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Teologia III prof Bonelli, Slide di Teologia

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Tipologia: Slide

2023/2024

Caricato il 01/07/2024

giorgia-cazzulani
giorgia-cazzulani 🇮🇹

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Scarica Teologia III prof Bonelli e più Slide in PDF di Teologia solo su Docsity! TEOLOGIA III INTRODUZIONE GENERALE Indubbiamente Cartesio porta all’affermazione della soggettività razionale, contemporanea, sostanzialmente chiusa alla trascendenza e autoreferenziale. La pretesa del «cogito» di stabilire un’aprioristica demarcazione fra il mondo naturale e un preteso ambito spirituale sul quale fondare il privilegio umano e il senso della sua esistenza, si dimostra ultimamente come l’estremo tentativo del soggetto moderno «auto-fondatosi» di slegarsi da ogni trascendenza, quale orizzonte posto all’uomo perché solo a lui possa rivelarsi. Il soggetto pensante non mostra alcuna originale provenienza su cui fondare il privilegio umano, lo speciale valore dell’esistenza e delle sue creazioni: l’essere umano decide cosa farne con assoluta indifferenza. Nella percezione oggi diffusa, il soggetto autosufficiente e totalmente dedito all’affermazione e alla soddisfazione di sé si pone come fonte autonoma di diritto, finendo per chiamare male il bene e falso il vero. La modificazione della religiosità e del sistema delle credenze dell’età secolare, le ambivalenze di una cultura postmoderna della soggettività, non di rado più incline ad accarezzare il profilo emozionale estetizzante che a indirizzare il volere dell’uomo verso ciò che merita dedizione e, per altro verso, ad affidare la conduzione della vita al sistema di conoscenze di operatività approntato dal pensiero tecnico-scientifico, rappresentano il contesto all’interno del quale non semplicemente denunciare la «crisi» dell’etica, ma ripensare la forma umana e cristiana della vita buona. Occorre porre in primo piano la questione antropologica: attingendo alla ricchezza del pensiero cristiano, che parte dall’adeguata comprensione dell’uomo come «immagine e somiglianza» di Dio (cfr. Gen 1,26-27), si tratta di impostare una sintetica delineazione dell’ethos cristiano pensato come risorsa di senso all’attuale situazione di spaesamento etico e più profondamente umano. Sarebbe perciò interessante una riflessione sul rapporto tra l’universalità dell’esperienza morale e la specificità dell’ethos cristiano È necessario dedicare attenzione ad alcuni grandi codici etici presenti nella Bibbia ebraicocristiana, con una particolare cura per le «Dieci parole» e il «comandamento dell’amore». L’analisi di questi testi consente di definire la tipicità dell’ethos teologico non solo sotto il profilo dei contenuti, ma per la forma peculiare e il suo stile caratterizzante. L’analisi di questi testi permette inoltre di affrontare la riflessione sulla coscienza morale, all’interno della quale evidenziare l’imprescindibile nesso con la normatività della legge come momento antropologico decisivo nella teologia morale cristiana. L’attenzione al tema della coscienza, compresa quale forma morale del sé nella sua relazione originaria all’altro, apre anche alla riflessione sulla libertà come caratteristica dell’identità soggettiva nel suo attuarsi in riferimento a una promessa di vita che la precede e la fonda (grazia). Sarebbe opportuno dare anche spazio alla questione teologica del peccato e alla dinamica di conversione nella prospettiva della misericordia di Dio. L’antropologia cristiana si costruisce nella relazione con Dio, che determina e trasfigura ogni altra relazione: con il mondo, con l’altro, con sé, qualificandole in un’affascinante vicenda di bellezza e di santità, nel senso di una destinazione escatologica che ha come misura l’intimità trinitaria, «che solo amore e luce ha per confine». Infine bisogna privilegiare gli ambiti del vivere, all’interno dei quali operare un discernimento cristiano sulle differenti e complementari forme dell’esperienza umana: vivere è intessere relazioni, definire se stessi non solo a partire dalla propria soggettività, ma in una trama di legami che contribuiscono a costituire l’identità personale e predispongono al riconoscimento rispettoso di quella altrui, anche nella più vasta sfera sociale QUESTIONE DEL FONDAMENTO La riflessione ruota inevitabilmente attorno alla questione del pensiero del fondamento. Il tema, capace di attirare e concentrare gli sviluppi della ricerca, è quello della qualità etica e religiosa del destino dell’uomo: la presa d’atto della natura trascendente e inviolabile della sua origine e del suo compimento. Ogni discorso è discorso che parte da «un luogo»: questo luogo è per ciascuno di noi, volente o nolente, la tradizione della filosofia europea e della gnosi monista occidentale, l’impresa della cristianità e del suo ethos, le loro inevitabili tracce dentro il sentire postmoderno contemporaneo. La forma mentale attuale, i nostri vocabolari, le forme del nostro immaginario, i concetti e le metafore – nel bene e nel male – provengono da quel terreno fertile, ma non sempre vergine. Con esso è impossibile non misurarsi. LA QUESTIONE DELLA QUALITA’ DEL VIVERE NELLO SCENARIO ATTUALE Bisogna considerare le opportunità offerte dalla promessa di un «nuovo umanesimo» o di un «umanesimo possibile», in grado di contrastare le derive più comuni del sentire epocale: la sua esasperazione individualistica e il suo investimento tecnocratico. Bisogna perciò affrontare la delicata questione dei processi di identità e di riconoscimento dell’io, elaborati sulla scena postmoderna, a dispetto dell’ideale ancora moderno della soggettività emancipata. Eloquente è la nuova stagione e la nuova Denkform (modulo di pensiero) che la τέχνη (téchnē), cioè «tecnica, arte, mestiere, abilità», produce: la sua conversione da strumento ad «ambiente». Il processo d’ispessimento burocratico, il vuoto affettivo e l’incertezza liquida che ne derivano sono solo alcuni dei fattori a capo del trionfo di una mentalità comune di sopravvivenza. La crisi morale è sotto gli occhi di tutti. I sintomi affiorano sul terreno sia dei vissuti personali sia dei comportamenti sociali. Ad avere il sopravvento è uno stato di disorientamento, che genera insicurezza e destabilizzazione, con l’affermarsi di una forma di agnosticismo morale o la caduta in una situazione di amoralità.  La difficoltà a fare con chiarezza discernimento del bene e del male, a distinguere cioè nettamente ciò che è giusto da ciò che non lo è, oltre a rendere estremamente faticose le decisioni, ingenera uno stato diffuso di scetticismo, che conduce all’accantonamento dell’istanza etica, la quale viene normalmente sostituita dal ricorso a criteri di stampo meramente utilitaristica: ciò che importa è che tu ti senta bene, che ciò ti sia utile, l’inganno cioè dell’immediatezza.  Per quanto concerne i comportamenti sociali o l’etica pubblica, a venir meno è la convergenza attorno a valori universalmente condivisi – altro dramma – riconosciuti in passato come pilastri irrinunciabili sui quali edificare la convivenza civile.  Emblematico è il ribaltamento di prospettiva verificatosi negli ultimi decenni nell’ambito della vita politica italiana: alla consistente convergenza sul terreno dei valori, che ha caratterizzato i rapporti tra forze partitiche ideologicamente contrapposte nell’immediato è venuto producendosi, in concomitanza con l’allentamento della tensione ideologica, il crollo di un tessuto valoriale comune e la nascita di sistemi differenziati, talora in netto contrasto tra loro, con la difficoltà di rintracciare parametri di comportamento condivisi. ALLA RADICE DELLA CRISI: LA RICERCA DELLE CAUSE  Le cause di questa situazione sono complesse, perché investono fattori di natura sia strutturale – per cui i fondamenti – sia socio-culturale – di conseguenza adattamenti e accidenti. La prima di queste cause è l’avanzare di una cultura individualista, un’accentuata privatizzazione dei comportamenti e degli stili di vita. Se da un lato tale cultura rappresenta un’importante occasione per recuperare dimensioni trascurate della vita personale, dall’altro la sua esasperazione ha come esito la caduta in una forma di auto-referenzialità narcisistica.  