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Teorie e pratiche dei gruppi nella prima infanzia, Appunti di Sociologia Dei Gruppi

Appunti dettagliati di teorie e pratiche dei gruppi nella prima infanzia

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 10/11/2021

arianna-guerrisi
arianna-guerrisi 🇮🇹

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Scarica Teorie e pratiche dei gruppi nella prima infanzia e più Appunti in PDF di Sociologia Dei Gruppi solo su Docsity! Lezione del 24/02/2021 Perché diciamo che la psicologia sociale riguarda lo studio scientifico del modo in cui le persone e i gruppi percepiscono e pensano gli altri? Scientifico vuol dire che noi utilizziamo il metodo scientifico, vuol dire che noi, come psicologi sociali, non ci affidiamo all’intuizione, non ci affidiamo al principio di autorità per cui se lo dice il mio collega va bene, ma ci affidiamo al metodo scientifico. Vuol dire che noi facciamo delle ipotesi, perché abbiamo una teoria retrostante, raccogliamo dei dati; se questi dati confermano l'ipotesi che abbiamo fatto, abbiamo la conferma della teoria, se questi dati non confermano l'ipotesi che abbiamo fatto, vuol dire che dobbiamo forse fare un altro esperimento per confermare questi dati o andare a rivedere la nostra teoria, perché forse la nostra teoria prediceva un altro aspetto. Il metodo scientifico è il metodo che è stato tipico anche delle scienze, il metodo positivista, l'approccio positivista, quindi le scienze esatte, la medicina per esempio. | capisaldi sono diciamo delle idee di fondo, degli elementi fondamentali della nostra ricerca, della nostra disciplina. Per esempio, un caposaldo è che noi costruiamo la realtà, l’idea è che è costruzionista, vuol dire che non c'è una realtà oggettiva fuori ma noi in qualche modo la stiamo costruendo. Anche il modo in cui costruiamo i nostri esperimenti, è un modo che deve tenere in considerazione la costruzione della realtà. Noi partiamo dal presupposto che c'è una costruzione sociale della realtà. La psicologia sociale si occupa anche di studiare tutte quelle volte in cui sbagliamo; ci sono degli errori sistematici che noi facciamo. Noi guardiamo gli altri per capire com'è la realtà, per capire come dobbiamo comportarci. Un caposaldo di questa disciplina è che per predire se metteremo o meno in atto un certo comportamento, noi guardiamo gli atteggiamenti. Se io ho, per esempio, un atteggiamento di fiducia verso la scienza, se ho un atteggiamento di fiducia verso il personale sanitario, con più probabilità andrò a farmi il vaccino per il covid. Se io invece ho poca fiducia nella scienza e poca fiducia nel personale sanitario, probabilmente il vaccino non lo farò. Alla fine del XIX secolo, in Francia e in Germania ci sono queste due correnti di psicologi sociali: una è la Psicologia delle folle, in Francia, di Gustav Le Bon, l’altra è la Volkerpsichologie, in Germania, di Wilhelm Wundt. Entrambi, come punti in comune, pongono l’attenzione sui grandi gruppi, sui fenomeni collettivi, non sulle singole persone, hanno uno sguardo sociologico in qualche modo. Da un lato, Gustav Le Bon parla di folla coma cosa irrazionale, anonima, in pratica descrive i saccheggi delle folle, le rivolte popolari, come qualcosa di irrazionale e aggressivo. Wundt si occupa invece di guardare fenomeni più neutri, per esempio studia i costumi, le abitudini sociali, i riti che ci sono in una nazione piuttosto che in un’altra e quindi ha uno sguardo sulle folle un po’ più neutro. Le Bon parlava proprio delle folle in termini negativi. Entrambi hanno attenzione sui fenomeni collettivi e come metodologia privilegiata vi è l'osservazione; loro osservano il comportamento delle folle. In America, invece, diciamo che la grande espansione della psicologia sociale si ha dopo il '46. Perché? Perché molti psicologi sfuggono dall'Europa in seguito alle persecuzioni razziali, si stabiliscono negli Stati Uniti, dove, con grandi risorse economiche, sviluppano le loro ricerche. Poi, nel '63 c'è stata la Conferenza Europea di Psicologia Sociale Sperimentale, in cui gli psicologi statunitensi e quelli europei si riuniscono e, in qualche modo, criticano questa psicologia sociale nordamericana come troppo individuale, dicevano che guardava troppo all’individuo e non al gruppo, non al sociale e quindi vogliono portare avanti questa psicologia più sociale rispetto all’altra psicologia nordamericana. Una delle caratteristiche della psicologia sociale europea è proprio questa idea che io individuo guardo all'oggetto che può essere fisico (computer), sociale (gli immigrati), immaginario (il ruolo della tecnologia 5G nel diffondere il covid) e reale (il covid, la malattia). Quello che è interessante è che non solo io guardo l'oggetto, ma lo guardo attraverso l’altro. L'idea è che le mie percezioni non dipendono solo dal mio rapporto diretto con l'oggetto, ma dipendono dalla mia relazione con l’altro. Se prendiamo l'esempio dell’aeroplano: io sono sull'aereo, c'è una turbolenza e quindi guardo questo oggetto (c'è turbolenza e quindi stiamo cadendo) ma lo guardo anche attraverso gli occhi dell'altro e vedo come l’altro costruisce questo aspetto. Se vedo l’hostess e lo Stuart che rimangono tranquilli, allora non mi preoccupo perché loro, che volano tanto, pensano che non ci sia niente di grave. Allo stesso modo, nel momento in cui un bambino entra al nido durante l'inserimento, se la situazione del nido è stressante per quel bambino, perché magari i primi tempi è un po' stressante, però l'atteggiamento tranquillo dell'insegnante e dell’educatore, un atteggiamento rilassato del personale, fa pensare al bambino che la situazione è tranquilla ed è un posto dove si potrebbe anche stare bene, dove non c'è nulla di cui preoccuparsi. Tajfel e Moscovici sono due fondatori della psicologia sociale europea; Moscovici è morto recentemente, è il padre di quel Moscovici che è stato ministro francese ma anche della commissione europea. Il Bias è un errore sistematico che noi facciamo. Ci sono vari tipi di Bias. CAPITOLO 3 Il capitolo 3 parla proprio di cosa succede all’interno della testa degli individui quando si trovano in mezzo agli altri. La prima domanda a cui cerca di rispondere questo capitolo è: chi sono io? Cioè quello che gli psicologi sociali chiamano: il concetto di sé. Chi sono io? Dipende da molte cose, ma dipende soprattutto dall’identità sociale, cioè dai gruppi sociali a cui apparteniamo. Noi contemporaneamente apparteniamo a molti gruppi, uno di questi gruppi è, per esempio, il lavoro che faccio o cosa studio, la famiglia da cui provengo, ma anche gruppi amicali, religiosi, sportivi. Chi sono io dipende molto dai gruppi a chi apparteniamo, e si scopre soprattutto nel momento in cui mi chiedono: chi sei tu? E io dico: io mi chiamo... ho tot anni e faccio questo mestiere, frequento questo gruppo di amici, mi piace giocare a..... Quindi faccio parte contemporaneamente di più gruppi. Ma definire chi sono io dipende anche dal confronto sociale, con chi mi confronto. La teoria del confronto sociale permette di collocarmi rispetto a un gruppo. Il confronto sociale mi permette di definire chi sono io, ma definire chi sono io dipende dalle esperienze quotidiane, quindi dai miei successi, dagli insuccessi, da quello che riesco a ottenere se ho una promozione; dipende dai giudizi degli altri. Il giudizio degli altri può avere effetti devastanti o molto favorevoli, proprio per definire chi siamo noi. Tutti conosciamo qualcuno che è stato perseguitato a scuola, dagli “amici”, oppure qualcuno che ha sempre avuto la fama di essere bravo a scuola, bravo negli sport, ecc. Questo è il ruolo del giudizio degli altri nella costruzione di chi sono io. Che cos'è il concetto di autostima? L'autostima è un giudizio che una persona ha di sé, è la percezione del mio valore. È un giudizio assolutamente soggettivo, personale, su quanto valgo. Cosa succede quando l'autostima è minacciata? È molto costoso, per le persone, avere un'autostima bassa, perché chi ha un’autostima bassa non solo pensa a sé stesso come persona di poco valore, ma questo potrebbe avere anche delle conseguenze sociali. Per esempio, questa autostima bassa, potrebbe avere un effetto sulla poca percezione di auto efficacia. Bandura dice che c'è questo costrutto che si chiama autoefficacia ed è la percezione della propria efficacia, delle proprie competenze, che è una roba diversa dall’autostima. Cos'è l'autoefficacia? È la percezione di quanto io mi sento in grado di affrontare i compiti che mi vengono incontro, come ad esempio la capacità di insegnare, la capacità di affrontare un esame nuovo. È quanto io percepisco soggettivamente di essere in grado di affrontare i compiti. Il Locus of control è quanto io percepisco che ciò che ottengo dipende da qualcosa all’interno di me o all’esterno. Es: ho preso 30 all'esame, però avevo studiato tantissimo sai, mi ero impegnato tanto. Quindi, dipende da qualcosa internamente. Oppure: ho preso 30 all'esame ma è stata fortuna, sai, quel giorno lì la prof si è svegliata bene e mi ha fatto domande molto semplici. In questo caso il locus of control è esterno, cioè io attribuisco il mio successo accademico a qualcosa di esterno a me, al docente che si è svegliato bene o male. Quello che è interessante sapere è che le persone tendono ad avere un locus of control interno o esterno, lo possiamo misurare; abbiamo una scala che si chiama Scala di Rotter che è una batteria di domande, è un set di domande, un questionario. Le scale possono avere diversa lunghezza. Sono ad esempio 20 domande che misurano quanto io tendo ad avere un locus of control interno o esterno e quindi tendo a essere una persona che fa attribuzioni interne su tutto oppure una persona che tende a fare attribuzioni esterne su tutto. Chi tende a fare attribuzioni interne ha anche maggiori risultati accademici, maggiore successo in termini lavorativi e raggiungono più spesso obiettivi a lungo termine. Queste persone tendono ad avere maggiore successo sociale. Che cos'è l'impotenza appresa? È il contrario della percezione di auto efficacia. Se le persone più volte in successione sperimentano eventi negativi, percepiscono di avere una mancanza di controllo su quello che accade, imparano a sentirsi impotenti e rassegnate. (Esempio della bambina sulla bicicletta, che dopo essere caduta varie volte non vuole più riprovarci). Il self-serving bias è la tendenza a percepire sé stessi in maniera molto favorevole, molto positiva. Per es. mi sono iscritto a scienze dell'educazione, sono sicura di dare il meglio di me, sicuramente andrà tutto per il meglio, perché sono una persona molto diligente, perché posso impegnarmi molto, posso chiedere ai miei colleghi degli anni successivi se mi danno delle dritte ecc. Questa tendenza non sempre è vera, delle volte ci sbagliamo. Per esempio, delle volte all'esame prendiamo 18 e quindi non è neanche detto che io sempre sia in grado di fare bene in tutte le cose che faccio; è una tendenza che noi abbiamo, sistematica, un errore che sul vaccino: “credo che il vaccino per il covid sia utile”, “non mi fido del vaccino per il covid”. Sono domande auto somministrate, in cui ciascuno di noi dichiara quanto è d'accordo. Alla fine, si può calcolare il nostro atteggiamento individuale di favorevolezza o sfavorevolezza verso il vaccino. Tuttavia, questo tipo di misurazioni esplicite, subisce spesso un effetto che si chiama desiderabilità sociale, cioè subisce l’effetto di orientare le nostre risposte verso quello che ci aspettiamo noi dovremmo dire o fare. Se io mi trovo in un contesto di un ospedale e mi danno una scala di atteggiamento verso il covid da compilare, io, che ho dei dubbi sulla sicurezza di questo vaccino perché secondo me l’hanno buttato sul mercato troppo velocemente, ma sono in un ospedale, il contesto è quello della scienza, non mostro quindi il mio reale punto di vista. Oppure il contrario: io sono una pro vax, farei il vaccino per qualsiasi cosa ma, mi trovo per una volta a cena con un gruppo di amici no vax, che non vogliono neanche fare le vaccinazioni obbligatorie per i bambini, che pensano che le vaccinazioni siano troppo pesanti, beh, allora, se mi trovo in quel contesto li, e mi si chiede di compilare una scala di atteggiamento sui vaccini, cercherò di non esprimere tutta la mia favorevolezza verso i vaccini, perché cerco di capire in che direzione va il mondo. Oppure gli atteggiamenti possono essere misurati in maniera indiretta, attraverso queste misure implicite, che misurano appunto gli atteggiamenti impliciti. Una domanda importante è: ma gli atteggiamenti lo predicono il comportamento? Chi ha un atteggiamento favorevole ai vaccini, poi se lo fa il vaccino? Chi pensa che il fumo faccia male, poi smette di fumare? Gli atteggiamenti sono in linea, lo predicono il comportamento. Quello che sappiamo è che abbiamo diverse teorie a disposizione e, generalmente, queste teorie ci dicono che gli atteggiamenti predicono il comportamento solo quando gli atteggiamenti sono specifici su quel comportamento lì e sono molto forti, cioè, non è che l'atteggiamento verso la scienza predice il fare il vaccino, ma l'atteggiamento verso il vaccino predice il comportamento di vaccinazione. Solo quando l'atteggiamento è forte, cioè quando è molto radicato nella persona, allora in quel caso predice il comportamento. Vuol dire che un atteggiamento, una cosa su cui non ho mai riflettuto a fondo, una dimensione superficiale, non è detto allora che questo atteggiamento predica il comportamento. Può darsi che io lo faccia o non lo faccia il vaccino, indipendentemente dal mio atteggiamento. Lezione del 1/03/2021 La teoria dell’azione ragionata TRA di Ajzen e Fishbein del 1977. Quello che loro hanno proposto è una teoria interessante che lega il comportamento delle persone al loro atteggiamento, alle loro norme soggettive e alle loro intenzioni comportamentali. È interessante perché dice: mettiamo che io penso che sia opportuno per me fare più movimento, più palestra, più corsa, più attività fisica. Il comportamento. Da cosa dipende il comportamento? Dipende dall’intenzione comportamentale, cioè io ho la cognizione, ho il ragionamento che mi dice: voglio iniziare la prossima settimana questo comportamento, cioè sono seriamente intenzionata a fare questa cosa. A sua volta, questa intenzione comportamentale, dipende dall’atteggiamento verso il comportamento, cioè “sono favorevole all'attività