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Teologia II (non frequentanti), Dispense di Teologia II

Appunti teologia non frequentanti Libri: • All'origine della pretesa cristiana (cap 8-9) • Perchè la chiesa? [(part 1, cap 1-3); (part 2, cap 1-3); (part 3, cap 1-3); (part 4, cap 1-3)]

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 29/06/2024

AriannaCiuffreda
AriannaCiuffreda 🇮🇹

4.5

(57)

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Scarica Teologia II (non frequentanti) e più Dispense in PDF di Teologia II solo su Docsity! ME QRIG NE DEI e ST 8 -  ccezie e Gesù ha dea vita Prsa: una educazie alla matà nearia p cprde PRIMO PUNTO L’intimità personale si lascia comprendere nella misura in cui si rileva, attraverso i “gesti”, come dei segni. Per cogliere e giudicare il valore di una persona attraverso i suoi gesti occorre una genialità umana, una capacità psicologica più o meno sviluppata, composta da tre fattori: • Una sensibilità naturale capacità psicologica più o meno sviluppata, composta da tre fattori: • La completezza dell’educazione capacità psicologica più o meno sviluppata, composta da tre fattori: • L’attenzione SECONDO PUNTO Bisogna domandarsi “Che cos'è la morale?”. La moralità è il rapporto tra il gesto e la concezione e del tutto in esso implicato. L’uomo, infatti, si muove sempre per dimensione universale. Eticamente tutto ciò si esprime come confronto vissuto di sé con un ideale che ci supera, quindi come umiltà che vive nello sforzo di migliorare sé e che si esprime nel desiderio sincero o nel disagio per il proprio male. Si tratta del sentimento proprio della creatura, cioè dell’essere in quanto dipendente, e si tratta della radice stessa della religiosità. Così la più drammatica scelta della nostra libertà si colloca nelle profondità del nostro essere: è scelta tra l’autosufficienza e la disponibilità. Tra quella decisiva sfumatura di chiusura, che impedirà la verifica dei fatti, di capire e diventerà irreligiosità da una parte; e dall’altra una semplicità naturale vissuta che darà i suoi frutti di consapevolezza e permetterà all’intelligenza e al cuore di spalancarsi ai fatti. TERZO PUNTO Gesù nel Vangelo nota continuamente la necessità della “genialità morale” e osserva come l’abitudine a un atteggiamento autosufficiente, non disponibile, renda impossibile percepire il valore rivelatore di ciò che compie, persino davanti ai miracoli. Nei racconti dei due grandi miracoli “La guarigione del cieco dalla nascita” e “La resurrezione di Lazzaro”, sono vividamente scolpiti quegli atteggiamenti della libertà che rappresentano l’opposto di quell’apertura disponibile che siamo chiamati a favorire per poter giudicare la plausibilità della pretesa di Gesù. Nel caso del cieco nato, i farisei, avevano avviato una specie di indagine sui fatti, di fronte alla resurrezione di Lazzaro decidono immediatamente di uccidere Gesù. Anche noi non ci sentiremmo capiti se non da qualcuno che abbia in sé qualcosa di noi. Così per affrontare la concezione morale di Gesù, e per valutare la personalità che da essa traspare, occorre una umanità, una possibilità di corrispondenza con lui. QUARTO PUNTO Grande è la responsabilità dell’educazione: quella capacità di comprendere, pur rispondente alla natura, non è spontaneità. Se la sensibilità per la nostra umanità non è costantemente sollecitata e ordinata, nessun fatto, neppure il più clamoroso, vi troverà corrispondenza. A Gesù dopo tre anni che compiva prodigi, chiedono un giorno un miracolo. Chiedono un segno che travolgesse la loro libertà. Per Dio l’umanità non è qualcosa da costringere, ma da “chiamare” nella libertà. La statu uma È nella concezione della vita che Cristo proclama, è nella immagine che egli dà della vera statura dell’uomo, è nello sguardo realistico che egli porta sull’esistente umano, è qui dove il cuore “morale” coglie il segno della presenza del Signore. IL VALORE DELLA PERSONA Ogni uomo possiede un principio originale e irriducibile, fondamento di diritti inalienabili, sorgente di valori. La persona gode di un valore e di un diritto in sé, che nessuno può attribuire o toglierle. Cclie Non è compito di Gesù risolvere i vari problemi, ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente può cercare di risolverli. Il compito di coloro che hanno scoperto Gesù Cristo, il compito della comunità cristiana, è quello di realizzare il più possibile la soluzione degli umani problemi in base al richiamo di Gesù. Non c’è nulla di più anticristiano che il concepire la vita come qualcosa di comodo e soddisfatto, come una possibile felicità contingente. Nell’abbandono e nell’adesione a Gesù Cristo fiorisce un’affezione nuova a tutto che genera esperienza di pace, l’esperienza fondamentale dell’uomo in cammino. 9 - di frte aa pretesa Il mto dell’incarnazie Tutta la vita pubblica di Gesù ci ha dimostrato una profonda capacità di dominio della natura: essa gli obbediva, come un servo obbedisce al padrone. Il potere di Gesù non era sporadico. Questa attività miracolosa Egli la compiva con tranquillità sovrana, senza bisogno di nulla: guariva a distanza, comandava alla realtà impersonale della natura. Il suo potere si rivelava come cosa normalissima in Lui per cui ogni uomo onesto non poteva che sentire l’impressione provata da un fariseo diverso, per lealtà dagli altri, Nicodemo. I suoi avversari non accettavano la posizione di Nicodemo e si impedivano di vedere semplicemente i fatti. La faziosità, infatti, è là dove un’idea diventa una posizione, anziché una obbedienza alla realtà. E così tentarono di spiegare le sue opere in modo diverso: ma non potevano non negarne l’eccezionalità. Lo chiamarono indemoniato, esaltato, blasfemo. Una realtà stica stdinaria Percorrendo la traiettoria di coloro che hanno seguito Gesù e ascoltando le risposte che Egli diede alle domande crescenti, ci siamo trovati di fronte all’affermazione di una realtà storica straordinaria: un uomo-Dio. 1. In quanto opera divina, l’incarnazione, è un mistero. Compito della nostra coscienza è capire i termini di esso, cosa che è possibile. Inoltre, è compito della nostra coscienza verificare quanto questo avvenimento non sia contraddittorio con le leggi della nostra ragione. E, infine, trarre da esso luce per una migliore comprensione dell’esistenza umana. 2. Prendere sul serio la pretesa di Cristo è profondamente razionale, poiché essa si è posta come fatto nella storia, e come fatto generatore di un “nuovo essere”. Sostenere a priori l’impossibilità di questo fatto, è irrazionale in quanto così si abolisce la categoria della possibilità, che è propria della ragione, di una ragione autentica. 3. Il fatto dell’Incarnazione è una trascendente risposta a una esigenza umana che il grande genio ha sempre saputo intuire. Il canto di Leopardi alla sua donna, possiamo sentirlo come una profezia inconsapevole di Cristo 1800 anni dopo di lui. Qualcun Altro è diventato la nostra misura. Non esiste nulla di più umanamente desiderabile dalla nostra natura: la vita della nostra natura è amore, l'affermazione di un altro come significato di sé. I tmini di quta nuova realtà 1. Che Gesù sia uomo-Dio non significa che Dio si sia “trasformato in un uomo”, ma significa che la Persona divina possiede, insieme alla natura divina, anche la natura umana concreta dell’uomo Gesù. 2. Il mistero dell’Incarnazione stabilisce il metodo che Dio ha creduto opportuno scegliere per aiutare l’uomo ad andare da Lui. Questo metodo si può riassumere così: Dio salva l’uomo attraverso l’uomo. Questo metodo risponde magnificamente: • Alla natura dell’uomo, che è carica di esigenza e di sensibilità. metodo risponde magnificamente: • Alla dignità della libertà umana, in quanto Dio la assume come metodo risponde magnificamente: • collaboratrice della sua opera. 3. Discende da ciò come si debba agire per riconoscere l’intervento di Dio nella nostra vita: attraverso la ricerca, aderire alla nostra natura e tener presente che l’esito di una nostra ricerca può esigere un cambiamento radicale, una rottura del limite stesso della nostra natura. 4. Se Gesù è venuto, permane nel tempo con la sua pretesa unica, irripetibile, e trasforma il tempo e lo spazio. Se Gesù è quello che ha detto di essere, nessun tempo e nessun luogo possono avere altro centro. L’tintiva rtza L’uomo di tutti i tempi resiste alla conseguenza del mistero che si fa carne: se questo avvenimento è vero, tutta la vita, anche sensibile, anche sociale, deve ruotare attorno ad esso. Ed è proprio questa percezione da parte dell’uomo d’essere scalzato come misura di sé che pone l’uomo in termini di rifiuto. Così dopo lo stupore di fronte all’innegabilità e alla eccezionalità delle opere di Cristo, la resistenza al contenuto supremo del suo messaggio si è subito verificata intorno a Lui. Dagli scribi e farisei di allora a quelli di tutti i tempi, seguiti dalle loro folle, gli spunti per accusare l’incredibilità della pretesa di Cristo saranno sempre gli stessi: l’intollerabilità del paradosso della Sua umanità. Queste obiezioni sono l’espressione del tentativo ultimo che la ragione compie per imporre a Dio un’immagine ideale di Lui. Il fatto dell’Incarnazione costituisce uno spartiacque, sia nel campo della storia delle religioni sia nella comprensione stessa dell’esperienza cristiana, come è storicamente rilevabile dalle numerose eresie che sono state l’occasione dell’appassionato dibattito su Cristo nei primi secoli. P cclude Contro il fatto dell’Incarnazione si scatena lungo i secoli un “dogma” tenace che, pretendendo di fissare i limiti dell’azione di Dio, ne dichiara l’impossibilità a farsi uomo. Da ciò discende il dogma di una