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La teoria della letteratura: La camera chiara - Sulle fotografie, Dispense di Teoria della Letteratura

La natura della fotografia attraverso la reflessione di roland barthes sulla sua relazione con la morte e la sua capacità di evocare emozioni e sensazioni. Barthes analizza come le fotografie alterino e ampliano le nostro concezione del valore e del diritto all'osservazione del mondo, e come collezionarle significa collezionare il mondo intero.

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 20/01/2019

giusy-impalli
giusy-impalli 🇮🇹

4.5

(2)

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La teoria della letteratura: La camera chiara - Sulle fotografie e più Dispense in PDF di Teoria della Letteratura solo su Docsity! TEORIA DELLA LETTERATURA -LA CAMERA CHIARA Questo opera si richiama alla fotografia. Sono delle annotazioni che ripercorrono il pensiero di Barthes verso la fotografia. Egli scrive questo saggio dopo la morte di sua madre a cui era legatissimo ripercorrendo album di fotografia in cui cerca l’essenza di sua madre ma sosteneva che nessuna foto ritraeva la madre. Sin dal primo passo, ovvero quello della classificazione, la fotografia si sottrae e si può dire che la fotografia non è classificabile. Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente; è il particolare assoluto. Una fotografia si trova sempre all’estremità di questo gesto; essa dice: questo. È questo, è esattamente così. Una foto non può essere trasformata. Cogliere il significante fotografico non è impossibile solo che ciò richiede un atto secondo di sapere o di riflessione. Per sua natura, la fotografia ha qualcosa di tautologico: nella foto, la pipa è sempre la foto. Inesorabilmente. Si direbbe che la fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa o funebre. La fotografia appartiene a quella classe di oggetti fatti di strati sottili di cui non è possibile separare i due foglietti senza distruggerli: il bene e il male; il desiderio e il suo oggetto: tutte dualità che è possibile concepire ma non cogliere. Questa fatalità trascina la fotografia nell’immenso disordine degli oggetti. La fotografia è inclassificabile perché non c’è nessuna ragione di contrassegnare tale o talaltra delle sue occorrenze. Esso osservò che una foto può essere l’oggetto di tre pratiche: fare, subire, guardare. L’operator è il fotografo; lo spectator siamo tutti noi che compulsiamo;colui o ciò che è fotografato è il bersaglio, il referente, di eidòlon emesso dall’oggetto, che lui chiama spectrum della fotografia, dato che attraversa la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo spettacolo aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto. Tecnicamente parlando la fotografia sta nel punto d’incontro di due procedimenti assolutamente distinti: il primo è di ordine chimico: è l’azione della luce su determinate sostanze; il secondo è di ordine fisico: è la formazione dell’immagine attraverso un dispositivo ottico. Lui aveva l’impressione che la fotografia dello spectator avesse origine dalla rivelazione chimica dell’oggetto e che viceversa la fotografia dell’operator fosse legata alla visione delimitata dal buco della serratura della camera obscura . ma di quella precisa emozione egli non poteva parlare, non si poteva unire alla schiera di quanti parlano della foto secondo il fotografo perché lui aveva a disposizione due esperienze: quella del soggetto guardato e quella del soggetto guardante. Non appena noi ci sentiamo guardati dall’obbiettivo tutto cambia:ci mettiamo in posa, ci fabbrichiamo immediatamente un altro corpo, ci trasformiamo anticipatamente in immagine. Questa trasformazione è attiva: noi sentiamo che la fotografia crea o mortifica a suo piacimento il nostro corpo. Noi vorremmo che la nostra immagine, mobile, sballottata secondo le situazioni, le epoche, fra migliaia di foto mutevoli coincidesse sempre con il nostro io, ma bisogna dire il contrario: siamo noi che non coincidiamo mai con la