggiamento di vigilanza: l’attesa della venuta del Signore e la capacità di accoglierlo sono legate alla coltivazione di uno stato di allerta e alla perseveranza. Vigilanza e perseveranza sono associate alla preghiera nella Bibbia, alla sobrietà e alla temperanza, in quanto implicano un processo di purificazione interiore. La povertà evangelica, come riduzione dei bisogni per fare spazio all’azione divina, è la via obbligata da percorrere per attingere la salvezza. La speranza dà origine alla parresia, al coraggio di osare, di abbandonando ogni paura e ogni timidezza. L’escatologia cristiana fonda un’etica della speranza che si esplicita in una serie di atteggiamenti e di comportamenti nei quali si esprime la gioia e la salvezza già in corso e l’attesa del suo definitivo compimento nella rivelazione del Cristo glorioso. Si tratta di un’etica che trova fiducia nella promessa divina e che si traduce in un coraggio illimitato e in una grande libertà di spirito. L’aspetto più significativo di questa etica è costituito dalla sollecitazione a vivere nel segno della fraternità. La conversione a Dio deve concretamente incarnarsi nell’amore del prossimo→l’etica della speranza è dunque l’etica della fraternità universale che deve rendere operante l’amore verso il prossimo. 20 necessario un cammino di educazione permanente, che permetta la loro interiorizzazione per riuscire a valutare la bontà o meno delle azioni e di spingere eventualmente alla loro realizzazione. • Conoscenza immediata: consiste nella percezione della bontà o meno di un’azione. È conoscenza a tutti gli effetti e non può prescindere dalla ragione. • Conoscenza riflessa: caratterizzata da un ritorno all’esperienza vissuta e dallo sforzo di esplicitare le ragioni per cui un’azione deve o non deve essere messa in atto. È il presupposto della scienza morale, la quale verifica se le azioni umane sono compatibili con il mondo dei valori e codifica i valori in relazione alle diverse situazioni. La conoscenza immediata è la conoscenza morale più significativa ed è in costante divenire poiché si approfondisce nell’azione e mediante l’azione. I valori infatti si assimilano con la pratica e diventano dei criteri guida. La conoscenza morale riflette l’idea biblica di conoscenza, poiché per il credente l’assimilazione dei valori morali avviene nella fede e si identifica quindi con l’esperienza cristiana. 2. Libertà e decisione morale La libertà è il fattore decisivo di determinazione della moralità. Un atto è tanto più etico quanto più è umano, ed è tanto più umano quanto più è libero. 2.1 L’esperienza della libertà È un’esperienza ambivalente: da un lato l’uomo si percepisce capace di decisione, dall’altro avverte che questa capacità è limitata. Infatti libertà e condizionamento sono realtà interagenti, infatti le scelte dell’uomo avvengono nel quadro di precisi presupposti. 2.2 Le diverse forme di condizionamento Alla radice della limitazione del campo di espressione della libertà vi è la natura specifica della soggettività umana→ la persona è formata da corpo e spirito e proprio per la corporeità ha una precisa collocazione spazio-temporale. Il corpo è il mezzo che colloca l’uomo nel qui e ora, che lo sottopone a influenze esterne che incidono sulle sue decisioni. La libertà è quindi situata in un contesto ben definito (il che può essere un limite, ma anche una possibilità) e i condizionamenti sono vari (da quelli biopsichici a quelli socio-culturali). Limitazioni della libertà: carattere, abitudini, strutture sociali, modelli culturali… Questi fattori sono appunto ambivalenti poiché da un lato condizionano la libertà umana, ma dall’altro delimitando il campo creano le basi per il suo effettivo esercizio. 2.3 Libertà e autorealizzazione La libertà di scelta (libero arbitrio), non esaurisce il campo della libertà: il suo fine ultimo è infatti la realizzazione umana. La libertà non si limita all’azione, ma ha a che fare con la capacità di disporre di se stessi→ questa è la libertà fondamentale, che consiste nella scelta del progetto secondo cui il soggetto tende a realizzarsi, sviluppando così il suo processo di liberazione. Questa libertà- liberazione si pone in relazione con la libertà dell’altro, il cui riconoscimento e la cui accettazione sono per il soggetto condizione necessaria per la propria realizzazione e non un ostacolo. 2.4 La prospettiva cristiana La Bibbia riconosce che la libertà fa parte dell’esperienza dell’uomo ed è finalizzata al bene. La 21 libertà è espressione del dono della grazia, la quale mette l’uomo in condizione di rispondere a Dio, disponendosi a servire il prossimo. Originata ed edificata da Dio, la libertà è chiamata a far compiere la sua volontà con la carità. La persona è inizio e fine dell'esperienza di libertà: infatti ne rende possibile la realizzazione e ha come obiettivo la sua realizzazione. La libertà è elemento decisivo di maturazione della qualità morale dell’agire. III La struttura dell’atto morale L'atto umano ha nel soggetto libero il criterio di valutazione della moralità. 1. Il primato dell’intenzione nella Bibbia e nella tradizione successiva Il primato dell’intenzione del soggetto agente nella valutazione morale dell’azione è presente nei testi biblici e trova piena conferma nel Nuovo Testamento, dove anche gli atti eticamente più rilevanti (pregare, digiunare, fare elemosina…) sono insignificanti se fatti solo per ostentazione. Con questo primato non viene comunque sottovalutato il contenuto materiale dell’azione e le conseguenze che essa ha sulla vita degli altri. La Scolastica (Tommaso D'Aquino) evidenzia che il rapporto tra soggetto e azione non è solo basato sulla retta intenzione, se non si accompagna all’impegno a fare cose giuste. La bontà dell’atteggiamento interiore e la correttezza del comportamento divengono quindi i due poli della moralità. Nel XVII secolo la casistica pone l'accento sul contenuto materiale dell'atto e quindi la vita morale viene concepita come un succedersi di atti, senza rapporto tra loro e senza rapporto con l’intenzionalità del soggetto. A questo modello si è ispirata la prassi pastorale, che imponeva di eseguire un esame di coscienza prima di confessarsi, analizzando gli atti nella loro consistenza materiale, per numero, specie e circostanze, prescindendo dalle intenzioni interiori e riducendo il sacramento a processo meccanico per la cancellazione automatica dei peccati. 2. Verso un nuovo equilibrio Il Vaticano II restituisce primato all'intenzionalità soggettiva, anche se il contenuto materiale dell’azione va considerato. Ciò che si determina con l’azione rientra nella valutazione dell'agire che in quanto agire personale ha conseguenze sugli altri. Il valore etico dell’agire dipende dall’intenzione, ma anche da ciò che l’azione produce→ per chi agisce è più importante l’azione, per chi subisce le conseguenze è più importante il suo contenuto materiale. Non si può separare atto e soggetto poiché l’atto è manifestazione di ciò che il soggetto intende. L'eticità è mediazione tra intenzione soggettiva ed efficacia storica, luogo di confronto tra convinzione e responsabilità. IV L’opzione fondamentale come categoria interpretativa L’opzione fondamentale consente di risalire all’aspetto più profondo dell’agire umano. 1. Le motivazioni del ricorso all’opzione L’analisi psicologica ha evidenziato la continuità psichica dell'agire umano, l'esistenza umana è un evento a tappe successive unite dalla persona e dal suo progetto di realizzazione: se si vuole comprendere il significato delle azioni, si deve risalire all'atteggiamento interiore, alla storia 22 complessiva della persona. La riflessione filosofica affronta la questione della presenza della persona nei suoi atti e della natura della libertà. Dentro la libertà si inscrivono libertà particolari, che qualificano le singole scelte dell’uomo→ La “libertà fondamentale” corrisponde con il progetto di sé che la persona persegue con le proprie azioni. Maritain introduce per primo il concetto di “opzione fondamentale”. Analizza il primo atto libero dell’uomo e vede che è una decisione pro o contro il Bene assoluto, Dio e quindi anche se è un atto particolare rappresenta una presa di posizione religiosa ed etica radicale. Rahner, allo stesso modo, rileva che la libertà umana non è semplice libertà di scelta, ma implica una libertà più radicale in cui la persona decide di se stessa: la “libertà fondamentale”. per lui l’opzione fondamentale è l’atto della libertà fondamentale, che scaturisce dall’intimità della persona, dando luogo a due opposte opzioni: dono di sé (carità) oppure ricerca di sé (egoismo). L'opzione fondamentale è scelta morale per eccellenza, che si effettua nel profondo dell'io, dove l'uomo decide di sè, e che orienta le scelte successive della persona, poiché in essa si riflette il suo progetto di vita. 2. Le radici antropologiche Per capire l’origine dell’opzione fondamentale vediamo cosa è la persona nella sua struttura originaria. A caratterizzare la persona come soggetto insieme corporeo e spirituale c'è un centro profondo, che conferisce unità, e stratificazioni esterne spazio-temporali. L'opzione fondamentale si forma con processo che prevede il succedersi di scelte univocamente orientate, ma non ha un’influenza totale sulle scelte successive, perché la libertà stessa potrebbe ribaltare la situazione (insorgenza dell’opzione opposta). La conoscenza della presenza dell'opzione fondamentale non è mai riflessa, ma immediata: non coincide con il contenuto oggettivo dell'azione, ma nel capire l’orientamento alla base del proprio agire, che, con l’opzione positiva, coincide con l’assunzione di un atteggiamento altruistico. La misura del valore morale delle azioni è data dal rapporto che istituiscono con l'opzione fondamentale, il loro significato va ricercato nel continuum che le mette in rapporto con il progetto della persona. 3. Lo statuto teologico l'opzione fondamentale è essenzialmente decisione pro o contro il bene: implica una scelta radicale del disporsi davanti a Dio, ha valenza religiosa perché è assenso o dissenso all’appello di Dio. La filosofia trascendentale considera l'uomo come essere aperto alla trascendenza: l'opzione fondamentale è decisione di aderire o meno all'Assoluto. Nell’ottica cristiana il Bene non è impersonale: è la persona di Cristo, che sollecita il discepolo alla sequela. L'opzione fondamentale diviene adesione o rifiuto della grazia da parte della libertà umana. 4. Le ricadute etiche L'opzione fondamentale è l’orizzonte dove vanno collocate le scelte della persona→ lega tra loro i singoli atti conferendo coerenza alla vita morale. L'agire umano esprime la comprensione che il soggetto ha di sé. Conseguenze del ricorso alla categoria dell’opzione fondamentale→ 1) migliore interpretazione dell'agire umano del suo significato morale, perché l'agire è percepito nel legame con intenzionalità del soggetto; 2) Attenzione privilegiata alla struttura delle singole azioni, al rapporto che hanno con il nucleo della vita interiore della persona: sono atti con cui si integra la vita ad un disegno di fondo, che dà stabilità 25 autonomia, con influenza di fattori interni ed esterni che ne delimitano lo spazio di azione. 2.3 La coscienza, voce dello spirito Nella prospettiva cristiana la coscienza risulta potenziata dall’azione dello spirito, va oltre il livello etico e raggiunge quello teologico, come luogo in cui l’uomo fa esperienza della relazione originaria con Dio→ è quindi voce dello spirito, che spinge l’uomo ad agire in conformità con la legge dello Spirito. Il contesto religioso diventa il luogo in cui l'uomo prende consapevolezza della propria responsabilità morale. Le circostanze divengono luogo di stimolo a vivere in relazione con Dio, aderire ai valori evangelici orientando le scelte quotidiane. 2.4 La coscienza, sede del giudizio morale La coscienza determina la moralità dell'agire del soggetto: non è solo la sede di applicazione delle norme etiche, ma è istinto morale che fa sentire l'uomo responsabile della sua esistenza. La coscienza è un principio selettivo responsabile dei valori morali e dei beni umani nell'orizzonte del pensiero di Dio, ed è sempre possibile incorrere in un errore (sbagliare a riconoscere ciò che è bene in una determinata situazione). Comporta, tuttavia, che la coscienza non perda la propria dignità e non si smetta di seguirla come dettame irrinunciabile: deve acquisire sempre maggiore capacità, è quindi connessa ad una seria formazione, che sappia fornire alla persona la saggezza necessaria a mediare la fedeltà ai valori e l’attenzione alle possibilità situazionali. è quindi necessario un processo di maturazione del soggetto umano che conferisce unità alle proprie decisioni. II. La necessità del ricorso alla norma la coscienza è norma ultima della moralità, ma richiede il confronto con un ordine oggettivo, consistente in valori e norme. La parola norma indica questo ordine oggettivo e si riferisce alle leggi legate alle diverse articolazioni della moralità. 1. La legge naturale Fa riferimento a una norma derivante da un ordine originario inscritto nella realtà e presente, secondo modalità proprie, nella coscienza dell'uomo. Risale al pensiero dei sofisti, come leggi che valgono per tutti per "natura" per relativizzare le leggi promulgate dagli uomini. Questa distinzione è stata ripresa da Aristotele, che sostiene che esiste anche un "giusto naturale" distinto da un giusto legale e al quale quest’ultimo deve sottostare. che Gli stoici sviluppano il concetto di legge naturale e identificano il "bene morale" con la legge di natura. In epoca moderna il concetto di "diritto naturale" ha affiancato la nozione di legge naturale. 1.1 Inattualità e attualità del concetto L’idea di legge naturale oggi risulta: • Anacronistica: legata a una concezione statica dell’umano, superata • Attuale: perché necessaria in situazioni in cui si deve discernere ciò che è legittimo e ciò che non lo è, facendo appello al concetto di natura. Crisi della legge naturale→ mutamento culturale che ha portato dalla civiltà preindustriale a quella industriale e postindustriale, con una concezione sempre più artificiale della vita e porta alla trasformazione da natura in cultura. 26 È invece attuale poiché bisogna fissare un limite all’intervento manipolativo dell’uomo, come in campo medico, quindi rinviare ad un dato antropologico, quale il concetto di natura, può essere una forma di tutela. Il secondo motivo dell’attualità è legato al fenomeno della multiculturalità, all’esigenza di un confronto tra diverse culture che porta alla necessità di individuare codici valoriali comuni, legati alla natura. 