fisica”, “penso che l’attività fisica mi faccia bene”, “penso che non mi costa troppo fare attività fisica”. Sono anche le norme soggettive: le norme soggettive in realtà sono norme sociali. Gli altri, che sono significativi per me, cosa fanno riguardo al comportamento di attività fisica. Gli altri miei amici vanno in palestra? gli altri miei amici fanno questo comportamento? Tanto più i miei amici lo fanno e quindi c'è una norma sociale favorevole, tanto più io ho un atteggiamento favorevole verso quel comportamento, tanto più avrò l'intenzione comportamentale positiva e tanto più metterò in atto quel comportamento. È un modello molto semplice. Un esempio opposto lo possiamo fare con il vaccino per il covid. Se io ho un atteggiamento positivo verso il vaccino per il covid perché ne ho fiducia, perché penso sia buono per me vaccinarmi, se (norma soggettiva) tutti i miei amici, i miei colleghi di lavoro e i miei pari età lo fanno, allora ho un'intenzione comportamentale molto chiara, che mi porterà a un comportamento di vaccinazione. Se invece ho un atteggiamento di sfiducia, quindi un atteggiamento negativo verso il vaccino perché non ho fiducia nella scienza o perché penso che il vaccino avrà i propri effetti collaterali, se i miei amici non lo fanno, se quello che leggo nel mio gruppo di amici non lo fa, su Facebook se ho letto troppi post di persone che riportavano effetti collaterali gravi, beh questo vuol dire che c'è una norma sociale nel mio gruppo di riferimento, per cui non voglio vaccinarmi. L'atteggiamento negativo, le norme soggettive e contrarie influiscono sull’intenzione comportamentale e quindi non ho intenzione di vaccinarmi e di conseguenza non mi vaccino. Questa teoria è stata però criticata e la critica riguarda il fatto che non prende in considerazione gli aspetti più legati al contesto. Questa teoria prende in considerazione solo quel comportamento che sono di tipo protinario, sono facili da fare. | critici dicono: che cosa succede se ci sono comportamenti su cui noi non abbiamo controllo? Ci sono dei comportamenti come per esempio: io vorrei anche farmi il vaccino, ma non è disponibile per la mia fascia d'età e devo aspettare il calendario vaccinale e quindi non posso farlo anche se ho un atteggiamento positivo, norme soggettive favorevoli, ho un'intenzione comportamentale ma non posso mettere in atto questo comportamento. Ajzen e Fishbein hanno modificato la loro teoria dell’azione ragionata e hanno aggiunto questa terza variabile che si chiama percezione di controllo. La teoria dell’azione ragionata adesso si chiama teoria del comportamento pianificato. Qual è il vantaggio di questa teoria rispetto alla precedente? C'è questa percezione del controllo che riguarda quanto io penso, quanto io valuto, quanto io percepisco di poter eseguire quel comportamento senza troppa difficoltà. Per es. sono in grado di, fisicamente, correre intorno al palazzo, non mi dovrebbe costare troppo. Oppure se l'atteggiamento è verso il vaccino: sono in grado di andare a fare questo vaccino? Non tanto, perché la mia percezione di controllo è bassa. lo non ho controllo sul calendario vaccinale e quando toccherà a me, andrò a farlo, ma adesso non ho tanto controllo. Questa variabile influisce sia direttamente sull'intenzione comportamentale “io intendo andare a fare il vaccino”, ma influisce anche, indirettamente, sul comportamento. Perché? Perché è ovvio che se non posso andare a vaccinarmi perché il calendario vaccinale non è disponibile per la mia fascia d'età o per la mia patologia, allora non vado a fare questo comportamento. Però, molte ricerche mostrano che in realtà il legame tra atteggiamento e comportamento, che è stato spiegato da queste tue teorie, teoria dell’azione ragionata e teoria del comportamento pianificato, non sempre è così forte. Diciamo che la relazione è forte, quindi l'atteggiamento precide il comportamento, tanto più quanto più ci sono questi quattro aspetti: la corrispondenza tra la specificità dell’atteggiamento e quella del comportamento (nel predire il comportamento di vaccinazione, non è tanto importante l'atteggiamento verso la scienza, ma è importante l'atteggiamento specifico verso il vaccino per il covid. Tanto più l'atteggiamento verso il vaccino è specifico, tanto più il comportamento è tanto legato all'atteggiamento specifico riguardo a quel comportamento, e non all'atteggiamento in generale verso una dimensione più ampia. Per esempio, io potrei avere un atteggiamento molto positivo verso la scuola pubblica, però avere a disposizione nel mio quartiere una scuola pubblica di qualità molto bassa. E quindi il comportamento, manderò i miei figli in quella scuola pubblica, dipende non tanto dal mio atteggiamento generale verso la scuola pubblica, ma è molto legato al mio atteggiamento verso quella specifica scuola.) Un altro elemento è che questi atteggiamenti di cui parliamo sono atteggiamenti non automatici, ma atteggiamenti su cui noi prestiamo attenzione. Per esempio, può capitare che ci siano degli atteggiamenti di cui non sempre siamo consapevoli, mentre questa teoria spiega bene quegli atteggiamenti che sono consapevoli, di cui noi abbiamo consapevolezza. Per esempio, il fare sporto il vaccino per il covid. Sono gli atteggiamenti di cui siamo consapevoli, quelli che predicono il nostro comportamento e quindi la teoria è tanto più buona per spiegare il legame tra atteggiamenti e comportamenti, quanto più gli atteggiamenti sono atteggiamenti consapevoli. Ultimo aspetto sono gli atteggiamenti basati su esperienza diretta: vuol dire che se io ho esperienza diretta di andare in palestra, se ho esperienza diretta di correre al parco, insieme ai miei amici, questo atteggiamento basato su questa esperienza diretta, è un atteggiamento forte che predice bene il comportamento, mentre, un atteggiamento basato su un'esperienza non diretta è: i miei amici vanno a correre, ma io non ci sono mai stata; questo atteggiamento è meno legato al comportamento. Si è visto che questo legame tra atteggiamenti e comportamenti funziona anche al contrario. Le ricerche hanno mostrato che è vero che gli atteggiamenti influenzano i comportamenti, ma è vero anche il contrario, che i comportamenti, cioè il modo in cui noi ci comportiamo, influenzano l’atteggiamento che abbiamo, cioè: se io sono incerto sul vaccino, faccio il vaccino per il covid? Beh, è molto probabile che se mi chiedono dopo qual è il mio atteggiamento verso il vaccino, io sia molto favorevole al vaccino, perché l'ho appena fatto. Quindi non solo gli atteggiamenti influenzano il comportamento, ma anche il contrario. | comportamenti influenzano l'atteggiamento. Alcuni esempi che sono stati studiati in letteratura riguardano le strategie di vendita. Ci sono proprio libri sulla persuasione. I libri sulla persuasione ci parlano, per esempio, di questa tecnica che si chiama “piede nella porta”. Che cosa si intende? Si intende la tecnica di vendita ma anche di persuasione che consiste nel chiedere prima poco, fare una piccola richiesta di poca entità e poi, quando l’altro dice sì, si fa una seconda richiesta, anche slegata dalla prima, molto più richiedente, molto più onerosa dal punto di vista di chi risponde. Si è visto che quando si fa la seconda richiesta onerosa, si ha un'adesione, una persuasione maggiore, le persone dicono di sì alla seconda richiesta, che non quando facciamo solo la seconda richiesta onerosa, da sola. Facciamo un esempio: sono a lezione e accanto a me faccio amicizia con una ragazza e le chiedo “scusa, mi puoi prestare un attimo la penna, che la mia ha finito di scrivere?” e lei mi presta la sua penna. Ha una borsa piena di strumenti di cancelleria e non è un problema prestarmi la sua penna. Alla fine della lezione gliela ridò. Quindi alla richiesta “mi puoi prestare la penna” la collega dice di sì. Ci vediamo alla lezione successiva il giorno dopo. Le chiedo la mia vera richiesta, che è una richiesta onerosa. “Scusa la settimana scorsa eri a lezione? Mi puoi passare gli appunti di tutte le lezioni della settimana? Perché non ho potuto partecipare.” A questa richiesta che è più onerosa, più pesante, che è stata preceduta da una piccola richiesta cioè “mi presti la penna”, la probabilità che gli venga detto di sì a questa seconda richiesta è molto più alta, se non quando faccio solo la seconda richiesta: “Ehi ciao, mi presti gli appunti di tutte le lezioni della settimana scorsa”? Perché? È sempre lo stesso meccanismo che succede quando siamo per strada e ci chiedono di firmare la petizione per la protezione della balena piuttosto che per un'altra cosa; ci chiedono di firmare e noi superficialmente diciamo di sì e poi ci chiedono per esempio di fare una donazione, partecipare a degli incontri, ecc. perché? Perché hanno osservato che quando si fa una piccola richiesta e ci viene detto di sì, la probabilità che ci venga detto di sì anche a una richiesta maggiore, si alza, che non quando ci chiedono subito di fare una donazione in contanti, di lasciare i nostri recapiti. Si chiama quindi tecnica del piede nella porta. Un altro aspetto interessante è la tecnica del tiro mancino, io la chiamo anche adescamento. L'esempio qua è molto facile: c'è una tendenza degli insegnanti a chiedere agli studenti a partecipare a varie ricerche che fanno parte di questionari, esperimenti, ricerche empiriche, ad uso del docente. Il docente chiede: chi di voi è interessato a partecipare a questa breve ricerca che consiste solo nel rispondere ad alcune domande di fronte ad un computer e verrete ricontattati per un appuntamento, solo se dite di sì. Allora lo studente dice: ma si dai, andiamo a vedere che tipo di ricerche fa questo docente e lascia i recapiti. Una volta detto di sì, il giorno dopo il docente arriva e dice: grazie per aver aderito alla mia richiesta, ho raccolto i vostri recapiti, l'appuntamento è sabato mattina alle 8:00 in laboratorio. Venite dieci minuti prima così ci organizziamo. La probabilità che i partecipanti dicano di sì, che vadano veramente il sabato mattina alle 8:00 che è per gli studenti un colpo basso, è alta. Perché? Perché hanno detto prima di sì al docente. Mentre se il docente avesse detto subito tutte le informazioni, la percentuale che avrebbe detto di sì è molto più bassa. Quindi la tecnica del tiro mancino o adescamento è una tecnica truffaldina, che si discosta dalla tecnica del piede nella porta perché quella del tiro mancino consiste proprio nel nascondere alcune informazioni o nel ridimensionare alcune informazioni e poi esplicitarle in un secondo momento. Abbiamo tre teorie che ci aiutano a spiegare questo aspetto. Una teoria è la teoria dell’autopresentazione, cioè da un lato noi vogliamo sembrare coerenti con noi stessi; abbiamo bisogno di mostrarci sotto una veste positiva. Se ho detto di sì al docente, dirò di sì anche dopo perché ormai gli ho detto di sì e non posso tirarmi indietro. Da un lato c'è un bisogno di coerenza e di autopresentazione che ci permette da un lato di dare di noi un'impressione positiva ma dall'altro ci espone all’adescamento, perché in fin dei conti non avevamo tanta voglia di andare il sabato mattina alle 8:00 a fare questa cosa. Un'altra teoria diversa è quella della dissonanza cognitiva di Festinger. Questa teoria è vecchia ma buona e funziona sempre, in moltissime situazioni diverse. Dissonanza cognitiva vuol dire che a volte noi sperimentiamo una discrepanza, una incongruenza tra il mio atteggiamento e il mio comportamento. La teoria dice che questa situazione è spiacevole. Allora è spiacevole per la persona e quindi la persona è spinta a cambiare o l'atteggiamento o comportamento. Siccome non possiamo cambiare il comportamento che abbiamo già messo in atto, quello che cambieremo è l'atteggiamento. (Esempio di chi vorrebbe smettere di fumare) Questa dissonanza quindi va cambiata, va fatto qualcosa per cambiare e viene cambiato l'atteggiamento. Se mi chiedono di firmare una petizione a favore delle balene e io firmo, e poi mi chiedono di fare una donazione, allora io potrei avere una specie di dissonanza tra “ho firmato la petizione e quindi sono una persona che rispetta l'ambiente” ma, contemporaneamente, non do un contributo volontario per questa cosa, che sarebbe dissonante. Quindi, ecco che mi propongo e dico di sì, posso donare una cifra che ritengo adeguata, in favore della protezione delle balene. La dissonanza cognitiva mi spinge verso la coerenza, mi fa cambiare atteggiamento. Ho bisogno di avere una coerenza interna. Un'altra teoria interessante è quella dell’autopercezione di Bem. Questa teoria dice che noi non abbiamo cognizione, non abbiamo consapevolezza di quelli che sono i nostri stati d'animo. Abbiamo come una specie di dissociazione cognitiva. Lui dice che in realtà noi non sappiamo se vogliamo o no fare il vaccino, non sappiamo se vogliamo o no dare questo contributo volontario alla protezione delle balene, alcune persone di partecipare ad un esperimento, li ha fatti sedere in una stanza su degli sgabelli senza spalliera e gli ha detto: per favore guardate questo muro, adesso faremo buio in questa stanza e proietteremo una luce bianca su questo sfondo nero. A un certo punto la luce comincerà a spostarsi, mi dovete dire di quanto secondo voi si sposta questa luce, quanto è il movimento di questa luce. La cosa interessante è che, siccome le persone davano la risposta a voce alta, la persona 1 comincia a dire: si muove di 8 cm. La persona 2: secondo me si muove di 2 cm. La persona 3 dice: secondo me si muove di 0,5 cm. Passando da un giorno all'altro, il compito sperimentale era lo stesso, cioè ai partecipanti era chiesto di stimare di quanto si spostasse il punto chiaro sullo sfondo nero. Le persone tendono a convergere verso una stima comune che è intorno ai 2 cm. Le persone cominciavamo a dire “ma secondo me si sposta di 4, si sposta di 2 e mezzo, si sposta di 1.8”. Il terzo giorno quanto si sposta il puntino? “Secondo me si sposta di 2, secondo me si sposta di 2.2 e secondo me 3.5”. Il quarto giorno, senza mettersi d'accordo, quelle persone che non si erano parlate riguardo a questo (il compito sperimentale è lo stesso) guardano il puntino e cominciano a dire “si sposta di 2cm, si sposta di 2cm e si sposta di 2 cm”. Qual è la parte interessante di questo esperimento e perché lo studiamo? Perché quella luce era ferma, in realtà non si stava spostando, si chiama effetto autocinetico ed è lo stesso effetto per cui quando la notte guardiamo le stelle sembra che si muovano, sembra che brillino. È un effetto ottico che dipende dall’aggiustamento sulla retina, dell'immagine. Quindi quel punto era fermo, non c’era un riferimento oggettivo. Lo sperimentatore non stava spostando in maniera oggettiva quel punto sullo schermo, sul muro, ma era proprio la percezione delle persone. Questo studio ci mostra come su uno stimolo fisico assolutamente arbitrario, le persone tendono a mettere in atto questo fenomeno di convergenza verso una norma comune, cioè convergenza verso un punto di vista comune, spontaneamente, senza nessuna pressione, cioè non gli era stato detto “adesso voi dovete giungere a un punto di vista comune”. Le persone, spontaneamente, convergono verso questa norma sociale e il ragionamento è: “se funziona per gli stimoli fisici funziona anche per le norme sociali di cui abbiamo molti esperimenti che riguardano le norme sociali”. Un altro esperimento interessante è quello di Asch sulla lunghezza delle linee. 