nostra immagine, l’immagine è pesante, immobile e siamo noi che siamo leggeri, diversi, dispersi e che come un diavoletto di Cartesio non sta mai fermo. Vedere se stessi è stato sino alla diffusione della fotografia un bene limitato a pochi. La fotografia è infatti l’avvento di noi stessi come altro. Fatto ancora più curioso è prima della fotografia che gli uomini hanno maggiormente parlato della visione del doppio. La fotografia trasformava il soggetto in oggetto o meglio in oggetto da museo, bisognava che il soggetto si sottoponesse a lunghe pose sotto una vetrata in pieno sole, diventare oggetto faceva soffrire come un operazione chirurgica, fu allora inventato un apparecchio chiamato poggia testa, una sorta di protesi il quale reggeva e manteneva il corpo nel suo passaggio verso l’immobilità. La foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Davanti all’obiettivo noi siamo: quelli che noi crediamo di essere, quelli che vorremmo che si creda di noi, quello che il fotografo crede che noi siamo, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte, la fotografia rappresenta quel particolare momento in cui, a dire il vero, non siamo né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente di diventare oggetto; in quel momento noi viviamo una micro-esperienza della morte: noi diventiamo veramente uno spettro. Si direbbe che il fotografo, atterrito, debba lavorare moltissimo per far sì che la fotografia non sia la morte, ma noi che siamo già oggetto, non lottiamo, ciò che io ravviso nella foto che mi viene fatta (l’intenzione con la quale la guardo) è la morte: la morte è l’eidos di quella foto. Quando siamo fotografati l’unica cosa che sopportiamo, che amiamo, che è familiare è il rumore della macchina fotografica o meglio il movimento del dito. L’autore ama i rumori metallici come se, della fotografia, essi fossero precisamente quello a cui il suo desiderio si afferra. Il disordine che sin dal primo momento aveva constatato nella fotografia lo ritrovava nelle foto dello spectator che lui era e che voleva interrogare. Le fotografie sono un insieme di immagini dove il loro modo di apparizione è il come viene viene o il come va va, ma lui cercava foto che provocavano in lui gioie sottili come se rinviassero a un bene erotico o straziante. Inoltre lui (l’autore) constatava che non amava tutte le fotografie di uno stesso autore. Per esempio del fotografo STIEGLITZ amava solamente la sua foto più famosa, ovvero il capolinea del tram a cavalli(New York 1893). La foto di MAPPLETHORPE lo induceva a credere di avere trovato il suo fotografo, ma invece non era così. Attraverso la forza dei suoi investimenti, attraverso morto al tempo stesso: busto imbiancato del teatro totemico, uomo dal volto dipinto del teatro cinese ecc. è appunto questo stesso rapporto che lui ritrova nella foto; per quanto viva ci si sforzi di immaginarla, la foto è come un teatro primitivo, come un quadro vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti. Il gesto essenziale dell’operator sia quello di sorprendere qualcosa o qualcuno. Da tale gesto derivano tutte le fotografie il cui principio è lo shock. Lo shock fotografico consiste non tanto nel traumatizzare quanto nel rivelare ciò che era così ben nascosto, ciò che l’attore stesso ignorava o di cui non era consapevole, ne consegue una gamma di sorprese. La prima è quella del RARO piena di ammirazione. La seconda è ben nota alla pittura. La quale ha spesso riprodotto un gesto colto nel punto preciso della sua corsa in cui l’occhio normale non può fissarlo, la foto immobilizza una scena rapida nel suo momento decisivo. La terza sorpresa è quella della prodezza. Una quarta sorpresa è quella che il fotografo si aspetta dalle contorsioni della tecnica: anamorfosi, utilizzazione volontaria di certi difetti. Il quinto tipo di sorpresa è la trovata (quando diviene scena naturale). Tutte queste sorprese soggiacciono a un principio di sfida, il fotografo deve sfidare le leggi del probabile o del possibile; all’estremo opposto, egli deve sfidare quelle dell’interessante: la foto diventa sorpresa dal momento in cui non si sa il perché è stata fatta. La fotografia fotografa il notevole. 