1.2 L’evoluzione della legge naturale nella tradizione cristiana I primi a parlare di legge naturale sono stati i Padri della chiesa, i quali propongono una visione cosmica della natura, in cui i processi umani sono regolati da leggi infraumane. Inseriscono la legge naturale umana nel contesto storico-salvifico inaugurato dalla risurrezione di Cristo. La "legge naturale" è integrata a quella evangelica, ma con Tommaso d'Aquino viene abbandonata la concezione cosmica e la natura viene concepita come organismo aperto, in cui la ratio ha il compito di individuare le inclinazioni naturali che si impongono come norma dell'agire. Tommaso inserisce quindi una riflessione sulla “legge naturale umana”, che è diversa dalla legge infraumana, la quale vede l’assenza del riferimento alla ragione. Tommaso colloca la sua riflessione sulla legge naturale in un orizzonte teologico e l’esistenza nella natura di una teleologia immanente si spiega in riferimento a Dio. L’ordine cosmico è l’ordine del creato, riflesso della sapienza divina ed emanazione del Logos. Nel mondo "infraumano" l'ordine si impone in modo deterministico, nel mondo umano va accolto con l’uso della ragione: la "legge naturale umana" è partecipazione alla "legge eterna" e implica quindi l’inserimento dell’uomo nel piano provvidenziale rispettando la sua identità di essere libero e responsabile. La ragione è il criterio valutativo: le "inclinazioni naturali" sono un campo di condizioni aperto, indeterminato, in cui la ragione determina un proprio progetto antropologico. Con Tommaso, quindi, il concetto di "legge naturale umana" acquisisce carattere di intangibilità ma anche di perenne modifica. Con il Nominalismo dell'epoca moderna si ha la rottura con questa visione. Infatti la realtà è concepita come frammentaria: insieme di mondi non comunicanti, negazione del concetto ontologico di natura, in cui l'etica è mera obbedienza alla volontà divina. Gli sviluppi portano ad accentuare la prospettiva razionalistica: la "legge naturale" diviene antropocentrica e pragmatica, assume piena autonomia. Viene accantonato il significato teleologico e la prospettiva storica, invece assume maggiore centralità il dato biologico e il principio di autorità. Con l'avanzare della modernità, la dottrina considera la natura come campo dell'intervento libero dell'uomo, aprendo la prospettiva di storicità e finalismo. 1.3 L’odierna proposta teologica Risaliamo al fondamento biblico della legge naturale e attualizziamo il messaggio in base alle odierne istanze di soggettività e storicità. 1.3.1 Il fondamento biblico a) Creazione e alleanza: creazione= definisce la struttura della realtà, rinvio all’atto con cui Dio l’ha plasmata. Dato originario che avvia un processo in cui gioca la responsabilità dell'uomo che domina e custodisce il mondo sviluppando la pienezza del disegno di Dio, che è il limite alla signoria dell'uomo. La natura qui ha connotato finalistico: è una realtà in divenire, che sottosta ad un ordine in cui le leggi vanno rispettate. alleanza= relazione tra la realtà e Dio, alla radice degli intrecci relazionali in essa presenti. La natura è quindi un background relazionale che definisce il senso di crescita del mondo. b) L’ottica cristologica: Creazione e alleanza convergono nel mistero di Cristo, la cui resurrezione 27 da inizio ad un processo di ricreazione della realtà umana mondana, liberando dalla caducità la creazione. La creazione inizia con il cosmo e finisce con l'uomo; la ricreazione inizia con la liberazione dell'uomo e culminerà con il riscatto del cosmo. La natura partecipa quindi della novità della venuta del Regno. Lo Spirito che abita tutta la terra diventa il principio che differenzia, armonizza, individua, compenetra. c) Il testo di Romani 2,14s: questo è il testo centrale nel Nuovo Testamento per la legge naturale. Il tema centrale è lo stato di peccato dell'umanità, con presunzione giudaica che la salvezza possa venire dalla legge. In realtà l’apostolo dice che bisogna affidassi alla misericordia di Dio. La legge infatti consente di conoscere ciò che è bene, ma non conferisce il potere di attuarlo. Paolo crede che l'uomo sia fondamentalmente capace di conoscere i compiti etici, ma sia impotente senza l'aiuto della grazia. 1.3.2 Il significato teologico L’idea di legge naturale presente nella rivelazione è diversa da quella del pensiero occidentale. L'idea di "legge naturale" nella rivelazione disegna un'esperienza di vita globale, condizione per accedere alla verità della promessa, quindi non è riducibile ad un codice di divieti: è invece la figura della giustizia inscritta fin dalla creazione nel "cuore" dell'uomo, che acquista senso ultimo in Cristo. C'è continuità tra "legge naturale" e comandamento dell'amore, perché la legge è istanza inesauribile, che trasforma l’esistenza in un cammino di conversione permanente. I precetti della "legge naturale" incarnano il dovere di vivere la prossimità, quale principio ispiratore dell’agire morale: la legge va quindi intesa come una tensione continua alla giustizia perfetta, che per realizzarsi necessita della libera obbedienza al comandamento dell’amore secondo l’insegnamento di Gesù. La legge "naturale" è da iscrivere nella legge divina, ed è quindi la "legge eterna" calata nel tempo, che viene condotta dalla fede al suo compimento: nella fede ha luogo la piena comprensione del destino dell'uomo. L’ingresso di Dio nella storia grazie a Gesù istituisce una forma di comunanza tra gli uomini, che rende l’agire umano fraterno, che ha come paradigma la croce, esperienza suprema del dono di sé. 1.3.3 La prospettiva personalista La concezione personalista di "natura" che ammette una differenza antropologica che ha nella coscienza il tratto distintivo. Corporalità, storicità e intersoggettività connotano la natura umana, realtà complessa composta da uno strato biologico e strati superiori (personalità, socialità e capacità culturale). È anche natura aperta, che inclina l'uomo alla propria realizzazione, la quale ha luogo solo nella costruzione di relazioni vere: l'uomo deve diventare ciò che egli è attraverso le relazioni soggettive: il partner umano consente di definire il proprio essere. Questo necessita di equilibrio tra il corpo, struttura a fondamento di ogni relazione, e le altre dimensioni, in unificazione della persona. L'idea di "bene" non è oggettivabile, ma è una qualità dell'esperienza umana; la "legge naturale" quindi dipende dal legame tra "natura" e "persona". La legge naturale, in quanto legata alla persona e alla sua storicità, non è immutabile, ma è un sistema aperto: bisogna trovare equilibrio tra la dimensione permanente della legge e la sua storicità, senza che prevalga nessuna delle due. I confini tra "natura" e "cultura" sono labili: l'agire è determinato dalla persona, che assume la "natura" e la orienta verso il bene, personalizzandola. Le norme hanno carattere storico, vanno ricondotte alla "legge naturale": sono elemento di mediazione necessario per attuare l'essere personale. La loro elaborazione è un compito fondamentale della scienza morale: sono codici oggettivi, che però lasciano spazio alla creatività del soggetto, il quale commisura il contenuto della legge alle esigenze umane autentiche. In conclusione, l'autonomia dell'uomo è reale ma non assoluta, perché dipende dalla struttura 30 negativo immutabile non si concilia con le azioni interumane. 2) Modello teleologico: il giudizio morale sulle azioni è formulato in base al calcolo delle conseguenze, si guardano quindi gli effetti che le azioni hanno sugli altri e sul mondo o la proporzionalità tra il fine perseguito e il mezzo usato. Questo modello permette di elaborare norme duttili, attente al contesto socio-culturali, capaci di interpretare le istanze delle diverse situazioni. Replica al rischio di cadere nell’utilitarismo→la valutazione delle conseguenze dell’azione è fatta con riferimento ai valori, a una visione globale. Replica per "il fine giustifica i mezzi"→ viene valutata anche l’entità morale del mezzo, di cui vanno tenute in conto le ricadute negative. Entrambi i modelli sottolineano aspetti essenziali del fatto etico: immutabilità e relatività. Forse è giusto parlare di modello "teleologico deontologicamente fondato": la norma morale conserva così assolutezza, senza rinunciare alla mutevolezza, che le consente di misurarsi con la relatività delle situazioni. Questa visione è in sintonia con la tradizione cristiana per cui i beni vengono sempre valutati in relazione al bene assoluto, la carità. III. La decisione morale e l’idea di responsabilità Coscienza e norma elaborano la decisione morale. La coscienza ha primato: norma ultima della moralità, non però autosufficiente, perché ha bisogno di essere soggettivamente certa attraverso i sistemi morali che definiscono le regole per conformare il giudizio alla verità. 1. Il giudizio e la decisione nelle diverse situazioni La maturità morale della persona è fondamentale nel processo di assunzione della decisione morale. Non è sempre sufficiente: la complessità delle situazioni esige intuizioni, interpretazioni, applicazioni ripensamenti nei vari contesti. Nella formazione del giudizio morale, il credente si avvale di riferimenti alla parola di Dio, della riflessione teologica e del magistero, che tiene in considerazione la dimensione totale del popolo. La responsabilità della persona è comunque decisiva per il giudizio: indicazioni morali di metodo e contenuto lasciano uno spazio aperto, ma il soggetto fa l’ultima valutazione e la decisione che scaturisce dal suo giudizio comporta il ricorso a una forma di compromesso. Si cerca la soluzione più corretta per attuare il bene concretamente perseguibile in quella situazione, con consapevolezza del limite creaturale che obbliga a vincere la tentazione di perseguire il bene assoluto (presunzione di onnipotenza), tendendo quindi al "bene possibile", e accontendandosi a volte del "male minore" → la parzialità delle soluzioni lascia aperta una porta per le loro revisioni, intervenendo, nel caso del male minore, per limitare i danni, soprattutto ad innocenti. 2. La responsabilità morale tra intenzionalità ed efficacia Il rapporto coscienza-norma trova espressione nella responsabilità, lettura unitaria dell'agire morale, integrando il soggetto, da cui trae origine la moralità, l'altro, a cui l’agire morale si rivolge e la valutazione dei contenuti dell'azione (capacità di favorire la relazionalità). L'agire è intreccio di fattori che acquisiscono significato nella reciproca interazione. Connessa alla singolarità, al suo essere personale, la responsabilità implica acquisizione di abitudini virtuose che garantiscono lo sviluppo positivo della libertà, ed entra in gioco la persona nella sua globalità: "l'uomo tende al bene non solo con la volontà spirituale, ma anche con le forze psicofisiche". Il coinvolgimento della persona implica recupero del mondo interiore→ si risale quindi all’intenzionalità profonda del soggetto e al suo progetto di vita. la responsabilità morale si misura per impegno ad atteggiamenti buoni, che da soli però non bastano: devono incarnarsi in comportamenti giusti che diano vita ad azioni efficaci. Da un lato, solo una visione globale del bene 31 consente la verifica della bontà dell'azione; dall'altro, l'azione è ambito di attuazione di beni particolari e quindi limitati: serve considerare circostanze e conseguenze, coniugando atteggiamento buono e comportamento corretto come condizione di una forma di responsabilità in cui soggetto, oggetto e azione sono in rapporto positivo. CONCLUSIONE: La persona, poiché è soggetto di relazione, è punto di partenza e di arrivo della moralità: l’agire parte da essa, ma tende anche a lei come suo ultimo traguardo. L’adesione al bene ha come obiettivo promuovere la vita di tutti. 3. PECCATO E VITA VIRTUOSA Sono il lato positivo e quello negativo della vita morale→ testimoniano la presenza nell’uomo della libertà di scelta del bene o del male. Sono due opzioni di fondo che coinvolgono la globalità della persona delineando senso ultimo della moralità. I. Peccatore, peccato, peccati La rivelazione non definisce il peccato, ma narra l'esperienza del peccatore inserendola nella storia della salvezza, dove l’azione liberatrice di Dio ha il primato, la quale culmina nell'evento-Cristo. La comprensione del peccato può avvenire come comprensione della misericordia di Dio. 1. La crisi del peccato oggi Oggi è difficile riflettere sul peccato, che sembra rimosso dalla coscienza dell'uomo a causa di un insieme di fattori: 1) Processo di secolarizzazione: affermazione della radicale autonomia dell'uomo, che annulla la possibilità di parlare di peccato. L’idea di peccato è fortemente connessa a Dio →un mondo senza Dio è senza peccato; 2) Esiti delle scienze umane, che hanno evidenziato i condizionamenti che incidono sulle decisioni dell’uomo: la biologia mette in luce gli istinti, la psicoterapia la colpa, la sociologia l'influsso dell’ambiente e dell'educazione, l'antropologia la storicità dei costumi dell’uomo, con negazione della libertà e quindi impossibilità a parlare di peccato→il peccato c’è se esiste la libertà; 3) Collettivizzazione della colpa: rende difficile attribuire colpe al singolo, per concorso di più soggetti; 4) Mistica del peccato: l’esperienza della colpa come condizione per liberare l'uomo dalle false certezze, facendo nascere il bisogno di redenzione. Qui il peccato è via necessaria per scoprire il volto di Dio, manifestato nella persona di Gesù: peccato come sorgente di valore. I fattori negano il peccato, ma possono anche purificarne l’immagine. Oggi è difficile definire la natura e la presenza del peccato per i condizionamenti della libertà e la mancanza di criteri che riconducano la colpa alla rottura della relazione con Dio. 2. Le dimensioni costitutive del peccato L’idea di peccato rimanda al rifiuto di Dio e del suo progetto e si incarna in una serie di azioni negative che violano i precetti dell’ordine morale. 2.1. Rottura dell’alleanza: la dimensione religiosa Il peccato è il rifiuto dell’alleanza con Dio. Il primo peccato, che è causa di quelli successivi consiste nel fatto che l’uomo ha rifiutato la propria dipendenza creaturale e di conseguenza la comunione di 32 amore offerta dal Padre. Dietro alla trasgressione del precetto c’è la volontà dell’uomo di sostituirsi a Dio. L'alleanza è un legame coniugale, il peccato è adulterio: nel Nuovo Testamento il peccato entra in relazione con l'azione redentrice di Cristo, venuto al mondo per dare conoscenza della salvezza nella remissione dei peccati. Nella persona di Gesù Dio e l’uomo entrano in comunione, e la risurrezione è vittoria sulla potenza del male. Il peccato è un "no" alla chiamata di Dio: è una grandezza religiosa prima che etica, la quale non è esclusa, ma inserita in un contesto più ampio→non è anzitutto trasgressione di un precetto, ma è chiusura verso Dio, rifiuto del suo amore. L'amore dell'alleanza non si esaurisce nel comandamento, ma si esprime con esso: è difficile percepire la dimensione religiosa del peccato nella nostra società a causa del secolarismo e anche perché la catechesi ha insistito sulla dimensione etica smarrendone il significato più profondo; 2.2 Rottura della solidarietà umana e cosmica: la dimensione sociale La rottura della relazione dell’uomo con Dio, porta a rompere i rapporti con gli altri e con il mondo. L'umanità perde integrazione sociale→ la torre di Babele è l’esito più evidente di questa frantumazione. Nel Nuovo Testamento il peccato è causa di ogni conflittualità umana e sottomissione cosmica a Satana, che estende l'oppressione a tutta l'umanità. Paolo evidenzia che il mondo in cui viviamo è avvolto nelle tenebre, dominato da poteri malvagi che condizionano le scelte personali. Ogni atto peccaminoso ratifica il regno del peccato nel mondo. Peccato-situazione Peccato-azione: • Peccato-incapacità di apertura a Dio, di amare e attuare il bene • Peccato-atti che l’uomo compie nella vita e che sono manifestazioni della situazione di peccatore. la dimensione sociale del peccato si manifesta a diversi livelli: 1) Ricadute che ogni azione peccaminosa ha sugli altri e sul mondo, che alimentano la situazione di male 2) Atti il cui contenuto ha a che fare direttamente con il rapporto con l'altro (contro giustizia); 3) identificazione del peccato sociale con il peccato strutturale→Considerazione che gli atti di ingiustizia e violenza dei singoli, collegandosi tra loro provocano una condizione di disumanità che grava sulla vita di tutti: "peccato del mondo" → potenza ostile a Dio che si consolida grazie ai peccati dei singoli e che fa insorgere una situazione difficilmente vincibile, poiché plasma di sé le strutture dove si sviluppa la convivenza umana. 