cultura illuministica, che ha agito, così radicalmente per riverbero anche sulla “intellighenzia” cattolica: quello della divisione tra fede e realtà mondana con i suoi problemi. Questo atteggiamento costituisce lo specchio dell’infantile proibizione che l’uomo dà a Dio di intervenire nella vita dell’uomo stesso. È l’ultima latitudine cui si può spingere la pretesa idolatrica, la pretesa di attribuire a Dio ciò che alla ragione aggrada o ciò che la ragione decide. Il cristianesimo è un avvenimento che è stato annunciato nei secoli e ci raggiunge ancora oggi. Il vero problema è che l’uomo lo riconosca con amore. Il cristiano ha da compiere la funzione non solo più grande, ma anche la più tremenda della storia. È funzione tremenda perché destinata a provocare irragionevoli reazioni. Mentre è supremamente ragionevole affrontare e verificare l’ipotesi alle condizioni che essa pone, e più precisamente come un fatto accaduto nella storia e che in essa permane. Perè  iesa Uno sguardo valizzate Atteggiamento ortodosso cattolico: Non elimina e non censura l’indagine storica, ma colloca la persona nella Atteggiamento ortodosso cattolico: possibilità di utilizzare tale indagine in modo più adeguato. Le fonti storiche sono parole che documentano un tipo di esperienza del passato. Occorre possedere “oggi” lo spirito e la coscienza propri di quella esperienza che duemila anni fa ha dettato i Vangeli. Solo in questo modo si potrà captare il vero messaggio di questi testi. Per arrivare a questo occorre un incontro, un presente, occorre incontrare quell’esperienza oggi. L’obiettività della conoscenza storica, che è il valore che voleva essere affermato nell’atteggiamento razionalista, è salvata se io partecipo all’esperienza che hanno dettato quei documenti storici. E c’è una solo possibilità: che quella esperienza sia presente, abbia un luogo presente. Questa è la Chiesa, questa è l’unità dei credenti. L’unica ipotesi per una indagine veramente adeguata è la partecipazione attuale alla presenza di quello stesso fatto divino. Atteggiamento protestante: Il valore da sottolineare è che l’assoluto si può palesare direttamente alla sua Atteggiamento protestante: creatura, è l’esperienza mistica. È più potente l’impeto di ammirazione che l’uomo ha verso la donna che ama quando se la immagina o quando l’ha davanti a sé? È mille volte più potente il senso mistico di contemplazione in presenza dell’oggetto d’amore piuttosto che quando esso sia affidato al proprio sentimento in lontananza. Se il divino è un incontro esistenziale, un’esperienza integralmente umana nella sua fattispecie, la convivenza con esso potenzia una evidenza risolutiva e una convinzione razionale. L’atteggiamento protestante sente genialmente la novità del cristianesimo come ispirazione. Ma ciò che da tale atteggiamento difficilmente può nascere è quella familiarità più intima, più concreta e rispettosa, come quella dei figli con la madre, e nello stesso tempo quella razionalità ben fondata, che derivano entrambe da una appartenenza sperimentata e vissuta. Nell’idea ebraica di “corpo” il figlio è corpo del padre e della madre e l’opera di un artista fa corpo con lui e la sua personalità. Analogamente Cristo investe così profondamente l’uomo che egli è parte di Lui, fa corpo con Lui. 3 - secda premea: difficoltà nel pire il signifi dee paro cristiane Agsi di una difficoltà Come mai l’uomo di oggi è così poco facilitato a rendersi conto del significato di parole direttamente collegate all’esperienza cristiana? Occorre riandare al formarsi storico della nostra perplessità moderna a riconoscere una religiosità della vita, e quindi un proposta che tenda a impostare la vita intera sulla signoria di Dio. Tale estraneità coincide con la difficoltà a considerare il religioso determinante di tutto. Il medioevo dal punto di vta della diffie di una mtatà La cultura medioevale favoriva la formazione di una mentalità contrassegnata da una religiosità autentica, determinata da una immagine di Dio come orizzonte totalizzante di ogni umana azione, da una concezione di Dio come pertinente a tutti gli aspetti della vita, sottendente ogni esperienza umana, nessuna esclusa, e quindi come ideale unificante. Questa sorta di invadenza di Dio nella vita è l’inevitabile conseguenza di un Dio concepito in modo adeguato. L’esistenza di una diffusa mentalità religiosa dava agli individui l’educazione necessaria per possedere familiarmente un criterio, il quale, posseduto e assimilato, poteva essere applicato bene ma anche male, poteva essere origine di creatività, ma anche di atteggiamenti come le guerre o certi sistemi iniqui. Nessun tipo di formazione nell’uomo può garantire da queste contraddizioni rispetto ai giusti principi in cui si ispira. Una mentalità autenticamente religiosa è proprio ciò che nel Medioevo rendeva più facile l’adesione e la convinzione religiosa stessa: Dio era trattato e concepito per quello che veramente è, la sorgente di ogni cosa, perciò la presenza suprema in qualunque aspetto della vita. Nel medioevo era più difficile immaginarsi Dio come qualcosa accanto alla vita concreta, con le sue preoccupazioni e i suoi impegni. L’umimo dal punto di vta della darticolazie di una mtatà L’ADEGUATA POSIZIONE DI UN PROBLEMA Il significato della vita è un traguardo possibile solo per chi sia impegnato con la problematica totale della vita stessa. Se un ambito o una mentalità forniscono spunto adeguato al porsi di un problema, questo potrà apparire con il concorso delle sue componenti essenziali e avviarsi più confortevolmente a essere risolto (come nel medioevo). Se, al contrario, una mentalità e un ambito non forniscono gli elementi perché si avvii la dinamica di un dato problema in modo adeguato, bensì in modo fazioso o unilaterale, tale problema si affaccerà male allo sguardo e il soggetto umano sarà più in difficoltà al riguardo. L’AVVIO DI UN PROCESSO DI DISARTICOLAZIONE Alle fonti della nostra difficoltà moderna a comprendere il linguaggio cristiano sta questo problema. Possiamo collocare l’inizio di un processo di disarticolazione di quella mentalità religiosa unitaria, capace di porre adeguatamente il problema religioso, nel corso del secolo XIV. Ciò che importa è riconoscere che l’origine di quell’affievolimento di una mentalità organica per quanto riguarda il problema religioso pesca in una possibilità permanente dell’animo umano, in una possibilità triste di mancanza di impegno autentico, di interesse e di curiosità al reale totale. Si dovrebbe dire che in un clima di maggiore ricchezza, in un otium più fruibile, l’istintività umana si fa strada, e via via si ideologizza fino a favorire un’aria di disimpegno con la globalità e l’incarnazione dei valori ideali che pur teoricamente si trattengono. Un tale disimpegno contribuiva tanto più a disconnettere il clima sociale in quanto rendeva più inquietanti i contrasti nella vita della comunità civile. All’interno di questa somma di circostanze sociali si delinea allora il profilo di una unità in via di disgregazione, cui l’Umanesimo darà un supporto culturale. L’UOMO FRAMMENTATO IN UNA MOLTEPLICITÀ DI IDEALI Se non sarà Dio il riferimento di tutta la sua vita, senza esclusione di nulla, qualcosa di particolare occuperà il posto di Dio, che non sarà mai vuoto nel cuore dell’uomo. L’ideale unico si frammenta in una molteplicità di ideali estetici, politici, culturali… ognuno dei quali cattura l’energia umana con una sorta di dispotismo. Con l’Umanesimo: l’umanista non è contro Dio, ma l’interesse per cui vale la pena vivere non ha più a che fare con Dio, poiché non è più da Dio che sono unificati desideri e giudizi. È l’astrazione di Dio dall’esistente. Resta dominante nell’Umanesimo, ed è la formula che meglio definisce il valore che viene attribuito alla vita, il gusto della gloria, la ricerca della Fama e della Fortuna: l’interesse fondamentale del vivere come interesse di una “riuscita”. L’ESALTAZIONE DELL’UOMO NELLA TRADIZIONE CRISTIANA La valorizzazione della persona che la tradizione della Chiesa propone è indicata nella idea cattolica di merito, quell’idea per cui basta un briciolo di tempo vissuto con intensità nei rapporti ultimi che lo determinano, coscienza del destino e affezione al mondo nelle circostanze in cui Dio chiama, in proporzione a ciò un uomo vale. In proporzione a ciò l’uomo “va in Paradiso”. Una tale idea pone l’utilità dell’uomo nella coscienza che genera l’azione e basta, vale a dire nel riconoscimento umano della verità e nell’amore a essa. La tradizione cristiana spazza via l’idea di uomo inutile, di tempo senza senso, di azione banale. Ogni azione dell'uomo in questa prospettiva è per il mondo intero, assume una dignità cosmica. In quest’ottica l’uomo è libero dalle circostanze, non è schiavo del caso per quanto riguarda il suo valore, può essere grande, può camminare verso la perfezione anche nelle peggiori condizioni o in quelle più umili. La reale differenza sta nell’aver separato il vero destino dalla vita. Dopo che insensibilmente questa rescissione dei nessi si è consumata, ogni elemento particolare può subentrare a quel riferimento ideale la cui integralità si è sbiadita e allontanata. Il Rincimto dal punto di vta di una natu inta ce fte ultima dell’a uma UNA SPERANZA IRRAGIONEVOLE È stato introdotto nella realtà sociale storica un ottimismo ad oltranza sulle energie dell’uomo, che caratterizzerà tutta l’epoca moderna e contemporanea. Per questa speranza poggiata interamente sulla misura e sull’operatività umana, il senso della vita si gioca nella valorizzazione di un particolare, nella esaltazione parziale di ciò in cui uno eccelle. Il risultato è che l’orizzonte del