15-Dal momento che ogni foto è contingente la fotografia può significare solo assumendo una maschera. Questa è la parola che Calvino usa per designare ciò che fa d’un volto il prodotto di una società. Così è per il ritratto di WILLIAM CASBY, fotografato da AVEDON: l’essenza della schiavitù vi è messa a nudo: la maschera è il senso, in quanto è assolutamente pur. La maschera è tuttavia la regione difficile della fotografia, la società diffida del senso puro: essa vuole che vi sia del senso, ma al tempo stesso vuole che questo senso sia circondato da un rumore che lo rende meno acuto. La fotografia della maschera è in effetti abbastanza critica da destare preoccupazione ma d’altra parte è troppo discreta. Se si accentua il campo della pubblicità, in cui il senso deve essere chiaro e distinto solo in ragione della sua natura commerciale, la semiologia della fotografia è limitata agli splendidi risultati di pochi ritrattisti. Per il resto,per l’accozzaglia delle buone fotografie, tutto ciò che di meglio si può dire è che l’oggetto parla e che vagamente induce pensare. In fondo la fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge, ma quando è pensosa. 16- una vecchia casa, un portico in ombra, un tetto di tegole, un uomo seduto contro il muro, una via deserta: questa fotografia antica (Alhambra, di CHARLES CLIFFORD 1854) commuove l’autore perché è là che lui vorrebbe vivere, per lui le fotografie dei paesaggi devono essere abitabili e non visitabili; il suo desiderio è fantasmatico, esso nasce da una sorta di veggenza che sembra portarlo avanti, verso un tempo utopico. Dinanzi a questi paesaggi prediletti, è come se lui fosse sicuro di esserci stato o di doverci andare. l’essenza del paesaggio sarebbe allora questo che risveglia la madre. 17-lo studium diede vita a un tipo di foto molto diffuso che viene chiamato FOTOGRAFIA UNARIA. Una trasformazione è unaria se, attraverso lei,una sola concatenazione è generata dalla base: le trasformazioni sono: passive, negative, interrogative ed enfatiche. La fotografia è unitaria quando trasforma enfaticamente la realtà senza sdoppiarla, quindi la fotografia unaria ha tutto per essere banale. Un esempio di foto unarie sono le foto di reportage. In queste foto in punctum è assente vi è shock ma non turbamento, la foto può urlare ma non ferire. Un altro esempio è la foto pornografica. 18-non è possibile fissare una regola di connessione fra lo studium e il punctum. Quelo che si può dire è che si tratta di una co-presenza. 19- il punctum è un particolare , vale a dire un oggetto parziale. Vi è una famiglia negra americana fotografata nel 1926 da JAMES VAN DER ZEE. Lo studium è chiaro: essa esprime rispettabilità, conformismo, familialismo, ma questo non punge l’autore. Ciò che punge l’autore è la larga cintura della sorella o della figlia, le sue braccia tenute dietro la schiena e le sue scarpe con il cinturino. Il punctum non si cura della morale o del buon gusto, il punctum può essere maleducato. WILLIAM KLEIN ha fotografato i monelli d’un quartiere italiano di New York è commovente, divertente ma ciò che lui vede sono i brutti denti del ragazzino. 20-il particolare che a lui interessa non è intenzionale, esso si trova nel campo della cosa fotografata come un supplemento che è al tempo stesso inevitabile, non voluto, esso non attesta obbligatoriamente l’arte del fotografo; dice solamente che il fotografo era là,oppure,che non poteva non fotografare al contempo l’oggetto parziale e quello totale. 