2.3. Atto del soggetto: la dimensione personale Il peccato è un atto umano, la cui libertà rincorre cose effimere e inautentiche. Alla radice del rifiuto di Dio vi è un atto di ribellione interiore dell’uomo. Il Nuovo Testamento rileva l'interiorità come fonte del peccato: la libertà è il dono più grande di Dio, ma anche il più rischioso che può portare a distruggersi. Ogni azione umana è inclusa nella storia personale, è in rapporto all’intenzione che la anima e al progetto mediante il quale l’uomo intende costruire il proprio futuro. Il peccato riceve significato autentico solo nel rapporto con lo stimolo interiore che spinge l’uomo alla costruzione di se stesso. È rifiuto della propria identità, rifiuto di vivere la comunione e quindi rifiuto di realizzassi per quello che si è: il peccato è disgregatore, alimenta le situazioni di ingiustizia, che condizionano profondamente la vita dell'umanità. Il peccato è una realtà complessa, che ha radici nel mistero della persona e coinvolge il rapporto che ella ha con Dio e gli altri. La consapevolezza della sua gravità diventa possibile nella fede a Dio, che sollecita alla comunione con sé e offre possibilità di riscatto mediante la grazia del perdono. 35 3. Le ragioni della ripresa odierna L'importanza acquisita dalla soggettività porta ad una sua interpretazione restrittiva, che esige di essere superata: identificazione del soggetto con l’individuo sottraendogli la valenza sociale; le scienze umane poi evidenziano gli istinti, rendendo il soggetto impossibilitato a cogliere l'ordine morale come risposta ad un bisogno di realizzazione. L'eticità assume contorni sovrastrutturali, realtà che si impone dall'esterno come obbligazione assoluta o viene negata nella sua identità originaria riducendosi ad un insieme di "regole" convenzionali ispirate al criterio del consenso sociale o della sola ricerca dell'utile. Il disagio conduce alla dissoluzione delle "evidenze etiche" che sono fondamento necessario di ogni convivenza civile. La preoccupazione dell'etica della virtù è correlare l'atteggiamento soggettivo e l'ordine oggettivo, cogliendo la specificità del fatto morale. La riduzione dell’etica al soggetto e la sua identificazione con i soli asserti normativi, si rendono insufficienti a motivare l’istanza morale: l’etica della virtù consente l’approccio alla questione che riguarda il "perché essere morali", e quindi virtuosi. La virtù è un modo di atteggiarsi che vale per qualsiasi azione, ma non come abitudine automatica, poichè è frutto di una scelta personale. La virtù richiede costante esercizio, crea le condizioni per la crescita di una persona senza diminuire la libertà delle sue decisioni e rendendole conformi alla verità della natura umana. Il ritorno alla virtù sviluppa un'etica che promuova la crescita della persona, dove le abitudini soggettive vengano convogliate verso l’acquisizione del bene. Etica nella quale la misura del bene non viene ricercata all'esterno del soggetto, ma fa parte della coscienza, resa capace, attraverso un processo di assimilazione dei valori, di rispondere in modo corretto ed efficacie alle sollecitazioni del momento. 4. Nell’orizzonte della vita teologale La vita morale si inserisce in quella teologale: quale influsso le virtù teologale (fede, speranza, carità) esercitano sulle virtù morali? Il rapporto con Dio si traduce in comportamento morale, la vita teologale permea di sé la vita morale→ ogni atto del credente è compenetrato da essa con la mediazione della carità, in cui confluiscono le 3 virtù teologali e da essa prendono forma le virtù morali. L'attuazione della vita morale quindi è amore del prossimo non riducibile agli atti singoli, ma come autodonazione completa, in cui l'altro è colto come via mediante cui rendere manifesto l'amore di Dio. Vita teologale e vita morale non sono realtà separate, ma si postulano a vicenda: fede, speranza e carità animano la vita morale conferendole valore religioso. 5. I contenuti delle virtù morali "Virtù" sono atteggiamenti, le cui classificazioni nella storia sono varie e complesse, ma rifacendosi alla classificazione quaternaria di Platone (fortezza, giustizia, temperanza e prudenza), i padri della chiesa utilizzano paragoni suggestivi per delinearne il significato e evidenziare l'interazione (es. Ambrogio le vede come quattro fiumi). Per Tommaso d'Aquino le virtù morali costituiscono l'articolazione dell'intera morale speciale nella "Summa Theologiae": nell'illustrazione dei doveri morali, Tommaso abbandona lo schema tradizionale dei comandamenti adottando quello delle virtù. Riconduce tutte le virtù alle quattro principali: - fortezza, temperanza e giustizia sono tratti del carattere che regolano le forze istintuali; - prudenza: capacità di scegliere i mezzi con cui raggiungere i beni naturali. Kant evidenzia la virtù come sistema di doveri dell'uomo, verso se stesso e verso gli altri; negli ultimi decenni la virtù è ripresa come reazione nei confronti di un'etica normativa esterna, che rischia di 36 annullare le responsabilità dei soggetti. L'articolazione delle virtù cardinali nei vari ambiti di azione viene articolandosi, e fornisce ispirazione generale che orienta l'azione: 1) Giustizia: apertura di se stessi al prossimo, con attenzione al rispetto di dignità del prossimo e promozione dei suoi diritti, come valori che danno unicità alla persona. Alla base della giustizia c’è l’uguaglianza di tutti gli uomini→ giustizia sociale per creare un ordine basato su equità e solidarietà, uomini figli di un unico Padre. Nella prospettiva cristiana la giustizia si completa nella carità; 2) Fortezza: fermezza della persona nel perseguire il proprio progetto rifiutando il conformismo ed impegnandosi a moderare gli istinti. Affonda le proprie radici nella fedeltà a Dio; 3) Temperanza: conquista di una totale signoria sul mondo delle passioni, impedendo che offuschino la mente e producano alienazione. Le energie umane vengono incanalate a perseguire pienezza personale, con gerarchia della realtà in confronto a ciò che conta davvero; 4) Prudenza: vera ragione pratica, che orienta verso la globalità del bene: fattore connettivo delle virtù. Le pulsioni interiori vengono controllate razionalmente, la possibilità del giudizio concede di decidere nel qui e ora cosa è giusto fare per il "bene vivere". La prudenza non si oppone al coraggio, che è capacità di osare: sono grandezze da integrare per dare senso alla esperienza morale cristiana. 6. Conclusioni Nella prospettiva cristiana, il vissuto virtuoso ha alla base le virtù teologali, e trova concreta espressione nelle virtù morali, trae forza dallo Spirito, il quale opera una "ri-creazione" dell'uomo. Le virtù teologali hanno la loro sorgente nello Spirito e l’adesione ad esse alimenta la vita secondo lo Spirito. Fede e speranza confluiscono nella carità, dando all'agire morale, guidato dalle virtù cardinali, il suo senso ultimo. L'esistenza morale del cristiano implica unificazione dell'operare intorno a tale ispirazione. Dalla carità, che è dono e grazia, scaturisce l’impegno a ricambiare l’amore ricevuto, facendo proprio il modo in cui Dio ama. L’esistenza cristiana è un’esistenza donata, nella quale il dono ricevuto viene ridonato ai fratelli. IL DISCORSO DELLA MONTAGNA: MATTEO 5-7 ERNESTO BORGHI PREMESSA I capitoli 5 – 7 del Vangelo secondo Matteo - noti come il discorso della montagna - presi in esame da questo testo di e. Borghi, sono un punto di riferimento essenziale per chiunque voglia parlare seriamente di cristianesimo. Essi fanno parte di un esiguo gruppo di testi biblici che riescono a esprimere in modo intenso e totalizzante quelli che sono i valori-guida della fede e della cultura cristiane. 109 versetti in tutto, la maggior parte dei quali non è molto nota, ma che hanno influenzato le culture e le lingue europee, poiché contengono frasi come la proverbiale “porgi l'altra guancia” dalla cui traduzione letterale deriva la visione della morale cristiana “dell'atteggiamento rinunciatario nei confronti della violenza e del male”, o pericopi come “le beatitudini” che introducono i «discorsi» del Vangelo di Matteo. Le domande che Ernesto Borghi si pone nella rilettura di questo Vangelo e alle quali prova a dare risposta nel libro sono: 1. Che cosa ha voluto dire Mt. 5-7 nell’epoca in cui è stato scritto e nei contesti letterari e storici in cui è stato redatto? 37 2. Che cosa dice alla nostra vita di oggi? CAPITOLO 1: IL CONTESTO Primo dei cinque grandi discorsi pronunciati da Gesù, il Vangelo di Matteo presenta un'alternanza tra parti narrative e discorsive. La predicazione inizia con l'adesione al progetto del Padre. Tre sono le azioni fondamentali del Nazareno: insegnare, annunziare il Vangelo, guarire le infermità. Come fondale di questo Vangelo il monte, che deve essere interpretato come parallelo al monte Sinai. Come Dio si manifesta sul Sinai per annunciare i dieci comandamenti, allo stesso modo Gesù sale sul Monte delle Beatitudini per rafforzare la parola di Dio. I destinatari del discorso della montagna sono i discepoli e le masse, ma la postura di Gesù, seduta, indica un insegnamento non destinato in realtà a grandi masse. Il discorso può essere suddiviso in sette parti. CAPITOLO 2: LE BEATITUDINI (MT 5,3-12) Le beatitudini risultano la sinfonia delle condizioni etiche della felicità escatologica, in continuità dal passato al presente, secondo una progressività di realizzazione e una chiara apertura al futuro. (p. 22) Cosa significa essere beati? Nell’Antico Testamento beato, in ebraico, si dice "ashré": indica colui che ha una condotta di vita integra, chi si fa guidare dai comandamenti di Dio e non li trasgredisce; è chi cerca la sapienza, basata sulla giustizia divina rivelata nella Torah. Costoro vedono la loro beatitudine, ma in una prospettiva di serenità e prosperità terreni. Nella lettura apocalittica biblica, invece sono detti beati coloro in condizione di difficoltà o di sfavore e la loro felicita è proiettata nella dimensione escatologica. Quindi il Nuovo Testamento riceve la concezione duplice di terreno ed escatologico e ne opera due sintesi: • V.3: “Beati i poveri in/per spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Di questa espressione se ne possono trarre due differenti traduzione, che rendono tuttavia due concetti affini. Nella prima il povero, l’oppresso lo è nello spirito: è colui che non avanza pretese intellettuali di autosufficienza e quindi accoglie la salvezza come un dono. Nella seconda traduzione, il povero lo è per lo spirito: si è liberi spiritualmente dai beni materiali, per vivere anzi un rapporto in favore dello spirito. – lettura più coerente col messaggio messianico. E che cosa è il Regno dei cieli, il quale appartiene ai poveri di spirito? È il modo in cui Dio esercita la sua sovranità: l'amore realizzato nella giustizia in e da chiunque sia pronto a viverlo nella propria vita. È perfetto dominio del donare, condividere, felicita fondata sulla misericordia di Dio Padre. Appartiene ai poveri che sono disponibili a ricevere: il Regno è compimento della volontà divina, condizione in cui ogni povertà viene meno perché Dio desidera che il dolore scompaia nella vita umana. • V.4: “Beati coloro che sono molto sofferenti, perché essi saranno consolati” Sono coloro che per calamità e per la morte di esseri umani subiscono sono afflitti, e la sofferenza dipende da tali privazioni e manchevolezze. La sofferenza esiste e bisogna saperla accettare, perché esiste una 40 Nel Decalogo “Non uccidere” è interpretato come eliminazione fisica, ma Gesù va oltre. Per Lui l’ira non è un’eventualità, ma un dato di fatto ed è ugualmente punibile come l’omicidio. Chi ha uno scatto d’ira, chi insulta, chi dà valutazioni totalmente negative sembra incorrere in una punizione sproporzionata. Tuttavia, il destino dell'essere umano dipende dal rispetto dell'umanità del proprio fratello: sono importanti autocontrollo e gentilezza, perché l'aggressione annulla la comunicazione e, di conseguenza, la vita. La serenità relazionale con i membri della propria comunità non è subalterna agli atti di culto, è pari in importanza. Infatti, prima di offrire un dono a Dio – gesto d’amore – è necessario riconciliarsi col proprio fratello, altrimenti si dividono l’amore di Dio da quello per il fratello che invece sono lo stesso amore. Prima di offrire dono a Dio bisogna seguire questa scaletta: abbandonare l’attenzione verso il rituale; recarsi dalla persona con cui si è in conflitto; riconciliarsi con essa. Riconciliazione significa divenire qualcosa di diverso e cambiare. La volontà di pacificazione si manifesta con la tattica giudaica si mettersi d'accordo con l'avversario prima del processo, perché ciò implica il riconoscimento delle proprie responsabilità. Gesù spiega che cosa bisogna fare, non come che è lasciato all’uomo. 2. VV. 27-32 La gravità dell’azione non risiede solo nell’atto in sé di oltraggiare ciò che un uomo ha di più prezioso – la moglie, quanto piuttosto nel fatto che è un’ingiustizia la sola intenzione di porlo in essere: il cuore umano infatti è la sede delle decisioni esistenziali. Quindi ciò che Gesù stigmatizza è l’intenzione, non il sentimento che deve essere domato. Riconoscere l'altro come un "tu", concezione già esistente nella tradizione ebraica, significa opposizione divina a qualsiasi brama strumentalizzante che si ha verso l’altro. Si esplicita il concetto di non dominanza sull’altro. In punta di metafora, la rinuncia ad occhio e mano destra che compiono peccato è indispensabile se il non farlo significherebbe perdere la propria interiorità. Il salto di qualità è, inoltre, la questione del ripudio della moglie, che vuol dire "rispedire al mittente, per conservare la possibilità di risposarsi": la miglior giustizia è mantenere il legame, non per la norma in sé ma per la difesa delle possibilità esistenziali della donna. L'unico atto illecito è l'atto di "porneia", flagrante adulterio o parentela tra i coniugi o l'origine straniera (non ebrea) e rapporti extramatrimoniali. Nell'ambiente di Matteo c'era preoccupazione dell'unità del matrimonio e della sua "santità" reale: un matrimonio senza uso legittimo della sessualità non è ammissibile. 3. VV. 33-37 Ogni giuramento è aggiramento dell'importanza e del ruolo divini, in particolare se riferito a cielo, terra o Gerusalemme che sono luoghi strettamente connessi a Dio. Giurare significherebbe strumentalizzare la potenza di Dio, quindi bisogna preservare la santità da ogni indebita chiamata in causa. Non è vietare i giuramenti, ma vietare che si trasformino in infedeltà. Ciò che è veramente esauriente nell'esprimersi umano è la coerenza tra cuore e labbra, che si concretizzano in un’alternativa netta: vero "si" o vero "no" in azioni, parole e pensieri, senza ambiguità e ambivalenze. La giustizia si declina nella chiarezza di comunicazione. La parola, ascoltata e detta, è principio della vita; al contrario un rapporto diretto con il male è conseguenza di un modo di pensare ed esprimersi al di la delle trasparenze. 