giudizio umano è occupato da un particolare mostruosamente ingrandito: l’equilibrio unitario della persona tende ad essere compromesso. “Riuscire” significa incidere sulla vita sociale, realizzare qualcosa anche per l’umanità. È il criterio dell’efficienza sociale, che esclude come valore chi non è efficiente. Tale disuguaglianza non differisce molto dalla situazione della società romana di duemila anni prima, quando la personalità dell’uomo si considerava compiuta solo nel caso del civus romanus, che mutuava perciò, dall’appartenenza a Roma il suo valore. Come è diversa la visione proposta dalla tradizione della Chiesa (concetto di merito) dove l’uguaglianza tra gli uomini dipende dal fatto che il valore del singolo deriva totalmente dalla sua libertà. In questo senso si sostituisce, all’irrazionalità assoluta dell’esaltazione di una forza che per caso si ha, l’esaltazione di un istante che può essere vissuto dall’io nella libertà più piena, nella consapevolezza del suo essere “fatto ad immagine di Dio” (cioè del suo destino), in qualunque situazione. LA RICERCA DI UNA SORGENTE DELL’ENERGIA UMANA Di fronte a un cielo in cui Dio era divenuto una nuvola lontanissima, sembrò evidentemente più realistico guardare alla terra come sorgente di quell’energia capace di fare grande l’uomo. È nell’epoca rinascimentale che questo sguardo trova il suo fondamento sistematico, la sua traduzione culturale nell’individuazione della sua fonte di energia: la natura, ben presto panteisticamente intesa. La natura non è più segno di Dio, ma comincia a supplirne la presenza. La natura, così, non è nient’altro che l’idea panteistica di Dio resasi immanente alla mentalità rinascimentale. L’esplicitazione della istintività diviene un ideale etico, legittimato dalla sintonia dell’istinto con l’ideale naturale. Qui viene identificata la morale della spontaneità e si diffonde nella mentalità comune la difficoltà a capacitarsi che quanto è dettato dall’impulso possa anche essere un male per l’uomo. In tale contesto un Dio che si spinga al dettaglio di dire: “Questo non si può fare” viene percepito come un impedimento alla libera espansione dell’uomo. Questa è la prima documentazione di un passo che in breve tempo diverrà strada verso un’ostilità al Dio cristiano proposto dalla tradizione. LA DIMENTICANZA DI UN FATTORE DELLA REALTÀ Tale ostilità è frutto di una persistente dimenticanza, di una riduzione del reale. Esiste una legge ideale scritta nel cuore dell’uomo, ma occorre anche riconoscere, con Paolo, l’esistenza di un’altra legge che contraddice la prima. Così si delinea la fisionomia di un uomo visto nella sua completezza. Per questo la Chiesa ha sempre ribadito che l’uomo senza la grazia non può a lungo resistere senza commettere peccato mortale. Molto realisticamente, l’uomo, senza l’aiuto gratuito di Cristo, non riesce a vivere a lungo senza farsi del male, senza andare gravemente contro se stesso. Il Rinascimento tende a censurare questa evidenza dell’esperienza umana, ambigua e contraddittoria all’origine, e tale censura (rappresentata nella frase di Rabelais) ha formato la mentalità dell’uomo moderno. L'uomo è uno, ma diviso; si tratta di ciò che la tradizione cristiana chiama “peccato originale”. La difficoltà di un uo cpito tte:  ziasmo UNA RAGIONE CHE NON AMMETTE INTERFERENZA Emerge, nell’epoca del razionalismo, un concetto ben preciso di ragione e di coscienza, che non ammette né interferenze né integrazioni dal di fuori. Se la coscienza è il luogo e il soggetto originario della verità, se l’uomo è “misura di tutte le cose”, e se la ragione è l’unico strumento della coscienza, non si può uscire dalla ragione. Tutto si racchiude entro i limiti della ragione, vero dio del mondo, manipolatore e creatore. Il vero signore della natura non è lontano dall’uomo: è la sua ragione. Se Dio c’è, per la mentalità razionalista, l’esauriente modalità della sua azione nel mondo sarebbe la ragione dell’uomo. Ancora una volta, non è l’abolizione necessaria di Dio, ma è l’assoluta abolizione di ogni possibilità di liberazione del presente tramite un suo intervento eccedente l’orizzonte della creatività razionale. Il nso c Gù Crto La Chiesa si pone nella storia come rapporto con Cristo vivo; ogni altra riflessione, ogni altra considerazione consegue a questo originario atteggiamento. Dopo il primo attimo di smarrimento, cominciarono a riunirsi, incominciarono ad aggregarsi. L’inizio della Chiesa è proprio questo insieme di discepoli, questo gruppo, che dopo la morte di Cristo sta insieme ugualmente. Perché? Perché Cristo si rende presente in mezzo a loro. Con la loro esistenza e con la loro testimonianza quei primi discepoli, quel gruppo, ci trasmette che Dio non è sceso sulla terra per un istante. Dio è venuto nel mondo per rimanere nel mondo: Cristo è l’Emmanuel, il Dio con noi. C’è una continuità fisiologica tra Cristo e questo primo nucleo della Chiesa, ed è così che questo gruppetto di persone inizia il cammino nel mondo: come continuità della vita dell’uomo Cristo è presente e attivo con loro. L’assiduità e la concordia nella preghiera si radicavano nella fiducia e nella esperienza del Maestro presente. Non è il ritratto di un gruppo che ha saputo abilmente riorganizzarsi dopo i colpi di una avversa fortuna, ma di un gruppo che non si è mai sciolto, perché il motivo della loro unione non li ha mai abbandonati. Nulla è cambiato, per un verso, da quando camminava per le strade di Galilea operando miracoli e rimettendo i peccati, scandalizzando i dottori della Legge: Egli è operante come prima. Sorge però un problema: quello della natura della sua continuità nella storia. Sorge in tal senso il problema della Chiesa, che si lega a quello stesso di Cristo. Il problema della Chiesa, prima di essere affrontato criticamente per valutarne la proposta, va visto nella sua radice di continuità di Cristo, così come si è posto ai primi che lo hanno vissuto, così come Gesù stesso lo ha posto dopo che tutta la sua missione in questo mondo era stato di rendere presente il padre attraverso di sé. Potremmo dire che il contenuto della autocoscienza della Chiesa delle origini sta nel fatto che essa è la continuità di Cristo nella storia. Perciò ogni dettaglio analitico, ogni passo per addentrarci in questo problema, dovrà portarci alla verifica di questa radice. 2 - i tre fai costitivi Una realtà cunitaria sociolocte idtificabe Il fatto cristiano si pone nella storia, cioè la Chiesa si presenta all’osservatore, come una comunità. Il primo fattore con cui la Chiesa ha dimostrato di porsi come realtà è stato quello di essere un gruppo individuabile, fenomeno sociologicamente identificabile, un insieme di persone che si sono legate tra di loro. Il movimento di Dio nella storia richiama la dimensione comunitaria come fondamentale. Dunque quel “noi” visibile è stata la prima caratteristica della fisionomia della Chiesa che da un osservatore poteva essere fotografata. ANTICA E NUOVA CONSAPEVOLEZZA: LA SCELTA DI DIO Il primo scandalo che l’azione di Dio provoca nell’uomo è la preferenza, cioè la scelta operata da Dio di un particolare in tutta la sua creazione come specialmente posto al suo servizio. L’idea di appartenenza, di proprietà di Dio, che definiva l’autocoscienza del popolo ebraico, si ritrova come contenuto della coscienza di quel gruppetto di persone, che inizialmente non dava l’idea di un popolo. In Paolo e negli altri scrittori neotestamentari, emerge la certezza di costituire il compimento del fenomeno del popolo ebraico, di prolungarne la realtà avverandola in modo definitivo, di realizzare il vero popolo di Jahvé. È difficile per noi immaginare lo sconvolgimento mentale che per un ebreo come Giacomo è stato annunciare che il popolo di Dio si realizzasse tra i pagani. E per gli ebrei, la repulsione di sentire un altro ebreo che diceva che Dio si era preso cura di far sorgere il popolo suo tra i pagani, un popolo cioè come quello di Israele. Tutto questo ci aiuta a evidenziare il fatto che in nessuna epoca della storia come in questa a buon diritto si può parlare di rivoluzione culturale. L’espressione si addice perfettamente al particolare momento della storia umana di cui ci stiamo occupando. Noi viviamo ormai le conseguenze di quella rivoluzione, ma non prendiamo mai coscienza adeguata delle sue origini. La rivoluzione culturale più profonda è che quel gruppo che si andava ingrandendo, affermava di non essersi formato da una origine etnica o da una unità sociologica stabilitasi per avvenimenti storici. Per i cristiani, dal primissimo istante in cui è registrata la loro esistenza, è totalmente evacuato il carattere etnico della preferenza di Dio. Questo nuovo popolo è formato da coloro che Dio mette insieme nella accettazione della venuta del Suo Figlio. Si supera così qualunque tipo di qualificazione nativa o “carnale” che può distanziare gli esseri umani. Il fenomeno cristiano subito si rifà a quella idea di “scelta di Dio” che aveva forgiato Israele, e a sua volta ne è formato, ma senza alcun confine carnale, perché la scelta di Dio coincide con l’adesione alla fede in Cristo. IL VALORE CULTURALE DI UN CONCETTO NUOVO DI VERITÀ Il fenomeno nuovo che si andava verificando aveva una sorprendente corrispondenza con le sue radici: si tratta dell’immagine che la tradizione ebraico-semita aveva della verità. Nella tradizione biblica la definizione e l’allusione alla verità, più frequentemente usata, si ritrova nella metafora della “roccia” o la “rupe”. L’uso di questa metafora rivela come il metodo supremo per la conoscenza della verità, nella mentalità semitica, non sia tanto il vedere con i propri occhi, ma il riferirsi a qualcosa