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Teologia II - Gaia De Vecchi. Riassunto per non frequentanti, Sintesi del corso di Teologia II

Riassunto dei testi: che cos'è la chiesa; uomo. Appunti minimi di antropologia; matrimonio cristiano. Riassunto per non frequentanti FACOLTA' DI GIURISPRUDENZA.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 10/02/2020

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Scarica Teologia II - Gaia De Vecchi. Riassunto per non frequentanti e più Sintesi del corso in PDF di Teologia II solo su Docsity! CHE COS’E’ LA CHIESA INTRODUZIONE L’apporto decisivo del concilio Vaticano II (1962 - 1965) lo si constata nel suo intento di formulare una sintesi dell’ecclesiologia (= dottrina concernente i caratteri fondamentali della Chiesa) caratterizzante i primi due millenni di vita della chiesa:  PRIMO MILLENNIO DELLA CHIESA ecclesiologia sacramentale di comunione tra le chiese diocesane con i loro vescovi, sotto la presidenza della chiesa di Roma;  SECONDO MILLENNIO DELLA CHIESA a partire dalla rottura con le chiese orientali, sviluppa un’ecclesiologia più unitaria e universale, con una visione della chiesa come un solo corpo, visione alla quale si indirizzò progressivamente la concezione del papato. Il risultato è una sintesi delle due concezioni a partire da una formula finora sconosciuta, quale è quella di “comunione gerarchica” (dove il sostantivo comunione richiama alla comunità di credenti della chiesa del primo millennio e l’aggettivo gerarchica sottolinea la sua connessione decisiva con il ministero pastorale dei sacerdoti e del loro vescovo con il papa, affermata soprattutto nel secondo millennio). CHE POSTO HA LA CHIESA NELLA FEDE CRISTIANA? La chiesa non è centro e oggetto della fede così come lo sono le persone divine del Padre, del Figlio e dello Spirito santo: la chiesa (che non è persona divina, bensì opera loro) è il luogo, l’ambiente e il contesto dove comunitariamente si crede in Dio . La chiesa è il luogo e contesto proprio della fede, come comunità sacramentale quale essa è, e così manifesta la comunitarietà caratteristica e necessaria della professione di fede cristiana come espressione del credere in Dio ecclesialmente! COME DESCRIVERE E NOMINARE LA CHIESA? La chiesa, nel corso della sua storia, è stata descritta in diversi modi con metafore, immagini e simboli:  la chiesa nel Nuovo Testamento  popolo di Dio;  la chiesa nel Medioevo (V-XV sec.)  congregazione, chiesa militante e trionfante, regno, corpo mistico;  la chiesa in Lutero (XVI sec)  “comunione dei santi” intesa in modo spirituale e invisibile;  da parte cattolica  uso di nomi come “società visibile e giuridicamente perfetta” in contrasto con la concezione luterana;  la chiesa nel codice del 1917  domina il suddetto utilizzo;  la chiesa nel Concilio Vaticano II  nel suo impegno di aggiornamento e riforma della chiesa, preferirà recuperare la categoria piè teologica del sacramento o comunità sacramentale, visto che una tale categoria può aiutare ad articolare meglio la duplice dimensione – quella spirituale e quella visibile – della chiesa, la quale è fatta di un duplice 1 elemento, umano e divino. La parola sacramento è intesa come “segno e strumento” e comporterà, a immagine dei sette sacramenti, un decentramento della chiesa medesima, in quanto manifesterà che il suo centro non è essa stessa, bensì Gesù Cristo, del quale la chiesa è segno come sua memoria e sua presenza qui e ora. Per questo la chiesa può essere descritta come un sacramento, vale a dire come un “segno e strumento” che attualizza la memoria e la presenza di Gesù Cristo oggi nel mondo, mediante la Parola di Dio e i sacramenti, vissuti nella testimonianza dei cristiani. L’ORIGINE DELLA CHIESA A PARTIRE DALL’ANNUNCIO DEL REGNO DI DIO Gesù annunciava la vicinanza del regno di Dio e spronava all’accettazione di questa presenza nella vita personale e collettiva. Espressione massima di questa visione è l’invocazione di Dio come padre all’inizio del Padre nostro, espressione di vicinanza. Una tale novità va unita ad un’altra, ad essa correlativa: qualificare tutti gli uomini e le donne come fratelli, senza distinzione. L’unione di ambedue le esperienze è il regno di Dio: realtà di filiazione divina e fraternità umana in Cristo. Al concetto di Regno si lega il concetto di popolo, per questo Gesù convoca il popolo d’Israele perché accettasse il regno di Dio e per questo cercò di promuovere la riunione definitiva d’Israele. In questa prospettiva quello creato da Gesù può essere descritto come un movimento intragiudaico di rinnovamento (perché Israele superasse la crisi che stava vivendo). Questo movimento dei seguaci di Gesù, dopo la fuga e la dispersione dei suoi membri in seguito alla morte del Maestro, si ricreò attorno ai dodici apostoli (dodici che scelse tra i suoi discepoli. Il numero dodici richiamava alle dodici tribù d’Israele) ricostruendosi a partire dall’annuncio della risurrezione. Furono i seguaci del movimento originato da Gesù che cercarono di mantenere una concezione aperta della identità giudaica, sicché le persone sono convocate a questo regno superando le barriere culturali e nazionali. Tra la fine del I secolo e gli inizi del II, questo movimento di rinnovamento interno al giudaismo, viene progressivamente riconosciuto come diverso dal popolo giudaico e qualificato specificamente come chiesa. Tutto questo comportò un progressivo sganciamento dal mondo giudaico da parte dei cristiani, in particolare quando la maggioranza del popolo giudaico rifiutò in modo irreversibile la predicazione degli apostoli centrata su Gesù di Nazareth come Messia definitivo. I seguaci di Gesù adottarono il nome chiesa, richiamandosi a quella stessa parola che nell’Antico Testamento aveva qualificato l’assemblea fondazionale del popolo ebreo sul monte Sinai (Dio convoca il popolo ebreo per comunicare l’alleanza del popolo eletto con lui). In questo modo i primi seguaci di Gesù riaffermavano la loro radice e la loro convinzione di continuare ad essere l’assemblea del vero Israele. Gesù, predicando il regno di Dio, pensa ad un popolo che ne sia portavoce per la storia dell’umanità, anche se la sua formulazione più manifesta non apparirà fino alla tappa successiva, a Pentecoste dove si mostrerà l’intenzione di Gesù di Nazareth di costituire la chiesa. GLI