4. VV. 38-42 La legge del taglione non è più adatta, il corretto equilibrio relazionale non è sufficiente per Gesù. Bisogna rompere il circolo vizioso di violenza e fare azioni radicalmente diverse dai malvagi: il primo passo è non porsi allo stesso livello. Il duplice livello è quello di interrompere la produzione di male e al contempo mostrare all’interlocutore una strada diversa a partire dalle azioni della vita quotidiana. Rifiutare 41 atteggiamenti negativi ha lo scopo di manifestare gratitudine alla misericordia perfetta di Dio, attraverso il riconoscimento dello spirito di gratuità e della logica del dono. Gesù intende aprire una strada per opporsi alla malvagità, resistere all'oppressione senza emularla, neutralizzare il nemico senza esserne distrutto; 5. VV. 43-48 La morale giudaica distingue con nettezza amici e nemici. Gesù invita alla componente positiva: scegliere la via dell'amore disinteressato e intenso (agapè) verso i nemici, declinando l'amore e domandando a Dio il bene dei persecutori. Bisogna acquisire insieme la consapevolezza che si può essere partner del Signore in rapporto di amore che dirige la nostra vita verso quella degli altri. La figliolanza divina è data da amore e preghiera, soprattutto per i nemici ed i persecutori che può innescare un processo di cambiamento. Dio rispetta la libertà umana e fornisce a tutti le stesse caratteristiche ambientali di fondo; i profili morali possono essere giustizia e bontà o malvagità e ingiustizia, ma non dipendono dal Creatore. Pubblicani e pagani possono essere superati, si può raggiungere l'altezza morale di Gesù con un amore fattivo e quotidiano verso il prossimo, essenziale dell'umanità di ciascuno. Apertura del cuore a chi è ostile: l'amore per il nemico è un altro nome per dire Dio. Piena relazione con Dio è ricercare la perfezione, essere e agire del padre sono la motivazione di una scelta etica che è puro esercizio di giustizia verso Dio e i propri simili. La chiamata di Gesù alla perfezione è chiamata alla pienezza di vita: massima positività nei due rapporti fondamentali della vita cristiana: con il padre e con i propri compagni. CAPITOLO 5: PREGARE PER DIVENTARE GIUSTI (MT 6,1-18) Consideriamo il Discorso diviso in due sezioni: - La prima considera i versetti 1-6 e 16-18 - La seconda i versetti 7-15 PRIMA PARTE Praticare la giustizia per puro esibizionismo è ipocrisia e ogni individuo è al di fuori del disegno divino. La realizzazione della giustizia trova tre campi di applicazione: elemosina, preghiera e digiuno. Tutte e tre devono essere svolte nella segretezza perché non sono delle azioni necessarie, ma delle eventualità che vanno vissute oltre l'ipocrisia, senza ostentazione, perché squalifica il gesto stesso. La segretezza dell'elemosina è necessaria per evitare l'umiliazione del destinatario e fondamentale per la consapevolezza dell'agire: non avere testimoni garantisce la serietà e l'effettualità del rapporto. Se la preghiera deve essere un momento qualificante dell’incontro personale con Dio, soltanto la certezza di non avere testimoni umani garantisce la serietà e l’effettualità del rapporto. Il digiuno equivale a dimostrare la capacità di astenersi dal cibo, quindi la capacità di rinunciare presso Dio alla materialità anche più necessaria; la normalità apparente serve a rafforzare il rapporto. La ricompensa, non esplicita nei testi matteani, è l’ingresso nel Regno dei Cieli. Lo sguardo di Dio infatti ci segue e l’autenticità del rapporto è salva quando si accetta di diventare suoi figli attraverso le decisioni di sequela – ovvero di obbedienza nei riguardi di Dio. Dio riconosce la bontà delle scelte umane anche nella loro attuazione. SECONDA PARTE 42 Gesù insegna il “Padre Nostro”. Nasce solo in questa fase del Discorso la vera differenza tra il pagano e l’ebreo. Il pagano spreca appellativi per conquistare la divinità e piagarla ai suoi bisogni e desideri. I destinatari della parola di Gesù sono chiamati ad entrare nel progetto di Dio attraverso due consapevolezze: 1. Il Signore non deve essere persuaso ad interagire con gli uomini con molte parole. 2. Il Divino è consapevole delle necessità umane, prima e oltre di rendere edotto l’uomo di ciò. I testi ebraici da leggere in confronto al “Padre Nostro” evangelico sono due: o Qaddish: recitato nella liturgia sinagogale. o Preghiera delle 18 Benedizioni: I secolo d. C, sempre recitato nella liturgia sinagogale ordinaria. Il testo cristiano del “Padre Nostro” contiene due dimensioni interagenti e successive: o Teocentrica, in cui si formulano aspettative circa Dio Padre e la venuta del Regno. o Antropocentrica, in cui sono espresse richieste relative ai bisogni umani fondamentali. Prima di chiedere a Dio di rispondere a necessità umane, l'individuo è invitato a porsi in relazione filiale con il Padre: a) Padre nostro che sei nei cieli: comune identità di figli. La collocazione spaziale ha 4 aspetti: trascendenza divina; la distinzione dal Creato; il Suo dominio sulla terra; l’ammirazione degli umani nei confronti della sua potenza. La paternità che l'individuo può affermare per sé è perché parte della comunità. Il "nostro" è giustificato solo in virtù di quel “noi” presupposto, inteso come fraternità nell'amore di Dio ed estendibile, secondo il criterio dell’accoglienza. b) Sia santificato il tuo nome: l'identità di Dio è presenza senza limiti, benefica a vantaggio dell'umanità. Accettare ciò è chiedere al Padre di avere le capacità per riconoscere la sua bontà ed augurarsi che sia fatto anche da altri. Le creature sono invitate a chiedere di saper vivere la pienezza dell'alleanza con il Dio del Sinai: si ricerca la giustizia in ogni relazione della vita. c) Venga il tuo regno: auspicio della realizzazione del Regno di Dio. La preghiera è progressiva realizzazione nella storia e agire che annienta il male. Per Gesù il Regno di Dio è forza già ora percepibile, sperimentabile nella realtà dei cuori e delle menti. d) Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra: volontà come influsso di vita che dona esistenza e la rinnova. La collaborazione umana all'attuarsi del divino è prevista attraverso la decisione degli individui di conformare la loro vita al disegno divino. La presenza umana nel mondo non è di chi crede di essere di fronte ad un tesoro da sfruttare, di chi sa vedere oltre. Chi recita il Padre nostro invoca che la realizzazione raggiunga pienezza in Lui e in Noi. e) Dacci oggi il nostro pane quotidiano: l’idea è quella di chiedere che sia data ogni giorno la quantità necessaria di pane, senza farsi prendere da smanie relative a ciò che è più che essenziale. f) E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori: Dio che ristabilisce amicizia con gli esseri umani infedeli è un motivo esistente sin dai primi testi. Il perdono accordato è condizione del perdono divino o la conseguenza? Il "come" significa "nel modo in cui": chi prega chiede di entrare nella dinamica di relazione gratuita di Dio, perché è ancora eticamente inadeguato. 45 esseri umani sono invitati a rivolgere non si radica nella certezza di essere soddisfatti, ma nella fondata fiducia di esserlo. Le cose buone del verso 11 appaiono, sono le esigenze manifestate nel “Padre Nostro” e tutto ciò che è stato di volta in volta proposto come obiettivo etico e relazionale. 4) V.12: il collegamento è tra gratuità e bene intimamente desiderato. Fare il bene deve partire dal desiderio spontaneo. La pienezza cristiana della reciprocità positiva totale si innesta nella gratuità totale. L'unione delle dimensioni ha queste caratteristiche: o Riassume la concretezza delle direttive complessive del Discorso della Montagna. o È proposta all'universalità dei destinatari. o Proviene da Gesù. o Si radica nell’interiorità come motore e guida dell’amore verso gli altri. Equivalenza reciproca e sovrabbondanza gratuita allo scopo di porre l'unilateralità in vista dello sviluppo della bilateralità. Il giudizio dell'altro si fonda sull'affidamento a Dio, nel rispetto della creaturalità e dei criteri divini di rapporto con gli altri. Le parole sul tesoro e i detti annessi sono le conseguenze delle prime tre richieste sulla vita dei discepoli dentro il mondo. Richiedere il pane solo per oggi, domandare il perdono e non gettare cose sante come ammonizione sulla vera tentazione e sul male che sovrasta i discepoli: disprezzare quanto nel Padre nostro è stato loro affidato. Pratica della "regola d'oro", amore verso i nemici come fedeltà radicale. Amore di Dio nella generosità verso i propri simili CAPITOLO 8: CONDIZIONI DELLA GIUSTIZIA (MT 7,13-27) 1) VV. 13-14: la duplicità della via della vita e della morte coinvolge ogni essere umano in ogni opera che compie. Molti scelgono la seconda, perché più facile e che tuttavia annienta il senso di esistenza. Pochi scelgono la prima, che comporta difficoltà e sofferenze che portano però ad una vita autentica. 2) VV. 15-23: essere attenti ai falsi profeti è necessario e possibile a partire dal possesso di criteri per distinguere chi sia tale. L’indissolubilità tra la persona ed il suo agire è un dato di fatto, così come la bontà di un essere umano può essere colta come tesoro buono, che il suo cuore ha scelto e che dà esiti coerentemente esaltanti. Produrre buoni frutti vuol dire fare la volontà del padre e l’adesione pratica è più completa rispetto a pochi segni paranormali. Il vero profeta è colui che mette vive in conformità con la verità da mettere in pratica che è volontà del Padre. 3) VV. 24-27: si può leggere in confronto con Luca per ottenere delle differenze di tipo geografico e culturale. Differisce da Luca perché la Palestina e le piogge sono riferimento geografico di Matteo, Luca allude alle inondazioni delle regioni extra-palestinesi. Inoltre, differisce per una differenza tra il fare, saggio, ed il non fare, stolto. Tutto parte da una differenza tra il pensiero rabbinico, per i quali fare è studiare la Legge, e il pensiero di Gesù, per il quale fare è ascoltare e praticare la Parola. Ogni dicotomia fra ascolto e realizzazione dipende dalla responsabilità di ciascuno ed è stigmatizzata come rovinosa per l’esistenza. L’alternatività delle scelte etiche è chiara e l’opzione a favore della vita è la pratica dell'esistenza. Equità – Iniquità ; Saggezza – Stoltezza ; Verità – Falsità: alcuni valori propongono la solidità, gli altri la fragilità. Fare la volontà del padre è vivere secondo il discorso della montagna. I "frutti" dell'agire sono esiti e moltiplicatori della vita piena. La croce è fondamento obiettivo e storico della libertà dell'uomo: Gesù si pone nelle mani della libertà, accettando fino all'ultimo. 46 CAPITOLO 9: RIEPILOGO Essere beati, sale e luce della terra significa mirare alla giustizia vera, amare i nemici. La Torah è radice di questa prospettiva, secondo continuo approfondimento del rapporto con Dio, verso un'unificazione dell'essenziale della vita: o Dall'interiorità unificata all'impegno sociale integrale. o Dall'amore totale personale alla concretezza dell'universalità. o Da comandi o precetti morali a inviti pressanti fondati sul principio di beatitudine. Ispirare la propria vita ad un elevato contenuto etico: la giustizia è relazione di alleanza con Dio nell'amore verso gli altri esseri umani. I rapporti con gli altri sono opportunità di incontro, fedeltà e riconciliazione. CAPITOLO 10: VALORE DI MT. 5-7 PER LA VITA QUOTIDIANA Rispetto integrale dell'essere umano alla base della giustizia, e per realizzarla senza squilibri le condizioni sono: o Ricercare i responsabili di reato e verificarne la consapevolezza. o Essere sicuri dell'espiazione delle pene. o Favorire il recupero etico, fisico, psichico dei detenuti con reinserimento nella vita sociale. o Sostenere economicamente individui e famiglie segnati da uccisioni o menomazioni di congiunti per violenza, mafia e terrorismo. Se questo si realizza, si pratica effettivamente una giustizia degna dell'essere umano. La giustizia che arriva al perdono è decisiva per costruire relazioni umane meno bisognose di giustizia repressiva e punitiva, capaci quindi di aumentare il tasso di felicità. L'amore disarmante e disarmato non evita, ma affronta i conflitti. Non è altruismo fanatico, né sentimentalismo: si unisce un "egoismo" illuminato e l'altruismo possibile con buona volontà e sincerità totale. Vivere così è poco praticato e difficile. La separazione tra Nord e Sud del pianeta è una ragione per cui impegnarsi: bisogna allontanassi dalla logica del profitto economico. Iniziative come il commercio equosolidale sono uno sviluppo. Molte associazioni di carattere assistenziale e culturale dimostrano che sta aumentando la sensibilità, ma serve come base la convinzione che l'arricchimento economico e materiale non è primo obiettivo. La crescita economica di tutti va perseguita in modo organico e compatibile con l'ambiente naturale dell'uomo. Non devono esistere uomini sempre destinati a lottare per sopravvivere: senso serio di responsabilità sociale e culturale. Molti rapporti familiari poi sono intrisi di grigiore e stanchezza, ma sposarsi è ragionare di valori non socioeconomici a favore del singolo. Troverebbe minore terreno la mentalità di assicurarsi vantaggi matrimoniali economici e sociali senza assumersi le responsabilità della scelta. L'asservimento all'esteriore attraversa la vita di chiese e società; spesso il servilismo è stimolato e premiato, la libertà di coscienza depressa, gli accordi tra i poteri hanno obiettivi economici. Esistono persone dedite alla libertà e giustizia, ma la superficialità e la prevaricazione, l'opportunismo e la scarsa fiducia in cultura e amore sono cancri continui. L'educazione permanente dovrebbe far comprendere cosa significa essere giusti in ogni fase della vita. Gesti concreti di giustizia si basano su libertà di coscienza individuale e consapevolezza di essere parti di una comunità. Cammino lungo e faticoso, ma efficace per ottenere pace e per conferire alla vita una direzione sensata e divina. 