21-vedere pag 21 22-lo studium è in definitva sempre codificato, mentre invece il punctum non lo è mai. NADAR fotografò a suo tempo Savorgnan de Brazza attorniato da due negretti vestiti da marinai, uno dei due ha posato una mano sula coscia di Brazza, questo può essere definito un punctum , ma per lui non lo è anzi per lui il punctum èil ragazzo con le braccia conserte. MAPPLETHORPE ha fotografato Bob Wilson e Phil Glass. Bob Wilson attrae l’autore ma non sa spiegare il perché. Succede che lui possa conoscere meglio una fotografia di cui ha memoria che no una foto che sta vedendo. Leggendo la foto di Van der Zee, credeva di aver individuato ciò che lo commuoveva: ovvero le scarpe con il cinturino della negra vestita a festa, ma quella foto ha lavorato dentro di lui e più tardi ha capito che il punctum era la collana che portava nel rasocollo, perché quella collana le faceva ricordare un componente della famiglia che ormai non c’era più. Con questo aveva capito che per quanto immediato, il punctum poteva adattarsi a una certa qual latenza. In fondo per vedere bene una fotografia è meglio alzare la testa o chiudere gli occhi, inoltre la fotografia deve essere silenziosa: non è questione d discrezione, ma di musica. La soggettività assoluta si raggiunge solo in uno stato, in uno sforzo di silenzio. La foto colpisce l’autore se esso la toglie dal suo solito bla-bla: tecnica, realtà, reportage, arte ecc. 23- anche se il punctum sia o non sia delimitato è un supplemento: è quello che io aggiungo alla foto e che tuttavia è già nella foto. Per questo sostiene che nel cinema non si possono chiudere gli occhi non si può pensare perché altrimenti vi è una nuova immagine. Il cinema però ha il potere che a prima vista la fotografia non ha ovvero:lo schermo, che viene definito come una maschera. Di fronte a migliaia di fotografie, comprese quelle che possiedono un buon studium, esso non avverte nessun campo cieco: tutto ciò che avviene dentro la cornice muore incondizionatamente appena al di là di questa. Quando si definisce la foto come un’immagine immobile, non si vuole dire che i personaggi che essa ritrae non si muovono; s’intende che essi non escono al di fuori. Tuttavia appena vi è il punctum si crea un campo cieco. Il punctum fa uscire il personaggio vittoriano dalla fotografia, dota questa foto d’un campo cieco. La presenza di questo campo cieco è ciò che distingue la foto erotica dalla pornografica, per lui nell’immagine pornografica non vi è il punctum, ma lo diverte solamente. La foto erotica, al contrario non fa del sesso un oggetto centrale; essa può benissimo non farlo vedere, essa trascina lo spettatore fuori dalla cornice. Si può dire quindi, che il punctum è una specie di fuori campo , come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere. 25-dopo la morte di sua madre lui cercava di trovare delle foto giuste che descrivessero i lineamenti della madre, ma nessuna di loro gli pareva veramente buona: nessuna performance fotografica, nessuna risurrezione viva del volto amato. 26-ciò che lo separava da molte di quelle fotografie era la storia; lui leggeva la sua inesistenza negli abiti che sua madre indossava prima che potesse ricordarsi di lei, per ritrovare sua madre bisognava che lui ritrovasse su qualche foto gli oggetti che ella aveva sul suo comò: per esempio un porta cipria, una boccetta di cristallo intagliato ecc. il tempo in cui sua madre ha vissuto prima di lui ecco che cos’era la storia per lui. della foto è come il risultato di una maliziosa confusione tra due concetti. Il reale e il vivente: attestando che l’oggetto è stato reale, essa induce impercettibilmente a credere che è vivo, a causa di quell’illusione che ci fa attribuire al reale un valore assolutamente superiore, come eterno; ma spostando questo reale verso il passato, essa suggerisce che è già morto. Perciò è meglio dire che il tratto inimitabile della fotografia è che qualcuno ha visto il referente in carne e ossa o anche in persona. Storicamente parlando la fotografia è nata come un’arte della persona: della sua identità, della sua propria condizione civile ecc. 34- si dice che a inventare la fotografia siano stati i pittori. L’autore sostiene che siano stati i chimici. Infatti il “ noema” “è stato” non è stato possibile che dal giorno in cui una circostanza scientifica ha permesso i captare e di fissare direttamente i raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato. La foto è letteralmente un’emanazione del referente. In latino fotografia significa immagine rivelata, tirata fuori dall’azine della luce. 35-l’effetto che produce la fotografia su di lui non è quello di restituire ciò che è abolito ma quello di attestare che ciò che vede è effettivamente stato. La fotografia dà in pasto al suo spirito; è il mistero semplice della concomitanza. Inoltre la data fa parte della foto perché induce a far mente locale, a considerare la vita e la morte: è possibile ch Ernest (foto pag 85) scolaretto fotografato da KERTéSZ nel 1931 viva ancora oggi?!. Lo fotografia pone una presenza immediata al mondo. 36-la fotografia non dice per forza ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato. Davanti ad una foto la coscienza non prende la via nostalgica del ricordo ma, per ogni foto esistente al mondo, essa prende la via della certezza: l’essenza della fotografia è di ratificare ciò che essa ritrae. La fotografia è indifferente a qualsiasi espediente: essa non inventa; essa è l’autentificazione stessa; i rari artifici che essa consente non sono probatori sono dei trucchi: la fotografia è elaborata solo quando bara. Ogni fotografia è un certificato di presenza. Questo certificato è il nuovo gene che l’invenzione della fotografia ha introdotto nella famiglia delle immagini. L’uomo che contemplò le prime foto ( per esempio NIEPCE davanti a la tavola apparecchiata foto a pag 88) dovette pensare che esse somigliassero come due gocce d’acqua a dei dipinti.. oggi presso i commentatori della fotografia è di moda la relatività semantica: nessun reale ma solo artificio. La fotografia dicono non solo un analogon del mondo; ciò che essa ritrae è costruito, perché l’ottica fotografica soggiace alla prospettiva albertina e perché l’iscrizione sul cliché fa di un oggetto tridimensionale un’effigie bidimensionale. I realisti, fra cui si schiera l’autore, non considerano affatto la foto una copia del reale, ma la considerano un’emanazione del reale passato: una magia. Domandarsi se la fotografia è analogica oppure codificata non è un buon criterio di analisi. L’importante è che la foto possieda una forza documentativa e che la documentatività della fotografia verta sul tempo. Nella fotografia il potere di autentificazione supera il potere di raffigurazione. 37-Alla scarsità d’immagine della lettura, corrisponde la totalità d’immagine della foto; non solo perché essa è già un’immagine in sé, ma anche perché quest’immagine molto speciale si spaccia per completa . l’immagine fotografica è piena non vi si può aggiungere niente. Nel cinema, ove il materiale è fotografico, la foto non ha questa completezza, perché la foto, presa in flusso, è sospinta, trascinata verso altre visioni. La fotografia, invece, spezza lo stile costitutivo essa è senza avvenire e non è minimamente protesa, invece il cinema si. La fotografia è in dialettica è un teatro snaturato in cui la morte non può contemplarsi , rispecchiarsi e interiorizzarsi. Nella fotografia, l’immobilizzazione del tempo non si manifesta che in modo eccessivo, mostruoso: il tempo è istruito. Il fatto che la foto sia moderna, confusa con la nostra quotidianità più attuale, non impedisce che in essa vi sia come un punto enigmatico d’inattualità, una stasi strana, l’essenza stessa di una fermata. La fotografia è violenta perché ogni volta riempie di forza la vista e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi. La fotografia deve infatti avere qualche rapporto con la crisi della morte che ha iniziato nella seconda metà del XIX secolo. Bisogna pure che in una società la morte abbia una sua collocazione; se essa non è più nella sfera della religione, allora deve essere altrove: forse nell’immagine che produce la morte volendo conservare la vita. La fotografia potrebbe forse corrispondere all’irruzione, nella nostra società moderna,di una morte simbolica, al di fuori della religione, al di fuori del rituale: una specie di repentino tuffo nella