Il ritorno al «soggetto» è dunque ambivalente: può condurre al recupero della «persona» in quanto essere costitutivamente relazionale, perciò aperto agli altri alla società; ma può anche determinare il ripiegamento dell’«individuo» su se stesso, con la riduzione della socialità a semplice imposizione esterna cui sottostare e con l’affermazione di una morale del «fai da te». La seconda causa è l’affermarsi del fenomeno della complessità. Si assiste nell’ambito della società a una crescente complessificazione dei sistemi organizzativi e gestionali con il rischio della ingovernabilità. Gli effetti si fanno sentire anche in campo sociale ed etico.  In quello sociale si ha un’accentuata moltiplicazione delle appartenenze, con la conseguenza di appartenenze deboli e precarie, è un alto livello di differenziazione, che si traduce in una crescente destrutturazione del tessuto collettivo e provoca la sostituzione delle classi sociali con le corporazioni, perciò la creazione di una società «neo-corporativa».  Nel campo etico, il «bene comune» è sostituito dalla ricerca dell’«interesse privato» o di gruppo, con la conseguente rinuncia a ogni tensione ideale e valoriale. La terza causa coinvolge il sistema economico. Il capitalismo selvaggio, che ha preso il sopravvento a livello mondiale dopo la caduta dei sistemi ad economia pianificata dei paesi del socialismo reale, ha assunto i tratti di un’ideologia totalitaria, una sorta di «pensiero unico» che si ispira alle logiche dell’efficienza produttiva e del consumo e che tende ad estendersi trasversalmente a tutti gli ambiti della vita. Infine la destituzione di significato dell’etica va addebitata al fenomeno della secolarizzazione, che ha assunto, negli ultimi decenni, i connotati di radicale secolarismo. Il processo di «disincantamento del mondo», secondo la nota formula di Weber, si è trasformato da crisi del «sacro» in crisi del «senso» o del «fondamento».  La perdita di consistenza delle grandi domande di senso e di fondamento e la conseguente assenza di un preciso quadro valoriale al quale ispirare la condotta tanto nell’ambito della vita personale quanto in quello sociale, si traduce nel ripiegamento su un’etica «debole» di carattere procedurale, dove a contare è la sola elaborazione di norme, che consentano di fare fronte, di volta in volta, alla complessità delle situazioni: in primis non è più l’uomo a contare. ATTUALITA’ DELLA DOMANDA ETICA La crisi che l’etica attraversa e che mette in discussione non solo i modelli tradizionali mediante i quali è venuta strutturandosi, ma più radicalmente la sua stessa plausibilità, si accompagna tuttavia, paradossalmente, a un’insistita sollecitazione a recuperarne l’istanza, a causa soprattutto dello stato di disagio esistenziale in cui versa oggi la condizione umana.  Sul piano sociale l’impossibilità di convergere attorno a una piattaforma di valori condivisi impedisce l’instaurarsi di forme di convivenza che favoriscano la crescita del senso di appartenenza e lo sviluppo di comportamenti solidali. L’attenzione qui va posta su due settori particolarmente significativi, vale a dire l’informatizzazione e l’ingegneria genetica, che hanno a che fare rispettivamente con la formazione del costume e con la manipolazione delle sorgenti ultime della vita. L’informatizzazione ha dato luogo a una vera mutazione antropologica. Il predominio del linguaggio logico-matematico a discapito di quello simbolico e lo sviluppo di relazioni «virtuali» mediate in tempo reale dagli strumenti, sono all’origine di una nuova soggettività, che si caratterizza per l’acquisizione di grandi abilità tecniche e per l’apertura a una miriade di significati, ma che appare nello stesso tempo votata alla riduzione degli spazi del senso critico e della creatività. A questo si aggiunge sul terreno economico-sociale l’attivarsi di processi di scambio e di transizione che hanno pesanti ripercussioni sulla vita dei singoli e dei popoli. Negli ultimi decenni, la tecnica da semplice strumento od oggetto si è trasformata in fine o soggetto, rendendo di fatto anacronistica ogni forma di etica, destituendo di significato tanto la tradizionale morale dell’intenzione quanto la moderna morale della responsabilità. Alla negazione dello spazio per l’etica corrisponde una crescente esigenza di ricorso ad essa, sia per dare regolamentazione a processi altrimenti destinati a penalizzare i soggetti più marginali, sia per superare il pericolo di nuove e pesanti forme di alienazione. Circa le manipolazioni genetiche, l’impressionante escalation scientifico- tecnologica degli ultimi decenni in campo biomedico ha notevolmente ampliato il dominio dell’uomo nei confronti della realtà, fino al punto di porlo nella condizione di modellare, a proprio piacimento, se stesso e la specie umana. Questo spiega l’affiorare della tentazione prometeica e perciò il rifiuto di ogni forma di dipendenza, incluso il riconoscimento di un ordine morale che sta prima della volontà umana. Il progresso scientifico-tecnico viene identificato con la crescita umana al punto da far nascere la convinzione che tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente lecito, perché non può che avere effetti umanizzanti. L’urgenza del rinvio all’etica si scontra con la constatazione della difficoltà di fornire criteri di discernimento che si appoggino a valori condivisi. Riemerge la situazione contraddittoria in cui l’etica versa: all’importanza del ricorso ad essa per arginare le enormi possibilità distruttive che l’uomo ha nelle mani fa da contraltare lo stato di impotenza in cui l’etica si dibatte a causa della grande differenziazione delle piattaforme valoriali presenti nella società. UNIVERSITA’ DELL’ESPERIENZA MORALE LAICA E RELIGIOSA I termini «etica» e «morale», sia come sostantivi sia come aggettivi, nell’uso corrente sono spesso sinonimi, mentre nell’uso tecnico possono avere sfumature o significati diversi, non ben definiti, variabili da autore ad autore.  In genere il termine «morale» si riferisce al vissuto di persone o di un gruppo, per cui si parla di pratica concreta; mentre il termine «etica» si riferisce prevalentemente alla teoria. Un’altra differenza potrebbe essere quella per cui il primo vocabolo si riferisce all’ambito religioso, mentre il secondo all’ambito laico.  Ognuno di noi vive scegliendo. Io costruisco me stesso man mano che scelgo. In questo sta la dignità della persona umana rispetto ad ogni altra creatura a noi nota.  Se io non posso fare a meno di scegliere, in base a quali criteri scegliere? Ci sono soltanto due possibilità: o scegliere a caso, magari gettando in aria una monetina; o scegliere in base a qualche criterio valutativo, che mi permetta di giudicare una scelta «migliore» di un’altra. Qui «migliore» significa rispondente al criterio valutativo assunto.  