2 3 Cosa ha fatto Asch? Ha chiesto a un gruppo di partecipanti di sedere in cerchio in una stanza, e ha proiettato sullo schermo questa linea standard e ha detto “guardate bene questa linea standard” e poi gli ha detto “adesso questa linea la togliamo” e ha tolto questa immagine dandone un’altra e ha detto “per favore ditemi qual è la linea di lunghezza uguale a quella che vi ho fatto vedere prima”. Quindi un compito percettivo, un compito oggettivo, cioè, c'è una linea standard, una linea che ha lunghezza standard uguale a questa, che è la 2 ovviamente. Per cui, a differenza di Sherif, questo è un esperimento che ha una base oggettiva. Quindi il compito era “dimmi quale linea è uguale alla linea standard”. | partecipanti erano seduti intorno a un tavolo, guardavano la lunghezza delle linee e, ad alta voce, dicevano “linea 1, linea 2 o linea 3” pubblicamente. Qual è l'aspetto interessante? Che mentre in un gruppo di partecipanti c’era in realtà un partecipante ingenuo e sette complici, nel gruppo di controllo c'erano 8 partecipanti ingenui. Cosa vuol dire? Vuol dire che nel gruppo sperimentale c'era un gruppo in cui 8 partecipanti una volta facevano questo esperimento, ma in realtà uno solo era il partecipante vero, gli altri 7 erano considerati colleghi, amici, complici dello sperimentatore, che erano stati istruiti a dare risposte errate, palesemente errate. Cioè, mentre a tutti sembrava che la linea standard fosse uguale alla linea numero 2, gli altri 7 davano risposte errate, cioè dicevano “secondo me la linea 1, secondo me la linea 3, secondo me la linea 3, secondo me la linea 1”, mentre il partecipante ingenuo diceva “no, ma è la 2! Ma perché questi cominciano a dire 1 e 3?” AI passare delle prove, il partecipante ingenuo comincia a dire “ma perché questi dicono 3 e 1? È evidente che è la 2”. Che cosa succede? Che nel gruppo sperimentale il partecipante ingenuo comincia a dire 1, comincia a dire 3, comincia a dare quella che è oggettivamente una risposta sbagliata, che lui sa che è oggettivamente sbagliata, però comincia ad avvicinarsi alla posizione degli altri. Nel gruppo sperimentale non è uno che cambia e basta, ma la maggioranza di 7 partecipanti complici dello sperimentatore, ha influenzato il singolo partecipante ingenuo, nel 36% delle risposte, quindi non una volta o due, la maggioranza ha esercitato una influenza sociale su quella persona e circa il % delle persone, dei partecipanti ingenui, si è conformato almeno una volta. Questo vuol dire che almeno una volta la maggioranza dei partecipanti si è conformata a quello che sembrava essere la norma sociale. Mentre, nel gruppo di controllo, che vuol dire un gruppo dove ci sono 8 partecipanti completamente ingenui, non c'è nessuno amico confederato, complice dello sperimentatore, non c'è nessun giudizio errato. Tutti danno, ovviamente, la risposta corretta, la risposta oggettivamente corretta. Perché è interessante? È interessante questa ricerca non tanto sulla lunghezza delle linee che non ci interessa molto, ma sul fatto che anche in un compito dove c’è una soluzione oggettiva buona, una soluzione oggettiva corretta, le persone si basano sul giu degli altri per formulare le proprie opinioni e i propri giudizi, che vanno in contrasto con le loro percezioni oggettive, fisiche. Cioè le persone si basano sui giudizi degli altri, come fonte di informazione per formulare un giudizio che è errato e i % delle persone nemmeno una volta dà una risposta sbagliata, oggettivamente sbagliata ma in linea con le posizioni della maggioranza. Anche questo è un esperimento un po’ speciale, particolare. Un ultimo esperimento molto interessante è l'esperimento di Milgram sull’obbedienza. Questo è un esperimento molto discusso dal punto di vista etico. Oggi non potremmo implicarlo. Funziona così. Arrivano due persone in laboratorio e a sorte uno diventerà lo studente mentre l’altro l'insegnante. Si sorteggia in maniera casuale (è quello che fanno credere, in realtà la monetina è truccata). Lo sperimentatore lancia una moneta e dice “tu diventerai studente e tu insegnante”. Viene fatto sedere, lo studente, e gli vengono attaccati degli elettrodi. L'insegnante ha questo ruolo così chiamato perché deve leggere, è un compito di memoria. Quello che l'insegnante fa è leggere una serie di coppie di parole. “lo ti dico rosso e nero, marmellata e automobile”. Le legge allo studente e lo studente, nella seconda fase, dovrà dire la seconda parola. Lui dirà “rosso” e lo studente dovrà rispondere “nero”. L'insegnante dirà “marmellata” e lo studente risponderà “automobile”. Quindi è un compito di memoria. Questa è la storia di copertura che viene detta. Si comincia. L'insegnante legge le coppie di parole e poi dice “adesso comincia l'esperimento vero e proprio”, “io ti dico rosso” e lui dice “bianco”. No, ha sbagliato! Ogni volta che lo studente sbaglia a dare la risposta, l'insegnante preme una leva e dà una scossa elettrica allo studente. La scossa elettrica è, durante i primi tentativi, bassa, ma, con l'aumentare dei tentativi sbagliati, quindi nel giro di mezz'ora/un'ora, la scossa elettrica è sempre di intensità crescente. Più aumentano i tentativi sbagliati, più la scossa elettrica è crescente. Questa macchina dà una scossa elettrica pari a 400 volt, è una scossa mortale. Ovviamente l'insegnante comincia a dare le scossette e a un certo punto lo studente dice “oh ma mi fai male, basta! Oh, ma com'è sta cosa? Basta, voglio interrompere l'esperimento! ”. Allora l'insegnante guarda lo sperimentatore e gli dice “ma vuole interrompere, gli sto facendo male” e lo sperimentatore dice “per favore continua l'esperimento, vai avanti nel leggere le domande”. L'insegnante va avanti e a un certo punto lo studente smette di parlare, non dà più segni di dolore. Suspense. Cosa è successo? In realtà, non c'è nessuna scossa elettrica, lo studente è un attore, un confederato, un amico dello sperimentatore che fa finta di ricevere queste scosse elettriche. Fa finta di sbagliare le risposte, fa finta di ricevere le scosse elettriche. L'unico verso partecipante è lui. Ovviamente la moneta era truccata e loro arrivano in coppia ma è sempre lui quello che finirà insegnante. La vera variabile che noi stiamo misurando è l'obbedienza, cioè sino a che punto l'insegnante arriva nel somministrare scosse elettriche, che lui pensa essere vere, a un ipotetico studente come lui. Cos'hanno scoperto? Hanno scoperto che in realtà, all'aumentare delle scosse elettriche, è vero che l'obbedienza diminuisce, però molte persone, molti partecipanti arrivano fino al fondo scala. Cioè, all’inizio, durante i primi tentativi, l'insegnante dice all'allievo le parole, l'allievo sbaglia, e il 100% dei partecipanti dà scosse moderate. Qui, lo studente comincia a dire che gli fa male, si lamenta, allora il numero di partecipanti che dà le scosse si abbassa. Il partecipante che in realtà è un confederato chiede di essere lasciato andare e quindi di nuovo l'obbedienza si abbassa. Dopo, il partecipante grida e si rifiuta di rispondere. Ma guardate cos'è interessante. È vero che l'obbedienza del partecipante all'autorità diminuisce, ma comunque il 60% dei partecipanti arriva a fondo scala, che è una scossa mortale. La scossa non gli viene data veramente, ma il partecipante pensava che quella scossa fosse vera. Questo esperimento da un lato ha aperto molto gli occhi agli psicologi e alle persone del tempo riguardo agli effetti dell’obbedienza, perché queste erano persone normali che hanno dato scosse elettriche a una persona normale come loro. Una delle modifiche dell'esperimento era per esempio quando lo sperimentatore era una donna oppure il partecipante era una donna oppure lo sperimentatore aveva un camice bianco, oppure lo sperimentatore veniva da una università prestigiosa o poco prestigiosa. Una delle varianti era proprio che il partecipante dell'esperimento toccasse fisicamente la mano dell'allievo, sulla piastra, che, in teoria, dovrebbe trasmettere scosse elettriche. Si è visto che nel momento in cui c'è contatto con il fisico, tra allievo e insegnante, l'obbedienza diminuisce. Quando c’è vicinanza tra allievo e insegnante, l'obbedienza diminuisce. Quando lo sperimentatore è nella stanza, l'obbedienza aumenta. Quando lo sperimentatore esce dalla stanza l'obbedienza diminuisce. Quando l’insegnante è una donna, l'obbedienza diminuisce. Per cui hanno provato diverse varianti, però, comunque, quello che ci ha colpito è la % di obbedienza che è molto alta. Cioè persone comuni, in una condizione diciamo scientifica, per obbedire a una autorità scientifica, legittima, davano scosse elettriche. Questo esperimento ci ha anche aiutato a comprendere, non a giustificare, come persone comuni possano mettere in atto atrocità come quelle dell’olocausto ecc. È interessante vedere come anche persone normali, in quelle condizioni, potrebbero andare oltre le loro norme morali, oltre quello che le persone considerano essere giusto o sbagliato. Una grande quantità di persone, una grande % di partecipanti obbediva all'autorità e metteva in atto comportamenti ingiusti. Questa ricerca ha avuto anche grandissime critiche dal punto di vista etico e Milgram è stato crocifisso, cioè è stato accusato anche dall'opinione pubblica dell’epoca, è stato messo sotto una commissione etica, ha passato in rassegna le sue ricerche. Perché? Perché si riteneva che quelle ricerche fossero ad alto impatto, cioè le persone che uscivano da quell’esperimento erano molto provate, perché alla fine dell'esperimento gli veniva detto “guarda che in realtà l’altro sta bene”, per cui gli veniva fatto conoscere l'insegnante e lo studente, è tutto una macchina finta, non c'è nessuna scossa, ti abbiamo ingannato in qualche modo, ma che fa l'ingroup, perché mi interessa sentirmi parte di un gruppo e quindi sarò molto più spinto a, ovviamente, avvicinarmi alle norme del gruppo. Milgram, dopo aver fatto l'esperimento delle scosse elettriche, ha cominciato a fare ricerche su altri tipi di processi. Uno di questi è l'influenza sociale pura e ha mandato gli studenti del suo corso in giro a coppie, uno dei due si mette ad un certo punto a guardare il cielo, da fermo. Dopo un po' arriva l’altro e si mette anche lui fermo a guardare il cielo. Osservate cosa accade alle persone. Piano piano i passanti hanno cominciato a fermarsi, fare gruppo, a osservare un punto nel cielo, dove non c’era assolutamente niente. Cosa dice questa ricerca? Che anche non consapevolmente, anche senza che ce ne accorgiamo, all'aumentare delle dimensioni del gruppo, aumenta l'influenza. Se il gruppo che guarda il cielo è molto ampio, in realtà l'influenza non aumenta. Questo vuol dire che c’è un effetto plateau, un effetto soffitto, che dice che comunque con un gruppo superiore a 5, l'influenza non aumenta con la stessa intensità, ma tende a rimanere costante. È un esperimento semplice che si può fare con 0 risorse. Il film “Ia parola ai giurati” si svolge all’interno di una stanza e riguarda la discussione nella presa di decisione di un gruppo di persone che formano una giuria su un argomento molto rilevante come il giudizio su un imputato. L'ultimo argomento di questo capitolo è la differenza tra influenza sociale normativa e informativa. Deutsch e Gerard distinguevano tra due tipi di influenza sociale: l'influenza sociale normativa consiste nell’uniformarsi alle richieste di un gruppo per soddisfare le aspettative degli altri. Questo tipo di influenza avviene quando io mi vesto come gli altri adolescenti perché voglio assomigliare a loro, perché so che loro si aspettano che assomigli a loro e se assomiglio a loro sarò accettato all’interno del gruppo, quindi io mi avvicino alla norma del gruppo affinché mi adegui, quindi questa è l’influenza normativa. Invece nell’influenza informativa io sempre mi uniformo, mi adeguo alle posizioni degli altri, mi conformo alle opinioni degli altri, ma perché? Perché prendo le posizioni degli altri come prove circa la realtà. Cioè, io per esempio, che sono una persona di sinistra, potrei cominciare a frequentare un gruppo di amici con orientamento politico di destra che ovviamente parlano di posizioni politiche diverse, sulla scuola, la sanità, il governo. Ma io sono di sinistra. Stando con loro potrei cominciare a ragionare e a dire non come nell’influenza normativa “voglio anch'io pensarla come loro, voglio anch'io uniformarmi a questo per essere accettato da loro” ma “mi interessa questo nuovo punto di vista” che non avevo mai considerato e in effetti dovrei cominciare a considerare. Quindi c'è un'influenza sociale come un flusso d’aria calda accesso alla quale io sono esposto, che fa sì che io cominci a pensare che le posizioni degli altri sono un punto di riferimento a cui effettivamente dovrei pensare e quindi comincio ad avvicinarmi, non divento di destra all'improvviso, ma magari se ero prima di sinistra mi sposto più verso il centro, perché mi fanno vedere dei punti di vista sulla realtà che non avevo preso in considerazione. Quello che è interessante è che mentre l’influenza normativa porta a compiacenza pubblica, non a un vero cambiamento profondo, gli studi hanno mostrato che l'influenza informativa porta più spesso a un conformismo a livello privato, quindi a un cambiamento più profondo e duraturo. CAPITOLO 8 Cominciamo a entrare un po’ in quella che è la struttura dei gruppi. Proviamo a pensare a un gruppo come può essere il gruppo di lavoro, il gruppo