di sicuro come stabilità. La stabilità cui ci si riferisce non è erosa dal tempo, la durata documenta la verità. L’effimero è menzogna, la verità è permanenza. Qual è il metodo che emerge da questa metafora? San Tommaso diceva, che grande intuito psicologico, che l’uomo è molto più persuaso da ciò che ascolta che non da ciò che vede. Nell’aderire a qualcuno che ascolta l’uomo deve poggiare la totalità della sua persona sul “tu” di un altro. E mentre è molto facile per ognuno mettere in dubbio se stessi, è molto più difficile gettare l’ombra dei propri “se” e dei propri “ma” su una presenza stimata e amata. In un rapporto tra persona e persona si mette in gioco la totalità dell’io, allora la conoscenza e l’amore formano una unità e il gesto di adesione al vero interessa la totalità dei fattori che costituiscono la vita. Non c’è nulla di più fragile che appoggiarsi solo a se stessi nella ricerca della verità. L’indicazione metodologica che definitivamente emerge dall’immagine della roccia come immagine di verità, è la solidità del testimone. La figura del testimone autentico coinvolge l’adesione di tutta la tua persona, rispetto al vedere con gli occhi che ne coinvolge una parte. La testimonianza è una unità vivente, una unità esistenziale. Il Dio vivente è testimoniato da una realtà vivente, il Dio fatto uomo nel mondo è testimoniato. Così la comunità cristiana, al suo nascere, intendeva se stessa come il luogo in cui la testimonianza si poneva, il luogo in cui la solidità della rupe biblica appariva spazio alla ricostruzione dell’umano. IL TERMINE USATO: ECCLESIA DEI Quel gruppo che si raccoglieva dapprima sotto il portico di Salomone, e che è andato poi via via allargandosi e moltiplicandosi, in ambienti ormai ellenizzati, chiamava la propria realtà che si radunava “ekklesia”. Il termine greco significa riunione di persone, era una parola che indicava realtà normali della vita sociale. La definizione dell’assemblea cristiana, come l’idea della qahal Jahvé, è determinata e completata con il genitivo “Dei”: ecclesia Dei, la comunità di Dio. Ecclesia Dei significa raccolti da Dio. Il Signore Dio, si propone a tutti attraverso la scelta di una realtà umana particolare. Non c’è nulla di più contraddittorio con il razionalismo in cui siamo formati e con l’egualitarismo o il democratismo che ne è conseguenza. Non esiste niente che affermi o insegni all’uomo l’assolutezza di Dio come il fatto che Egli sviluppi nel mondo la sua opera attraverso coloro che Egli sceglie attraverso una elezione: Dio non è legato a nulla e proprio nel fenomeno di questa preferenza elettiva si manifesta. È il metodo al quale Dio è sempre stato fedele. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti”… il problema degli uomini è quello di resistere alla sua logica. Così all’idea ebraica di qahal Jahvé succede l’idea finale di ecclesia Dei. Ciò che costituisce la comunità cristiana come Chiesa non è il fatto puro e semplice di stare insieme, ma il fatto di venire raccolti da Dio, un Dio che raccoglie e dà a ciascuno i doni e le responsabilità che vuole. È Dio che agisce nella Chiesa, con la Chiesa. LA CHIESA E LE “CHIESE” L’espressione Ecclesia Dei rappresenta il popolo di Dio nella sua totalità, proprio per l’inevitabilità di doversi riferire al gesto di Dio, alla sua scelta libera e totale. In tal senso, come afferma De Lubac, l’ecclesia è convocatio prima di essere congregatio. Ogni comunità, per quanto piccola possa essere, traendo il suo valore dalla Chiesa totale, la rappresenta tutta, incarna il Mistero di quella chiamata che era così presente nella coscienza dei primi cristiani. Il piccolo gruppo ha il significato della Chiesa tutta. Il singolo gruppo, è segno del Mistero in funzione del quale l’apostolo vive. Il valore che viene dato dai documenti della prima cristianità alle singole e diverse esperienze di comunità, in quanto unite dagli apostoli, è il valore stesso della Chiesa totale, proprio in quanto esprimono la sua realtà profonda e unitaria, che il Signore fa emergere in esperienze diverse. È spesso ben lontana dai cristiani la coscienza di questa sorgente autentica del loro valore. Il modo per imparare che cosa sia la Chiesa totale è andare fino in fondo all’esperienza ecclesiale che uno ha incontrato, purché tale esperienza abbia i caratteri della vera ecclesialità. La riflessione sul termine Ecclesia ci ha aiutati a comprendere il tipo di consapevolezza che i primi cristiani avevano del valore della loro comunità, che derivava totalmente dalla partecipazione all’unica Chiesa retta dagli Apostoli. La cunità invtita da una fza dall’alto I primi cristiani hanno espresso la loro ferma persuasione che la realtà di Cristo vivente afferrava la loro vita liberandola e rendendola il mistero di una compagine unitaria. Dal punto di vista della coscienza che di sé aveva la gente che si riuniva, l’idea dominante era che la loro vita era stata mossa e trasformata da una azione superna che veniva indicata come “dono dello Spirito”. L’essenza di questa comunità viene chiarita nella sua origine in quanto investita da una “Forza dall’alto”. LA CONSAPEVOLEZZA DI UN FATTO CHE HA IL POTERE DI CAMBIARE LE PERSONALITÀ È giusto affermare che il contenuto dell’autocoscienza nuova di quella gente, che si sentiva determinata da un’energia proveniente dall’alto, coincideva con la forma di una nuova personalità. In loro è scattata una personalità diversa, intimamente nel profondo. Da che cosa è plasmata una personalità? Dalla coscienza di sé e dall’impeto creativo, dalla fecondità. E quei primi che ci hanno preceduto proprio questo ci testimoniano: si sentivano personalità differenti nel mondo, nella società, differenti come concezione di sé e come forza comunicativa. Così l’uomo investito da dono dello Spirito si verifica un mutamento di volto, espressione di una ontologia nuova. UN INIZIO DI CAMBIAMENTO SPERIMENTABILE Chi avrà investito tutta l’esistenza nel seguire Lui riceverà il centuplo quaggiù e la vita eterna. Un cristiano adulto, ragionevole nella sua adesione, è chiamato a intuire l’esistenzialità di questa frase, a sperimentarne l’inizio della portata. Se la sfida di questa frase del Vangelo non viene recepita è giustificato il dubbio che si stia parlando di cristianesimo o di fede in modo astratto. Ed è proprio la realtà quotidiana a trasformarsi, è il tempo presente quello in cui si riceve “di più”, sono i normali connotati dell’esistenza umana a essere mutati: l’amore tra uomo e donna, l’amicizia tra gli uomini, la tensione della ricerca, il tempo dello studio, del lavoro. Senza passare attraverso questa esperienza risulta molto difficile acquistare una convinzione capace di costruttività. Il dono dello Spirito conferisce ai cristiani una nuova consistenza, in funzione dello scopo immediato di quella chiamata, l’edificazione della comunità. LA CAPACITÀ DI PRONUNCIARSI DI FRONTE AL MONDO, FORZA DI TESTIMONIANZA E DI MISSIONE Il dono dello Spirito comunica a queste nuove personalità un impeto, che rende la loro capacità comunicativa feconda, comunicativa delle novità che nel mondo Gesù ha portato. Così, sia l’individuo, sia la comunità si sentono in grado di pronunciarsi di fronte al mondo. Nel linguaggio religioso l’espressione più adeguata di questa manifestazione è racchiusa nella parola “profezia”. Profeta è colui che annuncia il senso del mondo e il valore della vita. La forza della profezia è la forza di una conoscenza del reale che non è dell’uomo, che viene dall’alto. Questa capacità di adesione e confessione di una nuova realtà in atto avviene, comincia ad avvenire nel giorno della Pentecoste. IL DOCUMENTARSI DELLA ENERGIA CON CUI CRISTO ATTESTA IL SUO DOMINIO SULLA STORIA, IL MIRACOLO Nella comunità cristiana primitiva, la potenza divina era spesso segnalata da una esperienza sensibile. Spesso questo Spirito, che veniva dato nel battesimo, provocava atteggiamenti prodigiosi: gente che parlava lingue sconosciute, che comprendevano l’incomprensibile. Ma un miracolo più grande inizia e cresce nei secoli, col tempo: quale prodigio più eccezionale e grandioso di tutta la gente che sarebbe venuta dopo e che avrebbe perpetuato il riconoscimento di Gesù nel fatto della sua Chiesa. È il prodigio per cui lo Spirito di Cristo vince la storia, è quell’evento affascinante per cui la potenza dello Spirito attraversa la vicenda umana e Cristo si rende presente nella fragilità, nella trepidazione, nella timidità e nella confusione delle nostre persone unite. Invocare lo Spirito significa chiedere quella luce e quella forza capaci di renderci sperimentabile il Mistero la cui natura non vediamo. È l’umile e grato riconoscimento del dono dello Spirito e della Forza dall’alto, e la loro invocazione, l’albore della vittoria di Cristo, il segno del continuo miracolo. Un nuovo tipo di vita Non è il fenomeno comunitario come tale a distinguere il fatto cristiano, bensì il fenomeno comunitario assunto e vissuto in un determinato modo: koinonia in greco, communio in latino. NEWMAN La sua crisi fu lunga e terribile, la sua indagine accurata, e uno dei temi più assillanti consisteva proprio nell’accusa che l’anglicanesimo portava alla chiesa cattolica di avere alterato le origini dell’esperienza cristiana. Ci propone due osservazioni: 1. Riguarda il criterio della unità del nostro essere che tutta si gioca nella ricerca e nel riconoscimento del vero. 2. Riguarda quel criterio di sviluppo organico della Chiesa come realtà vivente, che resta il grande punto di vista interpretativo di fondo in ogni aspetto della Chiesa in ogni epoca. E proprio questa unità e questo carattere abbiamo cercato di delineare, perché siano essi ad interrogarci ancor oggi e a spingerci a quel confronto personale dal quale la nostra vita non può risultare più ricca e piena, cioè più vera: più umana. 