47 DECALOGO: LE DIECI PAROLE, COMANDAMENTO E LIBERTA’ Carmine Di Sante INTRODUZIONE L’evento del Sinai Il rivelarsi di Dio sul Sinai è evento, è cioè indeducibile dalla trama dell’uomo; evento che coinvolge e lascia il creato senza fiato. Il simbolo per eccellenza di questa rivelazione, depositato nel nostro immaginario è la consegna delle tavole a Mosé. Di fronte a questo svelarsi, l'uomo è impotente, e a parlare è Dio, che si rivela, dicendo chi è e soprattutto cosa vuole. I “dieci comandamenti” o le “dieci parole” sono • il centro della rivelazione biblica, ne sono il cuore e la pars pro toto (una parte per il tutto), • la sintesi concisa ed essenziale della rivelazione biblico-ebraica. Il libro si pone come una reinterrogazione di queste dieci parole alla luce dei problemi di fronte ai quali si trova l’uomo del nuovo millennio che ha assistito al crollo di tutti i grandi racconti che erano i suoi punti di riferimento. La convinzione è che dietro queste dieci parole si celi la grandezza del monoteismo ebraico e l’incommensurabile altezza e dignità dell’uomo. Nella tradizione cristiana, le due tavole sono note come "Decalogo" o "I dieci comandamenti", a differenza della tradizione ebraica la quale preferisce “Le dieci parole”. Nel testo biblico il termine più noto è quello di "tavole della legge" o della "testimonianza", e queste espressioni sono continuamente ribadite: 1) Invito a Mosè da Dio a salire sul Sinai (Esodo) 2) Quando scende (Esodo) 3) Quando vengono infrante per la disobbedienza del popolo che, in attesa di Mosè, costruisce "il vitello d'oro", non fidandosi più del Dio che li aveva liberati dalla schiavitù d’Egitto e aderendo a un altro dio, simbolo delle divinità naturalistiche ((Esodo) 4) Quando Mosé ottiene il perdono da Dio per il peccato del vitello d’oro (Esodo) Ciò che colpisce è l'insistenza sull'iniziativa di Dio, non solo nel chiamare Mosè, ma anche nel dettare la modalità di fissare le regole sulle tavole. Tutto è opera di Dio: le tavole e la scrittura incisa sulle tavole sono opera di Dio. Dio vuole che il suo volere sia affidato alla scrittura perché la scrittura garantisce maggiore sicurezza e fedeltà, e vuole che sia incisa su tavole di pietra perchè la pietra non è deperibile. La voluntas Dei si rivela, Mosè la raccoglie e accoglie, dandole forma linguistica; è un evento che accade nella storia, ma non proviene dalla storia, per cui non ne subisce lo scacco 50 liberando un gruppo di oppressi, stipulando un'alleanza e introducendoli in una terra fertile in cui sarebbero rimasti a condizione di restare fedeli all’alleanza. In questa autodefinizione, che a noi sembra scontata in quanto spesso sentita e ripetuta, si cela l'idea più rivoluzionaria della storia umana: quella di un Dio unico che non è il Dio di Israele ma il Dio di tutti gli uomini, sovrano di tutto ciò che esiste. Affermazione che condensa quindi il monoteismo biblico-ebraico (cui afferiscono cristianesimo, ebraismo, islam e religioni abramitiche). Il Dio supremo, sta al di sopra di ogni destino e costrizione; non combatte con altre divinità, non sacrifica, non profetizza né pratica stregoneria: volontà divina libera che trascende ogni ente. → questo contrassegna la religione biblica e ne costituisce la differenza rispetto a tute le altre religioni. In questa autodefinizione va sottolineata la libertà sovrana con la quale Dio si presenta come "Signore" non di un popolo, di un collettivo, ma di ogni singolarità umana, usando il "tuo". Dio signore dell’io, parola non motivata ma data come qualcosa che esiste prima e indipendentemente dal volere dell’io. Il senso di questa signoria è nel suo essere offerta di liberazione che permise agli israeliti di uscire dalla schiavitù e dall’oppressione. Si tratta di un’autodefinizione rivoluzionaria per 3 motivi: 1) il Dio biblico non si definisce in base a ciò che opera nel ciclo naturale (come avviene nelle altre religioni dove l’ordine naturale è gerarchico e immodificabile e per questo sono definite naturalistiche), ma in base alla sua opera nella storia, introducendo un nuovo ordine che è la messa in crisi radicale dell’ordine naturale, gerarchico e violento; 2) Dio si "schiera" con chi occupa l’ultimo posto nella società: schiavi ed oppressi, dischiudendo loro un nuovo ordine della responsabilità, dell’uguaglianza e della fraternità. È un partigiano che libera non solo gli oppressi ma anche gli oppressori, dall'incatenamento dell'io per aprirli alla libertà, alla giustizia e alla fraternità; 3) Si preoccupa dell'altro. Non è per sé stesso, ma è per qualcun altro. Un “Io” che non è più l’io identitario, padrone e sovrano, ma l’io dis-identitario che si preoccupa dell’altro limitando il proprio essere. L'essere di Dio non è per sé, ma per l'altro: questa è la definizione del tetragramma Jhwh (Javè), "Io sono colui che sono"; nome non-nome tradotto in greco kyrios, in latino dominus e in italiano signore. Ma cosa vuol dire per il testo biblico "Io sono colui che sono"? Dio non dà di sé una definizione antologica, sembra anzi sottrarsi da ogni definizione, quasi come ci fosse la volontà di non rispondere. Ma ciò che conta è l'irrilevanza del nome divino, Dio non si lascia imprigionare in nessuna definizione, essendo la sua vera definizione quella di una Presenza che sorprende e si 51 prende a cuore la sorte dell’altro: né nome ontologico, né dinamico. È un nome-funzione, che si risolve nella promessa: io sarò sempre con te. Dio non ha nome perché il suo vero nome è di essere sempre accanto all’uomo. Egli è la compagnia. 2) NON AVRAI ALTRI DEI DI FRONTE A ME: unicità di Dio «Non avrai altri dei di fronte a me» → il dichiarativo del primo comandamento «Io sono il Signore tuo Dio» si fa imperativo. Dio affianca il cammino ma rivendica di voler essere per lui unico e l’unico; stare di fronte a Dio vuol dire escludere ogni altro dio. Dio si rivela come unico ed esige che Israele sia unico per lui: unicità di Dio sotto lo sguardo di Israele, unicità di Israele sotto lo sguardo di Dio, come nell’amore è per l’amato al cospetto dell’amata. I profeti infatti interpretano il rapporto tra Dio e Israele (che rappresenta il genere umano) con la metafora coniugale dell’uomo perdutamente innamorato della sua donna. Il testo in cui si è fissato questo rapporto di unicità tra Dio e l’uomo è lo shema Israel, un brano del Deuteronomio, parte costitutiva della preghiera personale e della liturgia sinagogale. «Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio. Il Signore è uno. Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. E metterai queste parole che Io (cioè Dio) ti comando oggi, nel tuo cuore, e le insegnerai ai tuoi figli, pronunciandole quando riposi in casa, quando cammini per la strada, quando ti addormenti e quando ti alzi. E le legherai al tuo braccio, e le userai come separatore tra i tuoi occhi, e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte (delle città).» Il rabbino Munk scrive che queste parole sono la "professione di fede" che accompagnano tutta la vita del credente. Lo Shema è alla base del lavoro educativo dei genitori, è l’assioma di pensiero che dirige la volontà sia nella vita familiare che in quella comunitaria, ma è anche il segno di riconoscimento d’Israele che ha spinto i martiri a salire al rogo. Nello Shema non è Israele a proclamare la sua fede ma Dio che, attraverso la voce di Mosè, vincola a sé il volere di Israele: ➢ “comandamento” dell’ascolto: «Ascolta Israele», ascolto che ha per oggetto il Signore ➢ Contenuto di questo ascolto che contiene la rivendicazione dell'amore esclusivo di Israele, al quale viene comandato di amare un unico Dio e solo il proprio Dio. Dio vuole solo per sé il "cuore di Israele" Lo shema istituisce Dio come uno (non più dei) e soprattutto come unico per Israele. unicità intensa, tanto che Rabbi Aqiba (135 d.C.) fa del suo martirio una celebrazione dello Shema.: «Tu amerai l'eterno, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, la tua anima e le tue forze. Ascolta Israele, l’Eterno nostro 52 Dio, l’Eterno è Uno». Pronunciando "ehad" (Uno) morì. Ma il secondo comandamento oltre a istituire l'unicità di Dio, ne vieta la rappresentazione e l'oggettivazione: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è laggiù sulla terra». Per la Bibbia qualsiasi oggettivazione dell’unicità di Dio infatti ne metterebbe in discussione assolutezza ed alterità: sarebbe la negazione di Dio che, soggetto e mai oggetto, irrompe nella coscienza, e non è a disposizione dell’uomo; sarebbe un Dio "idolo" e quindi fasullo. Affermando l’unicità di Dio e vietandone la pensabilità e ogni forma di rappresentazione, il secondo comandamento ne istituisce e custodisce l’assoluta e irriducibile alterità, irraggiungibile e impossedibile dall'uomo. 3) NON PRONUNCERAI INVANO IL NOME DEL SIGNORE: timore o servizio di Dio Dio non può essere nominato se non nello spazio della preghiera, dove a parlare è lui e l’orante è recettività ed obbedienza: fuori dallo spazio dossologico (liturgico) del dialogo tra uomo e Dio, no. Ma cosa significa? 1) Tradizione cristiana: il comandamento diviene soprattutto "non bestemmiare Dio", e la bestemmia (chiamare Dio o la vergine o un santo in causa associando il loro nome a parole offensive), era punibile penalmente. Maledire Dio è mancanza di rispetto per il credente, ma più probabilmente è una forma di insofferenza verso le autorità religiose; 2) Seconda interpretazione, divenuta corrente nella tradizione cristiana: "non giurare il falso": nome di Dio usato invano perché associato al falso, trasformando Dio (garante del vero) in essere menzognero, minacciando l'ordine del reale; 3) Avverbio "invano": in ebraico suona come "shaveh", al femminile forma il termine "shoah" (usato anche per la tragedia del genocidio), ovvero qualcosa di identico e indifferenziato, situazioni in cui gli uomini non accedono più alla loro singolarità. Negando Dio, si nega il bene e si consegna il mondo alla catastrofe o shoah, dove regna la violenza (come Sodoma, città in cui tutti dovevano essere identici e c'è rifiuto della differenza); 4) Significato più vero: livello più profondo, perché il testo originale sarebbe "Non portare il nome del Signore, tuo Dio, invano". L'uomo, per la Bibbia, è "ad immagine e somiglianza di Dio", non ontologicamente, ma dialogicamente ed eticamente: è Dio che interpella e comanda l'uomo nella sua coscienza, dandogli possibilità di salvezza. L'uomo per la Bibbia è il "portatore", la “casa” o il “tempio” di Dio, il battesimo ci rende Tempio dello Spirito Santo e con le nostre azioni non dobbiamo allontanare Dio, rischiando di diventare schiavi di Satana. 55 potere. Ma potere non come dominio dell’altro bensì come cura e attenzione nei suoi confronti. Per questo il cabod di Dio sono la creazione e la redenzione. Cabod traduce quindi per chi ne è portatore "il peso della ricchezza" che è espressione di forza e di potenza che ne determina l'importanza, ma significa anche la gloria e lo splendore per chi riconosce la bontà del benefattore e lo loda. La frase del salmo «i cieli narrano la gloria (cabod) di Dio» ha due significati: 1) Cieli come testimonianza del "peso" di Dio di cui l'uomo è destinatario 2) “peso” che sulle sue labbra si trasforma in canto di gloria. Onorare il padre e la madre, vuol dire allora riconoscerne il peso, la ricchezza, l’importanza. Il senso di questo peso, ha almeno 3 livelli: 1) Rispetto: re-spicere significa dare un secondo sguardo, ovvero cogliere il mondo non come oggetto di conquista e in funzione dell'io ma come realtà in sè. Il primo sguardo verso i genitori li vede come “oggetti” da desiderare o ostacoli da allontanare, come vuole la tesi freudiana: persone odiate e amate allo stesso tempo, oggetti insieme di desiderio e di ostilità. Rispettare significa non vederli solo per ciò che ci hanno fatto (egoistico), ma vederli per ciò che realmente sono: la porta attraverso cui si entra nel mondo come gratuità, dove si è definiti non per ciò che si fa ma per ciò che ci viene fatto (quarto comandamento) 2) Riconoscenza: sia come nuova conoscenza nel senso che nascere è prendere coscienza di un mondo dove siamo stati introdotti gratis, sia come gratitudine, per cui in n mondo dove tutto è gratis la prima parola può e deve essere “grazie”. Onorare non vuol dire idealizzare i genitori, ignorando che la nascita avviene spesso casualmente o violentemente, ma comprendere l’al di là della gratuità dalla quale si proviene che non esclude nessuno; 3) Responsabilità: prendersi cura di loro, resi impotenti dalla vecchiaia, restituendo ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente. Da sempre la vecchiaia in alcune culture è stata vissuta con angoscia. Onorare il padre e la madre significa essere responsabili di chi si è fatto impotente, fragile e vulnerabile come un bambino. Così la vecchiaia rivela che il senso dell’essere sta nella bontà o gratuità con cui l’uno si prende cura dell’altro Secondo un intellettuale francese il vertice della storia è la creazione dello stato sociale., frutto delle lotte operaie del XX secolo, con cui per la prima volta nella storia si garantisce agli anziani una vita non angosciata, con un sistema previdenziale e pensionistico che sottrae alla precarietà. Ma questi restano sempre e solo un aiuto che non sostituisce la presenza e la relazione di riconoscenza e di affetto di un figlio. Solo la relazione di amore liberamente ridonata è ciò che per la Bibbia "onora il padre e la madre" in sommo grado. 56 6) NON UCCIDERE: gratuità e volto La nascita introduce in un mondo di pluralità di altri, di volti, sui quali risuona l'imperativo divino di non uccidere. Nella storia, tuttavia il più forte si è sempre affermato sul più debole uccidendolo, fin dalle origini, con l’omicidio di Abele da parte di Caino; la guerra sembra avere la funzione produttiva di creare forme e nuovi ordini. Così l'imperativo divino è smentito dalla storia umana, mentre la guerra è legittimata (Eraclito: "la guerra di tutte le cose è padre"; realisti: "l'uomo è fatto così"). La Bibbia, ordinando di non uccidere, non ignora la violenza che fa della storia umana una storia di guerra, ma a differenza di Eraclito e dei realisti, la denuncia come forza distruttiva, malattia decreatrice e potenza illegittima. Il comandamento biblico, riformulato al positivo vuol dire amare l'altro in quanto l’altro e promuoverne la felicità. L'umano va inteso come giustizia sociale, fraternità, dove con giustizia sociale si intende l’apparizione di un nuovo ordine che sovverte necessità e destino: la guerra non è, come per Eraclito, principio ordinatore dell'umano. La Bibbia promuove il nuovo ordine della gratuità o disinteressamento, dove l’io disinteressandosi di sé, si interessa dell'altro. E il luogo dove si realizza questo disinteressamento è per la Bibbia proprio il volto dell’altro. Il volto si sottrae all'io, alla sua volontà di conoscenza ed appropriazione: instaura un io non identitario e autocentrato, ma aperto e relazionale, in cui essere è rivolgere la parola all'altro e dove l’umano è definito dalla parola con cui l’io esce da sé e risponde all’altro. Non uccidere non è dunque una semplice regola, ma il principio del discorso e della vita spirituale. Prima che strumento di conoscenza, alla presenza del volto l'io si scopre "altro e oltre": con il semplice saluto, l'io si trascende come essere, si oltrepassa come cogito, per il quale essere è pensare, e si attesta come responsabile. Il volto ridefinisce il senso stesso di sapere e di coscienza, definendo una nuova coscienza etica che non è contemplazione di sé ma è parlare agli altri. Il volto umano è dunque la traccia dell'assoluto, del divino o dell’infinito. Vittima della violenza omicida, Romero si rivolgeva ai potenti dicendo: "uomini dell'esercito, davanti all'ordine di ammazzare, deve prevalere la legge di Dio! Obbedite alla vostra coscienza… in nome di Dio: cessi la repressione". L'omicidio è possibile quando non si guarda l'altro in faccia: la storia non può cancellare la voce che si iscrive nel volto di chi soffre, volto che è annuncio dell’insopprimibile vocazione dell'uomo alla fraternità. Il comandamento di non uccidere, iscritto nel volto, è attuale, tra shoah e bioingegneria genetica, la quale ridefinisce i confini di vita e morte. Non si può chiedere al comandamento di risolvere i problemi di oggi (diritto di sospensione terapeutica, uso di droghe, aborto), ma il comandamento dice e dirà sempre che ciò che rende l'umano umano è il suo essere motivato non dalla volontà di sopraffazione nei confronti degli inermi, dei deboli e degli ultimi, ma dall’attenzione e dalla cura verso i deboli. Natale 1942, Bonhoeffer (condannato a mote per cospirazione antinazista) scrive: "disprezzando gli 57 uomini cadremmo esattamente nello stesso errore dei nostri avversari… l'unico rapporto fruttuoso con gli uomini - e specialmente con i deboli - è l'amore, cioè la volontà di mantenere la comunione con loro". L'imperativo divino a non uccidere, iscritto nel volto di ogni umano, denuncia l'oblio e il disprezzo degli ultimi e dei deboli e annuncia che solo nel prendersi cura si accede alla percezione di ogni essere umano come prezzo incommensurabile e si tiene accesa la speranza di un'umanità in cui siano bandite guerre, condanne a morte, secondo il futuro intravisto da Isaia. 