di amici, il gruppo religioso, e andiamo a vedere qual è la struttura al suo interno, quali sono quei processi che avvengono all’interno del gruppo, per es. parleremo di leadership, di coesione, di interdipendenza all’interno dei gruppi. Abbiamo diverse definizioni di gruppo che ci sono state date negli anni. Una delle più vecchie definizioni di gruppo è il fatto che ci sono gruppi che devono essere composti da individui in interazione faccia-a-faccia. Questa definizione è stata subito criticata perché per esempio ci sono delle grandi aziende che hanno magari sedi in diverse nazioni o in diverse città e comunque, i dipendenti di queste multinazionali, si considerano un gruppo, hanno grande coesione e spirito di gruppo, ma non si vedono faccia a faccia. È anche superata, questa definizione, alla luce dei social media, delle nuove modalità di comunicazione, perché è ovvio che anche un gruppo Facebook può essere considerato un gruppo o una chat di Whatsapp, anche se non ci sono interazioni faccia a faccia. Lewin, nel '48, e i suoi colleghi hanno cominciato a parlare di esperienza di un destino comune, cioè loro dicono che quello che fa diventare veramente un insieme di persone, che le fa diventare un gruppo, è il fatto che quelle persone sperimentano un destino comune, cioè vanno incontro alla stessa sorte. Allora, per es. gli ebrei durante l’olocausto loro dicono che sono diventati un gruppo perché sono stati perseguitati e insieme hanno subito l'olocausto e, questa esperienza negativa, il destino comune, li ha fatti diventare un gruppo, anche gli ebrei di nazioni che non si conoscevano e che quasi non parlavano la stessa lingua. Se potessimo prendere i mezzi pubblici con facilità, oggi, potremmo fare l'esempio dell'autobus. Ci troviamo sopra ad un autobus che all'improvviso va in panne e l’autista ci fa scendere in una fermata che non era prevista. Scendiamo e cominciamo a guardarci intorno, a vedere chi ha bisogno di una mano, chi si sente male, chi deve andare alla stazione, chi deve andare da un'altra parte, come fare per arrivare alle nostre destinazioni, se arriverà un altro autobus o se non arriverà. Tutti questi ragionamenti, tutte queste valutazioni, nascono dal fatto che siamo andati incontro allo stesso destino, al fatto di trovarci su quell’autobus che stava in panne. Una successiva definizione è quella di Sherif e Sherif che hanno fatto una celebre ricerca sui campi estivi, ricerca che vedremo. Questa loro ricerca li ha portati a formulare l’idea che un gruppo è tale perché esiste una certa struttura. Loro dicono che all’interno del gruppo ci deve essere sempre una struttura sociale di tipo formale o informale, a volte ce lo diciamo che c'è un gruppo che c'è un deviante, un leader, che c'è una maggioranza, che c'è una minoranza, che c'è l’aiutante del leader, ecc, e a volte non ce lo diciamo, la struttura sociale è implicita. Però ci permette, questa, di definire quel gruppo un gruppo. Abbiamo poi la teoria dell’autocategorizzazione di Tajfel e Turner. Tajfel è sempre uno dei padri della psicologia sociale. Loro dicono che in realtà un gruppo esiste quando due o più individui percepiscono sé stessi come componenti della stessa categoria. Cioè loro dicono che non è importante tanto la struttura sociale, non è importante il destino comune, si è importante, ma non è solo quello, non è sicuramente importante l'interazione faccia a faccia, quello che serve per fare di un gruppo un gruppo, è che almeno due persone si definiscano come tale, cioè che almeno due persone si definiscano come componenti di un gruppo, che almeno due persone si trovino sul muretto del parco a chiacchierare periodicamente. Successivamente, è stato aggiunto un ulteriore pezzetto, non solo quando due o più individui si definiscono come componenti di un gruppo ma quando c’è almeno una terza persona che riconosce quel gruppo. Quindi ci deve essere almeno una terza persona, un osservatore, un componente dell’outgroup, che ci dice, che attesta che quel gruppo esiste. Perché è interessante questa definizione? È una definizione molto ampia che non è basata su caratteristiche intrinseche del gruppo, come le altre definizioni, ma è basata sulla capacità di autocategorizzazione, vuol dire che è basata sulla capacità delle persone di auto categorizzarsi, cioè di mettersi, di riconoscersi in un gruppo. Un altro aspetto che viene descritto nel libro è il concetto di interdipendenza. Quelli che hanno studiato soprattutto l’interdipendenza del destino e del compito sono gli studiosi di Kurt Lewin. Kurt Lewin ha cominciato a parlare di interdipendenza del destino ed è il trovarsi tutti sulla stessa barca. Cioè il sapere, la consapevolezza di andare incontro a uno stesso destino. Se quella barca si capovolge, finiamo tutti in acqua. Non c'è qualcuno che rimane attaccato, andiamo tutti sotto. Oppure c'è una forma di interdipendenza del compito molto semplice, che è come fare un puzzle tutti insieme; ognuno, con il suo pezzetto, contribuisce alla realizzazione del compito. La metafora qui è la squadra di calcio, la squadra sportiva di pallavolo dove ci sono dei ruoli, dove c'è sempre qualcuno che riceve, l’alzatrice e la schiacciatrice, per cui ciascuno, con il suo pezzo del puzzle, contribuisce al raggiungimento dell'obiettivo che in questo caso è vincere la partita. Secondo i seguaci di Kurt Lewin, infatti, il gruppo diventa tale quando c’è un’interdipendenza del destino o un’interdipendenza del compito. Se io percepisco che il mio destino è legato a quello del gruppo nel suo insieme, allora c'è una forma di Interdipendenza. Quando invece c'è un'interdipendenza del compito allora i risultati di ciascuno, i risultati dei singoli sforzi, hanno un'implicazione sui risultati degli altri. Quindi se nella squadra sportiva il ricevitore fa fatica a ricevere, l’alzatore farà più fatica ad alzare e la schiacciatrice farà più fatica a schiacciare. Il lavoro di gruppo a lezione dipende molto dagli sforzi di ciascuno; se c'è qualcuno che tira a campare, che non si applica e che non viene neanche agli incontri, beh è ovvio che il lavoro di gruppo ne risentirà. Si parla anche di interdipendenza del compito negativa e positiva. Si dice interdipendenza del compito negativa quando il successo di un individuo all’interno di un gruppo produce l'insuccesso dell’altro. Per es. un gruppo di architetti riceve l’incarico di progettare delle nuove aree universitarie più ampie, per permettere il distanziamento sociale, e facili da raggiungere. Allora il coordinatore del gruppo dice “va bene, voi siete cinque progettisti, tra una settimana voglio che ciascuno di voi mi porti un progetto, fatemi un progetto realistico per trasformare questo palazzo in una sede di aule universitarie”. Ovviamente, dopo una settimana, io coordinatore sceglierò un solo progetto da portare avanti e da realizzare. Questo tipo di lavoro è un tipo di lavoro in cui si innesta un’interdipendenza negativa, perché solo uno dei progetti verrà scelto e il successo di quella scelta comporta automaticamente l'insuccesso degli altri. Ovviamente, all’interno di quel gruppo dove c’è interdipendenza negativa, ci saranno i peggiori insulti, le peggiori aggressioni e i maggiori sgarbi, perché è ovvio che il successo di uno implica automaticamente l'insuccesso di un altro. Invece l’interdipendenza positiva, all'interno dei gruppi, è quella che ho spiegato prima quando dicevo che ciascuno contribuisce con il suo lavoro ad un pezzetto per il raggiungimento del compito, quindi c'è complementarità. Ovviamente questo tipo di Interdipendenza produce cooperazione. Un altro aspetto interessante su cui si sono concentrati gli psicologi sociali è questo continuum. Tajfel pensa che ogni interazione si possa collocare su un continuum che va dal polo interpersonale al polo intergruppi. Vuol dire che ogni interazione, ogni gruppo di persone, ogni situazione sociale quotidiana, la possiamo collocare lungo questo confine. Per es. io che presto gli appunti alla mia compagna di stanza potrebbe essere collocato più vicino al polo interpersonale oppure io che comincio a spargere voci negative sugli studenti di ingegneria, mentre io sono uno studente di scienze dell'educazione, perché odio gli ingegneri, è una situazione intergruppi. Oppure pensiamo una situazione intergruppi come, per esempio, i tifosi della Lazio che incontrano i tifosi della Roma. È una situazione intergruppi durante il derby. Oppure una situazione in cui due eserciti si contrappongono, è una situazione più vicina qui agli intergruppi. Come facciamo a riconoscere una situazione interpersonale, una situazione intergruppi? Tajfel dice che se ci sono due categorie sociali, per esempio, tifosi della Lazio e tifosi della Roma, o maschi e femmine, beh probabilmente ci spostiamo più sul polo intergruppi. Se invece non ci sono due categorie, ci spostiamo più sull’interpersonale. Un altro aspetto è il concetto di omogeneità, cioè tanto più gli atteggiamenti e i comportamenti all’interno di un gruppo sono simili tra loro, tanto più ci spostiamo verso un comportamento intergruppi. Mentre i comportamenti a livello interpersonale sono di solito più diciamo specifici, meno omogenei. Per es. io posso prestare i miei appunti alla mia compagna di stanza perché lei mi ha prestato quegli appunti la settimana scorsa, ma se me li chiede un altro studente non glieli presto. Invece se ci sono due gruppi, studenti di scienze dell'educazione e studenti di ingegneria e uno studente di scienze dell'educazione me li chiede, io sarò più orientata a dare i miei appunti allo studente di scienze dell'educazione. Un altro aspetto da considerare è l'omogeneità negli atteggiamenti e nei comportamenti nei confronti dei componenti dell'altro gruppo. Pensate a quelle volte in cui i tifosi della squadra dell'Atalanta si incontrano con i tifosi della squadra dell’Inter. È ovvio che se il tifoso dell'Atalanta vede un tifoso dell'Inter con la sciarpa dell'Inter, comincia a urlare, a riempirlo di slogan che lo prendono in giro e canzonette scurrili. Ovviamente a me non interessa chi è quella persona lì che sto prendendo in giro. A me, tifoso dell'Atalanta, l’unica cosa che interessa è che la situazione sia intergruppi. Cioè che io valuto quella persona non in quanto quella persona, ma la valuto in quanto componente di quel gruppo. Tutti i miei comportamenti, i miei atteggiamenti, saranno simili verso qualsiasi componente dell’outgroup, senza conoscerlo, non l'ho mai visto prima e non lo rivedrò mai più. L'esempio che fa il libro è quello dei due soldati durante la guerra civile americana, ossia il fatto che due eserciti si contrappongono non tanto sulla base di caratteristiche individuali di quelle due persone, ma sulla base del fatto che appartengono a due gruppi diversi. L'altro esempio è quello del film “Chocolat” e il rapporto tra le due persone protagoniste del film si basa sulle caratteristiche assolutamente individuali tra quelle due persone. Secondo Tajfel questo comportamento si colloca più vicino al polo Interpersonale che non vicino al polo intergruppi. Secondo Tajfel quell’esempio (di due persone fidanzate) non dovrebbe far parte di un gruppo. Però pensate ad una famiglia formata da tre, quattro persone, beh quello potrebbe essere più, con maggiore dignità, un gruppo, perché per esempio all’interno della famiglia c'è tutta una costruzione di norme, valori condivisi, che collocano quel set di persone vicino al polo intergruppi. Non c'è mai un gruppo da solo: c'è sempre un gruppo con un antagonista, un ingroup e un outgroup. È opportuno che l’esistenza di un gruppo sia riconosciuta da un'altra persona. Molto spesso l’altra persona è un componente di un outgroup che quindi si pone in una situazione antagonista, cioè una dinamica ingroup-outgroup. Per cui, o fai parte del mio gruppo o fai parte dell’outgroup, non c'è qualcosa in mezzo. Nel momento in cui ci sono due categorie sociali, la terza persona che riconosce il mio gruppo, se fa parte dell’outgroup, avrà un certo significato di tipo psicologico che ci permette di ricevere ancora maggiore validazione. Lezione del 8/03/2021 confronto sociale ne esco male, allora la mia identità sociale che deriva dai gruppi a cui appartengo, ne esce un po' acciaccata. Adesso parliamo di alcuni aspetti che sono presenti in ogni gruppo; vengono chiamati aspetti strutturali del gruppo. Perché? Perché hanno a che fare con la struttura, l'ossatura, l’organizzazione del gruppo. Un aspetto di cui abbiamo parlato e di cui parleremo è lo status di una persona. In questo caso parliamo di status di un individuo, non come prima nel quale parlavamo di status del gruppo in confronto ad altri gruppi. Qui parliamo dello status di una persona all’interno del gruppo. Lo status è la posizione, fa riferimento a una gerarchia di status; ci sono come delle posizioni che hanno status alto e posizioni che hanno status basso. Associata a queste posizioni c'è una valutazione di valore; è ovvio che appartenere a posizioni di status alto, ci permette di avere un'identità sociale migliore, maggior prestigio. Mentre trovarsi in una posizione di status basso, vuol dire godere di minor prestigio. In un gruppo di lavoro, fare il tirocinante o fare il leader del gruppo di lavoro, è molto diverso. Parliamo solo di scala di prestigio, in questo caso. Quindi lo status è la posizione che una persona occupa all’interno di un gruppo e, la valutazione, in termini proprio di prestigio, che si ha in quella posizione all’interno di quel gruppo. Cos'è un ruolo sociale? Sono le aspettative riguardo al modo in cui la persona che occupa quella posizione, quel ruolo, si deve occupare. Il sistema di ruoli sono le aspettative condivise rispetto al modo in cui una persona che occupa un ruolo si deve comportare e come si devono comportare le altre persone riguardo a chi occupa quel ruolo. L'esempio molto semplice è quando siamo andati alle scuole medie, per la prima volta, e avevamo già in mente il ruolo dell'insegnante, quindi non abbiamo dovuto ri imparare a trattare con l'insegnante. Certo, ci sono stati degli aggiustamenti, per esempio maggiore distanza psicologica con l'insegnante, una maggiore formalità nei rapporti, ma l'insegnante era sempre l'insegnante. Quindi il ruolo che quella persona aveva, è un ruolo che noi conoscevamo già. È ovvio che un po' le aspettative riguardo a quel ruolo sono cambiate perché, per esempio, se prima avevamo un rapporto molto familiare, molto vicino con