3 - il seg effice del divi nea stia La Chiesa si è posta fin dall’inizio come un fatto sociale, come una realtà formulata da uomini. Ma la comunità primitiva ha sempre affermato nello stesso tempo la persuasione di essere “ontologica”, cioè nel suo valore, nella profondità del suo essere, eccedente la realtà umana delle sue componenti. Si presentava come comunità della salvezza. Questa espressione, “comunità della salvezza”, sintetizza il tipo di coscienza dei cristiani dei primi tempi: affermando la Chiesa come comunità dove l’uomo si salva, ne affermavano il valore come assolutamente trascendente la somma dei fattori che la componevano, e la conclamavano come luogo dove viene raggiunto dal suo destino e dove questo stesso destino lo rende partecipe di sé. Allora le espressioni “popolo di Dio” e “corpo mistico di Cristo”, segnano il contenuto della coscienza cristiana, di quella primitiva e di quella odierna, come dominato dal prolungarsi di Cristo nella storia, dalla permanenza misteriosa nel tempo e nello spazio del Signore. La Chiesa è il metodo con cui Cristo si comunica nel tempo e nello spazio analogamente al fatto che Cristo è il metodo con cui Dio ha ritenuto opportuno comunicarsi agli uomini per determinare la modalità di salvezza. La Chiesa si pone di fronte al mondo come realtà sociale carica di divino, vale a dire, si pone come realtà umana e realtà divina. Qui è tutto il problema: un fenomeno umano che pretende di portare in sé il divino. Così, tramite la presenza della Chiesa nella storia umana, si ripropone in tutto il suo scandalo il problema che Cristo ha sollevato. PARTE 3 - COME LA CHIESA HA DEFINITO SÉ STESSA 1 - il fae uma La pretesa più specifica della Chiesa non è essere veicolo del divino, ma di esserlo attraverso l’umano. È questa la stessa pretesa di Cristo: scandalo suscitato presso i capi religiosi e le persone evolute del suo tempo. Obiezione insormontabile: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria?”. Gesù coinvolgeva Dio con la sua persona arrivando a identificarsi con Lui. È questo lo scandalo che la Chiesa ripropone nella sua sostanza e nella sua esistenza nella storia, che ripropone oggi e sempre. Avso l’umo Paolo in 1 Ts 2,12 descrive con precisione il fenomeno di una parola divina che si comunica attraverso una voce d’uomo, parola di Dio data da un uomo e ricevuta per quello che essa è veramente, parola di Dio vivente, attiva e creativa nell’esistenza degli uomini. Paolo era perfettamente consapevole di una sproporzione connaturata al fenomeno stesso della Chiesa, portatrice del suo messaggio attraverso l’uomo, e esposta a tutte le declinazioni delle miserie dell’umanità. Troviamo qui delineata una coscienza ben chiara della propria incapacità, della propria umanità piena di limiti, sproporzionata a ciò di cui pure era strumento. Appare anche la tensione esistenziale legata al fatto di vivere un paradosso: la contemporaneità di una debolezza e di una forza; un paradosso i cui due elementi contrastanti sono ineliminabili. Il primi che hanno diffuso il cristianesimo nel mondo avevano chiara la coscienza sia che il divino risplendeva nel mondo  tramite quello che dicevano e facevano sia che le loro parole erano sprovvedute, i loro gesti fragili, le loro personalità inadeguate, la loro condizione umana meschina. E ciò non li rendeva acquiescenti e rassegnati, ma fieramente in corsa, costantemente protesi al dono della salvezza. Non è indifferente la sensazione di banalità che l’uomo può provare di fronte a una simile prassi; l’uomo può rivelare una sottile resistenza di fronte a quel metodo misterioso, che è tutto di Dio, di voler passare attraverso l’umano. Non è facile realizzare esistenzialmente che il problema della Chiesa è proprio questo: Dio vuole passare attraverso l’umanità di coloro che ha afferrato nel Battesimo. Se si riconosce che la Chiesa si definisce così, nessuna obiezione al cristianesimo potrà in linea logica prendere a spunto o a pretesto la sproporzione, l’inadeguatezza, l’errore della realtà umana che forma la Chiesa. Così come, al contrario, l’uomo cristiano, se è tale, non potrà usare come alibi i suoi limiti, anche se già a priori è definito che dei limiti ci saranno. Impcazii INEVITABILITÀ DEI PARTICOLARI TEMPERAMENTI E MENTALITÀ Il cristiano diventa e rimane tale, cioè strumento del divino, mantenendo il proprio temperamento particolare. Ciò che conta è il valore e, poiché Dio usa l’uomo come “strumento”, non si troverà mai il valore allo stato puro: la comunicazione di Dio è incarnata nel temperamento dell’uomo. Esso costituisce una “condizione” che Dio accetta e trasforma in “strumento” del suo disegno di salvezza. Occorre profondamente desiderare il vero per poter superare lo scandalo dello strumento che lo comunica. Un cercatore d’oro non si sarebbe mai fermato davanti al fango del letto del fiume in cui sperava di poter trovare le pepite. Osservazioni analoghe a quelle che abbiamo accennato per ciò che riguarda il temperamento potrebbero essere fatte per la mentalità. La mentalità di un uomo è il frutto sia del suo temperamento sia della sua formazione sia delle particolari vicende che hanno inciso nella sua esistenza. La mentalità è una capacità di coscienza. L’unità della Chiesa, la sua forza propulsiva verso tutti gli uomini, la sua interna necessità di essere il più efficace possibile nel portare un messaggio unico e irripetibile all’umanità sono servite da temperamenti diversi, da progetti opposti, da impronte culturali capaci di sottolineare differenti prospettive di azione. Tutto questo può essere né obiezione né motivo di adesione al messaggio: non ci si può attardare né sul fascino delle grandi personalità, né sui loro limiti. Si aderisce o si rifiuta qualcosa per il suo contenuto, per la sua verità risolutrice del problema così come si pone. Se la Chiesa si definisce come il divino che si comunica attraverso l’umano, tale aspetto umano nella singola persona si esprimerà attraverso il temperamento e la mentalità della persona stessa. ATTRAVERSO LA LIBERTÀ Se, per definizione, il messaggio divino che la Chiesa ci propone dovrà passare attraverso l’umano, attraverso il limite, qualcosa di finito, è assodato che mai la libertà umana realizzerà integralmente l’ideale; sempre il veicolo umano nella Chiesa si presenterà inadeguato a ciò che pretende di portare al mondo. La libertà delle persone è ciò attraverso cui definitivamente passa il comunicarsi del divino. Analisi di una obiezione Ogni giudizio sulla Chiesa indotto dal comportamento degli uomini viene emesso a partire da errate premesse. Se nella definizione di Chiesa entra l’umano come veicolo scelto dal divino per manifestarsi, in tale definizione potenzialmente entrano anche quei diritti. Si intende dire che nefandezze e angustie non costituiscono materiale di giudizio sulla verità della Chiesa. Lo svelamento della ricerca del vero Coloro che sfuggono la Chiesa per l’ipocrisia, l’imperfezione delle persone religiose, si scordano che, se la Chiesa fosse perfetta nel senso da loro reclamato, non ci sarebbe in essa posto per loro. Ancora oggi essere tesi alla ricerca dei difetti di chi annuncia il cristianesimo non è altro che un alibi per non aderire mai, per non dover mai cambiare sé stessi. San Francesco d’Assisi non si è scandalizzato per le divisioni e le violenze che scuotevano la Chiesa dei suoi tempi, per le guerre fratricide che opponevano cristiani a cristiani, ma, toccato da Dio, dopo una frivola giovinezza, si getta in una lotta che non è “contro”, ma “per” qualcuno. Non si scandalizza Caterina da Siena della situazione miserevole in cui la Chiesa era ripiombata, pur con la linfa vitale apportata dagli ordini mendicanti. L’impegno personale, che non esclude l’atteggiamento critico, ma ad esso non si ferma, è un problema di moralità elementare. Il fatto cristiano nella sua paradossale realtà e potenza fa emergere quale sia il vero desiderio del cuore. Se qualcuno aspira al contenuto giusto, non si arresta alla modalità, magari ignobile con cui esso si presenta, ma si lascia guidare dall’attrattiva del contenuto giusto. È la posizione più intensamente vera che si possa concepire dal punto di vista umano: un amore chiaro al proprio ideale nella coscienza della sproporzione. La Chiesa chiama tale atteggiamento umiltà. Avso l’bite e  mto stico cultule L’uomo è condizionato dal momento storico-culturale in cui si snoda la sua vicenda terrena e dall’ambiente in cui è inscritto. Il cristianesimo non è nel mondo per svuotare la dinamica dell’evoluzione storica, ma per comunicare quei valori salvati i quali ogni evoluzione ha gli strumenti per diventare più utile come espressione dell’uomo, non salvati i quali qualunque evoluzione torna a dispetto della dignità della vita. Il valore portato dal cristianesimo è qualcosa che riguarda l’uomo come uomo in qualunque circostanza, e anzi, quando sa esserne cosciente, il cristiano è capace di affermare l’umano anche nelle peggiori circostanze. La circostanza di fronte ai valori si mobilita nel tempo e diventa lavoro trasformatore. Così la struttura della Chiesa, come strumento umano, mostra sempre sensibilmente il tipo mentale e culturale dell’epoca in cui opera. La fede incide e determina la personalità del soggetto che si appresta all’azione, il quale userà i mezzi che le sue doti personali e i condizionamenti storici gli suggeriscono. E se consapevolmente vivrà il contesto universale della Chiesa, lo farà con un equilibrio, una prudenza e una pazienza che altrimenti non avrebbe. La Chiesa non ha il compito di sostituire il lavoro dell’uomo. L’uomo cristiano di una certa epoca della storia avrà mezzi che altri non hanno avuto, e di altri sarà privato: questo limite è nel cuore stesso della modalità dell’annuncio cristiano. Il Dio fatto uomo si è comunicato “dentro” una realtà umana, dentro una limitazione storico-culturale precisa. Il divino si incarna, usa l’umano come suo strumento, non ne vanifica i fattori contingenti, ma usa anche quelli come strumenti di salvezza, come strumenti cioè del riproporsi del rapporto vero tra l’uomo e il suo destino. 