ALTRI NOMI DELLA CHIESA: POPOLO DI DIO, CORPO DI CRISTO, COMUNIONE, SACRAMENTO DI SALVEZZA 2 la storia del nostro mondo “comprende nel suo seno i peccatori, è santa e insieme ha bisogno di purificazione”. Inoltre, bisogna tener presenti i due livelli implicati quando si tratta della salvezza : da un lato, il livello personale soggettivo, per il quale si riconosce la possibilità individuale della salvezza a tutte le persone “che ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa senza loro colpa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l’influsso della grazia si sforzano di compiere fattivamente la volontà di Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza”. Dall’altro lato, a livello reale-oggettivo, afferma che la chiesa cattolica è quella vera perché possiede in pienezza i mezzi di salvezza, e insieme si riconosce che le altre chiese e comunità ecclesiali sono pure esse strumenti di salvezza, benchè non lo siano in forma piena ed integra. Questa confessione che la chiesa cattolica è quella vera non implica che i cattolici siano migliori degli altri cristiani, ma significa che, grazie al dono della fede, la chiesa cattolica crede di avere i mezzi più pieni per conseguire la salvezza. La chiesa come comunità cristiana “una”. La chiesa come comunità cristiana “santa”. La chiesa come comunità cristiana “cattolica”. La chiesa come comunità cristiana “apostolica”. LA CHIESA E’ CREDIBILE? IL PARADOSSO DELLA SUA REALTA’ MISTERIOSA La realtà profonda della comunità dei credenti in Gesù Cristo può essere compresa unicamente come “mistero” (cioè come disegno divino di salvezza nella storia umana). La chiesa, in effetti, appare come una realtà paradossale per la sua costituzione umana e insieme divina. Paradosso va inteso non come contraddizione o negazione, bensì come realtà formata da aspetti tra loro diversi ma senza reciproca esclusione. Per questo il paradosso supera la logica e la trascende, e può essere compreso solo quando viene accettato e vissuto esistenzialmente. Il paradosso supremo dal quale deriva la chiesa è rappresentato dall’incarnazione del Verbo di Dio nella umanità di Gesù. Per questo la realtà misteriosa della chiesa, come ogni mistero, non può essere colta con uno sguardo diretto e semplice, bensì con uno sguardo complesso e articolato. Si noti inoltre che quel paradosso che è l’esperienza storica della chiesa solleva interrogativi, perché essa stessa si presenta come segno misterioso, descritto quale comunità di Gesù Cristo. Orbene bisogna tenere conto che per aprirsi alla possibile presenza della realtà misteriosa della chiesa – comunità di credenti in Gesù Cristo – che è nascosta nel paradosso del suo fenomeno storico e nella fragilità umana dell’istituzione ecclesiale, bisogna lasciarsi guidare dallo Spirito. È lui che può aiutare a discernerla come pienamente credibile, fino ad accoglierla gioiosamente nella fede. La testimonianza è segno di credibilità attraverso gli stessi cristiani con la loro vita santa, e le comunità di cristiani con la loro vita di unità e carità. Questa personalizzazione è stata realizzata dal Vaticano II ed è inscritta nell’apparizione del termine testimonianza in luogo di “segno della chiesa”, utilizzato in Vaticano I. Perché una testimonianza sia pienamente ecclesiale deve in primo luogo collegarsi storicamente e vitalmente con la testimonianza apostolica fondante della chiesa, che trasmette fedelmente Gesù 5 Cristo e il suo vangelo. In secondo luogo deve concretizzarsi nella testimonianza vissuta di ciascun credente e della chiesa; e in terzo luogo queste due prime dimensioni debbono essere fecondate dalla testimonianza dello Spirito che vive nella chiesa, che è colui che in definitiva la anima e la santifica. Come continuare, oggi, a camminare ecclesialmente? Realizzare con tutta naturalezza quello che la fede cristiana ci propone. Vivere, celebrare e testimoniare il “plus cristiano” manifestato in Gesù Cristo. Vivere la comunione ecclesiale centrata sulla Parola di Dio e sui sacramenti. Ricordare che la chiesa è costitutivamente una realtà complessa, che in modo paradossale contiene il messaggio del vangelo. Meditare sulla realizzazione della chiesa attraverso la sua storia. Suscitare reti di relazione, di comunione, di solidarietà, di complicità. Tener presenti le vere dimensioni della chiesa universale. Conservare l’importanza della partecipazione nelle istanze sindacali della nostra chiesa. Tener presente il paradosso della chiesa come madre. Il perché e lo scopo della chiesa sono espressi chiaramente dal concilio Vaticano II quando si afferma che essa è “come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”, come espressione massima del regno di Dio. 6 UOMO. APPUNTI MINIMI DI ANTROPOLOGIA Dire l’uomo in modo compiuto sembra essere una questione irrisolvibile. Si deve allora rinunciare alla posa della questione circa l’identità umana? Assolutamente no. Se l’uomo si arrendesse nel dire di sé non ci sarebbero l’arte, la poesia, la filosofia, la letteratura, la politica, l’economia e quant’altro si riferisce della sua complessa ed esaltante esistenza di essere vivente. In questo senso, si comprende bene che le risposte, anche se provvisorie, sono dipendenti dalle molteplici e diverse prospettive di lettura del fenomeno uomo. Questo non significa che si debba avere un dire l’uomo per ogni tempo, culturalmente determinato; significa invece che ogni tempo ha qualcosa da dire sull’uomo. Quello che si potrà dire sull’uomo è sempre “penultimo”. IL FENOMENO UOMO La fondamentale domanda sull’uomo può venire risolta, in qualche modo, attraverso l’interpretazione del fenomeno umano non solo in senso individuale, ma anche collettivo. L’interpretazione è sempre rinchiusa nell’esistenza. Non è un caso che si ricerchi sempre il senso della vita e del mondo, mediato dal fenomeno dell’esistenza. L’interpretazione non è facile perché l’uomo non riesce a guardarsi in modo astratto, ma sempre nel contesto che vive; in più, l’interpretazione non è mai definitiva; essa cambia e si trasforma e con questo movimento anche l’esistenza umana e i suoi fenomeni mutano non oggettivamente, ma nel peso che essi possiedono nel dare senso alla vita; in sostanza, l’interpretazione termina con la morte. La presenza degli altri è fondamentale in quanto l’uomo comprende sé stesso sempre in uno spazio e in un tempo abitati da altri, oltre che da sé. L’uomo è un essere che parla. La natura umana è strutturalmente dialogica. Attraverso la PAROLA, l’uomo entra in relazione con gli altri uomini. Tutta l’esistenza si gioca nella trama della relazionalità, in cui l’altro è una certezza che si impone di per sé. La parola attraversa tutte le età della vita e traduce l’incontro io-tu. La parola esprime il pensiero dell’uomo e lo comunica all’altro; essa esprime il mondo interiore di chi pronuncia e lo partecipa all’altro. L’esperienza delle relazioni si nutre di parole di promessa, anche se al varco vi è sempre la possibilità della parola falsa, bugiarda, violenta, che rende ambigue le relazioni e le minacce al loro fondo. Il rifiuto di parlare è scelta di isolamento in cui si svela il grembo della dannazione. 