Ma a sua volta la scelta del criterio valutativo è ancora una scelta: la scelta di rubare in un certo modo (il più rapido, il più sicuro, il più remunerativo) è basata sull’assunto che è esposte a cadere. Ma obbedire a Dio non è identico ad assumere consapevolmente un significato per la nostra esistenza. L’annuncio cristiano in materia morale, e la sua elaborazione sistematica, deve rivolgersi a tutti, credenti o non credenti, e deve perciò tener conto delle difficoltà in cui sia gli uni che gli altri si dibattono. L’annuncio cristiano deve essere in grado di costituire una proposta che non soffochi, ma dia un possibile e rasserenante sbocco. RIVELAZIONE CRISTOLOGICA E RISPETTIVA ETICA  L’attuale crisi antropologica sempre più ampia e la morte dell’uomo in quanto essere creato per una vocazione alta e sublime, che sta al culmine del disegno di Dio nella sua creazione, sono una tragica conseguenza di cui tutti portiamo il peso, perché genera quella cultura dell’individualismo che mette il proprio io al centro di tutto e ha riflessi fortissimi sul problema della vita umana dal suo primo istante al suo naturale tramonto, sull’educazione delle nuove generazioni, sull’impostazione del lavoro e dell’economia globalizzata.  Di fronte a questa realtà problematica, sta il messaggio positivo della fede cristiana, che conduce i credenti a rispondere alla crisi antropologica in atto con la proposta di un umanesimo capace di dialogare con il mondo, perché profondamente radicato nell’orizzonte di una visione cristiana dell’uomo ricavata dal messaggio biblico e dalla tradizione ecclesiale. Un dialogo che non può prescindere dai linguaggi contemporanei, compreso quello della tecnica, ma che non li rende assoluti, bensì li integra con quelli dell’arte, della bellezza. Perché questo dialogo con il mondo sia possibile, bisogna far fronte alla cosiddetta «emergenza educativa», il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un «io» completo in se stesso, laddove invece egli diventa «io» nella relazione con il «tu» e con il «noi». Il «tu» e il «noi», cioè gli altri, nell’epoca in cui viviamo sono spesso avvertiti come una minaccia per l’integrità dell’«io».  I fraintendimenti più gravi però sono di carattere teologico: può avvenire infatti per un verso di presumere unilateralmente che «Dio non è l’Altro», per cui se ne disconosce la trascendenza divina rispetto al mondo e lo si confonde con il mondo stesso; per l’altro verso di pensare esclusivamente che «Dio è l’Altro», fino a ipotizzare la sua irrilevanza per il mondo e per l’uomo, fino a sancire un lacerante aut-aut che implica l’alternativa fra Dio e l’uomo.  Su questo punto la tradizione cristiana ha sempre sottolineato il mistero del Dio fatto uomo, il Verbo del Padre, l’uomo Gesù di Nazareth, in cui Dio e uomo si congiungono in un’unità indissolubile e indivisibile. Per conoscere profondamente e in verità l’uomo bisogna conoscere Dio e il suo Verbo fatto uomo, verità approfondita con ampiezza nella Gaudium et spes: «in realtà proprio nel mistero del Verbo incarnato viene chiarito il mistero dell’uomo: Cristo, […] mentre rivela il mistero del Padre e del suo amore, pure manifesta compiutamente l’uomo all’uomo le rende nota la sua altissima vocazione». Davvero conviene fidarsi di Cristo Gesù, poiché «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo». L’affermazione non ha nulla da spartire con il mito del super-uomo. Dice piuttosto che la perfezione dell’umanità si lascia intravvedere nella figura martoriata di chi, innocente, viene condannato a morte. «Ecce homo»: è il Vangelo, paradossalmente scandaloso per chi non attinge la sapienza di Dio, che annuncia una nuova visione dell’uomo. In questa debolezza, Dio non si mostra più lontano rispetto alla sofferenza umana, e l’uomo non si sente più disumano. Ciò che ne trasfigura finalmente il volto è la capacità, riscoperta e riacquisita in Cristo, di saper piangere, cioè di sopportare la sofferenza: l’unica opportunità di essere «più uomo».  La modernità – con i suoi problemi sulla morte di Dio, le sue antropologie pervase da volontà di potenza, con le sue conquiste e le sue sfide – ci consegna un mondo provato da un individualismo, che produce solitudine e abbandono, da nuove povertà e disuguaglianze, da uno sfruttamento cieco del creato che mette a repentaglio i suoi equilibri. GESU’ CRISTO è IL NUOVO UMANESIMO Una fede del genere rende capace l’uomo di dialogare con il mondo. Il credente non è arrogante; al contrario la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla, è essa stessa che abbraccia e possiede l’uomo. La verità dell’uomo in Cristo non è opprimente e nemica della libertà: al contrario è liberante, perché è la verità dell’amore.  Il nuovo umanesimo in Gesù Cristo propone alla libertà dell’uomo contemporaneo la persona di Gesù Cristo e l’esperienza cristiana come un fattore decisivo per contribuire a rendere possibile il reperimento di quel fulcro sintetico che un tempo costituiva il riferimento comune, ricco di valori condivisi, e che oggi è andato perduto, frammentando l’intera esistenza personale e sociale. L’annuncio dell’evento di Cristo è capace di interagire con Chiese e confessioni cristiane, con le religioni e con le diverse mondovisioni, valorizzando tutti gli elementi positivi che la modernità.  Cristo è l’uomo nuovo perché ha conseguito la vittoria sul peccato e sulla morte e dunque chi guarda lui diventa sempre più uomo autentico e realizzato. Un umanesimo così concepito è forte e reale, perché si radica in una realtà metafisica. Infatti non c’è autenticità «orizzontale» se non c’è un senso «verticale». LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE  Da qui scaturisce che il primo compito che la Chiesa oggi è chiamata non solo a svolgere, ma a manifestare – nel senso che la gente deve vedere in concreto che è ciò che primariamente la interessa – è la comunicazione della fede in Gesù Cristo, ritenendone destinatari tutti gli uomini, nessuno escluso, credenti e non.  La via dell’Incarnazione e della Redenzione rappresenta il modello concreto su cui camminare in quest’opera di nuova evangelizzazione. E qui emerge il compito di trovare esperienze, modi e linguaggi appropriati che si investano nella storia delle persone, della loro cultura e mentalità.  Gli obiettivi da raggiungere devono attuare principi e considerazioni di fondo che mai vanno disattesi:  senza Dio l’uomo va alla deriva da se stesso e vanifica quanto di bene pure gli riesce di fare nel mondo. Un umanesimo senza o contro Dio si ritorce contro l’uomo e l’umanità intera, perché «è un umanesimo disumano»;  Cristo è l’unico salvatore del mondo e degli uomini: senza Cristo l’uomo è povero e solo;  Nessuna realtà, nessuna persona è impenetrabile al Vangelo, perché in esso si trova la risposta e la proposta alternativa, vera e piena, a tutte le più profonde aspirazioni del cuore di ognuno;  Il dialogo e il confronto con ogni altra componente religiosa e sociale portatrice di culture e principi diversi dal Vangelo è possibile e doveroso, ma non deve mai sminuire l’identità e la verità della propria fede e delle sue implicazioni per la vita e i problemi concreti del vissuto personale, familiare e sociale;  La nuova evangelizzazione non aspetta che la gente si faccia avanti, ma anticipa le domande esistenziali che appellano a Dio e alla fede, aiuta le persone a farsele e se ne fa carico in modo preveniente;  La fede in Cristo ha una rilevanza anche pubblica, che non può essere disattesa, ed esige dunque una testimonianza esplicita, coerente e unitaria, anche sul piano sociale, da parte dei cristiani;  Per rendere efficace tale nuova evangelizzazione, è necessario promuovere un discernimento del terreno culturale su cui cade l’annuncio e si sviluppa la comunicazione e l’esperienza della fede. GLI AREOPAGHI MODERNI Oggi le sfide della cosiddetta postmodernità sono tante e complesse. Si pensi all’informatica e alla cultura digitale, al connesso problema della globalizzazione economica, politica e culturale, che incidono ormai nella mentalità e nel costume di vita della gente più di quanto si possa immaginare.  Emerge così con forza il grande problema della libertà, del soggettivismo e dell’individualismo, dalla ricerca della propria realizzazione a scapito di tutto e di tutti, soprattutto di ogni norma etica al di fuori di sé.  