2 - a miie dea iesa verso l’uomo terre La funzionalità della Chiesa sulla scena del mondo è già implicita nella sua consapevolezza di essere prolungamento di Cristo: è cioè la stessa funzionalità di Gesù. La funzione di Gesù nella storia è l’educazione al senso religioso dell’uomo e dell’umanità, dove per religiosità, o senso religioso, intendiamo la posizione esatta come coscienza e tentativamente come atteggiamento pratico dell’uomo di fronte al suo destino. L’ultima parola sull’uo e la stia Quella parola definitiva può essere ricondotta a due espressioni: “persona”, o anima, per usare un termine evangelico, e “regno di Dio”. La prima espressione sottolinea l‘irriducibilità dell’“io” a qualunque schema o categoria: la persona è sorgente di valori, e non è soggetta ad alcuna dipendenza se non quella originale, costituita da Dio. E l’espressione “Regno di Dio” coincide con l’affermazione di un significato. La Chiesa, come prolungamento di Cristo, pretende di dare all’uomo questa parola: la persona, l’uomo immortale, intangibile, irriducibile, di cui nessuno può disporre a suo talento; in funzione del regno di Dio, l’ordine segreto delle cose, che il tempo può contribuire a oscurare, ma che conduce verso la sua chiarezza definitiva. Una sollecitazie ctinua La Chiesa ha una sollecita preoccupazione pedagogica perché l’uomo abbia ad avere coscienza di quel che Dio è, una preoccupazione che si esprime in richiami continui per condurre l’uomo  a vivere questa coscienza di dipendenza totale dal Mistero che ci parla. Il cunicarsi della vità: cunità, tdizie, mto L’uomo non raggiunge la conoscenza di qualcosa se non ne comprende il significato, se non coglie la capacità di rapporto con il resto. La condizione per conoscere qualunque realtà è di avere chiarezza e certezza sul significato dell’esistenza stessa. Questa è la verità: una definizione dei significati ultimi della nostra esistenza, di quel nostro vivere così semplice e così complesso. Questo è il primo livello attraverso cui il divino nella Chiesa si comunica: come comunicazione di verità. Dio tramite la Chiesa, aiuta l’uomo a raggiungere una obiettiva chiarezza e sicurezza nel percepire i significati ultimi della propria esistenza. La Chiesa si propone come capace di rendere chiaro e quotidiano ciò che la mente umana al suo vertice raggiunge solo con molto lavoro, molto tempo e non senza errori. La comunicazione del divino come comunicazione di verità non risponde ad una istanza astrattamente filosofica, ma ha a che fare con il modo di concepire e di sentire la propria vita, il proprio nesso con la realtà. Quanto si è detto per l’amore potrebbe valere per un altro anelito supremo dell’uomo, la conoscenza, che tanto più potentemente è un’unità quanto più restano distinti soggetto e oggetto. Perciò il mistero della Trinità ha una “voce” che si fa sentire come chiarificante all’interno della nostra esperienza, appartiene profondamente al significato ultimo dell’esistenza o meglio è quest’ultimo che a Esso appartiene. Il secondo mistero della fede cristiana costituisce la più esplicativa delle ipotesi per dare unità alla storia umana. D’improvviso, l’annuncio di un avvenimento che si pone come il senso di tutta la storia: Egli afferma una simpateticità profonda con ogni cosa e fra ogni cosa che l’uomo faccia, Egli afferma che tutto appartiene a Lui. La verità che la Chiesa insegna sul valore dell’umanità redenta da Cristo è che tutto vale per l’eternità, nulla cade nell’oblio, e di tutto siamo chiamati a render conto. Perché annunciare Cristo risorto, tornato alla destra del Padre, significa testimoniare che l’uomo è posto in compagnia di una tale forza che non c’è da dimenticare il male o la contraddizione: Egli redime, trasforma, con il libero assenso dell’uomo, ogni cosa. Per la tradizione autentica della Chiesa, però, tale trasformazione non è rimandata all’aldilà, è un’esperienza che già nel presente inizia. Così che la vita acquista una sua proporzione interiore e l’eterno già traspare nel tempo presente. Questo richiama all’idea cristiana di “merito”, cioè di realtà umana sproporzionata all’eterno svelato in Cristo. Il mto dinario Il primo modo di quella comunicazione vera che Cristo è venuto a portare nel mondo avviene per la stessa fedeltà alla vita della comunità ecclesiale. Tradizionalmente questo modo si indica con l’espressione il magistero ordinario. Il cristiano arriva alle verità divine proposte dalla Chiesa per una via ordinaria che è la vita stessa della comunità. Non studio teologico o esegesi biblica, ma le articolazioni della vita comune della Chiesa legata al magistero ordinario del papa e dei vescovi in comunione con lui. Se il magistero ordinario è la garanzia del declinarsi della comunità in quanto vive, lo strumento più grande della comunicazione del vero nella vita della Chiesa è la sua stessa continuità. Si chiama tradizione. La tradizione è la coscienza della comunità che vive ora, ricca della memoria di tutta la sua vicenda storica. La comunità cristiana, come Chiesa, è come una persona che crescendo prenda coscienza della verità che Dio le ha messo dentro e intorno. La memoria è un elemento fondamentale della sua personalità, così come per il singolo uomo. Ecco perché l’unità del cristiano con la tradizione è una delle grandi controprove della sua autenticità religiosa. L’importanza della tradizione è decisiva, perché se la tradizione ci viene attraverso la vita della comunità, essendo quest’ultima il progredire di Cristo nella storia, quanto adesso insegna, non può essere in contrasto rispetto a quanto insegnava mille anni fa. Ora, la Chiesa con la sua storia ormai millenaria osa affermare di non essersi mai contraddetta e che non si contraddirà mai. Tale sfida è già un miracolo. Il mto stdinario La seconda modalità con cui le verità della fede vengono comunicate nella Chiesa è offerta da una posizione straordinaria del suo insegnamento, che si identifica in ultima analisi con il Papa quando intenda affermare qualcosa secondo la totalità della sua autorità. Tale magistero straordinario consiste in un insegnamento eccezionale come formulazione e come precisa risposta a contingenze storiche, e ha come soggetto il papa come autorità. L’AUTORITÀ COME FUNZIONE DELLA VITA DELLA COMUNITÀ L’autorità suprema del magistero è una esplicitazione della coscienza della comunità intera guidata da Cristo, e quindi funzionale ad essa, non è una sostituzione magica o dispotica. La verità che viene definita con uno di quei due interventi eccezionali riguarda sempre qualcosa che già fa parte della vita della Chiesa. L’autorità la individua difendendola, chiarendo quello che risulta da sempre vissuto; non è, per sua natura, inventiva a prescindere dalla vita e dalla coscienza dell’umanità. L’espressione usata dalla Chiesa per indicare queste esplicitazioni è la parola “dogma” la cui origine greca è nel verbo dokéo, credere, ritenere. Riunisce in sé una duplice funzionalità, come a riguardo dell’alveo di un fiume: la prima è una funzione ideale, indica la direzione del fiume verso la foce, la seconda è una funzione limite, simile a quella della sponda del fiume, così che spetta a essa giudicare quando un’affermazione o un insegnamento va contro, eccede o deborda quelle sponde che assicurano la direzione ideale. Quando perciò nella Chiesa viene proclamato un dogma non è mai frutto di una repentina convinzione o di una sconsiderata reazione. Perché la vita di Cristo nella storia della Chiesa è una vita che cresce. Per tutto ciò l’autorità della chiesa quando proclama un dogma, è molto attenta a sondare la coscienza della comunità. NELLA CHIESA NON TUTTO È DOGMA Non tutto è dogma: anzitutto perché potrebbe non essere necessaria quella solenne esplicitazione, secondariamente perché non tutto può essere già emerso alla coscienza del popolo cristiano così da diventare certa o chiara consapevolezza: altrimenti la storia non avrebbe più senso. L’esplicitazione dogmatica di una verità, per esempio, può divenire particolarmente utile per la comunità cristiana quando una cultura dominante neghi con metodi gravi e violenti quella verità. Il dogma della infallibilità del papa. In che cosa consiste dunque questa infallibilità? È un caratteristica dovuta al fatto che Dio comunica se stesso attraverso la Chiesa. La Chiesa scelse, in una società dove una concezione razionalistica della vita era diventata mentalità comune, la provocazione di affermare solennemente che l’uomo non è l’unica misura del reale, bensì che il nesso tra l’uomo e la verità passa non solo attraverso i brevi passi della sua ragione, ma attraverso l’alveo di una autorità che, assistita da Dio, deve guidare l’uomo alla salvezza. Per capire il fatto cristiano occorre continuamente riferirsi alla vita. La parola “dogma” non ha affatto quel senso dittatoriale che tanti commentatori le attribuiscono, indica semplicemente il formularsi definitivo di una presa di coscienza della verità di cui la Chiesa è depositaria. E questo ha analogia con la più comune esperienza della vita. Il contenuto