7) NON COMMETTERE ADULTERIO: gratuità e sessualità "non commettere atti impuri" è stato oggetto nella storia e nella catechesi di un'attenzione morbosa e ossessiva che non risponde alla domanda cosa voglia dire "atti impuri". Il male è colto come una macchia: impurità, simbolo suscettibile di numerose riprese, come per esempio avere una "reputazione macchiata". Il comandamento quindi riguarda il divieto di alterare l'umano, e la sua sessualità. L'adulterio inteso come infedeltà tra gli sposi è uno dei casi, ma viene condannata qualsiasi adulterazione del comportamento di uomo e donna: il "nef" è un adultero, un furfante, un dissoluto che infrange il comportamento sessuale e ogni buona condotta. Ma cosa "altera" la sessualità? Secondo la tradizione ebraica, il settimo comandamento corrisponde al secondo "non avrai altri dei all’infuori di me": alterare la sessualità quindi è trasformarla in un falso dio o idolo, che non è in grado di garantire la felicità. Il libro "Le particelle elementari" di Houellebecq, in Francia, qualche anno fa, ha suscitato scandalo per aver messo in luce la liberalizzazione sessuale, con scene erotiche, ma l'autore sostiene che la sua condanna è legata all'aver descritto scene sessuali poco soddisfacenti dove non tutti godono e sono contenti, comunicando un malessere legato alla sessualità: non voleva essere né contro né a favore della sessualità, ma solo realista, perché il sesso a volte non funziona. Il racconto parla di crisi di coppia e famiglia, date dalle condizioni socioeconomiche e dall'individualismo. Il merito di questo libro è di aver smascherato l’eros descrivendo ciò che vi accade quando esso depone le sue maschere. Non fare della sessualità un idolo vuol dire abbandonare l'illusione che sia in grado di far crescere l'uomo, promuovendo la consapevolezza che l'io è teso tra pulsione e relazione: il modello estetico occidentale tende a rendere l'eros un'energia positiva, ma non era questa la lettura di Freud che sapeva della complessità e della potenza ambigua della sessualità. Accettare l'ambiguità dell'eros è assumere un atteggiamento che non la demonizza né assolutizza: per la Bibbia, la sessualità è un mistero di relazione, dove all’uomo e alla donna è dato di uscire dal proprio io e, attraverso questo esodo senza ritorno, approdare a un’altra terra, dove fiorisce il “nuovo” del figlio. 60 9) NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA: gratuità e parola La Bibbia sottrae la parola alla menzogna e la pone a servizio della verità. Nessuna società può sussistere senza il vincolo della parola data: ogni parola degraderebbe a semplice suono, causando disgregazione sociale. Nelle sue ricerche Camus scoprì che il termine ebraico per peste è deber, che solo un’impercettibile differenza separa da dabar, che vuol dire parola; lo scrittore allora intuì che la peste non era atro che la conseguenza di una deformazione della parola. Il comandamento biblico istituisce la parola come dimensione etica: quando le parole diventano irrilevanti cade infatti l’impegno etico del rispetto della parola data. Sottraendo la parola alla menzogna, il decimo comandamento la innalza alla dimensione della verità. Ma in cosa consiste, per la Bibbia, la verità della parola? La verità biblica non è quella aristotelica per cui c'è corrispondenza tra ragione e cosa: la verità biblica è fedeltà e misericordia. Più che svelatrice dell’essenza delle cose, la parola, per la Bibbia, è costitutrice dell’umano come responsabilità, dove l’io è risposta all’anteriorità o grazia che lo previene e gli fa dono di ogni cosa. L’originale ebraico del «non dire falsa testimonianza» è lo "Tannè", che vuol dire: "non risponderai contro il tuo prossimo da testimone di menzogna": secondo Ouaknin, il senso è non utilizzare la parola per far soffrire l'altro. La parola ha infatti potere malefico: può essere indiscrezione, pettegolezzo, falsa testimonianza; e persino idolatria, incesto ed omicidio sono meno rilevanti della maldicenza. Se la verità della parola non è la sua adeguazione al contenuto oggettivo che in essa si trasmette, ma la benevolenza e la misericordia, si capisce come per benevolenza la parola possa essere violata, come chi mentiva nella persecuzione nazista degli ebrei, dichiarando di non sapere dove fossero nascosti. In casi come questi non si tratta di falsa testimonianza perché questa parola testimonia un vero e proprio amore verso l’altro. Questa parola non è immorale, perché l’etica della parola non sta nella sua correttezza ma nella sua disponibilità a servire la comunione tra gli uomini. Per cui la parola è etica, instauratrice di relazione e misericordia: se pronunciarla diviene un impedire la comunione invece che favorirla, diverrebbe menzogna etica incarnata in sincerità verbale. La parola può farsi menzogna anche nella rilettura della storia, come i "revisionisti" che si sforzano di dimostrare che le vittime del nazismo sono una menzogna, approfittandosi del clima di disillusione odierno e della tendenza a mettere tutto in discussione. Contro la tentazione di falsificazione della parola umana, che fa violenza al prossimo e alla storia, vigila la parola divina che comanda di non rispondere "contro il tuo prossimo rivolgendogli contro la parola". Verità della parola è dunque essere ponte di comunione tra gli esseri umani perché circoli l'amore di Dio. 61 10) NON DESIDERARE: gratuità e desiderio La decima parola riguarda la regolamentazione del desiderio per la donna ma anche per cose, oggetti e valori. Nella tradizione cristiana il comandamento si divide in due, in quella ebraica (qui seguita) è un unico comandamento: «Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare sua moglie, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.» Il Deuteronomio non mette però la donna sullo stesso piano della casa: prima pone il divieto di desiderare la moglie poi la casa del prossimo. Questo divieto, comunque, sembrerebbe paradossale: mette in discussione ogni visione romantica di desiderio pacifico e liberatorio. Per il noto antropologo francese Girard tuttavia, il desiderio non è beato accesso alla felicità e benessere, ma fonte di risentimento in cui l'altro è colui al quale l'io diviene ostile. Nel saggio "Vedo Satana cadere come la folgore", espone il suo pensiero controcorrente per cui esiste nella Bibbia una concezione originale del desiderio e dei conflitti da essi generati. Se i comandamenti dal sesto al nono sono semplici, brevi, il decimo è lungo e a differenza degli altri non vieta un’azione, ma proibisce un desiderio: non il desiderio perverso dei peccatori incalliti, ma il desiderio in sé, quello di tutti gli uomini. Che si tratti di un desiderio d tutti emerge con ancora maggiore evidenza nel Discorso della montagna, dove Gesù già annunciava che chiunque guarda con desiderio una donna è al di fuori dell'orizzonte dell'amore e ha già commesso adulterio: annuncio biblico radicale, che contraddice concezioni metafisiche (desiderio come via all'assoluto) e antropologiche (pienezza dell'umano) tipiche della società dell'eros. La ragione del divieto tuttavia, per Girard, è nel nesso tra desiderio e violenza. Sempre per Girard la struttura del desiderio è mimetica: l'io desidera solo ciò che l'altro desidera, quindi tutti sono desideranti rivali, ed individuano un debole su cui scaricare l'aggressività prodotta. La ragione del desiderio non è nel soggetto desiderante o nella cosa: sta nel fatto che a desiderarla è l'altro. La fonte della violenza è proprio la rivalità mimetica: questa può diventare talmente forte da portare a furto, adulterio e omicidio. L'ultimo comandamento, quindi, vuole smascherare queste forme di violenza e riconosce nel desiderio l'elemento scatenante delle violenze proibite nei quattro comandamenti precedenti. Il Decalogo proibisce prima le conseguenze vale a dire le azioni violente, poi la causa ovvero il desiderio: desiderando tutti la stessa cosa, si producono odio, invidia, conflitto e violenza. Per la Bibbia, però, la ragione per cui il desiderio è violento non è solo il desiderare cosa desiderano gli altri ma nasce dal fatto che l'io si costituisce da sé soggetto violento quando prova volontà di dominio e nega la sua origine e la gratuità. In un midrash (spiegazione rabbinica) della ragione per cui Caino uccide Abele, ci sono diverse 62 interpretazioni: per il primo maestro Caino dice "La terra è mia"; per il secondo "questa donna è mia"; per il terzo "questo tempio è mio". Alla radice comunque c'è la volontà di possesso, la trasformazione in "mio" di ciò che non può essere mio perché dono di Dio. Vietando di desiderare si sottrae il mondo all'ordine del possesso, restituendolo all'ordine di gratuità dove il Padre chiama l'io a fare altrettanto. Il decimo comandamento non nega dunque il desiderio, ma lo riconduce alla sua verità originaria: l'orizzonte del gratuito, dove la bontà di ogni essere è prima dell'uomo e per l'uomo. In questo orizzonte il desiderio si fonda sull'amore gratuito e disinteressato. Nel libro della Sapienza, Salomone confessa di aver fatto una scoperta rispetto al quale le ricchezze sono nulla e non c'è gemma eguagliabile: si tratta della gratuità divina o grazia, da desiderare più di salute, bellezza e luce. Questa sapienza, la sapienza della gratuità come paradigma dell'essere, è scoprire una luce il cui "splendore non tramonta mai". APPROFONDIMENTI 1) Comandamento e libertà L’affermazione che il Dio biblico si rivela come comandamento è scandalosa per chi fa coincidere libertà ed autonomia. Il comandamento, però, è potenza capace di instaurare la libertà; la Torah per Israele non è un peso ma il dono più grande, paragonato ad una colomba, che venne creata e in seguito Dio le dona le ali: Dio dona la Torah perché sia ciò che porta l'uomo, come le ali permettono di volare. Alcune chiarificazioni: 1) Soggetto del comandamento: è Dio, solo: ogni altro che ne pretendesse il posto è un usurpatore. Affermare la signoria di Dio è sottrarre l'uomo a ogni dominio e potere mondano e aprirgli lo spazio della libertà. Se Nietzsche annuncia la morte di Dio, intende il Dio delle istituzioni e dei poteri che di Dio si sono serviti 2) Contenuto del comandamento: è l’amore per il prossimo, non amore di desiderio che tende all'altro spontaneamente, ma amore di alterità come libera scelta e volontà di bene; 3) Concetto di libertà, mito fondante della modernità: l'uomo, dimentico di essere stato generato, concepisce la libertà come spontaneità, ma la Bibbia la intende come decisione, non tra le infinite possibilità dell'io, ma come decisione tra io e Dio, tra desiderio e nuovo orizzonte di gratuità e bontà. La libertà così diviene valore appagante, slegamento da se stessi che, libertà come amore finalizzato all'altro e quindi responsabilità. L'annuncio di un umano dove l'io non è più parola prima: prima c'è l'Altro con la sua Parola, il comandamento divino pertanto non è limite ma affermazione che l'umano è chiamato alla bontà e preceduto dalla Bontà: Bene prima dell'essere. 2) Comandamento e dignità 65 l’approccio complessivo dell’identità personale nelle sue molteplici componenti. Tuttavia, il termine non ha fornito semplicemente un termine concettuale per indicare il processo dinamico di costruzione della personalità individuale, nel quale giocano un ruolo specifico i fattori culturali e sociali, ma ha acquistato semantiche ulteriori, soprattutto a partire dall’assunzione e riformulazione della teoria del gender all’interno del pensiero di matrice femminista. Questo termine è fondamentale per prestare attenzione al processo di elaborazione culturale dell’identità sessuata dei soggetti umani. Da una doverosa accentuazione del processo costruttivo della coscienza di sé, si passa a una prospettiva de-costruzionista, in cui la stessa idea della bipolarità maschile e femminile dell’umano tende ad essere neutralizzata non solo nella sua base biologica, ma, soprattutto, nelle ipostatizzazioni culturali che è venuta ad assumere. Il dibattito attuale mostra un estremo sospetto nei confronti di tutti quei modelli di comprensione dell’identità umana che contribuiscono a limitare la libertà individuale del soggetto nella costruzione della sua personalità. Il ripensamento perseguito in questo saggio si propone di mostrare un accesso meno pregiudicato dalla radicale contestazione alla modalità di considerare l’uomo e la donna all’interno del pensiero occidentale, come sostenuto nell’ideologia del gender, ma ugualmente si sforza di rimarcare una verità che si appalesa nell’approccio degli studi sul genere e che domanda rispetto al pari della “naturale” differenza biologica, per dare forma all’agire soggettivo. La teoria gender, inoltre, può rappresentare l’occasione per una ripresa, all’interno della riflessione teologica cristiana, dei testi biblici su cui abitualmente prende forma la valutazione morale dell’identità sessuata soprattutto in chiave critica nei confronti di quegli elementi che possono offuscare il senso profondo della relazione tra uomini e donne. Capitolo primo. Il gender e la sua semantica flessibile. È innegabile un accrescimento di significato attorno all’espressione e al concetto di genere, rispetto alla sua comparsa iniziale nell’ambito degli studi psicologici e socio-culturali. Su questa polisemia si vuole soffermare da principio l’attenzione, ricostruendo la vicenda del gender attraverso i suoi più significativi passaggi, pur in modo allusivo e senza pretesa di completezza. La distinzione tra “sesso biologico” e “sesso psicologico”, con l’introduzione dell’idea di gender, può essere fatta risalire in ambito psicoanalitico agli anni ‘60 del XX secolo a partire dal saggio di Robert J. Stoller Sex and Gender (1968), con il suo programma di studio sulle personalità intersessuali e transessuali per le quali la differenziazione biologica del sesso non risultava determinante. Prima di lui l’espressione è rintracciabile nelle ricerche empiriche di area medica degli anni ’50 condotte dal chilurgo americano John Money, soprattutto in riferimento a quei bambini che, a causa di una 66 ambigua conformazione degli organi genitali alla nascita o in seguito a interventi medici che ne avevano compromesso l’integrità, erano portati ad acquisire una identità personale non a partire da quella biologica, ma attraverso processi di socializzazione e di induzione di essa. In riferimento a questi casi Money aveva introdotto la terminologia di “identità di genere”. Allo stadio iniziale di gender rappresenta una categoria empirico- descrittiva per indicare una identità appresa attraverso processi psico-comportamentali, in opposizione a quella definibile come naturale a partire dal sesso biologico. Bisogna