7 che possono essere fonte di felicità per l’oggi o per il domani è abbastanza limitato. Spesso l’uomo assiste al fallimento delle sue aspettative, ma le difficoltà non sono l’ultima parola perché la speranza è l’ultima a morire. L’uomo non può non sperare, con l’obiettivo di conquistare una pienezza di vita che lo soddisfi alla radice della sua umanità. In questi termini, l’uomo che spera è un essere che si prende cura di sé stesso e di quanto lo circonda. L’uomo che spera tende sempre a decentrarsi verso un tu in cui riporre fiducia; cioè è disponibile a consegnarsi all’altro in una felice combinazione di legami accoglienti e affidabili. Spesso i legami falliscono, ma non per questo l’uomo che spera dovrà rinunciare ad essi. Sperare, infatti, è sempre tenere desta l’attenzione verso i legami e l’uomo non può vivere in prospettiva senza questo richiamo forte dell’esistenza. L’uomo che spera sperimenta il futuro desiderato già nel presente e con fiducia attende il futuro come pienezza. I desideri dell’uomo che spera non possono non coinvolgere l’intera umanità. L’UOMO SECONDO I SAPERI Nessuna scienza, infatti, per quanto sia correttamente istruita sul piano metodologico e distinta nel suo oggetto formale, riesce a dire una parola in qualche modo definitiva sull’uomo; né l’insieme dei punti di vista dei saperi potrebbe sciogliere il nodo della misteriosità dell’umano. Ma non per questo si deve rinunciare a pensare l’uomo. L’uomo è un essere “aperto al mondo”. Arnold Gehlen considera l’uomo come un essere che conserva una posizione peculiare nella natura, per la sua apertura al mondo. Tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover prendere posizione circa sé stesso e quindi circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili. In questo senso l’uomo è, secondo un’espressione di Nietzsche, un “animale ancora incompiuto”, allora l’uomo è costretto a strutturarsi agendo verso l’esterno. In tal senso l’uomo è un “soggetto a rischio” in quanto potrebbe fallire nel suo compito di dare fondamento a sé stesso. Ma apertura al mondo, in particolare significa che l’uomo, a differenza dell’animale, difetta dell’adattamento ad un particolare ambiente. Pertanto l’uomo deve risolvere da sé stesso la questione relativa alla conservazione della propria vita e ciò mediante il suo agire. L’uomo, mediante l’azione, trasforma gli svantaggi in vantaggi e in sé stesso reperisce gli strumenti che gli permettono di dirigere la sua vita; egli trasforma così il mondo in una realtà utile alla sua esistenza. L’esistenza dell’uomo aperto al mondo è dunque basata sull’azione, di cui la sua prosecuzione è il linguaggio; quest’ultimo infatti costituisce la misura dell’azione dell’uomo. L’uomo è un essere funzionale alla tecnica. La cultura occidentale è dominata dalla tecnica e ciò determina una visione tecnocentrica dell’uomo. Umberto Galimberti, definisce la tecnica quale “essenza dell’uomo”. La tecnica, infatti, non costituisce più l’insieme degli strumenti che l’uomo adopera al fine di raggiungere uno scopo a lui noto. La tecnica, oggi, è piuttosto un molto molto particolare, abitato dall’uomo e dove l’uomo esprime sé stesso. Quest’ultima costituisce “il rimedio” all’insufficienza biologica dell’uomo; senza 10 la tecnica l’uomo non sarebbe sopravvissuto, non avrebbe potuto “raggiungere” quella selettività e stabilità che l’animale possiede per natura. La tecnica è l’ambiente dell’uomo, non un semplice strumento a disposizione di esso. La tecnica è fine, perché permette realmente di conquistare tutto ciò che l’uomo si propone. Il vero protagonista della storia è costituito dalla tecnica, la quale, non essendo più un semplice “strumento”, dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario. Su questo sfondo mutano alcuni concetti chiave come la ragione, la verità, le ideologie, la politica, l’etica, la natura, la religione, la storia. La tecnica è un assoluto e non può venire condizionata da altre finalità che non siano quelle tecniche; essa produce solo effetti. L’uomo in questo scenario è solo un funzionario dell’apparato tecnico e la sua identità è determinata dalla sua funzionalità: “l’uomo è presso-di-sé solo in quanto è funzionale a quell’altro-da-sé che è la tecnica”. Di qui la revisione di tutte le categorie umanistiche: individuo, identità, libertà, cultura di messa, mezzi di comunicazione, psiche. L’uomo è essenzialmente un essere neuronale. Con il termine neuroscienze ci si riferisce non a saperi specifici, ma ad una metodologia, che vede la collaborazione di tutte le scienze che mirano alla comprensione di quella realtà complessa che va sotto il nome di cervello. Tali scienze non condividono solo l’interesse per il cervello umano, ma anche i linguaggi e i concetti essenziali che ne esprimono la sua funzione. Tra l’altro, le neuroscienze formulano teorie abbastanza diversificate senza che alcuna sia comprensiva del tutto. In ogni caso, il discorso sull’uomo che esse traducono si riduce al fatto che l’essere umano, pur conservando tutte le sue caratteristiche specifiche mentali e spirituali, è essenzialmente un essere cerebrale, poiché tutte le sue caratteristiche sono realizzate da attività neuronali. Dick Swaab dice “noi siamo il nostro cervello”. Quest’ultimo, infatti, produce tutte le possibilità, i limiti e il carattere dell’essere umano in quanto tale. Il cervello, in altri termini, non è solo un complesso organo biologico, ma un vero e proprio elemento di determinazione dell’identità di un uomo e ciò fin dall’inizio