fondamentale dell’avvenimento cristiano, ciò che teologicamente si chiama depositum fidei, si comporta nella Chiesa come il contenuto dell’umanità di un bambino. LA TRAIETTORIA DELL’AUTOCOSCIENZA DELLA CHIESA Ciò che accade nella vita di ognuno di noi, la cui coscienza matura con l’andare del tempo, accade anche nella vita della Chiesa. È importante perciò tener presente che esiste una traiettoria in questa maturazione. Come affrontando l’esistenza di una persona si tengono in giusta considerazione la sua storia, le condizioni in cui è cresciuta, i momenti della sua maturazione le contingenze dalle quali potrebbe risultare per la sua personalità un particolare annebbiamento di consapevolezza, così non si deve dimenticare che la Chiesa vive ed opera nel tempo, disegnando una sua traiettoria di autocoscienza, nella quale lo Spirito di Cristo la assiste indefettibilmente perché possa sempre compiere la sua missione e perciò non “definire” mai un errore. Ciò senza esimerla dalla fatica e dal lavoro di una ricerca evolutiva, proprio per la di lei natura di “corpo”, divino sì, ma anche umano, cioè incarnato nel tempo e nello spazio. Il cunicarsi di una realtà divina LA GRAZIA SOPRANNATURALE, O SANTIFICANTE Nell’uomo cui Cristo si accosta e che liberamente desidera ed acconsente al rapporto con Lui si verifica un mutamento nella sua natura d’uomo. Si tratta di una “esaltazione” ontologica dell’io, di un salto di qualità nella partecipazione all’Essere. Nella vita della Chiesa, Dio, comunica all’uomo il dono di una più profonda partecipazione all’origine di tutte le cose, in modo tale che esso resta uomo, diventando qualcosa di più. Nella Chiesa viene offerta una partecipazione “soprannaturale” all’Essere. È questo l’elemento più affascinante dell’annuncio cristiano. Il Vangelo chiama questo comunicarsi profondo della realtà divina “rinascita”. Il termine che la tradizione cristiana utilizza per indicare la realizzazione di quel nuovo essere è la “grazia soprannaturale”, o “grazia santificante”. Essa è indicativa della assoluta gratuità del fenomeno che definisce e ne segna il valore divino, perché solo il comunicarsi del divino è “assolutamente” gratuito. In questa stessa prospettiva, un altro termine domina il Nuovo Testamento: l’uomo nuovo, la creatura nuova. Così ci introduciamo alla seconda qualificazione della parola grazia: “santificante”. Grazia santificante conferma che coloro che aderiscono a quella gratuita iniziativa di Dio entrano in un rapporto profondo con l’Essere, tanto che diventano, dice Paolo, “membra del corpo di Cristo”. Chi vive il mistero della comunità ecclesiale riceve un cambiamento della sua natura. Questo è il cristianesimo nella storia, la Chiesa nella società del suo tempo, una comunità cristiana nel suo ambiente, un uomo cristiano nella sua contingenza quotidiana: l’albore di una umanità diversa, di una comunità umana diversa, cioè nuova, più vera. ATTRAVERSO SEGNI EFFICACI: SACRAMENTI Questa nuova realtà si comunica attraverso i gesti chiamati “sacramenti”. Il termine “sacramento” nella pratica cristiana indica la dinamica della comunicazione della realtà divina nella persona di Cristo ed evoca una sacro patto di fedeltà. Il sacramento è il primo aspetto di questo comunicarsi del divino dentro lo sperimentale umano. In questo senso la Chiesa stessa dice di sé di essere sacramento, luogo in cui la presenza  della forza divina, della persona di Cristo che vince il mondo, si vede e si vedrà sempre. La Chiesa è sacramento di quella Presenza. I sacramenti nel senso stretto della parola prolungano nella storia i gesti redentori di Gesù, quei segni fondamentali con cui Cristo comunicava la salvezza, cioè sé stesso. Non può stupire che Gesù abbia fatto usare alla sua Chiesa nei gesti sacramentali elementi della materialità della vita, così Egli utilizzò il fango, l’acqua, il vino, i pesci, il pane e persino l’ultimo lembo del suo mantello per manifestarsi in quei prodigi. I sacramenti ci mettono in contatto con una realtà più profonda di quanto cade sotto la nostra possibilità di osservazione, sono segno comunicativo della realtà divina, segno in cui sta ed opera, la presenza di Cristo. Il sacramento, perciò, è gesto della Chiesa come tale. I gesti del mistero di Cristo non sono la formula di una vita devota del singolo, ma sono gesto di Gesù stesso che nella Chiesa si piega sulla umana debolezza. Tali gesti sono inconcepibili al di fuori della comunità della Chiesa. La vita cristiana è un rapporto profondamente personale con Lui, cioè tutto giocato dentro la coscienza dei rapporti fraterni e dentro la responsabilità verso il mondo. I sacramenti Battesimo: Attraverso il segno di questa immersione e rigenerazione Cristo afferra nella storia l’uomo che Battesimo: sceglie come suo discepolo. Eucarestia: È il viatico, cibo del cammino, alimento vero della persona, della sua speranza. In questo gesto, Eucarestia: Cristo, donandosi, perfeziona l’uomo in sé stesso, diventa una unità con me. In un segno realmente Eucarestia: si comunica alla nostra vita un rapporto ontologico, inimmaginabilmente profondo. Confessione: È quella parola, quel gesto di perdono di Cristo che si prolunga nella storia. Cresima: Un segno solido e potente. Unzione: L’olio santo destinato ai  malati, la cui funzione sociale come persone è sempre riconosciuta fino agli Unzione: ultimi istanti di vita. Matrimonio: Ha voluto essere presente nella esigenza umana di completamento dell’io e di continuità della Matrimonio: stirpe nella famiglia che procrea ed educa. Ordine: Il sacramento che conferisce il sacerdozio. Egli è veramente l’Uomo-Dio che non dimentica mai di Ordine: essere uomo Il sacramento è dunque l’esperienza del rapporto con Cristo dentro un gesto concreto, fisico. Ecco perché il catechismo lo chiama segno efficace della grazia. Resta un uomo inetto, incapace, peccatore, ma vive la sua dimensione di identificazione comunionale. L’io non è più un “io” avulso da un contesto, ma un “noi”: su ogni azione grava la responsabilità per tutti e, anche sull’azione più recondita, il compito della edificazione della totalità. Così il sacramento è il divino che si rende sensibile nel segno, con una presenza che sfonda tutti i limiti di quel segno, presenza che agisce in noi in modo ineffabile, che ci conferisce la nostra statura di uomo nuovo. Ed è un potenza unificante, perché non si dà sacramento se non nell’unità con tutti i cristiani. NELLA PARTECIPAZIONE LIBERA DELL’INDIVIDUO Tale trasformazione non avviene meccanicamente, bensì attraverso la libertà dell’uomo. Si verifica solo se l’uomo vive quel gesto consapevolmente, accogliendo e ospitando il suo significato e lasciandosene investire. Il sacramento ha da essere la domanda che uno rivolge a Dio come attraverso una piccola fessura di desiderio di essere liberato. Il sacramento è il gesto divino di Cristo risorto che batte alla porta della personalità. Ciò che rende trasformatore il gesto, o l’emozione legata al gesto, è la libertà, che rende piena la partecipazione individuale. Ogni passo dell’itinerario cristiano implica il cambiamento della volontà dell’uomo. La Chiesa è chiamata ad affermare, ed a dimostrare che il valore di un gesto sta nella misura in cui esso si connette con il tutto. E per questo occorre un criterio chiaro, come appare dalle parole di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”. Tali parole, destinate a ricapitolare in un atteggiamento unitario tutta l’esistenza dell’uomo, portano con sé una profonda possibilità di pace. UNITÀ COME SPIEGAZIONE DELLA REALTÀ Tale unità di coscienza, venendo a contatto con le cose, gli avvenimenti, gli uomini, organicamente tende a comprenderli, in modo aperto a tutte le possibilità e adeguato ad ogni incontro. In modo aperto: perciò tutto proteso a collegare ogni cosa al proprio fondamento, poiché, dice Paolo: “Da Lui, grazie a Lui e per Lui sono tutte le cose”. Il suo criterio di interpretazione unitaria del reale, che non è un principio intellettuale, ma una Persona, lo rende particolarmente adeguato all’incontro, anche con realtà apparentemente distanti. Quella del cristiano è una vera personalità partecipe del divino. È questa la radice che in quella unità di coscienza matura diventa unità di comprensione e di inclusività, diventa atteggiamento e principio di cultura, nella quale è possibile fare esperienza della novità. È da tale unità culturalmente valevole che l’uomo viene educato a una maturità critica vera, mirabilmente esplicitata dall’espressione di Paolo ai Tessalonicesi: “Esaminate ogni cosa, trattenete ciò che vale” (1Ts 5,21). UNITÀ COME IMPOSTAZIONE DI VITA Scaturisce il concetto di “merito”. La vita riceve valore in ogni minimo dettaglio dalla grazia che Dio fa all’uomo d’essere collaboratore alla sua presenza nella azione salvifica della sua comunità. Così ogni gesto acquista una dimensione comunitaria: l’azione è il fenomeno della personalità, il movente è quel nesso profondo con la presenza di Cristo nel mondo. La comunità diviene così sorgente dell’affermazione della personalità. E la Chiesa attribuisce proprio valore, “merito”, alla proporzione tra il gesto del singolo e la “gloria” di Cristo, cioè il senso del mistero comunitario vissuto come movente. Ogni gesto ha così valore eterno, in quanto gesto responsabile per il destino del mondo, in quanto espressione dell’individuo che diventa fattore decisivo per il senso dell’universo. Mai la vita e la responsabilità personale sono così valorizzate come in questa visione dell’uomo e della comunità. In questa unità di personalità e comunità viene assunta anche la natura fisica. Paradigma supremo di tale assunzione è nella Chiesa