il nostro maestro o la nostra maestra delle scuole elementari, è ovvio che alle scuole medie ci saranno nuove aspettative, perché l'insegnante di scuola media ha un ruolo molto diverso di quello che aveva l'insegnante delle scuole elementari. Di solito, all’interno dei gruppi, ci sono posizioni di status diverso, quindi contemporaneamente persone diverse che occupano status diversi e aspettative diverse riguardo a cosa ci si può aspettare da chi occupa un certo ruolo. Le norme sociali le abbiamo cominciate a studiare quando abbiamo parlato dell'effetto autocinetico di Sherif. Le norme sociali sono definite proprio come standard di comportamento, ma anche standard di atteggiamento, quindi non solo comportamento ma anche opinioni, atteggiamenti condivisi all'interno di un gruppo. Pensate ai grandi appassionati di musica metal, che vanno in giro vestiti in un certo modo, pettinati in un certo modo e ascoltano tutto il giorno musica di un certo tipo. Queste persone non solo si comportano in un certo modo, si vestono in un certo modo, quindi hanno delle norme che riguardano l'abbigliamento, la pettinatura, ma anche hanno delle norme che riguardano gli atteggiamenti, cioè il modo di pensare. Per esempio, gli acerrimi nemici dell’heavy metal sono i neomelodici. Per cui, quando un fan dell’heavy metal incontra un neomelodico, ci sarà un certo conflitto e cominceranno a volare parole da entrambi le parti. Un altro aspetto che c'è in tutti i gruppi è la coesione sociale, che può essere più alta o più bassa. Gli psicologi sociali la intendono come reciproca accettazione/attrazione tra i componenti di un gruppo. Ritengono che ci possa essere coesione anche in un gruppo di persone che non sono amiche tra loro, che non si piacciono, che non si sceglierebbero, che non si vedono fuori da quel gruppo. Perché? Perché a volte i gruppi funzionano anche così, funzionano magari perché si sviluppa una forma di interdipendenza del compito o del destino, tale per cui l’obiettivo è portare a casa quel lavoro, raggiungere l’obiettivo del gruppo. Lezione del 10/03/2021 Le fasi di sviluppo del gruppo Levine e Moreland hanno osservato diversi gruppi e hanno scritto un articolo che è diventato una pietra miliare. Perché? Perché sono arrivati a mettere a punto un modello temporale che percorre una persona all’interno di un gruppo. Cioè loro hanno studiato come una specie di percorso che le persone fanno all’interno dei gruppi. Prendiamo un gruppo di amici, per esempio, che si ritrova solitamente di fronte alla parrocchia del paese, si ritrova nel parchetto, sono adolescenti ecc. alcuni abitano lì vicino, altri abitano più lontano, alcuni si conoscono da una vita e alcuni no. Comunque, hanno preso l'abitudine di passare del tempo insieme in questo modo. Torneremo anche noi a farlo, torneremo a stare all'aria aperta. Nel frattempo, ricordiamoci di come era. Il modello che hanno descritto Levine e Moreland, ha a che fare con una fase iniziale di esplorazione nella quale sia il gruppo che l'individuo fanno un ragionamento costi benefici, cioè loro dicono molto razionalmente:” l'individuo si guarda intorno e dice: che gruppi sono disponibili nel mio ambiente?” Fa una scelta, si avvicina a un certo gruppo, decide di scegliere un certo gruppo sulla base anche dell'esperienza passata. Anche il gruppo, contemporaneamente, cerca di capire se il nuovo componente, questo potenziale componente, può aiutare il gruppo nei suoi obiettivi. Se l’obiettivo del gruppo, come in questo caso, era assolutamente di svago, di divertimento, di passare il tempo insieme, beh dipende per esempio quanto questa persona è tranquilla, simpatica, porta cose nuove al gruppo e invece, sarebbe molto sfavorevole, se questa persona fosse conflittuale, musona ecc. Quindi c’è una fase in cui abbiamo detto che sia l'individuo che il gruppo si valutano a vicenda. Questa è una novità del modello. Non è l'individuo che deve essere accettato dal gruppo, sì è così, ma è anche il gruppo che in qualche modo fa una valutazione costi/benefici dell'individuo e tutte le fasi sono caratterizzate da questa continua negoziazione, continua influenza reciproca dell'individuo sul gruppo e del gruppo sull’individuo. Se l'individuo e anche il gruppo decidono che va bene, quella persona può entrare nel gruppo, allora l'individuo passa da membro potenziale a nuovo componente del gruppo. È una fase iniziale che permette all'individuo di apprendere quelle che sono le norme del gruppo. Per esempio, in questo caso, il fatto che gli amici si trovino il pomeriggio solitamente intorno alle 4 in quella situazione. Ci sono delle regole formali e delle regole informali; nel gruppo di amici le regole sono spesso informali, però ci sono anche delle regole, delle norme sociali che sono formali: per esempio vengono esplicitate, vengono dette, vengono comunicate. In alcuni gruppi, il passaggio da membro potenziale a nuovo componente del gruppo è sancito da quelli che vengono chiamati “i riti di passaggio”. | riti di passaggio sono vari. Alcuni di questi riti di passaggio sono piacevoli e alcuni sono spiacevoli. Quindi per esempio i nuovi componenti del gruppo vengono tenuti a fare dei comportamenti ridicoli, vengono ridicolizzati, vengono maltrattati, tenuti al freddo, bagnati per ore ecc. Ci sono dei riti di passaggio che è la famosa promessa. O pensate alla goliardia per cui gli studenti universitari si raccolgono in queste organizzazioni e, per farne parte, sono previsti dei riti di passaggio. Questi riti di passaggio hanno da un lato la funzione di dire a tutti, sia al componente nuovo che al gruppo che quell’individuo adesso fa parte del gruppo, ma, contemporaneamente, le ricerche hanno mostrato che anche i riti di passaggio che noi riteniamo molto spiacevoli, in realtà, per un effetto molto strano, aumentano il legame dell'individuo al gruppo. Paradossalmente, anche i riti di passaggio spiacevoli hanno come conseguenza il fatto che la coesione del gruppo, che l'attaccamento di quell’individuo al gruppo, è molto alta. Questa fase viene chiamata fase di socializzazione, nel senso che l'individuo viene socializzato dal gruppo dall’adesione alle norme del gruppo. Contemporaneamente, anche l'individuo potrebbe portare novità all’interno del gruppo: questo modello non lo vede passivo l'individuo, ma lo vede come qualcuno che può portare delle modifiche al gruppo. Nell'esempio degli amici, potrebbe portare l'abitudine di fumarsi una sigaretta insieme, abitudine sbagliata ma potrebbe essere una novità. Oppure pensate ai gruppi sportivi. Una squadra di pallavolo, di basket ecc che si incontra due volte a settimana per allenarsi, una di queste novità che l'individuo potrebbe portare all’interno del gruppo, è il fatto, per esempio, di andarsi a bere una birra dopo l'allenamento, tutti insieme, oppure potrebbe essere uno schema di gioco, una nuova modalità di allenamento ecc. Se l'individuo aderisce alle norme del gruppo durante questa fase di socializzazione e se il gruppo decide che quell’individuo è abbastanza allineato con le sue norme, allora c'è l'accettazione dell'individuo da parte del gruppo e il gruppo accetta questo nuovo componente come componente a pieno titolo del gruppo. L'impegno aumenta costantemente e raggiunge il suo massimo proprio quando diventa componente a pieno titolo del gruppo. In questa fase sia il gruppo che l'individuo mantengono nel tempo i comportamenti consolidati e le norme sociali consolidate. Questa fase può durare per sempre, può durare un giorno, una settimana, un mese, alcuni gruppi si fermano qua, ma può succedere che, nel corso del tempo, ci sia un fenomeno di divergenza, cioè: il componente del gruppo comincia a divergere in qualche modo da quelle che sono le richieste, le norme sociali, gli standard accettati dal gruppo. Per esempio, una delle ragazze che si trovano di fronte alla parrocchia di pomeriggio alle 4 comincia a vedersi un giorno sì e un giorno no, due giorni no e un giorno sì, ecc. quando viene non collabora, non chiacchiera, non fa battute ecc. oppure provate a pensare ai fan, un gruppo heavy metal, quindi quelli che si vestono con la giacca di pelle con le borchie, che ascoltano solo un certo tipo di musica ecc, un po’ Manuel Agnelli, beh comincia ad ascoltare anche Laura Pausini. Allora il gruppo comincia a dire:” scusa ma perché senti Laura Pausini? Ma non ti piacevano gli ...?” e quindi il gruppo comincia a fare pressione affinché il nuovo componente si riallinei allo standard del gruppo. Al ragazzino che non si fa mai vedere viene detto:” oh ma non ti fai mai vedere, dove sei stato? Ma che faccia che hai! Dai vieni! Ecc. Quindi il gruppo comincia a fare pressione affinché il componente, che è diventato in qualche modo deviante, si riallinei agli standard del gruppo. Se le pressioni del gruppo hanno effetto, se l'individuo si riallinea alle richieste del gruppo, allora si ritorna a componente a pieno titolo, quindi praticamente l'individuo ritorna componente a pieno titolo di quel gruppo. Ma se l'individuo non si riallinea alle richieste del gruppo, questa fase di risocializzazione non ha successo praticamente, non funziona, allora l'individuo esce dal gruppo e diventa ex componente del gruppo. A volte ce lo si dice e a volte diventa una cosa automatica, scontata, di cui non si parla nemmeno. Ma quello che è interessante da dire è che ci sono alcuni gruppi nei quali la memoria del passato permane. Per esempio, ci sono dei gruppi in cui ci si dice:” oh ma ti ricordi quando c’era Giulio? Ti ricordi quella volta che siamo andati a sentire il concerto degli.... e lei aveva perso il biglietto?” Per cui, a volte, anche gli ex componenti del gruppo rimangono comunque nella memoria del gruppo e anche nella memoria dell'individuo. L'impegno poi diminuisce fino ad arrivare a 0. Questo modello ha il vantaggio di vedere la permanenza all’interno del gruppo, nelle varie fasi, al passare del tempo, ma permette anche di osservare il ruolo sia dell'individuo che del gruppo nell’influenza reciproca che hanno uno sull’altro. Una cosa forse interessante da dire è che ci sono dei gruppi che sono rilevanti anche quando non sono immediatamente presenti, per esempio. L'esempio che mi viene sempre in mente è quello degli alpini: chi ha fatto l’alpino una volta, rimane alpino tutta la vita. Loro si rincontrano, fanno le feste, organizzano, fanno volontariato e sono orgogliosi del loro cappello, orgogliosi della loro uniforme, anche se ormai non sono più quegli alpini che erano a 20 anni. Ma hanno questo forte legame con questo gruppo e continuano ad organizzare altri gruppi: per esempio i gruppi di volontariato o gruppi di divertimento, per esempio organizzano cene, banchetti ecc e poi c'è il raduno annuale degli alpini. Un altro grande argomento che riguarda la struttura del gruppo è la leadership. È un argomento molto vasto. La prima teoria che è stata proposta è quella del Modello del grande uomo. Cosa vuol dire? Questa teoria dice che ci sono delle caratteristiche di personalità che rendono chi le possiede un leader in qualsiasi situazione. Ci sono delle caratteristiche, dicono gli autori di questo modello, che sono standard, come per esempio l’estroversione, la capacità di comando, la capacità di assumersi responsabilità, la capacità di gestire gruppi di lavoro, il carisma, che rendono, chiunque possegga queste caratteristiche, un leader automatico in tutti i gruppi a cui appartiene, indipendentemente dal tipo di gruppo, dal tipo di compito ecc. è leader nella squadra di calcio, è leader nella squadra di lavoro, è leader nella famiglia, nell'associazione di volontariato ecc. Questo modello, che è stato molto molto di moda, è un modello che però alla validazione empirica non sta funzionando. Perché? Perché molti ricercatori hanno mostrato che non è vero che la stessa persona può essere leader in due gruppi diversi. Molte persone sono leader in un gruppo ma non in un altro, per es. sono ottimi leader di gruppi di lavoro ma pessimi leader di squadre di calcio. C'è una certa vaghezza, non è ben chiaro quali sono queste caratteristiche che renderebbero una persona un leader, quali sono queste dimensioni che rendono una persona un leader nato. All'evidenza empirica, le ricerche hanno mostrato che questo modello non tiene tanto, non si trova risonanza nelle ricerche empiriche. Allora sono nate diverse teorie successivamente, che prendono in considerazione non solo le caratteristiche del leader ma anche le caratteristiche della situazione. Il modello degli stili di leadership ha a che fare con il fatto che le persone possono imparare, possono apprendere a comportarsi in un certo modo, in certe situazioni. E poi c'è il modello della contingenza di Fiedler, che invece prende in considerazione non solo lo stile, il comportamento del leader, ma anche le caratteristiche della situazione, cioè se una situazione è molto difficile, è molto conflittuale, c'è un gruppo molto conflittuale, che cosa può fare il leader? Su che leva può fare riferimento il leader? Rimaniamo sugli stili di leadership. Alcuni teorici hanno parlato di leader orientato al compito. Che cos'è? Vuol dire che ci sono dei leader che sono orientati solo alla organizzazione del gruppo di lavoro. L'esempio che viene fatto qui sono quei leader che sono considerati di solito freddi, leader dirigenti di gruppi di lavoro, coordinatori di gruppi di lavoro. Ci sono dei leader che non fanno altro che dividere in compiti, fornire informazioni, chiarire gli obiettivi, facilitare il lavoro del gruppo, facilitare la circolazione delle informazioni camici, e non c'era nome sul camice. Cosa ha osservato? Che quando le persone davano le scosse elettriche in forma anonima, quindi deindividuate, davano più scosse elettriche di quando erano invece individuate, cioè di quando invece lo facevano a volto scoperto. Quindi Zimbardo ha utilizzato questo strumento e molte variazioni di questo strumento per parlare di deindividuazione, quando il carnefice perde diciamo la propria identità e paradossalmente commette atti più aggressivi, più violenti, di quando è invece individuato. Qui l'esempio che viene spesso fatto è quello dell'esercito: negli eserciti sono vestiti tutti uguali, pettinati allo stesso modo, hanno lo stesso tipo di armi. Pensate ai poliziotti: i poliziotti non sono identificati, hanno sempre la stessa divisa, non c'è neanche un numero sulla schiena. Questo perché? Lo psicologo sociale dice che quando siamo deindividuati tendiamo a mettere in atto comportamenti più aggressivi di quelli che tendiamo a mettere in atto quando siamo invece individuati. Ricerche successive hanno parlato anche di responsabilizzazione, nel senso che ovviamente se io non sono individuato come in questo caso, non sono neanche responsabile delle conseguenze delle mie azioni, quindi non verrò punito per le conseguenze delle mie azioni, quindi nessuno sa che io ho dato quelle scosse e i comportamenti disinibiti, violenti, più aggressivi, vengono fuori. In realtà, ricerche successive hanno mostrato che non è tanto la deindividuazione il meccanismo che fa scattare la violenza, ma è il tipo di norma sociale a cui mi adeguo. Nel film che ho messo tra gli approfondimenti lui parla della deindividuazione come uno dei motivi per cui i soldati non si sentivano responsabili per le atrocità e le torture commesse, anzi, nessuno sapeva chi era in turno quel giorno e quando, non c’era un leader, non c'era controllo sulla situazione, ma in realtà, ricerche successive hanno mostrato che non è tanto la deindividuazione ma è il tipo di norme sociali che diventano salienti. Per esempio, in questa situazione qui, il compito era dare le scosse e vedete che un po' ricorda comportamenti estremamente violenti messi in atto da bianchi americani incappucciati verso i neri del sud degli Stati Uniti. È stato fatto lo stesso esperimento con il camice dell'infermiere, quindi è stato chiesto ad alcuni partecipanti di vestirsi da infermiere e li hanno messi nella stessa posizione. Quando le persone erano vestite da infermiere davano meno scosse elettriche di quando avevano il volto scoperto. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il fatto di avergli messo il camice da infermiere, ha reso saliente una norma sociale di aiuto, di comportamento pro-sociale, di altruismo, di attenzione agli altri, che ha fatto sì che le scariche elettriche diminuissero. Quindi ricerche successive hanno mostrato come non sempre la deindividuazione porta all’aggressività e alla violenza ma a volte porta al comportamento pro-sociale. Nei gruppi possono avvenire due fenomeni che sono opposti e che riguardano la produttività dei gruppi. Cioè a volte, trovarci in un gruppo, porta alla facilitazione sociale, cioè mi impegno di più quando sono di fronte agli altri, a volte stare in un gruppo porta all’inerzia sociale, cioè mi impegno di meno quando sono con gli altri. Vi sarà capitato, se avete fatto un piccolo gruppo di lavoro per altri insegnamenti, c'è sempre qualcuno che si imbosca, c'è sempre qualcuno che dice sì sì e poi non fa niente o, al contrario, ci sono dei gruppi in cui effettivamente ci siamo impegnati tantissimo, abbiamo fatto bella figura, ognuno ha dato il suo contributo. A volte il gruppo porta alla facilitazione sociale e a volte il gruppo porta all'inerzia sociale. A volte la valutazione che viene data dei comportamenti dei singoli, fa sì che le persone, per timore della valutazione, si impegnino di più. Cioè se nei gruppi di lavoro, faccio dei gruppi di lavoro piccoli di sei persone, lo sforzo di ognuno è più chiaro a me coordinatore, è più difficile imboscarsi, riesco meglio a capire chi ha fatto che cosa. E quindi, anche i componenti del gruppo di lavoro, hanno ben presente qual è il loro ruolo, hanno ben presente che non possono imboscarsi, hanno ben presente che verranno valutati e identificati per il contributo che hanno dato. In questo caso si parla di facilitazione sociale, cioè i componenti del gruppo si impegnano di più rispetto a quando sarebbero stati soli. Invece, ci sono delle situazioni in cui gli sforzi individuali non possono essere valutati perché è più difficile, perché un gruppo di lavoro di 15 persone come fai a valutarlo? C'è sempre qualcuno che si imbosca li. Come fai a identificare il contributo di tutti? Quindi il voto, per esempio, viene dato cumulativamente al gruppo, non viene riconosciuto lo sforzo individuale. Quindi anche i componenti non sono preoccupati della valutazione individuale che riceveranno, perché riceveranno una valutazione di gruppo. Ecco, in quel caso, è più probabile un’inerzia sociale, cioè è più probabile che le persone si imboschino, si impegnino di meno, oppure diano il loro contributo ma ai limiti della sufficienza. Diciamo che un antidoto all’inerzia sociale, perché ovviamente tutti vogliamo che i gruppi funzionino molto bene e che ci sia poca inerzia sociale, è per esempio attribuire votazioni singole ai partecipanti del gruppo, quindi valutare il contributo di ciascuno, fare in modo che sia riconoscibile il contributo di ciascuno, firmare il proprio lavoro in qualche modo e fare gruppi abbastanza piccoli, perché più il gruppo è grande più è possibile e probabile imboscarsi. Una parte importante è l'influenza della minoranza, cioè ci siamo fermati fin ora per esempio sul conformismo, sull’influenza della maggioranza, sull’influenza sociale, abbiamo sempre parlato di come la maggioranza influisce come una corrente d’aria accesa, su una minoranza. Ma, cosa interessante, alcune ricerche di Moscovici, hanno messo in evidenza che anche le minoranze possono avere un'influenza seppur debole, sulla maggioranza. L'esperimento che ha messo in piedi è un esperimento un po’ ingegnoso sui colori delle diapositive. Pensate ad un cambiamento in cui la maggioranza non è che diventa tutta a favore della minoranza, ma magari le posizioni della maggioranza si spostano un po’ di più verso le posizioni della minoranza. Quando la minoranza è più efficace? Da un lato la minoranza deve proporre un consenso alternativo alla maggioranza: pensate a un partito politico; se c'è un partito politico che vuole portare avanti le proprie visioni del mondo, un aspetto importante è quello che presenti una visione del mondo alternativa, chiara, diversa, da quella della maggioranza, cioè la minoranza deve dire chiaramente chi è, qual è la sua identità, quali sono i valori che porta avanti, deve chiarire in cosa differisce dalla maggioranza. Dall'altro la minoranza deve apparire coerente al proprio interno, cioè non può esserci una minoranza al suo interno, non può esserci una minoranza incoerente ma la minoranza deve mostrarsi unita, coesa, solida, una minoranza stretta come un pugno, si direbbe, che rimane fedele, arroccata nelle sue posizioni, deve essere coerente nel tempo, non può essere che dopo sei mesi cambia posizione. La minoranza deve essere coerente nel tempo, ferma nelle sue posizioni, perché è solo così che incomincia a instillare il dubbio nella maggioranza. | componenti della maggioranza cominciano a domandarsi:” ma perché questa minoranza continua ad essere così? Come mai?” E comincia a ragionare e a domandarsi e comincia l'influenza della minoranza. Quindi la minoranza è stata studiata da Moscovici proprio come elemento di cambiamento, come motore di cambiamento. Mentre l'influenza della maggioranza porta conformismo, adesione alle norme, ecc, niente di innovazione, spesso le innovazioni avvengono a partire dalla minoranza, che è come il motore del cambiamento. Ma la minoranza si chiama attiva, nel senso che produce il cambiamento nella maggioranza, se è coerente con queste tre indicazioni. La presa di decisione nei gruppi Si è osservato che quando gli individui prendono una decisione a livello individuale e poi la discutono a livello di gruppo, c’è uno spostamento della decisione del gruppo verso il rischio, ossia: mettiamo che faccio parte di un gruppo di amici che decide dove passare le vacanze estive; decidiamo di trovarci stasera e che ognuno arrivi con una sua opinione, una sua idea, una sua meta. Ci vediamo stasera e cominciamo a parlare di dove andare a fare le vacanze estive. Se prima pensavamo a una meta vicina, poco costosa, dopo la discussione del gruppo, il gruppo si sposta verso una decisione più estrema, più rischiosa, come per esempio andare più lontano e spendere di più. Questo fenomeno si chiama polarizzazione di gruppo ed è un fenomeno assolutamente naturale che avviene in maniera spontanea nei gruppi. Le prime ricerche parlavano di rischio, di presa di rischio, cioè parlavano di gruppi che prendevano decisioni più rischiose delle decisioni dei singoli individui, proprio più rischiose in termini di pericolo. Le ricerche successive hanno mostrato che non è che i gruppi si spingono sempre verso un maggiore rischio, ma si spingono verso una estremizzazione di quella che è la posizione originale. Se il gruppo, all’inizio, già era molto prudente verso le vacanze, se i singoli all’interno del gruppo erano molto prudenti, dopo la discussione di gruppo, il gruppo si sposta verso una decisione ancora più cauta: andiamo a passare una settimana al rifugio di..... o al monastero di.... andiamo a fare una settimana chiusi nel chiostro monacale di..... perché così stiamo all’aria aperta, facciamo attività fisica, leggiamo, ci riposiamo e non ci esponiamo al rischio. Quindi le ricerche hanno mostrato che non sempre le decisioni del gruppo sono più rischiose rispetto alle decisioni dei singoli, ma spesso sono più estreme nella direzione e verso cui il gruppo era, prima della discussione. Se il gruppo era in una direzione, ci si sposta verso quella direzione. Se il gruppo era cauto, ci si sposta verso la cautela. Se il gruppo prendeva dei rischi, ci si sposta verso i rischi. | motivi per cui avviene questo sono stati teorizzati e sono tre: si dice che avviene una polarizzazione mediante persuasione quando parlando all’interno del gruppo, per una forma di influenza sociale, io mi persuado, mi convinco e convinco gli altri che siamo nel giusto e quindi le decisioni diventano ancora più estreme. È proprio una forma di influenza sociale. Ci confrontiamo a vicenda e ci convinciamo che va bene, che è giusto così e quindi le decisioni vanno in quella direzione. Oppure c'è una polarizzazione mediante confronto sociale che vuol dire che, durante la discussione di gruppo, emergono proprio quegli elementi comuni, cioè, per un effetto proprio spontaneo, vengono discussi di più e acquistano maggiore rilevanza, quegli aspetti che sono già concordati, su cui siamo già d'accordo e quindi, le nostre posizioni, si basano solo sugli aspetti che già conosciamo, su cui già siamo d'accordo e non sugli aspetti nuovi. Il terzo processo è la polarizzazione mediante differenziazione, cioè cerchiamo per esempio di differenziarci da un outgroup. Mettiamo che c'è un altro gruppo contemporaneamente che sta decidendo dove andare in vacanza, beh loro stanno pensando di prendere un aereo e andare in Grecia, fare le vacanze su un'isola molto frequentata turisticamente. Noi ci vogliamo differenziare da questo gruppo, loro sono troppo incauti e quindi, per differenziarmi dall’outgroup, cerco di prendere decisioni ancora più caute, ancora meno rischiose, verso cui tendevo già prima della discussione di gruppo. Lezione del 11/03/2021 Capitolo 9 È uno dei capitoli centrali della psicologia sociale e va a studiare le origini e le conseguenze del pregiudizio, cioè da dove origina il pregiudizio e che conseguenze ha. I pregiudizi sono dei giudizi a priori, basati sulla razza, quindi l’appartenere a un gruppo, sul genere, sull’orientamento sessuale, sulla religione, sull’obesità, sull'età, sull'immigrazione ecc. quindi su dei giudizi a priori non basati sulla conoscenza specifica di quell’individuo ma sull’appartenenza di quell’individuo a una certa categoria, a un certo gruppo sociale. Si chiama pregiudizio e di solito è un atteggiamento negativo, la connotazione è sempre negativa, difficilmente il pregiudizio è positivo. Solitamente è un preconcetto sulle caratteristiche tipiche dei componenti di un gruppo. Il pregiudizio è spesso sostenuto da uno stereotipo. Qual è la differenza tra stereotipo e pregiudizio? Lo stereotipo è la parte più cognitiva, cioè è l'immagine, il contenuto dell'immagine di un certo gruppo, quindi sono quelle credenze che riguardano l'immagine che un certo gruppo ha, che un gruppo ha di un altro gruppo. Quindi è una specie di immagine stereotipica, se vogliamo, e delle caratteristiche di un altro gruppo. Ovviamente gli stereotipi sono generalizzati perché noi se riteniamo che gli zingari rubano, tutti gli zingari rubano e quindi indipendentemente dallo zingaro che abbiamo davanti, tutti rubano. Sono imprecisi gli stereotipi, ovviamente. Perché? Perché sono delle generalizzazioni che non tengono conto delle differenze all’interno del gruppo. Le ricerche hanno mostrato che gli stereotipi sono anche molto resistenti alle nuove informazioni. Lo stereotipo è più facile da confermare che non da cambiare. Nelle ricerche empiriche si è visto che è più facile per lo stereotipo ricevere informazioni a sostegno dello stereotipo che non informazioni contrastanti. Per esempio, si è visto che ci ricordiamo meglio, quando leggiamo un giornale, le informazioni in linea con lo stereotipo. Se ce le ricordiamo meglio vuol dire che poi quelle informazioni confermeranno lo stereotipo. Mentre ci ricordiamo peggio le informazioni che contrastano lo stereotipo e quindi se ce le ricordiamo peggio allora lo stereotipo non viene come intaccato da questa informazione contrastante. La discriminazione invece è la parte comportamentale, riguarda cioè la conseguenza comportamentale di uno stereotipo e di un pregiudizio. Quindi se io penso che tutti gli zingari rubino, è un pregiudizio. Se non accompagno in macchina una persona zingara dal medico, perché penso che mi ruberà la macchina, quella è una discriminazione. Se non do lavoro a uno zingaro che è qualificato per questo lavoro, solo perché è uno zingaro, è perché mi aspetto che, basandomi su uno stereotipo e su un pregiudizio, quello zingaro è disonesto. Quindi l'aspetto comportamentale si chiama discriminazione. Molti studiosi di psicologia sociale ritengono che, in realtà, il pregiudizio razziale, cioè basato su bianchi e neri, stia scomparendo negli ultimi anni. In realtà, ricerche recenti, hanno detto che quello che scompare non è il pregiudizio ma è il modo in cui viene espresso. Per esempio, ci sono delle forme sottili di pregiudizio che si manifestano, mentre delle forme più esplicite di pregiudizio non si manifestano. In realtà ci sono alcuni partiti politici e alcuni esponenti politici che hanno sdoganato anche il pregiudizio, per cui per esempio Balotelli è stato aspramente criticato proprio per il colore della sua pelle. Alcuni esponenti politici hanno apertamente criticato gli zingari e hanno apertamente