della vita. In questa direzione, il cervello è anche alla base dell’identità sessuale, dell’orientamento sessuale e relativo comportamento. Il determinismo biologico è più che un’ipotesi; esso è fondamentale sotto il profilo antropologico. Gli stessi comportamenti morali non hanno nulla a che fare con elementi estranei all’attività neuronale; essi, infatti, sono totalmente determinati dal cervello. Ancor più, il cervello è fondamentale in relazione alla religione e alla spiritualità dell’uomo. Quest’ultima, infatti, viene determinata, nella sua misura, dai neurotrasmettitori e, di conseguenza, diventano inutili e insensati alcuni concetti strettamente legati alla dimensione religiosa: l’aldilà, l’anima, la preghiera. L’uomo, se è religioso, lo apprende solo grazie alla programmazione religiosa del cervello, che avviene subito dopo la nascita, grazie all’opera dei genitori. Il determinismo neurobiologico, secondo Swaab, è evidente soprattutto nella considerazione del c.d. “libero arbitrio”: non si può parlare di una completa libertà in quanto il cervello determina dall’inizio ciò che un uomo è lungo la sua vita. L’uomo è l’essere dell’assoluta trascendenza di Dio. Karl Rahner sostiene che l’uomo debba venire pensato, anzitutto come persona e soggetto; e ciò a partire dall’esperienza che l’uomo ha di 11 sé stesso. Questi, infatti, si sperimenta, in diversi modi, come il prodotto di qualcosa che non è lui stesso nella sua concretezza: si accorge di essere uno che è divenuto attraverso qualcosa diverso da sé. Si può dire che l’uomo si svela come un essere indefinibile. Quindi ogni esperienza dell’uomo è un’esperienza trascendentale, perché di fatto sottrae sempre la persona e il soggetto alla diretta oggettività. ??? L’UOMO E LA RIUSCITA DELLA VITA Nella storia degli umani si sono dati diversi paradigmi del vivere nella prospettiva della riuscita della vita. Anche il tempo presente ne offre di diversi e qui ne presentiamo alcuni. La riuscita della vita secondo il paradigma del neopaganesimo. Il paradigma del neopaganesimo ha uno dei suoi maggiori esponenti in Salvatore Natoli. La vita neopagana va intesa come “quell’atteggiamento, o quel punto di vista, che coincide con l’etica del finito o che comunque l’assume come propria”. Si tratta di una prospettiva che non è certamente cristiana ma che allo stesso tempo non è necessariamente anticristiana. Natoli precisa l’espressione etica del finito, che racchiude il nucleo del paradigma neopagano. Etica, per il nostro filosofo, non ha a che fare col dovere, ma dice essenzialmente una particolare visione della vita, una comprensione della vita che determina scelte, azioni, percorsi, intenzioni. Etica del finito aggiunge l’idea che il luogo abitato dall’uomo è il finito. L’uomo assume il finito come entità sufficiente a sé stessa e, in tal modo, egli si determina solo nel tempo che gli è dato. Natoli poi dice che l’uomo, assume il limite come sua misura e diviene soggetto etico. E in tale quadro, la finitudine, la cui misura è solo la morte, costituisce la base dell’autorealizzazione umana. Natoli sostiene che la possibile riuscita della vita dell’uomo non stia nel conquistare un traguardo situato oltre l’esistenza storica o comunque in una pienezza antropologica dopo la morte. La salvezza è nel presente, nel finito. La vita è riuscita se l’uomo riesce a cogliere le occasioni del tempo che gli è dato. La possibile salvezza del neopagano è così un percorso che vede protagonista l’uomo, in modo esclusivo; la riuscita della vita è possibile solo se l’uomo è capace di trovare in sé, e non in altro, la forza per esistere. In tal senso l’aspirazione dell’uomo non è la vita eterna, ma una vita lunga, una vita buona. L’uomo neopagano non sente il bisogno dell’eternità; egli non ha la speranza nell’assoluto di Dio. Ora, dal momento che l’uomo è l’unico protagonista della propria salvezza, la terra gli è assegnata come luogo proprio, come unico orizzonte ospitale, in cui vivere secondo il criterio condiviso della scienza, la quale rende possibile l’ottenimento della potenza possibile. La tecnica, come produzione umana, è , in altre parole, l’orizzonte specifico della salvezza dell’uomo; la riuscita della vita dell’uomo trova nella tecnica la sua cifra e il suo simbolo. 12 della persona a Dio, considerato come ragione ultima e fine ultimo della sua esistenza. La moderna secolarizzazione ha portato ad una crisi di questa concezione cristiana del matrimonio. Il compito, che Tommaso d’Acquino ha compiuto a suo tempo, deve pertanto essere oggi intrapreso con presupposti nuovi. Rivoluzione nella comprensione del matrimonio: opportunità e crisi. In passato il matrimonio non era solo una vita in comune di natura privata e personale nell’ambito della piccola e piccolissima famiglia dei due partner, ma era al tempo stesso una comunità economica e di produzione nel quadro della grande famiglia. La modernità porta con sé il pericolo di rapporti personali, liberati in buona parte dalle condizioni economiche e biologiche e sospinti nell’ambito del puramente privato e quindi del non vincolante. Inoltre, dopo che l’amore, grazie alla pillola, è diventato senza rischio, esso corre più che mai il pericolo di diventare poco serio e senza importanza. La mentalità fondata sulla prestazione, sul guadagno, sul prestigio e sul consumo, mentalità caratteristica della nostra civiltà, penetra anche nella sfera del matrimonio. La sessualità umana diventa così sesso, merce, articolo di consumo ed affare non di rado sfruttamento o semplicemente piacere. La privatizzazione del matrimonio conduce quindi non necessariamente alla sua personalizzazione; può anche portare alla cosificazione di esso. Le opportunità ed i pericoli dell’attuale sviluppo rappresentano un problema, anzi una provocazione per la predicazione e la prassi della chiesa. È possibile avere uno sviluppo senza rompere con la tradizione? La dottrina della chiesa non è finora riuscita a compiere una soddisfacente nuova integrazione delle diverse dimensioni del matrimonio in una prospettiva personale. Tuttavia è già chiaro, almeno in germe, in quale direzione essa deve essere ripensata. Non si tratta di fare astrazione da tutti i rapporti naturali o dell’emancipazione da tutti i contesti normativi. Si tratta piuttosto di mantenere ferma l’intima unità dei tre valori del matrimonio, di vedere quindi il matrimonio nelle due relazioni naturali, sociali, personali e teologali, partendo però non più dalla generazione della prole, ma dall’amore e dalla fedeltà reciproci, considerati come punto di integrazione. L’essenza della persona e del matrimonio non deve quindi essere definita in modo naturale, ma la relazionale. Se si riuscisse a fare questo, si affermerebbe nell’ambito della dottrina del matrimonio quello che il concilio Vaticano II ha posto come principio di validità universale: “Principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana, come quella che di sua natura ha sommamente bisogno di socialità”. Spunti per una nuova comprensione.  