Questa mentalità e cultura ha riflessi fortissimi sul problema della vita umana dal suo primo istante al suo naturale tramonto, sull’impostazione del lavoro e dell’economia globalizzata che tende a esaltare il bene-essere e il bene-avere del singolo o della propria parte politica, finanziaria, industriale, nazionale, rispetto al bene comune di tutti.  Il sincretismo religioso – secondo cui «una religione vale l’altra» –, la crescita di comunità etniche che propongono modelli di vita e di comportamenti molto diversi e spesso in contrasto con la nostra tradizione anche culturale oltre che religiosa, necessitano di essere attentamente seguite e gestite dalla Chiesa e dalle nostre comunità, con una sapienza e lucidità necessarie, in modo meno superficiale e meno artigianale di quanto si sia fatto finora. LA VIA PROPOSTA DALLA GAUDIUM ET SPES pulsante di amore di vita nuova: l’Eucaristia.  L’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci nei pone in evidenza l’inadeguatezza dei mezzi umani che mettiamo in campo per annunciare Cristo ed esercitare la carità. Di fronte alla massa di gente che ha fame, duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo. Ci scopriamo ogni giorno più impotenti di fronte ai problemi che assillano la nostra presenza di Chiesa nella società e di fronte all’apparente muro di gomma che non accoglie ma rigetta ogni tentativo di radicare il Vangelo nel vissuto delle persone.  Il gesto eucaristico, perché quel pane spezzato è il suo corpo offerto per la salvezza di tutti, fa superare ogni barriera e dà avvio a una realtà nuova che investe l’intera umanità.  Nella comunione con Gesù Cristo c’è il superamento di ogni umana divisione, come ci ricorda Paolo: «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa». SGUARDO ALL’AGIRE TRASMESSO DALLE SACRE SCRITTURE Ogni cristiano riconosce nella Bibbia un libro ispirato. La Bibbia è la parola eterna rivolta da Dio agli uomini per la loro salvezza. Rivolgersi alla Bibbia è dunque il primo passo per comprendere il significato dell’esistenza cristiana. Non bisogna però dimenticare che la Bibbia è un libro «ispirato», non «dettato» da Dio: ogni autore scrive secondo il suo stile, le sue capacità, le sue finalità, le sue conoscenze scientifiche dell’epoca, le sue esperienze umane, i bisogni dei destinatari a cui rivolge la sua parola, i suoi condizionamenti culturali. EXCURSUS SUL TEMA DELL’ISPIRAZIONE In quanto scritta, la Bibbia è adatta a diventare punto perenne di riferimento e garanzia di stabilità, specchio in cui il popolo di Dio deve sempre guardarsi, se vuole misurare la fedeltà alle proprie origini e al Signore. La parola orale è viva, ma la parola scritta è stabile. Questo è il suo pregio, tuttavia anche il suo limite. Lo scritto infatti è fermo e se vuole parlare deve ridiventare parola, predicazione, annuncio, vita. La Scrittura è come una parola congelata, che ha bisogno di essere riportata nel suo ambiente vitale (la vita della comunità) perché possa di nuovo riacquistare forza e sapore.  Il credente è convinto che la Scrittura sia un testo contemporaneamente scritto da Dio e dall’uomo, cioè ambedue sono veri autori. Per il suo scopo, Dio si è servito di autori umani nel più ampio rispetto della loro intelligenza e della loro libertà, della loro personalità umana e letteraria. Dio e l’uomo hanno cooperato alla produzione della scrittura del testo.  In questo caso la Bibbia è allo stesso tempo simile e diversa da ogni altro testo: simile perché scritta da uomini che si sono serviti dei metodi, degli strumenti e delle categorie del loro tempo; diversa perché ha Dio come autore principale.  Il termine per esprimere questo processo è ispirazione, parola molto usata, ma di difficile comprensione. L’ispirazione si estende all’AT e al NT, senza alcuna differenza di qualità e di grado. Dio ha scelto gli agiografi, se ne servì, agì in essi e per mezzo di essi. L’azione ispiratrice di Dio accompagna dunque tutto il processo della composizione del libro. Di Dio è infatti l’iniziativa (Egli ha scelto). L’azione di Dio è talmente profonda da far sì che gli agiografi scrivessero «tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte».  Un autore quando scrive compie almeno tre fondamentali operazioni. Ricerca i materiali che gli servono (idee, documentazioni) e li giudica (se sono veri o no, se sono adatti al suo scopo o meno): è in gioco l’intelletto. Poi formula la decisione di scrivere: è in gioco allora la volontà. Infine mette in atto la decisione e scrive: sono in gioco a questo punto le facoltà esecutive. Tutto questo fa qualunque autore e questo hanno fatto Geremia, Matteo, Paolo, tutti gli autori biblici, senza neppur sapere che Dio accompagnava il loro lavoro.  Dio ha accompagnato il loro lavoro passo dopo passo, al punto da potersi dire lui stesso autore: ha illuminato il loro giudizio (intelletto), ha mosso la loro volontà, li ha assistiti mentre mettevano in atto il loro progetto.  Nonostante tutto questo si possa ritenere vero, oggi sentiamo però il bisogno di allargare la prospettiva. Le nostre conoscenze sulla formazione della Bibbia si sono notevolmente precisate in due direzioni:  libri della Bibbia non sono stati tutti composti di getto, ma attraverso una storia lunga e travagliata, infatti si sono formati poco a poco, hanno subito riedizioni e riletture, sono stati infine inseriti nella medesima «biblioteca»;  i libri della Bibbia sono molto spesso frutto non soltanto dell’autore di cui portano il nome (diversi, anzi, sono anonimi), ma anche della comunità.  L’ispirazione andrebbe pensata non più come un’azione di Dio che riguarda soltanto l’autore finale dello scritto, ma come un’azione di Dio che riguarda, per quanto necessario e con modalità diverse, tutti gli uomini che vi hanno lavorato. Così l’ispirazione è l’intervento di Dio che segue passo dopo passo la formazione del libro, in tutte le sue fasi: Egli ha accompagnato il libro nelle tappe della sua formazione, nelle sue riedizioni e riletture, nel suo inserimento nel canone.  «Rivolgersi alla Bibbia»: già dire questo è dire che vi è una chiamata di Dio per gli esseri umani e che ogni essere umano è essenzialmente un «chiamato». Nella Bibbia l’uomo è sempre definito nel suo rapporto con Dio e trova la sua ragion d’essere, cioè il senso dell’esistenza, nel rispondere alla chiamata di Dio.  Ma quale è dunque la chiamata di Dio? È una chiamata spesso imprevedibile: per ogni uomo vi è una chiamata e spesso alle cose più incredibili. C’è un progetto di Dio per ciascun essere umano ed esso va compreso come parte di un disegno globale di Dio per l’intera famiglia umana: questo disegno globale, un mistero nascosto dai secoli e manifestato in Gesù Cristo, può chiamarsi veramente «storia della salvezza». C’è dunque una stretta relazione fra la chiamata per ogni singolo essere umano e il cammino della storia dell’umanità verso un suo traguardo. LETTURA BIBLICO-TEOLOGICA DELLE 10 PAROLE Così si esprimeva Konrad Adenauer (1876-1967): «capisco perché i dieci comandamenti sono tanto chiari e privi di ambiguità: non furono redatti da un’assemblea». La battuta coglie la prima impressione che tutti provano di fronte al Decalogo, vale a dire la sua «lapidarietà» materiale e formale. Materiale, perché la Bibbia non esita a ricordare che quelle parole erano scritte sulle due lapidi incise dal dito stesso di Dio (cfr. Es 31,18). Formale, perché gli imperativi apodittici che compongono i vari precetti sono così essenziali, nitidi ed espliciti da non ammettere equivoci o vie di fuga. Si ha il progetto di un’umanità morale e religiosa che riconosce il mistero divino senza piegarlo a proprio uso e consumo, che rispetta e venera il trascendente, che scopre Dio come persona, che s’impegna nella società per la vita, per il matrimonio e la famiglia, per la libertà, per la dignità umana e per la pienezza dell’esistenza di ciascuno attraverso la disponibilità di alcuni beni. In pratica i dieci comandamenti sono dieci «no» pronunciati in modo preliminare perché si trasformino poi in dieci «sì» nell’esistenza personale sociale dell’uomo.  