detto che tutti gli zingari sono uguali, che devono essere trattati in un certo modo, ecc. quindi forse è vero che da un lato il pregiudizio esplicito sta scomparendo ma non è neanche tanto vero perché se alcuni esponenti politici lo fanno, vuol dire che in qualche modo c’è un seguito, e forse quello che sta in realtà emergendo sono forme più sottili di pregiudizio. Una forma sottile di pregiudizio è la presa di distanza: per esempio se salgo sull’autobus e ci sono due posti liberi, uno accanto a un bianco e uno accanto a un nero, la mia tendenza è quella di sedermi immigrati durante la crisi economica, sono esempi di applicazioni della teoria della frustrazione e aggressività. lo sono frustrato perché non trovo lavoro e perché non riesco a provvedere a me e alla mia famiglia come vorrei e la colpa di chi è? Degli immigrati che mi rubano il lavoro. Non è possibile che gli immigrati siano così tanti da rubare il lavoro a tutti, non è razionale. Non è veramente l’immigrato l'origine della mia mancanza di lavoro. Ma la mia frustrazione si trasforma in aggressività e, per un fenomeno di dislocazione del target, riverso la mia aggressività verso un gruppo le cui conseguenze che tendo a riversare su questo gruppo sono più piccole. Quindi questa teoria dice in pratica che il pregiudizio nasce proprio da un meccanismo di trasformazione della frustrazione in aggressività, per cui non solo non rivolgo la mia aggressività verso l'origine della frustrazione, ma la rivolgo verso un altro gruppo in termini di pregiudizio. Quindi gli immigrati mi rubano il lavoro, sono poco organizzati, non sanno niente, non parlano la lingua ecc. Un'altra teoria molto sensata, che spiega la nascita del pregiudizio, è la teoria del conflitto realistico di Sherif e Sherif. Questa teoria dice che noi abbiamo un conflitto tra due gruppi e il pregiudizio tra due gruppi, pregiudizio inteso come una forma di conflitto, quando due gruppi competono per delle risorse che sono limitate. Sherif e Sherif hanno fatto un esperimento molto famoso e hanno messo dei ragazzini, negli anni '60, in un campo estivo. Li hanno divisi a caso in due gruppi e li hanno fatti competere su diversi giochi: il tiro alla fune, il calcio, il rugby, il baseball. Hanno visto che la semplice suddivisione in due gruppi e il fatto che li hanno fatti competere per un premio, perché ovviamente alla fine della partita solo una delle due squadre avrebbe vinto un premio che poteva essere un gioco o una coppa, beh questo conflitto realistico ha fatto nascere immediatamente delle ostilità tra i due gruppi, che hanno cominciato a prendersi in giro, azzuffarsi, parlar male gli uni degli altri, ecc. e hanno visto come il pregiudizio possa nascere quindi quando due gruppi competono per delle risorse che sono limitate; in questo caso per il premio delle competizioni, dei giochi. Quindi non solo il pregiudizio può nascere nel caso in cui c'è una frustrazione che si trasforma in aggressività, questa teoria fa proprio riferimento alla scarsità delle risorse e al fatto che quando facciamo una competizione per la stessa risorsa, nasce il conflitto tra i due gruppi. Per esempio, l’accesso alle case popolari del comune. Ovviamente, le case popolari del comune sono sempre troppo poche rispetto ai bisogni della popolazione, ovviamente c’è sempre una graduatoria, i criteri di questa graduatoria sono sempre troppo larghi o troppo stretti, a seconda. Ovviamente se la casa popolare è una e c'è una famiglia immigrata con cinque figli e una famiglia italiana con cinque figli, queste due famiglie di numerosità uguale, competono per la stessa casa popolare e ovviamente questo è un conflitto reale su un problema concreto. La teoria dice che a seguito di questo conflitto nascono i pregiudizi e quindi nasce il conflitto tra due gruppi. Un'ultima piccola specifica di questa teoria è la teoria della deprivazione relativa. Vuol dire che a volte non è tanto il fatto di competere per risorse tangibili, ma è più importante la percezione di essere deprivati rispetto a uno standard che riteniamo adeguato. A volte non è il conflitto che noi abbiamo con i componenti di un altro gruppo per accedere alla scuola materna ma è il fatto che io percepisco che avevo più bisogno, che il mio gruppo aveva più bisogno di accedere a quella scuola materna, perché io lavoro, mio marito lavora, per queste motivazioni, rispetto al trattamento di favore che stanno avendo altri gruppi. Questa percezione, questa dimensione soggettiva della deprivazione, anche questa può fare nascere dei pregiudizi. Perché? Perché “ecco vedi, a noi non danno mai niente. Ecco vedi a loro danno sempre tutto!” La teoria della deprivazione relativa è un sottotipo della teoria del conflitto realistico. Lezione del 15/03/2021 Parliamo di un’altra teoria che si chiama Teoria dell’identità sociale di Turner e Tajfel. Quello che loro ritengono è che alla base del pregiudizio ci siano una serie di processi che portano a cercare di migliorare l'immagine che noi abbiamo di noi stessi, attraverso l’immagine che noi abbiamo del nostro gruppo. Ci sono tre passaggi, uno successivo all'altro, che indicano che da un lato le persone tendono a categorizzare, attraverso il fenomeno della categorizzazione sociale, gli stimoli sociali. Così come categorizziamo un uccello che vediamo nella grande categoria degli uccelli, cioè se io vedo una rondine la categorizzo come uccello, allo stesso modo noi categorizziamo in maniera spontanea anche le persone. Per cui, se io vedo una persona zingara che ha i capelli lunghi, il fazzoletto sulla testa, la gonna lunga, con la carnagione un po’ scura, la categorizzo subito nel gruppo degli zingari. Questo della categorizzazione sociale è un fenomeno utile ed economico perché non devo ogni volta ripensare a chi è questa persona, che caratteristiche ha, come devo comportarmi, ma mi permette di prendere subito delle decisioni. Dare o non dare una moneta, comprare o non comprare il latte per i bambini, ecc. Contemporaneamente, però, nel momento in cui categorizziamo gli oggetti sociali, categorizziamo anche noi stessi, quindi noi stessi veniamo messi dentro a un contenitore che diventa l’ingroup, quindi il gruppo a cui noi apparteniamo, o l’outgroup, il gruppo a cui non apparteniamo. Nel caso dovessimo incontrare una donna zingara, quindi, noi siamo i non zingari, gli italiani, e lei è nel gruppo degli zingari. Questo processo di categorizzazione, che è riferito a noi stessi, perché noi ci auto categorizziamo all’interno di un gruppo, fa sì anche che io mi identifico col mio gruppo. Cosa vuol dire? Che gli obiettivi, le norme sociali, le caratteristiche del mio gruppo diventano importanti per me. Quindi io mi identifico col mio gruppo. Contemporaneamente, parte un processo di confronto sociale. Che vuol dire? Così come diceva Festinger nella teoria del confronto sociale, noi siamo pronti, predisposti a confrontarci con altri; non solo a livello individuale io mi confronto con la mia compagna di corso, ma ci confrontiamo anche a livello di gruppo. Allora il mio gruppo lo confronto con quello degli altri. Si parla di Bias a favore dell’ingroup per indicare quella teoria, quella tendenza a fare confronti privilegiando il proprio ingroup. Cosa vuol dire? Nel confronto con gli zingari è chiaro che io favorisco il mio ingroup; noi siamo puliti, efficienti, scolarizzati mentre loro sono poveri, sporchi e cattivi. Ma pensate a un’altra situazione intergruppi, viene facile l'esempio con i tifosi dell'Atalanta contro i tifosi dell'Inter. Se io sono un tifoso dell'Atalanta cercherò di fare dei confronti intergruppi e distorti nei quali un po’ favorisco il mio ingroup. Per esempio, se mi chiedono chi sono i più onesti, se i tifosi dell'Inter o i tifosi dell'Atalanta, io dirò sempre i tifosi dell'Atalanta. Mica conosco tutti i tifosi dell'Inter, però avrò questa tendenza a favorire il mio gruppo. Perché? La teoria dell'identità sociale dice che io aggancio il valore che io do di me, la mia identità, ai gruppi a cui appartengo. Quindi il concetto di me dipende dai gruppi a cui appartengo e, ovviamente, se il mio gruppo è vincente, se io vinco la finale di coppa, se la mia squadra vince la partita, se il mio partito politico vince le elezioni, ecc, beh anch'io allora in qualche modo, la mia identità sociale che deriva dal gruppo a cui appartengo, in qualche modo sarà migliore. Quindi come avevamo visto nell’esperimento dei gruppi minimi. Quindi questa teoria dell'identità sociale spiega il pregiudizio sulla base proprio del bisogno delle persone di avere un'identità sociale positiva. Per valutare positivamente noi stessi e per avere un'identità sociale positiva, occorre che il mio gruppo sia visto sotto una luce positiva. Occorre che il mio gruppo, confrontato con altri gruppi, ne esca positivamente. Per questo motivo noi cerchiamo di distorcere questi confronti e favorire l’ingroup. Il pregiudizio è un modo nel quale i confronti vengono distorti a favore dell’ingroup. Perché? Perché se l’outgroup, cioè il gruppo a cui io non appartengo, se per esempio io sono un tifoso dell'Atalanta e gli altri sono tifosi dell'Inter, se i tifosi dell'Inter non solo sono disonesti ma sono anche immorali, allora il pregiudizio, avere un atteggiamento negativo, connotato anche da stereotipi verso un outgroup, fa sì che il mio ingroup ne esca positivamente. Sul terreno del pregiudizio si gioca il valore del mio ingroup, per cui, confrontando il mio ingroup con l’outgroup, loro sono quelli disonesti e immorali mentre noi siamo quelli onesti e gran lavoratori, morali ecc. Questa teoria la riteniamo molto potente perché spiega diversi comportamenti. Un'altra teoria è la Terror managment theory ed è molto recente. Ha avuto sostegni empirici contrastanti. Diciamo che questa teoria riguarda la paura della morte. Dice che tanto più le persone hanno paura della morte perché magari si trovano in una condizione di malattia, perché si trovano in una condizione di pandemia, beh, questa paura della morte in qualche modo deve essere controllata, deve essere maneggiata. Per controllarla le persone cercano di ridurre e quindi mettere a tacere tutti quegli stimoli che gli ricordano questa paura della morte. Allora la teoria dice che gli outgroup, in qualche modo, ricordano all’ingroup il conflitto, la morte e quindi sono da controllare, sono da ridurre. Siccome la paura della morte è molto costosa psicologicamente, è emotivamente pesante, deve essere abbassata. La paura della morte ci arriva dagli outgroup, che ci fanno vedere una visione del mondo diversa dalla nostra, cioè nell'esempio dei tifosi dell'Atalanta e dell'Inter, i tifosi dell'Inter per me sono portatori di valori, di visioni, di norme sociali diverse dalle mie e di conseguenza mi ricordano la caducità, le difficoltà della vita. Per controllare, per diminuire, per ridurre questa paura della morte implicita, ho bisogno di ridurre questa poca confortevolezza. Beh, ecco che il pregiudizio mi aiuta, cioè mi viene in aiuto per ridurre la paura della morte, per tenere sotto controllo il terrore, per gestire meglio il terrore. Perché il pregiudizio mi aiuta? Il pregiudizio mi aiuta perché in qualche modo mina e delegittima le posizioni dell’outgroup. Ossia, io sono un tifoso dell'Atalanta, guardo i tifosi dell'Inter, i tifosi dell'Inter sono immorali e disonesti. Questo fa sì che la loro visione del mondo non sia minacciosa per me, non mi preoccupa, perché noi siamo quelli morali e onesti e quindi io faccio bene a tifare l'Atalanta e non a tifare l'Inter, perché questi pregiudizi minano la visione del mondo dell’outgroup e quindi in qualche modo la ridimensionano, ridimensionano la paura che mi fa l’outgroup. Questa teoria a me non convince moltissimo perché questa gestione del terrore legata ai componenti dell’outgroup, dal punto di vista teorico, non ci sta molto secondo me, però è una teoria che ha ricevuto numerosi sostegni empirici, non tanti quanti la teoria dell'identità sociale, ma comunque è una teoria che ha dei suoi fanatici, dei suoi sostenitori. Un aspetto che vi volevo far vedere è la parte che riguarda la dimensione di gruppo. Mostra come nella parte sopra ci sia l'identità personale mentre nella parte sotto l'identità sociale. Entrambe convergono nel migliorare l'autostima delle persone e questo è un esempio di quando vi dicevo che la mia identità sociale aggancia il mio valore a quello del mio gruppo. Quindi se il mio gruppo ha successo, io tendo a favorire il mio gruppo parallelamente, beh allora anche la mia identità sociale sarà migliore e contemporaneamente anche la mia autostima sarà più alta. È solo una rappresentazione grafica di un concetto che abbiamo già visto. Finora abbiamo visto le basi motivazionali del pregiudizio. Abbiamo detto il motore in qualche modo. Adesso guardiamo alle fonti cognitive del pregiudizio, cioè quali sono quei processi di tipo cognitivo del pensiero che sostengono il pregiudizio. Prima di tutto c'è questo grande fenomeno che è la categorizzazione sociale, di cui vi ho appena parlato. Per categorizzazione sociale si intende l’attribuire le persone, quindi gli stimoli sociali, a gruppi. Quindi noi così come tendiamo a categorizzare gli oggetti, tendiamo a categorizzare anche le persone in gruppi. È un processo assolutamente spontaneo; le ricerche di psicologia cognitiva ci dicono che lo facciamo automaticamente, non ce ne rendiamo conto. Però il fatto di raggruppare persone in gruppi diversi, fa sì che l’outgroup ci appaia come molto simile al suo interno. Cioè il gruppo a cui noi non apparteniamo, in questo caso i tifosi dell'Inter, ci appaiono più simili tra loro, loro sono tutti uguali, rispetto a quanto ci appaiano simili i componenti dell'ingroup: noi siamo tutti diversi. Perché? Da un lato non li conosciamo, conosciamo meglio i componenti dell’ingroup, però c'è proprio un fenomeno di omogeneità percepita, dell’outgroup, che ha proprio a che fare con un fenomeno di tipo percettivo, cioè noi anche quando giudichiamo gli oggetti, gli uccelli per esempio, ci sembrano più uguali tra loro di quanto non lo siano in realtà. Anche il pinguino è un uccello ma non lo categorizziamo così facilmente come un uccello, mentre tutti gli uccelli hanno le ali, volano e hanno un becco. Quindi abbiamo come una percezione distorta dell’omogeneità dell’outgroup. Inoltre, c'è un fenomeno che si chiama Bias per la propria etnia, cioè anche se non ce ne accorgiamo, tendiamo a riconoscere con