Amore personale  l’essere umano tende al completamento per mezzo di beni materiali, biologici e spirituali. Niente di tutto questo, però, lo può soddisfare; egli ha bisogno di un partner che gli corrisponda. Pertanto, l’essere umano trova il suo compimento solamente quando è accettato ed affermato come tale. Di conseguenza vi è compimento umano solamente nell’amore personale. La nostra persona esiste concretamente soltanto nel corpo e in rapporti che hanno a che fare col mondo. Di questi fa parte anche la sessualità dell’essere umano che deve essere integrata in rapporti personali per essere realizzata umanamente. Al di fuori di legami personali essa conduce invece alla disintegrazione ed alla degradazione della persona umana. Il matrimonio è la più completa forma di legame personale tra uomo e donna. 15 Esso, come nessun altro rapporto tra esseri umani, coinvolge tutta la persona dei due partner in tutte le loro dimensioni. È sensato quindi che una piena unione sessuale tra uomo e donna abbia il suo luogo proprio nel matrimonio. Qui essa è coinvolta in una completa unione umana di vita e di destino. Tuttavia, il carattere corporale della persona umana e, in particolare, dell’unione matrimoniale significa che non si può mai parlare del matrimonio in termini puramente personali. Già l’esperienza quotidiana mostra che per la felice riuscita di un matrimonio occorre almeno un minimo di presupposti fisici, sociali ed economici. Una completa visione personale del matrimonio include quindi sia aspetti oggettivi che istituzionali;  Amore fecondo  fa parte della natura dell’amore che esso voglia diventare fecondo. In passato questa essenziale e necessaria connessione tra amore matrimoniale e sessualità è stata fondata in maniera esclusivamente biologica. Ma esiste una differenza decisiva tra la sessualità umana e quella degli animali sta nel fatto che nell’essere umano è assente il ritmo stagionale dell’impulso sessuale. Da questa continua attività dell’istinto sessuale dell’essere umano deriva un’eccedenza di pulsione sessuale che ha bisogno di essere normalizzata ed educata. Il senso della vita sessuale umana non può quindi stare soltanto nel fine della conservazione della specie. La fecondità dell’amore non può dunque essere fondata in modo esclusivamente biologico. La fecondità del matrimonio risulta dall’intima essenza dello stesso amore personale. Infatti, il vero amore non può assolutamente voler restare chiuso in sé; esso spinge piuttosto a realizzarsi, ad oggettivarsi e ad incarnarsi in un terzo comune ai due. Il figlio, quale frutto dell’amore comune è il compimento di tale amore. Ciò non significa che un matrimonio senza figli, per motivi non imputabili ai due coniugi, dovrebbe essere incompleto ed infelice. L’amore ha sempre un valore ed un senso per sé stesso. Esso però si trasforma nella perversione di sé stesso se si chiude intenzionalmente ed egoisticamente in sé ed esclude volutamente la fecondità per ragioni di egoismo. Là dove avviene questo, col tempo esso diverrà inesistente ed irreale. Infatti, nel figlio i due coniugi si ritrovano normalmente in modo nuovo e, viceversa, i figli possono progredire umanamente se sono custoditi nel reciproco amore dei genitori. Anche un’unione corporale dei due coniugi, che non serve direttamente alla procreazione di nuova prole, ma all’approfondimento ed all’arricchimento del loro reciproco amore, serve indirettamente al bene della prole, al bene cioè dei figli che già ci sono. Mediante la generazione e l’educazione della prole il matrimonio diventa servizio per la continuazione e per il futuro della società e dell’umanità. Da questo contesto consegue che la fertilità umano non può dipendere semplicemente dal ritmo naturale della natura, ma soggiace alla responsabilità morale dell’uomo. Si tratta quindi di “procreazione responsabile”;  Fedeltà nell’amore  L’essere umano è aperto al mondo. Se non si perderà in quest’apertura e nell’abbondanza di stimoli che è ad essa legata, egli si darà da sé, con libera responsabilità. L’apertura e l’incompiutezza dell’essere umano sono quindi l’altra faccia della sua libertà. La libertà, però, è la facoltà della definitività dell’essere umano. La libertà vera si realizza quindi nella fedeltà. La libertà che si realizza nella fedeltà è 16 essenzialmente di tipo dialogico. Il vincolo della fedeltà matrimoniale fonda qualcosa che supera la persona, che segna e lega definitivamente la storia di due persone: il vincolo matrimoniale. Nel vincolo della fedeltà l’essere umano si affida ad una realtà incalcolabile, incondizionata, non più discutibile. Qui egli si avventura in qualcosa che egli non ha mai in mano del tutto. Vive di una speranza e di una fiducia che non possono essere fondate né in lui né nell’altro partner. Perciò la fedeltà coniugale non è soltanto un simbolo che rimanda oltre sé stesso, ma è anche partecipazione alla fedeltà di Dio. La fedeltà coniugale è dunque un luogo di possibile esperienza della trascendenza. La chiesa afferma che il matrimonio è un sacramento. La sacramentalità del matrimonio è l’essenza del matrimonio. LA DIGNITA’ SACRAMENTALE DEL MATRIMONIO Fondazione storico-salvifica. Fondazione nella creazione. La differenziazione sessuale e l’incontro sessuale tra uomo e donna fanno parte dell’ordine della creazione che è stato voluto ed approvato da Dio. Il legame fra uomo e donna è immagine dell’alleanza di Dio con l’uomo, immagine dell’amore di Dio, della sua fedeltà e della sua forza creatrice. Con ciò è assegnata al matrimonio una dignità difficilmente superabile, una dignità che esclude a priori ogni antagonismo tra i sessi. Malgrado questa grande