Si tratta di parole antiche, persino remote, sbocciate nelle aride solitudini del deserto del Vicino Oriente Antico, dove i falsi bisogni e le sovrastrutture non resistono alle necessità primarie della sete, della fame, del vivere. Sono dieci parole imperative, «da comandante». Con un termine di matrice greca, divenuto popolare, esse sono state chiamate Decalogo, appunto «dieci parole», e sono state prima incise su tavole di pietra, poi su fogli di papiro, di pergamena, di carta e ora persino sui supporti elettronici.  Questi «comandamenti» sono moniti, sono imperativi severi, assoluti e negativi. Eppure essi non cancellano la libertà dell’uomo, anzi la esaltano ponendola al centro delle decisioni personali. Non sono così circoscritti da impedire attualizzazioni, aderenze a contesti diversi, margini di applicazioni variabili.  Queste «dieci parole» nei secoli sono risuonate costantemente, amate e disattese, proclamate e violate. La nostra civiltà occidentale ha alle sue radici un «grande codice», vale a dire una specie di punto di riferimento capitale, una stella polare che ha guidato la nostra cultura: è la Bibbia e, in particolare, per l’etica e la società proprio il Decalogo.  Dio si è legato a un impegno, la liberazione che continuerà ad offrire ad Israele; il popolo reagisce con queste dieci parole, le dieci grandi risposte al Dio alleato e vicino.  Il Decalogo è quindi la sintesi suprema della morale religiosa.  Il Decalogo fu amato anche da Gesù, che purificandolo da una lettura legalistica, lo aveva riportato allo splendore della sua radicalità e totalità di impegno verso Dio e verso il prossimo.  Ma il Decalogo è anche la sintesi della morale naturale, cioè dell’essere uomini, della nostra coscienza e delle nostre relazioni personali e sociali. TESTO LETTERARIO L’esegesi – termine che deriva dal verbo greco ἐξηγέομαι (exēghéomai), cioè «condurre da, condurre fuori» – ha insegnato che questo testo è stato ricevuto da molte generazioni per le quali rappresentava un’autentica parola del loro del popolo d’Israele. Ma, fin dall’inizio, stupisce il fatto che da nessuna parte YHWH precisi alcunché riguardo al culto che bisogna rendergli. Si limita a proibire gli idoli. Per questo Dio sarebbe quindi sufficiente rinunciare agli altri dèi per rendergli un culto?  Un secondo aspetto sorprende in un testo legislativo: la parola iniziale non costituisce un ordine, ma afferma la libertà di coloro ai quali è rivolta la Legge. La libertà d’Israele avrebbe dunque un qualche legame nascosto con il rifiuto degli idoli?  In realtà, la libertà d’Israele non viene affermata per se stessa. È inclusa in una frase nella quale YHWH si presenta, al momento di dare la Legge. Per situarsi, rinvia il popolo alla loro storia comune, ricordata attraverso il contesto narrativo del libro dell’Esodo: l’uscita dall’Egitto: «Io [sono] il Signore (YHWH), il tuo Dio (’ e lohīm), che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavi (‘ avādīm) (Dt 5,6). SCHIAVITU’ E LIBERAZIONE L’Esodo comincia con il dramma di un gruppo chiamato i «figli di Israele» o israeliti, dal nome del loro comune antenato emigrato in Egitto, vale a dire Giacobbe, alias Israele (cfr. Gen 32,28-29; 46). La presenza di questi stranieri – di questi «ebrei» – è percepita dal re del paese come una minaccia per lui stesso e per il suo popolo, per cui adotta «misure sagge» atte a calmare la sua angoscia, a placare i suoi fantasmi.  In un primo tempo, il faraone sottopone questi stranieri a lavori pesanti e ingrati e li costringe a realizzare per lui grandi costruzioni. Ma questa servitù, che priva Israele delle sue forze e del frutto del suo lavoro, non riesce a piegarlo: il popolo non perde la sua vitalità. Allora gli egiziani aggiungono alla servitù l’oppressione. All’amarezza e all’umiliazione si aggiungono la violenza e la brutalità dei sorveglianti dei lavori. Il faraone ordina agli egiziani di dare la caccia ai bambini ebrei e di gettare i maschi nel fiume. In questo modo egli attenta alla vita di Israele. Rivolgendosi a Mosè nel mezzo di un roveto ardente, YHWH lo manda a proporre al re d’Egitto di allontanare l’oggetto delle sue paure, lasciando partire coloro che opprime e sfrutta al tempo stesso senza vergogna. Ma il faraone si intestardisce. Invitato per dieci volte a restituire la libertà agli israeliti, per dieci volte rifiuta di lasciarli andare. Per dieci volte è costretto a constatare anche i frutti di morte della sua logica totalitaria e della sua cupidigia: sono le piaghe d’Egitto, attraverso le quali YHWH tenta di far comprendere al faraone che è nel suo interesse lasciare partire Israele.  Dopo che, messo alle strette, ha finalmente cacciato i suoi schiavi, il re, rendendosi conto di aver perso la sua manodopera gratuita, fa ben presto marcia indietro. Insegue il popolo con il suo esercito, gli toglie ogni via di scampo inchiodandolo con le spalle al mare. Ma sulla parola di Mosè, il quale afferma che il suo Dio desidera la libertà e la vita, Israele riesce a vincere la paura e osa rischiare la morte. Entra nel mare che, miracolosamente aperto da YHWH (יהוה (quando Mosè stende la mano su di esso, lascia passare Israele prima di richiudersi come una trappola sui suoi inseguitori NASCITA DEL POPOLO Il celebre racconto del passaggio del Mar Rosso (cfr. Es 14) cela in realtà un simbolismo di nascita che si può in qualche modo visualizzare leggendo l’episodio nel suo contesto.  In Egitto, dove sono scesi i loro padri, i figli d’Israele sono cresciuti. Si sono sviluppati in questo paese al quale il Nilo assicura la fecondità. Con il passare del tempo, questa striscia di terra diventa pericolosamente stretta per loro e il paese rischia di soffocarli. Dopo le contrazioni raffigurate dalle famose piaghe, gli israeliti escono dal paese, passando con coraggio attraverso un canale stretto e umido, nel quale «le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra» (Es 14,22.29). Giunto sull’altra riva del mare, al sorgere del giorno, il popolo fa i suoi primi passi in un’avventura rischiosa in un luogo ampiamente aperto: il deserto nel quale dovrà trovare la sua strada. Passare, attraverso una gola umida, da uno spazio stretto e chiuso a uno spazio aperto nel quale si vede la luce non è forse una nascita? Molto spesso usato per parlare dell’esodo, il verbo yāṣā’ («uscire») lo sottolinea a suo modo, poiché in ebraico descrive questo evento dal punto di vista del bambino. E per quest’ultimo, la nascita è proprio l’inizio di un’avventura nella quale è in gioco la sua vita, il suo cammino da tracciare, la sua libertà da costruire.  Il passaggio del mare è quindi una nascita. Ma nel racconto dell’Esodo è la nascita di persone che erano già viventi. Si tratta quindi di una seconda nascita. Nascita a se stesso di un popolo che in precedenza era un oggetto di cui il faraone e gli egiziani si servivano e trattavano a loro piacimento. Fino ad allora sottomesso al faraone, questo popolo diventa ora soggetto della propria storia, soggetto del proprio cammino verso la libertà. NASCITA DEL SOGGETTO  Il racconto dell’esodo è una parabola di ciò che significa vivere. Perché vivere è nascere. Quindi anche morire a ciò che si era prima.  È imparare che le morti e i vicoli ciechi sono luoghi nei quali l’essere umano riceve la possibilità di diventare soggetto della propria vita e artefice della propria libertà – sull’esempio del popolo d’Israele che attraversa il mare.  