richiamare anche il filone dei cultural studies nell’ambito delle ricerche storico-sociali, attivo già alla fine degli anni ’70 del XX secolo, come tematizzato, quasi in forma di manifesto programmatico, in un contributo della storica Joan Scott, ripreso più volte in Gender: A useful Category of Historical Analysis (1986). Questo tipo di studi, a partire dagli elementi sociali e culturali, si propone di mostrare soprattutto come i tratti caratterizzanti la femminilità non sarebbero iscrivibili alla natura, ma alla loro configurazione storica da parte di modelli di pensiero e azione tipicamente maschili e oppressivi, saldando un approccio storiografico di tipo marxista a quello operante nell’evoluzione del femminismo degli anni ’80 in poi. Il concetto di genere ha avuto differenti concettualizzazioni rintracciabili nell’evoluzione del pensiero femminista: • A partire dagli anni ’70 si caratterizza per un orientamento prevalentemente politico- rivendicativo, teso all’affermazione e all’uguaglianza dei sessi. Modello- guida di questa fase: approccio di tipo monista (la donna pretende l’uguaglianza delle prerogative attribuite all’uomo) • Anni ’80 fase impegnata a valorizzare la differenza uomo e donna come espressiva di modi distinti di essere al mondo. Il modello per l’interpretazione del maschile e del femminile che si caratterizza per l’approccio duale, teso a far emergere la soggettività di ciascuno attraverso percorsi di reciprocità interpersonale. • L’ultimo esito del pensiero femminista ha visto l’imposizione massiva della categoria gender. Si intendono canonizzare i processi di libera composizione individuale dei soggetti nell’indefinita pluralità censibile delle differenze, fino a considerare necessario il superamento della stessa forza concettuale del genere per quegli elementi di limitazione che inevitabilmente racchiude in quanto sovrastruttura costruita ai fini del controllo normativo sulle coscienze. È importante focalizzare l’attenzione su alcuni contributi significativi per approcciare le differenti semantiche del genere e, a partire da essi, andare dalla ricerca di alcune matrici di pensiero che ne condizionano la sua comprensione. Queste radici profonde indubbiamente superano il perimetro del pensiero femminile per incrociare i percorsi più ampi della filosofia del ‘900. In particolare, l’attenzione è posta su 2 pensatrici rappresentative soprattutto del “secondo” e del “terzo” 67 femminismo, rispettivamente Luce Irigaray e Judith Butler. Prima, però, è opportuno parlare della teoria sviluppata da Simone de Beauvoir, capofila della prima ondata del movimento femminile. Il Secondo sesso (1949) è il saggio di Beauvoir. L’attenzione è abitualmente posta sull’inevitabile scarto tra la constatazione di una identità sessuale segnalata dall’indicatore corporeo-biologico e le forme dei rapporti sociali e delle identificazioni culturali, che hanno finito per relegare in una posizione di secondarietà la donna rispetto all’uomo. Beauvoir riconosce la matrice oppositiva e prevaricativa dell’uno, l’uomo, che, per sviluppare la piena soggettività, costruisce come “altro” la donna, relegandola alla dimensione oggettuale, funzionale all’affermazione di sé. Tale operazione avviene in taluni casi con la complicità della sua stessa partner, che non solo non può non avere a disposizione quegli elementi necessari a una presa di coscienza sulla propria identità, ma è tentata di rifuggire il cammino della libertà e della affermazione di sé. La tesi di Beauvoir mette in luce come l’identità vera della donna debba comprendersi a partire dalla presa di coscienza su di sé, dalla propria esperienza individuale, non dà una supposta predeterminazione naturale. La significazione della personalità femminile avviene nel segno di una cultura in cui la soggettività forte maschile tende a configurare nel perimetro dell’oggettualità della donna. L’ultima parte del Secondo Sesso è dedicata a sviluppare un cammino di affrancamento da tale condizione più che l’acquisizione di una libertà individuale nel segno del superamento della dipendenza economica e dal destino del ruolo e stereotipo di sposa e madre. La filosofa francese non riconosce un senso positivo nello scambio erotico dei sessi, al linguaggio erotico dell’eros, per comprendere la potenzialità relazionale dei soggetti umani. Anzi giunge, alla fine del saggio, a ipotizzare una sorta di sospensione e annullamento dell’eros per eliminare quei tratti di violenza dell’uno sull’altro che fatalmente pone in essere. Intende così prefigurare una possibile riconciliazione nel segno dell’amicizia e di un cammino di ridefinizione personale che deve coinvolgere sia l’uomo che la donna. Se da una parte il percorso di affrancamento della donna dal suo destino, sia esso biologico che culturale, assume alcuni tratti rivendicativi del femminismo dell’uguaglianza nella sua prima fase, certamente non si lascia costringere unicamente in una progettualità sociale e civile. Si avvicina alle idee della seconda ondata del femminismo, ma sembra andare oltre a una sorta di idealizzazione del recente pensiero femminile. Non troviamo, infine, tematizzati dalla filosofa francese gli elementi dell’ultima espressione del pensiero femminista, che, appoggiandosi alla radicale separazione di natura e cultura, attraverso i Gender Studies, tende a sanzionare piuttosto l’impossibilità di rintracciare forme canoniche normative per i percorsi costruttivi dell’identità sessuata. È comunque innegabile una ripresa esplicita e un prolungamento di alcune tesi sostenute in Il secondo sesso da parte del movimento femminile contemporaneo, come nel caso dell’antropologa Gayle Rubin, che, negli anni ’70 del XX secolo, approfondisce la distinzione sex/gender in una forma oppositiva tra sesso biologico e genere, intesa come codificazione in chiave sociale della 70 di distanza critica nei confronti nei confronti di una sedimentazione di modelli culturali dominanti e oppressivi nelle relazioni tra i sessi e le persone. A tal proposito Bruce Malina, nella sua analisi dei testi neotestamentari sotto l’ottica dell’antropologia culturale, assume l’idea basilare secondo cui “tutti gli esseri umani sono al tempo stesso affatto uguali, affatto diversi e un po’ uguali e un po’ diversi”. La prima parte dell’affermazione è centrata sull’affinità e si pone in conflitto con la tesi del costruzionismo culturale. La terza parte sottolinea l’originalità della persona chiamata ad elaborare la propria storia in modo unico, suggerendo come la concretizzazione biografica del singolo debba considerare un adeguato spazio della libertà e di plasmabilità secondo parametri soggettivi. La cultura si pone come punto di intersezione di affinità organizzative e irriducibili differenze soggettive, creando modalità comprensive dell’umano in cui assumere gli elementi strutturali all’interno delle narrazioni reinterpretanti della storia del costume e in grado di favorire ugualmente il percorso di personalizzazione degli stili di vita. Particolari espressioni culturali possono condurre alla deformazione delle strutture fondamentali di senso e alla frustrazione dei vissuti di ciascun soggetto umano. In questa ottica si possono prendere in considerazione alcuni testi della rivelazione ebraico cristiana come chiave basilare della comprensione dell’essere umano e della cultura antropologica. Butler parte dal complesso di Edipo (vedi teoria sopra), ma al di la di questa tesi sembra dimenticare che un ruolo altrettanto significativo nella storia culturale della relazione tra sessi nell’occidente è da attribuire anche alla narrazione dei primi capitoli del libro della Genesi. Tali documenti possono essere compresi come attestazione di una normatività naturale che si prefigge di inquadrare un possibile senso buono e costruttivo per la storia umana e per la comprensione dell’identità delle persone. I testi chiave dell’antropologia biblica non possono essere letti unicamente nella determinazione della natura umana racchiusa nel fenomeno biologico della duplicità dei sessi per fondare su di esso il dato normativo e normalizzante. In realtà attestano una significazione culturale di tale differenza e sono istitutivi di un orizzonte umano di comprensione di essa. In questa differenza si tende a configurare un logos della differenza sessuale, inevitabilmente declinato in chiave culturale e non semplicemente a livello naturale. Un discorso biblico sulle relazioni tra i sessi dovrebbe prendere avvio dalla fenomenologia dell’eros attestato soprattutto nel Primo Testamento. La relazione uomo-donna è ben spiegata all’interno dei documenti veterotestamentari e fa riferimento alla cultura, come per la poligamia: giustificata da Israele per la prolificazione, ma ricondotta alla discendenza di Caino per la sua origine → “Verso tuo marito sarà il tuo istinto e egli ti dominerà” si riferisce alla donna come sottomessa all’uomo. Su questo si innesta la lettura raccolta nei primi 2 capitoli della Genesi di un dialogo profondo e riconoscente tra l’uomo e la donna. Il testo, oltre a una possibilità distruttiva e di subordinazione, esplora una possibilità di reciproco dominio di uno sull’altro: quella più radicale, la quale esprime la natura positiva della differenza tra i sessi. Genesi 1-3 può essere interpretata attraverso la storia, la salvezza e l’alleanza tra Dio e l’umanità, 71 ma anche compresa a partire dall’effettiva vicenda di dominio-sottomissione a cui si contrappone la relazione e il riconoscimento tra l’uomo e la donna. Seguendo il secondo capitolo della Genesi il testo biblico acquista una densità simbolica: • La solitudine dell’Adam viene alla luce attraverso la parola Jhwh, che nel testo biblico si compone come una parola di aiuto → l’aiuto ricercato si può vedere nella locuzione ebraica: “come davanti a lui”. In questa locuzione si precisa come Lui è in grado di chiarificare con la sua presenza il senso dell’esistere di Adam. La svolta testuale si instaura nella parola di sorpresa dell’Adam, cui Jhwh conduce la sua compagna. Con quella parola non solo Adam riconosce la donna, ma grazie a lei comprende e limita la sua pretesa di uomo. La donna viene riconosciuta come uguale e differente nella comune radice dell’umanità: “questa volta/è osso dalle mie ossa,/carne dalla mia carne./ La si chiamerà donna,/perché dall’uomo è stata tolta” (Gen 2,23). C’è una realtà della donna che non può essere definibile unicamente a partire dall’essere maschile. C’è un segreto che la donna condivide con Dio e che sfugge da ogni possibilità da parte dell’uomo di richiuderlo entro le categorie del suo pensiero. Adam deve restare aperto e lasciarla esprimere. • Emerge più evidente la configurazione della parola divina iniziale, che funge da elemento dinamico del testo: “non è bene”, cioè non corrisponde a una piena realizzazione dell’umano secondo una modalità etica di senso e estetica di pienezza di forma e stile, “che Adam sia da comprendere come solo” (Gen 2,18). L’umano si riferisce a una ricchezza che tende verso la comunione. L’Unico resta la divinità, ma la parola si rivolge in modo ospitale verso l’uomo. In quest’ottica la divisione dei sessi non è una “punizione” divina (come nel mito greco dell’androgino), ma diventa una tensione verso la convivialità tra uomo e donna. Uomo e donna insieme dicono di Dio, nel loro tendere reciproco e nel loro differenziarsi e insieme costituiscono un’apertura al mistero stesso di Dio. Non diversamente gli altri “peccati delle origini”, il fratricidio di Caino (Gen 4) e la rottura della comunione dei popoli con la Torre di Babele (Gen 11), attestano una logica ostile e l’indifferenza verso l’altro che a partire dal nucleo più originario, la relazione uomo-donna, si allarga fino a comprendere le altre relazioni della vita sociale. • Si può afferrare il senso della parola con cui Adam esprime la meraviglia per la presenza della compagna “La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta” (Gen2, 23). La differenza sessuata rimanda necessariamente all’altro sesso per essere compresa. Xavier Lacroix dice che il maschile non ha senso se non viene rapportato al femminile. Lacroix introduce un’importante considerazione: per capire cosa vuol dire essere uomo e donna bisognerebbe essere al di la della differenza ed esserne gli autori, per questo solo Dio conosce in ugual modo l’uomo e la donna. Su questo aspetto si gioca il contributo costruttivo del discorso teologico, che non vuole solo reagire criticamente alle derive teologiche del 72 genere, ma sa raccogliere la sua provocazione a pensare ulteriormente l’essere uomini e donne a partire dalle potenzialità del racconto fondatore e dall’antropologia ebraico cristiana. • Sempre in Gen 2 la dinamica si sviluppa a partire dal ritrovarsi reciprocamente nell’identità dell’uomo e della donna fino alla costruzione di una coppia coniugale: “per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne” (v.24). Il punto di partenza prende le mosse da un “lasciare” da parte del maschio il proprio “casato” per poi unirsi con la propria moglie. Questa dichiarazione rappresenta una indubbia riflessione contro-culturale e tende a superare gli stereotipi della coppia coniugale. Non si deve pensare a questa relazione solo come a “un’alleanza tra famiglie”, in una forma di “acquisto” della moglie, ma come progetto deciso dalla libertà dei 2 soggetti. La lettura dell’irriducibile differenza del maschile e femminile (Gen 1-3) è sottratta alla pura logica di comprensione del bios. Lo sviluppo dei testi biblici consente non solo di affermare la “normalità” e la “naturalità” della distinzione uomo/ donna, ma anche che la sua realtà sia da comprendere in una forma prospettica a partire dalla parola che constata la reciprocità: “la si chiamerà donna perché viene dall’uomo”. Il messaggio neotestamentario, al pari di quello del Primo Testamento, ha risentito di un’interpretazione secondo il linguaggio del nomos (evidenzia la moralità nella rivelazione). La testualità evangelica e delle lettere apostoliche è alla ricerca di un quadro normativo per ribadire la forma indissolubile del matrimonio cristiano e per ribadire i precetti fondamentali alla base della sessualità. L’attenzione al nomos esige lo sforzo di chiarificare la forma buona che custodisce il senso umano-critico del confronto e dell’incontro del maschile e del femminile. Tale possibilità si salda su uno sforzo di chiarificazione del logos che sorregge la possibilità di definire regole. Occorre ricordare il prezioso contributo offerto dai tesi neotestamentari al superamento del sessismo e di una diffusa cultura costruita sulla struttura patriarcale, per portare in evidenza la libertà delle persone nel dare corpo alla verità della loro relazione, con l’atteggiamento critico nei confronti di ogni espressione che, in nome del sesso, comporti una discriminazione circa l’identità e la piena soggettività di ciascuno. La chiave di accesso di questo tipo di lettura è data da Gesù nel discorso della montagna. Nell’antitesi matteana sulla questione del ripudio non solo si ribadisce il valore della fedeltà nel tempo del legame coniugale, ma si mostra come il nomos umano espresso e accreditato dalle forme della cultura, quello che secondo la legge mosaica consentiva lo scioglimento del matrimonio, può diventare occasione di rivendicazione in chiave di potere da parte del maschile nelle dinamiche tra i sessi. Gesù scioglie