considerazione, nell’AT e tanto meno nel NT non si arriva mai ad una divinizzazione del sesso e dell’eros. Al contrario, una simile sacralizzazione e mitizzazione del sessuale viene sentita dalla Bibbia come pagana e per questo respinta. Sessualità e matrimonio, in quanto dimensioni della creazione, non possono mai essere una realtà ultima. Di conseguenza, l’essere umano non può trovare la sua realizzazione ultima in un amore tra partner di natura puramente orizzontale. L’amore finito e limitato tra uomo e donna può venire solamente da Dio. In tal senso si può parlare, con la tradizione della chiesa, di un sacramento naturale del matrimonio. Istituzione da parte di Gesù? Nella comprensione del matrimonio quale segno dell’alleanza di Dio è fondata anche la sua comprensione sacramentale. Infatti la sacramentalità del matrimonio non si può dimostrare sulla base di singole parole d’istituzione. Più importante di tale dimostrazione è mostrare come il matrimonio è inserito in modo fondamentale nell’opera di salvezza compiuta in Gesù Cristo. La posizione di Gesù nei confronti del matrimonio è espressa nel modo più chiaro nella pericope di Mc 10, 2-9. Qui, in un dialogo polemico, Gesù è posto di fronte al problema se sia permesso al marito abbandonare la propria moglie. Gesù, facendo riferimento all’ordine della creazione, conclude dicendo “L’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. In tal modo, nella predicazione di Gesù il matrimonio rientra sia nell’ordine originario della creazione, sia nell’ordine della salvezza nel regno dell’amore e della fedeltà di Dio. 17 non è a disposizione dell’uomo. Questo vincolo non è, se visto a partire da Dio, un peso, ma grazia che colloca il legame della fedeltà umana nella fedeltà di Dio. Perciò, quando si parla di indissolubilità del matrimonio non si tratta solamente di una legge ecclesiastica, di una norma morale o di un principio metafisico. L’indissolubilità del matrimonio è fondata nella sacramentalità dello stesso matrimonio. Poiché l’unione matrimoniale rappresenta una attualizzazione sacramentale dell’alleanza di Dio in Gesù Cristo, per un cristiano l’adulterio significa primariamente non una mancanza sessuale, ma una mancanza contro l’essere in Cristo. La dottrina del vincolo matrimoniale di Sant’Agostino è intesa come l’unione personale fra coniugi crea un vincolo che va compreso come corrispondente alla sfera personale. L’alleanza di Dio assume questa realtà umana. L’alleanza di Dio, che non dipende da noi esseri umani, conferisce all’unione matrimoniale un qualificato carattere di realtà non a nostra disposizione. Di conseguenza, per il cristiano la rottura del matrimonio comporta l’arrogarsi un potere che non gli spetta. La dottrina del vincolo coniugale è l’opposto di una legalizzazione del matrimonio; essa è un’espressione ontologica del permanente carattere di promessa e di grazia del matrimonio sacramentale. Essa comporta il costante reciproco impegno dei coniugi. Per gli sposi che vivono separati ne conseguono il continuo dovere di perdonare e l’inestinguibile speranza di riconciliazione. Questo dovere e questa speranza possono forse contrastare con un’esperienza umana; nella fede, però, si può partire dalla convinzione che l’amore e la fedeltà di Dio in Gesù Cristo non vengono mai meno, anche quando un amore umano ed una fedeltà umana sono stati spezzati. La prassi ecclesiale nella scrittura e nella tradizione. La tradizione biblica. Forse nessun’altra parola di Gesù ci fu tramandata nel NT in forme così molteplici come quella dell’impossibilità del divorzio. Ciò mostra come la chiesa abbia capito fin dall’inizio la parola di Gesù non al modo di un paragrafo di legge, ma come parla profetico- messianica. Già l’evangelista Marco aggiunge alla disputa di Gesù un’istruzione ai discepoli che dalla maggior parte degli esegeti è ritenuta tradizione della comunità. Qui la parola di Gesù, che possedeva un originario carattere profetico, viene messa nella forma di una disposizione della comunità che trova la sua espressione più antica senz’altro in Luca: “chiunque ripudia sua moglie e ne sposa un’altra commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito commette adulterio”. Le cose sono diverse in Marco, dove anche la donna possiede il diritto di divorziare. Perciò Marco aggiunge “se una donna ripudia il proprio marito e ne sposa un altro commette adulterio”. Così, già nel NT, incontriamo un adattamento dinamico del diritto ecclesiastico alla mutata situazione culturale. Clausole di divorzio o fornicazione in Matteo  al divieto del divorzio si aggiunge la clausola “eccetto in caso di fornicazione”. L’interpretazione di questa aggiunta è decisamente controversa; presumibilmente non si tratta di un diritto eccezionale di risposarsi, ma del diritto, forse addirittura del dovere, di rompere il matrimonio per amore di Dio. Mentre Matteo deve fare i conti con una situazione giudeo-cristiana, in Paolo abbiamo una situazione pagano-cristiana. Paolo introduce una certa prassi separatista. Ciò mostra che Paolo, 20 come tutto il NT, non ha inteso la parola del Signore come una legge rigida isolata, ma come espressione della volontà salvifica di Dio in Gesù Cristo, volontà che è destinata all’uomo nella situazione concreta in cui egli di volta in volta si viene a trovare. Tuttavia, con questo, non è riconosciuto un permesso di risposarsi, come prevede il successivo privilegium paulinum. Sembra piuttosto che sullo sfondo si debba vedere questo: il cristiano non deve più condividere la mensa con il partner che dà scandalo per una fornicazione. Ma non lo può neppure respingere definitivamente, quindi, è determinante la volontà di salvezza e di pace di Dio, la quale, per amore appunto della pace, rende possibile una separazione e, ciononostante, riconcilia con la norma suprema. Tutto ciò testimonia che la chiesa deve comprendere e realizzare la parola di Gesù non in modo legale ma spirituale; e lo spirito di Gesù Cristo è lo spirito della libertà cristiana; questa però non si manifesta in arbitrio egoistico, ma in amore disinteressato, in pace e riconciliazione. La tradizione della chiesa. Siccome un secondo matrimonio era proibito anche dopo la morte del primo coniuge, tanto più era escluso un risposarsi fintanto che l’altro partner era in vita. Malgrado ciò si incontra, in alcuni