Per un bambino nascere è accettare il rischio dell’ignoto e della morte. Perché fin dalla nascita una morte si impone a lui. Morte a una determinata forma di vita, fatta di una dipendenza stretta, nutriente e calorosa, ma che comporterebbe la morte se si prolungasse. Fra due morti – la morte certa nel grembo materno e la morte temuta del salto nel vuoto –, il nascituro rischia l’unica via che comporta un’opportunità di vita, come Israele entra nel mare piuttosto che gettarsi fra le braccia del faraone.  Una volta uscito dal grembo materno, il bambino entra in un altro grembo: la famiglia, nel «seno» della quale si stabiliscono per lui legami di ogni sorta, legami indispensabili, checché ne sia della piega che prendono. Tuttavia, con il passare del tempo, può rendersi conto che questi legami lo imprigionano e lo soffocano più che aiutarlo a vivere.  Se rifiuta di lasciarsi bendare gli occhi, di piegare la schiena e di votarsi all’infelicità (che alcuni, ahimè, chiameranno felicità), la persona cercherà di sciogliere i legami che intralciano la sua vita. Superando molteplici paure, tenterà di abbandonare quel modo di essere nel quale vive in funzione degli altri, sotto il loro sguardo, in base al loro desiderio. Assumerà il rischio di nascere a se stesso e di imparare a vivere come soggetto, in sintonia con il suo desiderio È la seconda nascita. Vivere è nuovamente rifiutare una morte, quella che consiste nel non diventare se stesso, nel restare prigioniero di questo padrone violento e tirannico: la paura che spinge a rassegnarsi a essere schiavo di ciò che si è stato, di ciò che altri si aspettano e desiderano che si sia. Il passato come unico orizzonte. Il rischio vietato. La nuova nascita implica quindi l’abbandono del mondo rassicurante nel quale si viveva. I legami ostacolano la libertà, ma hanno un vantaggio: procurano un certo comfort e alimentano una sensazione di potenza. Rinascere è lasciare questo mondo pieno e assumere il rischio del deserto, ossia del vuoto, dell’incerto, della mancanza di padronanza che ne risulta – come Israele nel deserto.  Nascere suppone la fiducia nel fatto che la vita sia più forte: la strada imboccata è un passaggio e non un vicolo cieco.  Da dove viene questo appello interiore, questa forza che si rifiuta di vivacchiare e spinge a rischiare l’ignoto? Da dove viene questa audacia di credere che le barriere interiori non sono insuperabili? Da dove viene il fatto di credere che la morte può partorire un vivente e lo schiavo un uomo libero? La psicanalisi parlerà del padre. Israele parlerà di YHWH.  In realtà, questa domanda trova una risposta quando il racconto della nascita d’Israele come popolo libero sceglie di chiamare YHWH colui che gli consente di nascere vivo e libero, quando sceglie di affrontare la morte. Il nome sacro deriva dal verbo hāyāh, cioè «essere», e ciò potrebbe suggerire che il Dio esso designa è al tempo stesso colui che è, che sarà e soprattutto che fa essere. YHWH Il racconto dell’esodo conferisce quindi un contenuto a questo «tu» al quale si rivolge la Legge. È l’uomo che, come Israele, è impegnato nel percorso della nascita a se stesso, un percorso in realtà mai concluso. Ma lo stesso racconto conferisce un contenuto anche a questo Dio YHWH che è l’autore di queste Dieci parole. Nella scena del roveto ardente, il Dio che si manifesta a Mosè e lo manda a reclamare la liberazione del popolo si attribuisce questo nome, cioè YHWH (cfr. Es 3,14). A questo punto colui che si presenta come il Dio degli antenati di Israele parla di coloro che sono schiavi oppressi in Egitto. Invia loro Mosè per farli uscire da quella che non è vita. Mosè gli chiede il suo nome, perché dovrà poter dire chi lo manda. E la voce risponde: ’ehyeh ’ a šer ’ehyeh. L’espressione ha la stessa radice del nome YHWH, che gli ebrei pronunciavano e pronunciano ’ adonāy, vale a dire «mio Signore», per rispetto di Dio stesso. Questa espressione suggerisce che l’essere del Dio che parla a Mose è colui che sarà con il suo inviato e con Israele sempre.  Fino al momento nel quale pronuncia le Dieci parole, YHWH si è rivelato come colui che separa Israele dall’Egitto materno ma divorante, in modo che possa nascere a ciò che è e «questo Mosé, di quest’uomo che ci ha condotto via dall’Egitto». I figli d’Israele vanno da Aronne, un’«istituzione» senza rapporto personale con YHWH e senza una propria missione davanti a loro. Vogliono farsi da soli la storia per dimenticare la storia di Dio con loro. Il toro è per Israele un dio in cui comprende e rappresenta se stesso – scaturito dalla forza del proprio successo, formato dalla sua fantasia e dalla sua arte, prodotto dalle ricchezze di uno stile di vita straniero. Israele non può aspettare. Mosè si trova sul monte già da troppo tempo. Davanti a un’impazienza evidente perdono il senso del momento giusto. Non possono aspettare il tempo di Dio e in questo modo si privano della sua grazia. Per gli israeliti non si tratta di celebrare la manifestazione di YHWH ( ma della festa della loro forza e del loro vigore.  Israele continuerà il suo ,)יהוה esodo, ma solo perché YHWH (יהוה (perdona. Egli rimane fedele a se stesso, come colui che dona sempre al suo popolo la vita e la libertà. Il suo amore, che diventa palese nelle promesse fatte ai padri e dall’inizio dell’esodo in poi, è più grande della sua ira. E questa ira mostra, una volta ancora, la sua unione appassionato con il suo popolo.  Quando Mosè vede ciò che sta accadendo nell’accampamento, preso dall’ira infrange le tavole della Legge ai piedi della montagna. Così fa capire con violenza agli israeliti che l’alleanza con YHWH è spezzata. E tuttavia egli vuole dare loro la possibilità di capire che l’Egitto è ancora profondamente radicato nelle loro viscere e che non saranno mai liberi sono non avranno prima rigettato tutto ciò che ancora rimanda all’«oro» della schiavitù.  Oggi il «vitello d’oro» è il simbolo di un sistema economico che si è votato a un’organizzazione sconsiderata a favore del profitto e al raggiungimento del potere. Negli stili di vita più consolidati del singolo e delle società si è completamente affermata, di fatto, una mentalità dell’«avere» . SECONDA PAROLA  Nella tradizione cristiana «non nominare il nome di Dio» è venuto a significare soprattutto il «non bestemmiarlo». Bestemmiare significava e significa chiamare Dio in causa, associando al suo nome una parola ingiuriosa o offensiva con cui «ferirlo», come vuole la radice greca del termine «bestemmiare», vale a dire βλασφημέω (blasphēméō), che rimanda a «creare un danno».  Usare la parola contro Dio per male-dirlo piuttosto che per bene- dirlo è maleducazione e mancanza di rispetto per il credente che ne fa l’oggetto del suo amore e ripone in lui la sua fiducia.  L’interpretazione nel comandamento biblico va anche nella direzione del divieto di «non giurare il falso». In questo caso il nome di Dio è usato «invano» perché, associato a ciò che è falso, offende Dio trasformandolo da garante del vero, che sorregge il mondo, ad essere menzognero che ne sconquassa le fondamenta.  Il significato più vero del divieto di «nominare invano il nome di Dio» va tuttavia attinto a un livello ancora più profondo che si trova oltre la bestemmia e oltre il falso giuramento. Per la Bibbia l’uomo è «ad immagine e somiglianza di Dio» perché ne è il «portatore», la «casa» o il «tempio» e tutta l’avventura umana e della sua antropologia – il senso dell’esistenza dell’uomo nel mondo, il suo «perché» iscritto nel suo esserci – è di non portare invano questo tesoro. «Non eleverai il nome del Signore, tuo Dio, a vuoto»: significa anche non servirsi mai del suo nome per legittimare la propria forza, ideologia o violenza, come troppe volte è avvenuto e ancora avviene, come ci insegna la storia.  Più che la violenza il comandamento vieta la sacralizzazione della violenza: la sua legittimazione servendosi del nome di Dio. Ma desacralizzata, la violenza è smascherata e può essere più facile sconfiggere e ricacciare nella preistoria del processo di umanizzazione del soggetto umano.  