morte letterale. Nella fotografia entriamo nella morte piatta. Facendo della fotografia mortale il testimone principale e come naturale di ciò che è stato, la società moderna ha rinunciato al monumento. Paradosso: lo stesso sec ha inventato sia la storia che la fotografia. Ma la storia è una memoria costruita secondo ricette positive, un discorso puramente intellettuale che abolisce il tempo mitico; e la fotografia è si una testimonianza sicura, ma effimera. L’era della fotografia è anche l’era delle rivoluzioni, delle contestazioni, degli attentati, in poche parole delle impazienze. E senza dubbio lo stupore dello è stato scomparirà anch’esso. Anzi è già scomparso. 39- da quando lui si interrogava esso aveva creduto di poter distinguere un campo d’interesse culturale ( lo studium) e quella striatura imprevista che talora attraversava tale campo, che lui lo chiamava punctum. Esso sapeva che oltre al particolare esisteva un altro punctum. Questo nuovo punctum che non è più di forma, ma d’intensità è il TEMPO, è l’enfasi straziante del noema è stato, la sua raffigurazione pura. Nella foto di ALEXANDER GARNER, ritratto di Lewis Payne, 1865: la foto è bella e non solo il giovane rappresenta lo studium. Ma il punctum è: sta per morire. Davanti alla foto di sua madre bambina l’autore si dice che sta per morire come lo psicotico di WINNICOTT. Questo punctum si legge a vivo nella fotografia storica: in essa vi è sempre una compressione del tempo: è morto e sta per morire. 40-l’autore sostiene che le foto devono essere guardate da soli cioè privatamente. Ogni foto è letta come l’apparenza privata del suo referente: l’età della fotografia corrisponde precisamente all’irruzione del privato nel pubblico. Esso vive la fotografia e il mondo di cui essa fa parte distinguendola in due regioni: da una parte le immagini, dall’altra le sue foto; da una parte la non curanza, il sorvolare, il chiasso, l’inessenziale; dall’altra ciò che brucia e che ferisce. Nel campo della pratica della fotografia è il dilettante a essere l’esaltazione del professionista: è lui infatti che sta più vicino al noema della fotografia. 42-parla delle somiglianze nella foto e dice che una foto assomiglia a chiunque, fuorché a colui che essa ritrae. La somiglianza rimanda all’identità del soggetto, cosa irrilevante, puramente anagrafica, addirittura penale; essa lo ritrae in quanto se stesso, mentre invece io voglio un soggetto come in se stesso. 43-più insidiosa della somiglianza vi è che a volte la fotografia fa apparire ciò che non si coglie mai di un volto reale: un tratto genetico, il pezzo di se stessi o d’un parente che ci viene da un ascendente. La fotografia fornisce un po’ di verità, a patto di spezzettare il corpo. La fotografia è come la vecchiaia: anche se radiosa, essa scarnisce il volto, mette in evidenzia la sua essenza genetica. 44-esso capisce che non può penetrare la fotografia, ma la può solamente esplorare con lo sguardo. La fotografia è piatta. La si dovrebbe associare a una camera lucida. Dal punto di vista dello sguardo l’essenza dell’immagine è di essere tutta esteriore, senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea di interiorità. Di essere senza significato pur evocando la profondità di ogni possibile senso; non rivelata e tuttavia manifesta, possedendo quella presenza-assenza che costituisce la seduzione e il fascino delle sirene. Nell’immagine l’oggetto si presenta in blocco e la percezione ne è certa. 45- dal momento che la fotografia autentifica l’esistenza della tale persona, lui vuole ritrovarla globalmente, ossia in essenza, al di là di una semplice somiglianza anagrafica o ereditaria che sia. La piattezza del foto diventa qui più dolorosa essa può diventare desiderio folle solo attraverso qualcosa d’indicibile: evidente e improbabile. Questo qualcosa è l’aria. L’aria di un volto non è scomponibile , non è un dato schematico e non è neppure una semplice analogia come lo è la somiglianza. L’aria è
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