padri assai stimati, un atteggiamento più elastico della chiesa nei confronti di quelle persone che, trovandosi separate senza loro colpa, si sono risposate. Per esempio Origine riferisce che alcuni capi di comunità concedono che una donna, che si trova ad essere separata per l’adulterio del marito, si risposi mentre questi è ancora in vita. Origene è consapevole del fatto che questa pratica sia contraria alla scrittura, ma non la considera del tutto irragionevole, perché aiuta ad impedire il peggio. Un secolo dopo Basilio, anch’egli consapevole del contrasto con la scrittura, si richiama ad un diritto consuetudinario della chiesa, quando promette ad un uomo, sebbene separato per l’adulterio della moglie e risposatosi, di partecipare di nuovo alla comunità ecclesiale, cioè all’eucaristia, dopo una considerevole penitenza. Per lui non è cosa sicura se una donna, che convive con un uomo abbandonato dalla sua prima moglie, possa essere detta adultera; ella merita indulgenza e non viene condannata. Altrettanta indulgenza merita un uomo che si trova in una situazione analoga. I padri della chiesa d’Occidente non conoscono evidentemente un simile diritto consuetudinario della chiesa. Ma anche i loro si trovano alcuni accenni. Persino Agostino, in un passo che però egli in seguito corresse, parla di un “errore scusabile”. Nel periodo di disordini che caratterizza la fine dell’antichità e l’inizio del medioevo, si cercò di rendere giustizia alla concreta realtà del matrimonio, in caso per esempio di morte presunta, di deportazione, di prigionia, tollerando o addirittura permettendo un secondo matrimonio mentre il primo coniuge era ancora in vita. Per conservare l’ideale cristiano del matrimonio ricorrevano allo strumento della penitenza ed all’imposizione di essa. Emerge così una situazione ricca di profonde tensioni eppure, ancora una volta, molto chiara. La caratteristica fondamentale della tradizione è la fedeltà assoluta alla parola di Gesù. Nel fare questo, però, si imbatte in difficili situazioni umane di concrete realtà matrimoniali, situazioni che difficilmente possono essere sbrogliate dal singolo cristiano in un mondo caratterizzato dalla “durezza di cuore”. È impossibile qui avere una soluzione chiara. La chiesa non può limitare nel suo valore la parola di Gesù, ma neppure può condannare una persona che si trova in una situazione del genere. Questo modo di vedere non comporta alcuna contraddizione con l’unica volontà di Dio che la chiesa deve testimoniare, perché per il vangelo la volontà di Dio non è qualcosa di astratto, ma assoluta volontà di salvezza che è divenuta concretamente manifesta per opera di Gesù Cristo, 21 volontà di salvezza per ogni persona e per ogni situazione. La chiesa deve conformarsi a questa concreta volontà di Dio che si è rivelata in Gesù Cristo. Nella chiesa orientale si sviluppò la prassi di permettere un secondo matrimonio, nel caso sussistano determinati motivi oggettivi che si pongono in una certa non rigida analogia con la morte e l’adulterio del coniuge, senza però che questo secondo matrimonio venga equiparato al primo. Il principio dell’indissolubilità in quanto tale non dev’essere con ciò intaccato; tuttavia, in situazioni difficili è necessario offrire una possibilità nuova di esistenza umana, cristiana ed ecclesiale a colui che è disposto a far penitenza, una possibilità che si fonda sulla misericordia di Dio. Così nella chiesa orientale la liturgia delle secondo nozze è tutta permeata dal pensiero della penitenza. Nella chiesa occidentale, invece, nel secondo millennio si affermò, grazie soprattutto al Decreto di Graziano, una prassi sostanzialmente più severa. Ma neppure la chiesa cattolica del secondo millennio ha assunto il generale divieto di separazione di Gesù in maniera indifferenziata e senza certi compromessi con la durezza del cuore e la debolezza dell’essere umano. Il privilegium paulinum permette al coniuge che si è fatto cristiano di troncare un matrimonio concluso prima del battesimo e di risposarsi nel caso in cui il coniuge rimasto pagano si rifiuti di vivere in pace col suo coniuge cristiano. All’inizio dell’età moderna fu elaborato, in analogia con quanto già esisteva, il privilegium petrinum, per il quale il papa, in determinate condizioni, può sciogliere il vincolo di matrimoni non sacramentali “in favorem fidei”. Questa prassi, sta a significare che nella chiesa cattolica l’assoluta indissolubilità del matrimonio vale solamente per i matrimoni conclusi in modo sacramentale e, anche qui, solo per i matrimoni conclusi in maniera valida e consumati. Pertanto, la tradizione della chiesa cattolica del secondo millennio, anche dopo il concilio di Trento, non è assolutamente così univoca come spesso viene presentata. L’assoluta indissolubilità del matrimonio viene praticata solamente per il matrimonio sacramentale validamente concluso e consumato. La dottrina del concilio di Trento. L’insegnamento vincolante della chiesa sulla questione dell’indissolubilità del matrimonio fu formulato soprattutto dal concilio di Trento. Il concilio dovette respingere l’attacco di principio che Lutero muoveva alla visione della chiesa cattolica (= Lutero criticava il fatto che la chiesa si attribuisse competenze nelle questioni matrimoniali); dall’altra, anche a Trento si conosceva la problematica delle clausole del vangelo di Matteo relative al divorzio e l’indulgenza che era espressa in molti testi di Padri della chiesa. La condanna di un Padre della chiesa tuttavia era del tutto esclusa. Anche coll’uso linguistico del tempo, non abbiamo qui un dogma assolutamente vincolante nel senso odierno del termine, ma una dottrina ed una prassi fondante nella rivelazione, che vincolano in senso più ampio. È evidente quindi che il concilio insegna chiaramente l’indissolubilità del matrimonio, che esso però non volle compendiare in modo sistematico tutta la tradizione ecclesiale e non intese dare una dottrina completa dell’indissolubilità del matrimonio. Sua intenzione era solamente quella di esprimere una decisione nella controversia cattolico-luterana di quel tempo. Di conseguenza, anche i nostri problemi pastorali di oggi non sono stati in tutte e per tutto decisi anticipatamente dal concilio di Trento. Per la loro soluzione il concilio ci mette in mano punti di vista essenziali e 22 Al pari di tutti gli