Quando si pronuncia con fede il nome di Dio, la sua presenza diventa espressione di una relazione rispettosa. Il nome con cui Dio si è rivelato a Mosè significa «Io sono colui che per te e per voi è qui, dovunque e sempre». Con ciò egli si sottrae a tutti i tentativi umani di comprenderlo, di definirlo o di renderlo utilizzabile per i propri interessi.  Di fronte a determinate paure, possiamo ricordarci che non dobbiamo conquistare la terra della nostra vita con la nostra forza e contare solo su di noi, bensì che dobbiamo ricevere quella terra come dono di Dio, dobbiamo lasciarci condurre lì da lui. TERZA PAROLA Questa Parola ordina ciò che bisogna fare, esprimendo l’offerta divina di senso all’uomo, frutto della sua bontà e benevolenza. Sul piano lessicale, nella sua forma verbale (šabbāt) vuol dire «cessare o interrompere l’azione che si stava compiendo», e nella sua forma sostantiva, identica a quella verbale, «sospensione del lavoro o riposo».  Ordinando quindi di «custodire (šāmar): il giorno del sabato (šabbāt)», Dio istituisce per Israele e, attraverso Israele, per l’umanità di cui Israele è rappresentante, uno spazio oltre e altro dal lavoro. L’istituzione di un giorno di riposo nell’arco della settimana resta una delle conquiste più grandi nella storia della civiltà umana e uno dei doni più straordinari della Bibbia all’umanità. Il senso più profondo del sabato biblico va ricercato altrove: non nell’affermazione che l’uomo deve riposarsi dal lavoro bensì nell’affermazione che l’uomo è oltre e altro dal lavoro. Oltre e altro dall’essere «produttore» dei suoi fini e dei suoi mezzi. Il divieto coincide con il divieto di viversi come io «prometeico» o progettuale. La riduzione dell’io a soggetto di potere che, in forza di se stesso, si soddisfa, coincide, per la Bibbia, con l’alienazione stessa dell’umano, essendo l’uomo, per essa, non ciò che egli fa ma – evento e grazia! – ciò che gli è fatto dall’alterità di Dio che liberamente e sovranamente si china su di lui prendendosi cura del suo bisogno e avvolgendolo nello spazio della sua sollecitudine. La vera discriminante, per la Bibbia, passa tra chi si vive come soggetto di potere e chi, oltre e altro come oggetto di gratuità o grazia.  La santificazione del sabato sta al centro delle Dieci Parole. È la Parola più estesa di tutte. Perciò la si può considerare come il cuore del Decalogo. Questo giorno va «santificato», vale a dire che appartiene a Dio, e non è il prolungamento dei bisogni e degli interessi umani. Con la santificazione del sabato, adempiamo la Prima delle Dieci Parole: solo una realtà personale che supera il nostro mondo e il nostro quotidiano ci può rendere possibile «di esistere umanamente».  La Parola del Sabato nel libro del Deuteronomio si riferisce molto chiaramente al preambolo del Decalogo. Il riposo del sabato vuole ricordare al popolo d’Israele che egli stesso è stato schiavo in Egitto – senza diritto di autodeterminazione, sfruttato duramente, privato del frutto del proprio lavoro. Israele non deve mai dimenticare che YHWH lo ha liberato «con mano potente e braccio teso». Perciò tutte le creature devono prendere parte a questo giorno di libertà e di respiro, anche coloro che sono svantaggiati e senza privilegi. Con il riposo del sabato, celebriamo la nostra identità specifica come popolo di Dio: essere in mezzo al mondo un segno della presenza di Dio.  Nel Deuteronomio il significato del sabato include sempre il diventare liberi e rendere liberi gli altri. Alla domanda perché Israele nel giorno di sabato deve comportarsi in modo diverso dai restanti sei giorni della settimana, il libro dell’Esodo fornisce un’altra motivazione: l’essere umano deve partecipare al compimento della creazione, che coincide con il riposo di YHWH al settimo giorno. Il sabato è espressione del fatto che la creazione non è fine a se stessa e trova il suo senso solo nella comunione con DioLe due motivazioni della Parola del sabato non rappresentano biblicamente una contraddizione. La versione del Deuteronomio sottolinea l’aspetto sociale, ma pone questo nel contesto teologico della storia di liberazione dall’Egitto. La versione dell’Esodo sottolinea anch’esso l’aspetto teologico, senza perdere di vista le esigenze del mondo creato. Qui il sabato è fondato non sulla liberazione ma sulla creazione.  Creare per la Bibbia vuol dire che Dio libera il mondo dal caos, per offrirlo come casa – come ‘ēden! – all’uomo e offrirlo non per essere ringraziato ma per essere imitato. Dio fa šabbāt, cioè si riposa, perché l’uomo faccia šabbāt, cioè si riposi. Che vuol dire: perché l’uomo faccia della gratuità divina l’imperativo del proprio agire, cioè liberando, amando e dando gratuitamente come Dio.  Al tempo di Gesù, l’osservanza del sabato era diventata il tratto che distingueva nel modo più netto gli ebrei dai non-ebrei, tuttavia vissuto nella maniera inadeguata. Gesù criticherà tale atteggiamento, ponendo le persone che hanno perso la loro integrità originaria al centro dell’attenzione di tutti per rendere evidente che fin dalla sua origine l’essere umano è posto al centro della creazione, e non il sabato, che invece è fatto per l’uomo.  Chi giustifica teologicamente un comportamento che non è più umano, ponendo il Decalogo contro la volontà di Dio, distrugge la vera religiosità e l’umanità. Se, secondo Es 20, il sabato è stato istituito affinché l’uomo possa partecipare al compimento della creazione, perché l’azione taumaturgica di Dio non deve manifestarsi proprio in questo giorno?  Se, secondo Dt 5, il sabato è un giorno di libertà e di riposo da tutto ciò che deturpa e deforma la vita, perché proprio in questo giorno una persona non deve essere restituita alla sua forma della sua destinazione originarie e lodare Dio?  Chi non si distacca dalle preoccupazioni e dall’affanno del quotidiano per riprendere respiro davanti a Dio nella preghiera e nella memoria delle fonti della fede, sicuramente si rovinerà e perderà sapore . QUARTA PAROLA 4,1-16). Per questo motivo è difficilmente contestabile tale affermazione: «fin dalle sue lontane origini, la cultura dell’Occidente, in tutte le sue forme ed espressioni, parla il linguaggio della guerra».  Da una parte l’imperativo divino a non uccidere, dall’altra la storia umana che lo smentisce con le sue guerre, uccisioni e violenze legittimate razionalmente o realisticamente.  L’imperativo divino «non assassinerai»: iscritto nel volto di ogni uomo, denuncia come disumano qualsiasi umano che si edifichi sull’oblio e sul disprezzo degli ultimi e dei deboli e annuncia che solo nel prendersi cura di chi è meno dotato di forza e più sofferente si accede alla percezione di ogni essere umano come prezzo incommensurabile, il contrario appunto del dis-prezzo. SESTA PAROLA «Non commettere adulterio» è divenuto secondo la dizione ormai comune nella tradizione cristiana «non commettere atti impuri». Questo comandamento riguarda il divieto di alterare l’umano e, essendo l’umano sempre e necessariamente sessuato, il comandamento riguarda l’ordine di non alterare la sessualità umana .  Il termine condanna non solo l’adulterio, ma qualsiasi adulterazione del comportamento dell’uomo e della donna, nei loro rapporti con gli altri o con se stessi. Nel Medioevo l’adulterator era il falsificatore di monete. Per cui il no’ēph o la no’āphet sono persone che violano le regole non solo del matrimonio, ma di ogni buona condotta.  Il termine «adulterare» deve essere qui inteso nel suo antico significato di «alterare la purezza», «falsificare». Come non può essere violata la vita del prossimo, così non può essere violato neanche il suo matrimonio. All’origine del divieto c’è il principio della difesa della vita del prossimo e della tutela della sua famiglia.  