ogni ambigua compromissione tra la regolamentazione umana e la parola che segna il profondo senso dell’unione. Opera così una decisa critica culturale della prospettiva patriarcale-maschilista, evidente nella considerazione della donna lasciata dopo il ripudio in una condizione di fragilità. La parola di Gesù fonda un nomos a tutela della forma buona della relazione 75 presentano un maggiore tasso di flessibilità e indeterminazione. Capitolo terzo: Dalle questioni di superficie ai nodi etici fondamentali. La riflessione cattolica si attesta sulla posizione dell’antropologia della “differenza naturale” del maschile e del femminile comprendendola come uguaglianza dinamica nella reciprocità relazionale dei sessi. Si tratta di una differenza da riconoscere come anteriore a ogni operazione culturale e che contribuisce a dare forma alla cultura. Alla luce di questo criterio si attribuisce all’ideologia “post- moderna” e “post-umana” del gender la perdita di una fondamentale distinzione che indentifica la soggettività umana. Si constata la tesi “performativa” dell’identità soggettiva secondo una modalità interpretativa ascrivibile alle espressioni radicali delle gender theories. Elena Pulcini mette in evidenza l’idea del superamento concettuale e culturale delle opposizioni polari su cui si viene a costituire il pensiero occidentale in chiave manipolativa e di potere. Secondo la studiosa è necessario dare atto al femminismo post moderno, anche se espresso in forme eversive. Affermare l’idea di un ordine simbolico che presiede al pensiero occidentale non significa smentire ciò che tale ordine simbolico realizza. Le strutture simboliche si caratterizzano per un rimando “reale” le quali non sono unicamente da pensare come “razionalizzazioni” a sostegno di uno status quo. Sotto questo profilo la differenza simbolica tra maschile e femminile si radica nel corpo di ciascuno. L’ordine simbolico non è totalmente arbitrario, ma si pone suggerendo un orientamento di pensiero e pone il problema della modalità di approccio alla soggettività irriducibile di ciascuno. Di questo ne è consapevole Pulcini, dove si parla del possibile slittamento delle gender theories nella loro enfasi decostruttiva. Va riconosciuto ad alcune espressioni del magistero cattolico di aver preso in considerazione fin da subito alcuni elementi insiti nelle teorie di genere. In questa luce si può accostare quella che può essere ritenuta la prima apparizione del lemma genere proposta in un documento ufficiale della Chiesa Cattolica predisposto in occasione della IV Conferenza internazionale dell’ONU sulla donna tenutasi a Pechino nel 1995. Durante i lavori preparatori la delimitazione concettuale del gender è oggetto di ampie e contrastanti riflessioni, a partire dalla definizione proposta da Dale O’Leary “il genere si riferisce ai rapporti tra donne e uomini basati su ruoli definiti socialmente che vengono assegnati all’uno o all’altro sesso” e che comunque sarebbero modificabili, a differenza del sesso. Nel corso del dibattito non mancarono vivaci reazioni tese soprattutto a mostrare l’ambiguità dell’espressione di genere e quindi auspicando a un’eliminazione degli atti ufficiali. Tale posizione rifletteva quella di una nota della Santa Sede sull’interpretazione del termine genere, la quale intendeva slegarsi dalla pura costruzione culturale dell’identità personale. La Santa Sede esclude interpretazioni ambigue del genere, le quali affermano che l’identità sessuale possa adattarsi in modo indefinito per diverse finalità. Allo stesso tempo, la Santa Sede, non condivide la nozione di 76 determinismo biologico, secondo la quale tutte le funzioni e le relazioni tra i 2 sessi sono stabilite in un modello unico e statico. Tutto questo è giustificato dall’antropologia della coniugalità nella reciprocità dei sessi, che avevano trovato espressione nel magistero pastorale di Giovanni Paolo II con la Lettera alle Donne del 29 giugno 1995 (composta per l’assemblea di Pechino). Il Pontefice voleva invitare a lavorare per la per la liberazione della donna da tutte quelle espressioni culturali che ne offuscano la dignità. Comprensibile, anche se sproporzionata, risulta la reazione di Judith Butler alla precisazione vaticana, letta dalla filosofa americana come funzionale a bandire l’espressione genere in quanto sinonimo di omosessualità centrata su una “ri-biologizzazione” della differenza sessuale e su una comprensione della procreazione quale “destino sociale delle donne”. È stato approfondito in ambito vaticano una comprensione tendenzialmente negativa del gender. Di questo tenore sono alcune indicazioni sulla gender theory condensate nel documento del Pontificio Consiglio “per la famiglia, matrimonio e unioni di fatto” del 21 Novembre 2000. Il testo si propone di difendere la forma specifica del matrimonio eterosessuale, prendendo le distanze dalle unioni di fatto e omosessuali. Il matrimonio è basato su una forma di unione stabile e sulla differenza dei sessi, il processo di riconoscimento legale per gli omosessuali potrebbe comportare un’erosione degli elementi che sostengono il matrimonio a livello giuridico. Questo processo riconduce a una considerazione del gender per la quale l’essere uomo e donna trova una sua determinazione fondamentale nella cultura più che nella differenza sessuale. Il teso del dicastero vaticano si premura di mantenere il gender all’interno di una differenza sessuale, in una prospettiva di costruzione armonica della personalità. L’ideologia gender è colta in continuità con i processi di democratizzazione delle forme espressive della sessualità portati avanti dalla “rivoluzione sessuale” (anarchia sessuale di Wilhem Reich, l’eros polimorfo di Herbert Marcuse, femminismo radicale di Simone De Beauvoir. Linee di pensiero che rendono l’eterosessualità e la monogamia solo casi possibili di pratica sessuale). Il documento (Pechino) individua che la struttura del matrimonio trova figurazione segnate dal costume, ma si propone anche come una realtà che precede la stessa cultura e la produzione giuridica. La lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo (31 maggio 2014 siglata dalla Congregazione della dottrina delle fede dall’allora prefetto Cardinale Joseph Ratzinger) accosta la problematica del gender nell’ottica complessiva di un documento globalmente propositivo teso a riprendere le visioni delle scritture ebraico-cristiane in merito alla reciprocità dell’uomo e della donna, espressa nella coniugalità, per individuare implicazioni sul presente. Il motivo dichiarato in apertura della lettera attesta un’indubbia sensibilità ecclesiastica per lo sviluppo delle tematiche femministe (partendo dalla lettera di Paolo Giovanni II Mulieris Dignitatem), ma si propone anche di riflettere su alcune evoluzioni presenti nelle teorizzazioni. L’attenzione è posta sul giudizio della vicenda del femminismo che tende a coniugare gli sviluppi del pensiero della forma rivendicativa che ipotizza una dialettica opposta dei sessi. Il 77 Vaticano sottolinea che una prima tendenza sottolinea la sottomissione della donna, per suscitare un atteggiamento di contestazione. La donna, in quanto, si costituisce come antagonista dell’uomo. Agli abusi di potere essa risponde con una ricerca del potere. Questo processo porta a una rivalità tra i sessi, che si riversa sulla famiglia. Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. Il testo è critico, ma tenta di mostrare come l’ideologia gender sia uno sforzo di eliminare la rigida contrapposizione dialettica propria del primo femminismo, per assumere una posizione più pacificata basata sull’accettazione delle differenze soggettive. Il testo salda la prima e la terza fase del movimento femminista improntato a una riflessione sulla unità-differenza e reciprocità dei sessi, ma si pone contro al rigido emancipazionismo e all’estremizzazione del gender. Queste tesi vengono sostenute nel testo della Congregazione della fede, che va oltre alle conseguenze sulla vita personale e sulla struttura della società. La Lettera tenta di annettere al concetto di natura umana il dinamismo delle leggi biologiche estremizzando nel gender la figura di un creazionismo di valori modellato sulla soggettività individuale. Questa osservazione risulta corroborata dal riferimento alla gender theory, contenuto nel documento della Commissione Teologica Internazionale: Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale (2009). Lo spirito viene opposto al dato corporeo e in questo senso il gender esprime un approccio riduttivo alla corporeità. Bisogna considerare l’intervento di Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2008. L’interpretazione data in questo discorso si basa sulla dualità dei sessi una necessaria e dovuta attenzione alla verità iscritta nella legge di creazione a favore dell’uomo, pensata come protezione di una forza emancipatoria dal Creatore. Il discorso si preoccupa della dignità di ogni uomo, compresa in una prospettiva teologica. Il discernimento del magistero cattolico risulta segnato da una reazione fortemente critica nei confronti di una comprensione duttile e creativa della sessualità della persona. Per questo caso sono importanti i testi di Andrè Guindon, oggetto di una censura da parte della congregazione per la dottrina della fede del 1992 in merito al suo volume: The Sexual Creators. An Ethical Proposal for Concerned Christian. A questo tipo di approccio viene contestato un oscuramento della verità obiettiva scritta nella dualità dei sessi, che l’uomo deve rispettare. Secondo il teologo americano la partecipazione dell’uomo al progetto del Creatore comporterebbe un carattere aperto dell’umano, così da poter adottare comportamenti sessuali che risultino maggiormente “creativi”. Con i comportamenti sessuali, connessi all’evoluzione del gender, si iscriverebbe in un ulteriore processo teso a fare dell’uomo un sexual creator. Angelo Scola parla del binomio identità-differenza, che è stato rimpiazzato da uguaglianza- diversità. Così si tenta di addomesticare la differenza sessuale assimilandola a diversità di altra natura. Differenza, però, non è diversità (di-vertere: avere tante possibilità). La parola diversità deriva 80 sempre in tensione critica la possibilità di comprensione del sé, superando la tentazione di individuare nella natura un semplice indizio e punto di riferimento assai generico, pertanto da neutralizzare. • Il concetto di natura mostra una dimensione inerente alla storia in una tensione di compimento, che necessita di una continua ripresa per restituire il senso originario. In questo senso la legge naturale rimanda a una dimensione originaria, che si rende nota con i dinamismi biologici dell’individuo, ma anche attraverso le sue inclinazioni psicologiche. • La dottrina della legge naturale trova la sua collocazione adeguata all’interno di una teologia della storia. Tale lettura consente di conferire un tratto aperto al compimento definitivo della verità sull’uomo e sulle relazioni umane. Così la legge naturale, nella prospettiva della fede cristiana, conserva il suo carattere dinamico e drammatico per indirizzare alla verità escatologica della creatura e funge da elemento critico per il discernimento di quanto nelle tradizioni umane consenta il compimento dell’uomo. L’uomo è responsabile di dare forma storica a tale verità attraverso la propria libertà, che si confronta con il limite oggettivo dell’uomo. • Giannino Piana: l’uomo non ha totale disposizione della sua natura, ma deve misurarsi con alcune strutture del dato biologico. Quindi la riflessione antropologica ci aiuta a capire il dato corporeo come luogo in cui si incarna l’esperienza soggettiva vissuta, così da comprendere la sessualità come elemento inerente alla questione dell’identità personale. • È importante intendere che la differenza sessuale non rappresenta un dato in sé chiuso e immediatamente disponibile a elaborare un criterio normativo, ma quell’elemento inaggirabile a partire dal quale si articola la capacità umana di significazione della realtà. Assume la caratteristica di un elemento immediato, che necessita di una doverosa mediazione per essere protetto, rispettandone la sua verità. Tale operazione consente uno spazio di libertà per una costante ricerca delle possibilità costruttive del senso dell’uomo da portare in luce grazie alla storia. • L’ancoraggio della dimensione naturale alla differenza sessuale apre lo spazio a un altrettanto doveroso impegno di elaborazione di ciascun soggetto. Per questa rielaborazione esistenziale sono implicate quelle dimensioni di verità tipiche dell’uomo e della donna. Questa elaborazione è sottoposta a un processo inventivo, per coinvolgere la libertà soggettiva. In tale operazione si affina anche la capacità di reagire nei confronti dell’interpretazione dell’humanum che possono essere in difetto rispetto alla dignità di ciascuna persona. La logica dell’ideologia gender tende a eliminare nell’operazione di significazione la consistenza della differenza naturale dei sessi, di negarla in ordine alla progettualità umana. segna il nostro disporci e collocarci in una concretezza esistenziale ma a partire da esso. Ciò può essere compreso a partire dalla difficoltà di ipotizzare una piena comprensione di sé identificandosi nel sesso opposto. 81 • Uno dei limiti della teorizzazione del gender è costituita dall’enfatizzazione del rispetto della singolarità anche per una legittimazione della soggettività. Occorre ricordare che la proliferazione di risposte individuali, singolari e creative potrebbe allentare la capacità di riconoscimento delle persone stesse nel comune humanum in riferimento alla possibilità di dare forma alla cultura dell’uomo. Per una conclusione sporgente sul dibattito pubblico Le riflessioni precedenti portano a eliminare un irrigidimento ideologico, che continua a pensare sul sesso e sul genere in termine di alternativa. Tale clima porta la società a strutturare un dibattito sul tema della bioetica, con il rischio di creare schemi di comprensione sfuocati tra sostenitori pro-life di una sacralità intangibile della vita umana e sostenitori pro-choice di una piena libertà decisionale dell’individuo per il proprio stile di vita. Il pensiero gender porta: • A un’identità dell’Io che trova nel dato sessuale l’elemento decisivo che può diventare un pensiero che tende a imporsi facendo leva su basi emotive • A una riflessione teologica alla ricerca di migliori ragioni con cui comprendere gli elementi positivi che in esso sono contenuti → modalità di lettura dei testi scritturistici fondanti l’ethos dei credenti, al di la della verità obiettivamente iscritta nel dato corporeo della differenza sessuale, che può interpretare le giuste esigenze del superamento di ogni tratto discriminatorio. Bisogna superare l’incomunicabilità a causa della mancanza dei presupposti fondanti comuni. La riflessione cristiana viene valorizzata in una prospettiva dialogica. Non bisogna dimenticare che l’affermazione della soggettività e della immaginazione implichino l’essere un dono. La declinazione della tutela della dignità e dell’uguaglianza degli individui nel linguaggio dei diritti deve continuare a mantenere il suo valore più ampio di attenzione al significato costruttivo della differenza delle persone umane in grado di esprimere la trama complessiva della vita sociale. 82
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