la liturgia, che, scrive Guardini “è integralmente realtà”. Eco della liturgia, del mistero vissuto in tutta la nostra giornata, è il concetto di cristiano di lavoro, espansione del mistero della salvezza in ogni momento e attività, nel contesto della propria personale funzione e situazione. La collaborazione dell’uomo all’opera della comunità che comunica l’opera redentrice di Cristo nei sacramenti è il lavoro. Il lavoro, nel suo sforzo lento e faticoso, è prezzo che l’uomo paga alla sua redenzione, è collaborazione al dilatarsi dell’alba della resurrezione a tutti i rapporti creativi che l’uomo vive col tempo e con lo spazio. Il lavoro è una strada tutta punteggiata dalla documentazione della presenza di Dio, che la tradizione della Chiesa chiama miracoli. Intendiamo qui per miracolo la quotidianità che provoca l’ambiguità della natura (conseguenza del peccato originale) a tornare con chiarezza al suo fine. Miracolo è un avvenimento, una mossa della realtà che di fatto, irresistibilmente richiama l’uomo creato al suo destino, a Cristo, al Dio vivente. Stità La santità cristiana è agli antipodi del concetto di santità proprio a tutte le religioni, dove essa è intesa come una separazione dal quotidiano normale. Nella concezione cristiana invece non c’è nulla di profano, che stia davanti o fuori del tempio, perché tutta la realtà è il grande tempio di Dio: nulla è profano e tutto è “sacro”, perché tutto è in funzione di Cristo. Così la santità non è una abnormità: essa è nient’altro che la realtà umana che si realizza secondo il disegno che l’ha creata. La parola santità coincide in senso totale con la vera personalità. Se uno realizza sé stesso, compie l’idea per cui è stato creato. La personalità caratterizzata dalla santità, si modula tutta nella chiarezza della coscienza del vero e nell’uso della propria libertà, cioè del governo di sé. Il santo nella Chiesa rende la presenza di Cristo attuale in ogni momento, perché in lui Egli determina, in modo trasparente, l’agire. I santo è padrone del suo gesto perché lo innesta nella oggettività del disegno di Dio, governa coerentemente ogni sua azione in quanto il più possibile cerca di aderire alla realtà ultima delle cose. Diceva don Gnocchi, che alla sofferenza altrui ha dedicato la vita, che la felicità del mondo è data dal dolore umano offerto a Dio. Tale offerta è chiave di volta per il senso dell’universo. IL MIRACOLO Si può definire miracolo come un avvenimento, quindi un fatto sperimentabile, attraverso cui Dio costringe l’uomo a badare a Lui. Il miracolo è perciò il metodo di rapporto quotidiano di Dio con noi, la modalità con cui Egli diventa oggettivo nel contingente. 1. Da questo punto di vista tutte le cose sono miracolo: quanto più un uomo è consapevole e vivido nella sensibilità del suo nesso con l’Altro che continuamente lo crea, tanto più tutto tende a diventare miracolo per lui. La sorgente dell’estetica del vero è la totalità. 2. Vi sono poi momenti particolari in cui Dio straordinariamente richiama il singolo ad attendere alla Sua Presenza, a togliersi dalla distrazione. È questo un miracolo in un senso più determinato: come un accento particolare degli avvenimenti che richiama inesorabilmente a Dio. E’ un accento degli avvenimenti che richiama una persona a Dio e, richiamandola, richiama anche il prossimo, chi le è vicino. Senza una precedente, almeno implicita simpatia per Dio, non si può cogliere un avvenimento come miracolo. 3. Questa simpatia è necessaria anche per cogliere il miracolo nel suo senso più ristretto e proprio, là dove Dio interviene sulla sua creazione con un fatto oggettivamente inspiegabile a qualunque disanima, a qualunque procedimento indagativo della ragione. È il caso in cui Dio vuole richiamare non solo il singolo, ma la collettività alla sua presenza, offrendo all’edificazione della comunità religiosa fattori oggettivi documentabili per tutti. L’EQUILIBRIO L’equilibrio che può essere assunto come tratto distintivo della presenza della santità nella Chiesa è una ricchezza ciò che viene dato da Dio a colui che assume la misericordia del Padre come criterio di vita. L’origine di tale ricchezza è una coscienza decisamente orientata a Dio. Vivere il mistero della comunione con Dio in Cristo fa imparare a vedere tutte le cose riferite a un valore unico per cui tutti i giudizi e le decisioni incominciano a partire da una misura unica. Una sola Realtà come criterio e misura e modi investe della sua luce tutte le cose, per cui l’io si sente uno con tutte le cose e in tutte le cose, perfino di fronte alla morte. L’origine dell’equilibrio della santità cristiana è dunque la straripante ricchezza dell’Essere che, per così dire, si impossessa dell’umanità e che all’umanità è donata per venire liberamente accolta come unico criterio di vita. Il bene temporale come primizia dell’eterno. L’equilibrio realizzato dalla santità cristiana ricava perciò la sua originalità da una ricchezza che non è dell’uomo, ma di Dio, che ha voluto farne partecipe l’uomo. L’INTENSITÀ Questa intensità è documentabile nella Chiesa cattolica in senso quantitativo e qualitativo. Caocità La Chiesa possedeva un titolo di onore, che tutti erano d’accordo nel riconoscerle era inteso che sulla piazza del mercato e usato nel palazzo imperiale, che anche il primo venuto conosceva e che era usato negli atti ufficiali dello Stato, era quello di Chiesa cattolica. La cattolicità è una dimensione essenziale della Chiesa ed esprime fondamentalmente la sua pertinenza all’umano in tutte le variabili delle sue espressioni. La Chiesa reclama per sé la prerogativa dell’umano genuino per cui qualsiasi cultura e mentalità può sperimentare la verità che la Chiesa proclama e l’esperienza che essa propone come il più adatto completamento di sé, come l’adempimento più adeguato. Il cattolicesimo, infatti, dichiara di corrispondere semplicemente a ciò cui è destinato l’uomo. E quando la Chiesa nella sua ufficialità si assunse il compito di dirigere l’attività missionaria con una apposita istruzione essa nelle istruzioni che invia ai missionari mostra di aver colto l’importanza di quelle esperienze: impone infatti la conoscenza della lingua e della cultura del luogo in cui si va a predicare e a vivere, e ricorda accoratamente che i missionari sono sul posto per proporre la fede, non per imporre una cultura particolare. La cattolicità, come qualità intrinseca della Chiesa, deve essere dimensione personale di ogni cristiano, anche non chiamato ad una specifica vocazione missionaria. Apostocità L’apostolicità è la caratteristica della Chiesa che indica la sua capacità di affrontare in modo organicamente unitario il tempo: è la dimensione storica. La Chiesa afferma la sua autorità unica a essere depositaria di una tradizione di valori e di realtà che deriva dagli apostoli, indicando uno di essi come punto di riferimento autorevole, così la Chiesa è legata ai successori di Pietro e degli apostoli, papa e vescovi. Tale successione, storicamente documentabile per il vescovo di Roma, è unitaria e ininterrotta proprio attraverso l’azione del vescovo di Roma. Il valore di tale successione apostolica sta nel carattere di miracolo che conferisce al fenomeno stesso della Chiesa. La resistenza costruttiva nel tempo è, nella dimensione storica della Chiesa, il miracolo più grande. La Chiesa afferma la sua capacità di affrontare il tempo non solo come forza di conservare un passato, ma, forte delle promesse di Gesù, come sfida all’avvenire. La superiorità della Chiesa sul tempo, infatti, è un sfida inimmaginabile, è dono che la Chiesa accoglie come tale, frutto della presenza di Gesù nel mondo fino alla fine dei tempi, realizzato dal suo Spirito che non cessa di assistere il segno in cui quella Presenza vive. Gli apostoli sono gli intermediari tra Cristo e la Chiesa perché è a loro che Cristo ha ufficialmente affidato il messaggio. Ciò che è privilegiato non sono dunque i tempi apostolici, né la trasmissione nei tempi apostolici. Ciò che egli pone in rilievo è che gli apostoli hanno trasmesso la dottrina del Signore a persone scelte appositamente per questo. Il valore di tale successione apostolica sta nel carattere di miracolo che conferisce al fenomeno stesso della Chiesa. La Chiesa afferma la sua capacità di affrontare il tempo non solo come forza di conservare un passato, ma, forte delle promesse di Gesù, come sfida all’avvenire. 3 - se di speranza ftana vice Non si può parlare della Chiesa senza guardare alla donna da cui essa è nata e continuamente nasce, Maria, Madre di Cristo. Per questo Maria è la madre dei viventi e la felicità per tutti gli uomini passa e passerà attraverso la sua carne e , prima ancora, il suo cuore, il suo sì. La grandezza dell’uomo è nella fede, nel riconoscere la grande Presenza dentro una realtà umana. La Madonna ci introduce nel Mistero, cioè nel senso della nostre giornate, nel significato del tempo che scorre; ci guida nel cammino il suo sguardo, ci educa il suo esempio, la sua figura costituisce il disegno del nostro proposito. La formula più sintetica e suggestiva che esprime l’autocoscienza della Chiesa come permanenza di Cristo nella storia è: Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam. Questa invocazione afferma il metodo di Dio ed esprime il desiderio struggente di una coincidenza tra il rapporto con Cristo, che nello Spirito è generato, e la realtà, che è il seno di quella donna. Quello che è accaduto 2000 anni fa si ricompone e si ripete in tutti i rapporti che fissano la trama della vita degli uomini e la trama che è dentro la storia di Dio dentro la storia del mondo.
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