altri sacramenti anche il matrimonio è un sacramento della fede. Perciò esso può essere contratto come sacramento solo nella fede e, tanto più, soltanto sulla base della fede può essere vissuto cristianamente. Una simile fede viva, però, nella nostra situazione può essere sempre meno presupposta come ovvia. Un primo problema concreto è questo: vi sono cattolici battezzati ma non praticanti, i c.d. cristiani d’anagrafe, che non ripongono alcun valore nel matrimonio ecclesiale e si accontentano perciò di sposarsi civilmente. Come va giudicato un matrimonio del genere? Sicuramente esso per il diritto canonico non è valido. Ma questo vuol dire che non è nulla sul piano umano e cristiano? Per rispondere a questa domanda ci si può richiamare anzitutto al fatto che, secondo il diritto canonico vigente, un matrimonio stipulato civilmente può essere retroattivamente riconosciuto come canonicamente valido, sanandolo nella “radice”, in base cioè all’esistenza della volontà di matrimonio (sanatio in radice). Difficilmente conciliabile con ciò è invece un’altra regola, per la quale, dopo la rottura di un simile matrimonio civile, ognuno dei due coniugi può contrarre un altro matrimonio in chiesa, senza incontrare difficoltà giuridiche. La spaccatura, che qui si manifesta, tra diritto e morale costituisce una grave scandalo per molti, cristiani e non cristiani. Essi richiedono giustamente che la chiesa difenda, col suo diritto, i valori umani di un matrimonio civile. Sebbene la chiesa non possa riconoscere come canonicamente valido un matrimonio del genere, essa dovrebbe comunque farsi carico che nessuno, con un atto di ingiustizia qual è la dissoluzione colpevole di una tale unione, pervenga nella chiesa ad un diritto, cioè ad un matrimonio ecclesiale-sacramentale. Ci sarebbe dunque da riflettere se, in un caso simile, non debba sussistere un “moderno” impedimento del matrimonio, analogo all’impedimento del “crimine”, per il quale nessuno può arrivare ad un nuovo matrimonio uccidendo il primo coniuge. Anche in questo ambito la chiesa potrebbe perciò apparire come istituzione a difesa della persona. Si pone poi un altro più ampio problema pastorale: che cosa accade se questo c.d. cristiano anagrafico, per considerazioni borghesi o per via di maggiore solennità, sceglie di sposarsi in chiesa senza accettarne il senso interiore? In un caso del genere si può consigliare il rinvio del matrimonio, così come avviene per il differimento del battesimo, ossia sconsigliare il matrimonio cristiano e suggerire il solo matrimonio civile? può un parroco rifiutare addirittura, in caso limite, il matrimonio ecclesiale? Il problema va a sfociare in un’adeguata determinazione del rapporto fede- sacramento, un problema di particolare urgenza nella nostra società secolarizzata. La teologia cattolica parte tradizionalmente dall’identità tra matrimonio canonicamente valido e matrimonio sacramentale. Recentemente, contro questa tesi si obietta spesso che si tratta di un automatismo, se non addirittura di una visione magica del sacramento. Questa obiezione, tuttavia, rappresenta un malinteso della dottrina cattolica dei sacramenti. Questa, per principio, non conosce alcun sacramento automatico né alcun sacramento senza fede. Per tutti i sacramenti, invece distingue tra validità oggettiva basata sull’oggettiva attuazione e la fecondità della grazia, che presuppone la disposizione soggettiva. La presenza di un’intenzione, almeno minimale, sia in chi amministra sia in chi riceve il sacramento è un elemento integrante dell’attuazione oggettiva. Poiché gli sposi si amministrano a vicenda il sacramento, essi devono avere l’INTENZIONE, come aspetto integrante del loro consenso, di contrarre il loro matrimonio “nel Signore”. Diversamente non si ha né un matrimonio canonicamente valido né un matrimonio sacramentale. 25 In che consiste, più precisamente, questa intenzione? significa: non è necessario che gli sposi abbiano l’intenzione di amministrare e ricevere, celebrando il matrimonio, un sacramento della chiesa cattolica. Basta l’intenzione di sposarsi così come fanno i cristiani. Questa volontà di matrimonio include l’intenzione di ricevere il sacramento del matrimonio, finché ciò non è espressamente negato. Ma, anche stando a questa definizione minimale, non vi è matrimonio valido e sacramentale senza almeno un minimo di fede. La conseguenza di questo dato è duplice: 1. La chiesa, con la sua predicazione, specialmente con la preparazione al matrimonio e con la predicazione in occasione del matrimonio stesso, deve fare tutto il possibile per suscitare una visione di fede del sacramento del matrimonio. Inoltre, non ultimo per amore dell’efficacia salvifica del sacramento, essa non può accontentarsi del minimo richiesto per la validità, ma deve mirare ad un approfondimento della comprensione cristiana del matrimonio. 2. Quando ci sono coniugi che, nonostante i rispettivi sforzi pastorali, non accettano espressamente le sopra nominate condizioni minimali, si deve consigliare loro il rinvio del matrimonio in chiesa, così come si fa col rinvio del battesimo. È ovvio che questo può essere sempre e solo un caso limite; normalmente, fino a dimostrazione del contrario, si deve presumere che chi desidera il matrimonio in chiesa ne abbia anche l’intenzione corrispondente. Ma se, tuttavia, si deve ricorrere a questo mezzo e gli sposi approdano così ad un matrimonio non valido per la chiesa, onorevole comunque per i suoi valori umani, non viene fatta loro alcuna ingiustizia, soprattutto in una società ampiamente secolarizzata e, per questo, sempre più tollerante. Si tratta piuttosto di un precetto di onestà. La conseguenza pastorale più importante che deriva dalla mutata situazione in cui si colloca il matrimonio cristiano nella nostra società secolarizzata sta nell’esigenza di una più intensa pastorale del matrimonio. La fedeltà e l’amore assoluti di Dio rendono possibili ed esigono il nostro amore assoluto e la nostra fedeltà assoluta. Il matrimonio vissuto cristianamente è una concretizzazione della vita cristiana che scaturisce dalla fede, la quale diventa operosa nell’amore. L’addestramento alla fede è perciò il servizio principale, il contenuto vero e proprio, il presupposto e il fine di ogni sensata pastorale matrimoniale. 26
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