Nella società di una volta l’adulterio con una donna sposata metteva in discussione la legittimità dei figli, la tutela della famiglia e della proprietà. L’adulterio metteva in gioco i presupposti vitali del prossimo e veniva punito con la morte (cfr. Lv 20,10; Dt 22,22-29). Originariamente il divieto riguardava l’adulterio segreto che non è perseguibile davanti alla Legge. La storia dell’adulterio di Davide con Betsabea (cfr. 2Sam 2) illustra questo fatto. Anche se la prospettiva veterotestamentaria riguardo al matrimonio e alla famiglia è strettamente legata ad aspetti socio-economici, non rimane però limitata a tali circostanze. Il divieto di compiere adulterio evidenzia l’importanza di quelle relazioni stabili delle quali ha bisogno una persona come presupposto di vita. Affidabilità e solidarietà, amore e fiducia sono pilastri fondamentali di una libertà in cui è possibile realizzare la comunione di vita tra un uomo e una donna.  Il matrimonio già nell’AT viene presentato in un ampio orizzonte antropologico e storico-salvifico, come paradigma di una piena comunione umana e come simbolo del legame concreto tra Dio e il suo popolo. Il divieto di commettere adulterio va compreso unicamente nel contesto di una relazione viva con Dio. Gesù ha radicalizzato questo divieto secondo una duplice modalità. Egli fa cominciare l’adulterio già negli sguardi e nei desideri segreti: «avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,27- 28). In più, respinge la prassi usuale al suo tempo circa il divorzio.  Gesù vuole che i suoi ascoltatori imparino a vedere di nuovo il senso originario dell’amore e della comunione coniugali. Soltanto in un’atmosfera di accoglienza reciproca gli esseri umani sono capaci di un amore che per loro diventa benedizione e non maledizione. Questa fiducia nasce dall’unione con Dio. Esorta i farisei a convertirsi al Creatore: non ha valore cosa vuole l’uomo, ma cosa vuole Dio; e Dio vuole l’unione nell’amore tra l’uomo e la donna. Nessuno può distruggere arbitrariamente questa unione. Solo tornando al principio della creazione si comprenderà il matrimonio come un sacramento, un segno della fiducia tra persone che, mediante la fede, vengono liberate dal potere distruttore della diffidenza riguardo alla vita comunitaria. Solo su questa base l’esigenza dell’indissolubilità del matrimonio diventa una promessa di sicurezza che l’uno è capace di dare all’altro. Oggi il matrimonio viene considerato perlopiù una faccenda privata. Spesso la forma di vita del singolo, ritenuta appagante, è giudicata migliore rispetto al matrimonio, che viene percepito come un peso. D’altra parte rimane quella nostalgia di amore e di fedeltà che durino tutta una vita e cresce la sensibilizzazione nei confronti delle ferite interiori vissute nell’ambito relazionale. La maggior parte dei coniugi vive l’infedeltà nel matrimonio come ferita personale, come disprezzo della propria dignità umana.  Questa Parola del Decalogo riguarda poi la dimensione fondamentale della nostra umanità, della nostra solidarietà umana. Poiché la relazione tra un uomo e una donna è la forma-base della solidarietà umana secondo la creazione.  Dal punto di vista biblico, amore e fedeltà rappresentano una decisione del cuore e della mente nei confronti del coniuge, confidando in Dio. Come comunione di vita il matrimonio è indissolubile. Proprio l’analogia con l’alleanza di YHWH esclude che si possa prevedere un suo scioglimento. Senza l’intenzione sincera di stabilire un rapporto permanente, non c’è alcun matrimonio legittimo. Inoltre la sessualità tra un uomo e una donna è custodita nel modo migliore in una comunione d’amore progettata per durare a lungo, proprio perché questo è il luogo dove essa si compie nel vincolo di un amore personale.  Tuttavia sappiamo bene che il matrimonio può naufragare anche quando entrambi i coniugi nutrono un sincero desiderio nei riguardi del matrimonio, che la comunione di vita può spezzarsi e degenerare in uno scontro distruttivo. Allora per chi ne è coinvolto la separazione può essere pur sempre una soluzione migliore, anche moralmente. Ma un tale naufragio significa sempre una frattura nell’esistenza, un fallimento che richiede il perdono e che non deve essere ridotto a «caso normale».  Il divieto divino dell’adulterio non è più la questione centrale intorno a cui ruota tutto il pensare e l’agire dei coniugi nel matrimonio, ma al centro si mette il matrimonio custodito e liberamente accolto, si supera così il divieto dell’adulterio, che diviene la condizione per la realizzazione del mandato divino del matrimonio. Il divieto divino diventa così assenso a vivere nel matrimonio liberi e sicuri. SETTIMA PAROLA  La Parola proibisce il furto, l’appropriazione indebita di ciò che è di un altro e che, per questo, non può essere trasferita all’io.  Il divieto di rubare riguarda anche quello del rapimento e vuole preservare il prossimo dall’essere venduto in schiavitù fuori dal proprio Paese. Con questo grave reato ci si riferisce anche alla trasgressione nascosta – come con i fratelli di Giuseppe, i quali vendono il figlio prediletto del loro padre Giacobbe a gente che sta andando in Egitto (cfr. Gen 37).  La libertà non può essere persa in nessun caso per rapimento o schiavitù. La seconda tavola del Decalogo mostra una logica interna: assicura i diritti fondamentali del cittadino libero, vale a dire la sua vita, il suo matrimonio, la sua libertà e la sua proprietà. Il divieto di rubare esclude categoricamente il rapimento di una persona per ragioni etiche, politiche o economiche. A nessuno è consentito di usare una vita umana riducendola a un mezzo in funzione di un fine.  D’altro canto la Parola vuole tutelare la proprietà intesa come condizione sicura di vita per il sostentamento essenziale. Il divieto di rubare è espressione di un principio di solidarietà, vuole tutelare il diritto del prossimo alla vita e alla libertà. La parabola del ricco epulone del povero Lazzaro (cfr. Lc 16,19-31) narra di come due realtà opposte, il lusso sfrenato e la miseria che invoca giustizia, possano coesistere l’una accanto all’altra senza neanche sfiorarsi – una realtà assurda anche al giorno d’oggi.  L’atteggiamento solidale chiama in causa anche la preoccupazione per le generazioni future: non devono essere derubate dei loro mezzi di sussistenza dallo sfruttamento senza scrupoli delle risorse della terra. «E non ruberai/sequestrerai» è un’esortazione a rivedere il proprio stile di vita e le proprie abitudini, e a non trascurare l’attenzione personale nei confronti di questo divieto, per esempio in rapporto al bene comune OTTAVA PAROLA Comandando di «non dire falsa testimonianza», il testo biblico sottrae la parola alla menzogna e la pone a servizio della verità da accogliere, custodire, trascrivere, obbedire e tramandare. Senza il presupposto della verità che la inabita, la parola – ogni parola – degraderebbe a puro suono, stimolo, gioco, apparenza o illusione e piuttosto che promuovere la coesione sociale ne costituirebbe la disgregazione.  Sottrarre la parola alla menzogna è vincolarla all’ordine della verità senza la quale non è possibile né la comunicazione umana né la costruzione della polis. Per la Bibbia la verità della parola è nella sua potenza interpellatrice che, rivolgendosi all’altro, da parte del tutto, lo costituisce interlocutore o partner di fronte a un «tu». La parola, per la Bibbia, è costitutrice dell’umano come responsabilità, in cui l’io è risposta – e può essere soltanto risposta – all’anteriorità o grazia che lo previene e gli fa dono di ogni cosa.  La verità che custodisce la parola biblica è la verità del Dio di Abramo e di Gesù che ama l’uomo gratuitamente e gli è sempre fedele. La verità della parola biblica è la verità della fedeltà e della misericordia – la verità come fedeltà e come misericordia – che abbraccia tutti, buoni e cattivi, giusti e
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