più facilità e scoprire maggiormente le differenze tra i volti dei bianchi se siamo bianchi e dei neri se siamo neri, degli indiani se siamo indiani. Le persone tendono a riconoscere meglio le differenze all’interno della propria etnia, mentre le altre etnie ci appaiono tutte uguali. Per cui tutti i neri sono uguali, tutti gli indiani sono uguali. È vero che è anche un processo di familiarizzazione; per esempio, quando andavo a scuola io, c'erano pochissimi bambini neri, mentre chi va a scuola adesso sa che ci sono moltissimi bambini neri, orientali, di diverse etnie. Quindi è possibile che col passare del tempo la maggiore familiarità di tutti noi con persone di etnia diversa, ci porterà a riconoscerle più facilmente, però comunque avremo sempre questa tendenza a riconoscere meglio le persone della propria etnia. Il group-serving Bias è quella tendenza sistematica di favorire il proprio ingroup per migliorare l'opinione che noi abbiamo di noi stessi. L'ultimo aspetto riguarda La teoria del mondo giusto. Questa teoria dice che il mondo è giusto, è una credenza nel mondo giusto. Alcuni di noi che hanno subito un'offesa dicono:” sì ma tanto c'è una giustizia nel mondo, siediti all'argine e aspetta il cadavere del tuo nemico passare lungo il fiume.” Perché comunque il male che fai si ripercuote su di te e il bene che fai ritorna su di te. Alcuni di noi sono più vicini a questa credenza, la sostengono di più, la condividono di più, altri non la condividono e dicono:” no, non sempre ottieni quello che meriti.” Però è stata molto studiata, questa credenza, nel mondo giusto perché si è osservato che paradossalmente, porta a denigrare le vittime. Per esempio, nei casi di violenza sulle donne, sono le donne stesse che tendono a denigrare la vittima dicendo:” se le è successo questo è perché se l'è meritato, è perché andava in giro la notte da sola, è perché si vestiva in modo tale da attirare l'attenzione.” Quindi questa teoria del mondo giusto paradossalmente funziona proprio come giustificazione, come legittimazione dello status quo. Perché? lo credo che ciascuno ottenga quello che si merita, che in fin dei conti il bene che fai ritorna e il male che fai ti ritorna indietro, per cui se a una persona capita qualcosa di negativo, se una ragazza viene aggredita in stazione alla metropolitana ecc., siccome tutti otteniamo quello che ci meritiamo, allora queste persone che hanno un'alta credenza nel mondo giusto, tenderanno a dire:” è responsabilità sua; sarà stata lavoro, nei gruppi religiosi, a scuola, quindi un gruppo che si riunisce in maniera costante nel tempo. Il contatto deve essere tra pari, quindi non persone di status diverso ma, se sono ragazzini, due ragazzini, se sono due insegnanti, due insegnanti, se sono due colleghe di lavoro, colleghe che abbiano lo stesso status e non status differenti. Questa interazione dovrebbe avvenire attraverso compiti cooperativi, perché abbiamo visto che l'interdipendenza negativa produce conflitti mentre compiti cooperativi come per esempio:” risolviamo insieme questo esercizio di matematica.” Come per esempio:” troviamo una soluzione insieme a questo problema, facciamo un puzzle insieme” in modo che l'esito del compito sia cooperativo; inoltre, che ci sia sostegno istituzionale, cioè che per esempio all’interno della scuola non ci siano classi differenziali ma un sostegno dell'autorità della leadership al dialogo, al contatto, alle interazioni tra pari. Si è visto che queste tre caratteristiche possono portare a far sì che il contatto prolungato tra pari, cooperativo, con sostegno istituzionale, riduce il pregiudizio. È vero anche che questa teoria ha ricevuto numerose conferme empiriche, è vero anche che spesso questo contatto tra gruppi potrebbe esacerbare il pregiudizio, perché ovviamente più conosco gli altri più emergono le somiglianze e le differenze. Quindi, per esempio, le differenze tra un altro gruppo sull'educazione dei figli, sul ruolo della donna, su come vediamo la quotidianità, su come vediamo il ruolo del padre, ecc. Per cui si è osservato anche che non sempre questa teoria effettivamente porta alla riduzione del pregiudizio ma anzi a volte il contatto prolungato potrebbe aumentare la salienza, cioè diventano più evidenti le cose che ci differenziano, le cose che ci fanno sembrare diversi. Lezione del 17/03/2021 Libro Emiliani Questo è un libro del 2004 che ci permette di approfondire alcuni temi che sono tipici dello sviluppo sociale dei bambini e che quindi fanno parte integrante di questo insegnamento. Nel primo capitolo viene subito descritta questa dicotomia tra naturalità e responsabilità nella percezione della crescita dei bambini. Gli autori dicono che quando noi parliamo dei nostri bambini o dei bambini degli altri, dei bambini in generale, facciamo riferimento a una polarità, da un lato parliamo di natura (è il suo carattere, è fatto così) e dall'altro invece si tende a fare riferimento a spiegazioni che hanno più a che fare con la responsabilità, cioè ad esempio “non gli sono stati abbastanza dietro, c'è una povertà educativa di fondo nei genitori, c'è un contesto socio culturale deprivato, c'è una situazione di marginalità sociale ecc.” Per cui, delle volte, si fa riferimento o a caratteristiche naturali, biologiche del bambino e a volte invece si fa riferimento alla responsabilità della educazione dei bambini nella società, quindi nei ruoli genitoriali, nei contesti educativi. Una ricerca interessante che hanno fatto la Emiliani e i suoi colleghi riguarda quelle madri che sono anche insegnanti. Cioè riguarda quelle persone che svolgono contemporaneamente due ruoli: il ruolo di madre e il ruolo di insegnante. Hanno scoperto che queste donne giocano su diverse spiegazioni, cioè quando parlano degli alunni a cui insegnano, fanno riferimento a spiegazioni di tipo interazionista, cioè “questo bambino in questo contesto, con questo stile di apprendimento ecc.” “È molto importante sostenere questo bambino.” Quindi viene fatto riferimento al contesto, l’ambiente in cui il bambino cresce, quindi il ruolo della scuola, delle attività educative, delle agenzie educative come la parrocchia o altro. Quando invece queste donne parlano dei loro figli, fanno spesso riferimento invece al carattere, cioè si de-responsabilizzano dalla crescita dei loro figli e fanno più riferimento invece al fatto che è proprio il carattere del bambino, che lui è fatto così, che si comporta in questo modo perché è fatto così. È un gioco tra ambiente e carattere, una diversa attribuzione della percezione della crescita, cioè mentre parliamo dei nostri figli contemporaneamente ci attribuiamo meno responsabilità perché “è fatto così o è fatta così”. Quando queste madri insegnanti parlano degli alunni a cui insegnano, invece, fanno più riferimento all'ambiente, al ruolo del contesto educativo, ecc. È interessante questa ricerca perché fa vedere come ruoli diversi che noi assumiamo e che le persone assumono, portano ad attribuzioni diverse, portano ad attribuire a fonti diverse la crescita dei propri figli e dei propri studenti. Una delle tesi che viene sostenuta in questo libro, è quella dell’esistenza di un continuum natura-cultura. Cioè loro dicono che c'è questa dimensione che vede da un lato le attribuzioni sulla natura e dall'altro le attribuzioni sulla cultura, e questo continuum è una rappresentazione sociale. La rappresentazione sociale è una credenza condivisa, una teoria su come funziona il mondo e questa dimensione è proprio una dimensione su cui si organizza questa rappresentazione sociale. Quindi le persone tendono ad attribuire e a percepire lo sviluppo dei bambini su questa dimensione. Alcuni fanno più attribuzioni riguardo alla natura, altri fanno più attribuzioni rispetto alla cultura e non usiamo sempre le stesse attribuzioni ma ci spostiamo su questo continuum, in accordo con i ruoli che assumiamo. Per cui diventa saliente il mio ruolo di insegnante se faccio riferimento a spiegazioni più di contesto, di ambiente. Se invece viene saliente la mia identità come madre, tendo a fare attribuzioni più sulla natura, il carattere, la biologia, ecc. Perché lo dicono gli autori? Gli autori lo dicono perché in qualche modo la responsabilità è pesante, cioè per es. avere un bambino iperattivo, per una madre, è molto pesante, è molto pesante la responsabilità di crescerlo, ma non l’accudimento, ma come attribuzione di responsabilità. Allora io madre cerco di preservarmi e mantenere un certo livello di benessere, dicendo che non è mia responsabilità, non è responsabilità del contesto educativo, ma metto la responsabilità sulla natura. Che cos'è una rappresentazione sociale? In pratica si costruisce una comprensione della realtà, all’interno di un gruppo, con lo scopo di agire, di comunicare. Per esempio, questa teoria si basa sui lavori di Berger e Luckmann, che parlano di realtà come costruzione sociale. L'idea è proprio quella che la realtà viene negoziata, viene costruita, all'interno dei gruppi. Ci sono delle comunità religiose che vedono l'educazione dei figli come qualcosa di collettivo, per cui non è responsabilità dei genitori l'educazione dei figli, ma è qualcosa di più collettivo. L'educazione dei figli non è una cosa univoca in tutte le nazioni, in tutti i contesti socioculturali, ma è proprio il frutto di una costruzione sociale che avviene all’interno di un gruppo. Gruppi diversi potrebbero avere rappresentazioni sociali diverse, quindi costruzioni diverse di come si crescono i figli. Questo, per esempio, è molto chiaro nel tempo. Per esempio, quarant'anni fa il tipo di educazione dei figli era molto diverso da quello che è oggi, ma non perché eravamo poveri socio culturalmente o economicamente, ma perché c'era un’altra idea di come vengono sui figli, di come si crescono i figli. Per cui, mentre oggi si ritiene che i figli debbano essere continuamente stimolati, quarant'anni fa c'era più una rappresentazione del figlio come una piantina che deve essere innaffiata un po’ ma poi la piantina cresce da sola. Questo per dire che nel tempo, una certa rappresentazione può anche cambiare. Quello che è interessante dire è che le rappresentazioni sociali dello sviluppo dei bambini ci permettono anche di interpretare gli eventi quotidiani, cioè per esempio se un bambino tira un sasso contro il finestrino di un'auto, avere una rappresentazione sociale che ha a che fare con natura-cultura, mi permette di dare senso a questo comportamento che è insensato ma che potrebbe essere letto come o riferendosi a un contesto di deprivazione sociale, di modelli di comportamento non appropriati, ecc., oppure potrebbe essere fatto riferimento al fatto che è sempre stato un bambino molto vivace, che non riesce a stare fermo, che è la sua natura ecc. Quindi questo è solo un esempio del fatto che una rappresentazione sociale, una volta costruita, una volta condivisa all'interno di un gruppo, permette anche di interpretare gli eventi che accadono, di dare un senso agli eventi che accadono, permette quindi di rendere familiare quello che sta succedendo, anche senza che ce ne accorgiamo e permette quindi anche di comunicare, di condividere all’interno dei gruppi una certa spiegazione di quello che sta accadendo. Ovviamente le rappresentazioni sociali sono influenzate, legate a certi valori, a certe ideologie, intese proprio come fondamenti valoriali. Per cui, per esempio, se un fondamento valoriale è l'autonomia dei bambini, che devono essere educati all'autonomia fin dai primi tempi, o se invece il riferimento valoriale è l’accudimento, ecco che questi due riferimenti valoriali, autonomia e accudimento, possono ovviamente fungere da poli di ancoraggio, da agganci per le rappresentazioni. Per cui se un valore fondamentale è per esempio l'autonomia dei bambini, è chiaro che, nella mia rappresentazione sociale dello sviluppo, sì, devono essere autonomi e quindi va bene anche che si sporchino, che cadano, che si facciano male, che litighino, che siano sgarbati, che siano maleducati, che ecc., perché ci sta all’interno di un percorso di autonomia. Invece, se l'aspetto valoriale è legato all'accudimento, al seguire in maniera molto da vicino lo sviluppo dei ragazzini, ci sta invece che la percezione della crescita dei bambini sia legata a correggere i comportamenti non adeguati, a fornire esempi su cui modellare il loro comportamento. Quindi vedete come una rappresentazione non cresce nel vuoto ma si ancora a quei valori, quelle ideologie che sono prevalenti in quel gruppo, in quel momento. Siccome abbiamo detto che ci sono due polarità, natura-cultura, queste due polarità non solo si riconoscono nella rappresentazione della crescita dei bambini, ma si riconoscono anche nelle teorie scientifiche che si sono sviluppate sulla crescita infantile. Allora, per esempio, ci sono da un lato quelle che vendono definite la genetica comportamentale, cioè fino a dieci anni fa, non so se vi ricordate, ma su tutti i giornali continuamente c’era “scoperto il nuovo gene dell’intelligenza, scoperto il nuovo gene dell'obesità”, per cui c'era un grande sviluppo di questa genetica comportamentale, cioè andare a trovare nella genetica le basi del comportamento. Una volta è uscito sui giornali “scoperto il gene dell’infedeltà”, per cui chi aveva quel gene era infedele nelle relazioni di coppia. Allora questa è una cosa evidentemente paradossale, perché non può essere che un gene determini i comportamenti così singolari, così soggettivi, ma, complice il bisogno dei media di urlare anziché di comunicare, è uscita questa notizia che dava grande rilevanza a questa nuova scoperta del gene dell’infedeltà. Tuttavia, si è anche osservato con il sequenziamento del genoma umano, che noi abbiamo pochi geni, il nostro genoma non è così grande come ci aspettavamo, ma è più o meno della dimensione di animali che noi riteniamo molto poco sviluppati, animali come il riccio, i pesci ecc. Quindi se noi condividiamo lo stesso genoma, come mai siamo considerati esseri superiori, civilizzati, abbiamo il linguaggio, abbiamo costruito i computer, andiamo sulla luna e il riccio e il pesce no? Beh, forse vuol dire che abbiamo messo troppa aspettativa, troppa responsabilità sulla genetica, non è tutto lì. Forse, partendo da un corredo genetico molto simile, l'evoluzione, una serie di fattori, ci hanno portato ad essere dove siamo oggi. Quindi non è tutto sulla genetica. Dall'altra parte, viene spesso chiamata in causa questa teoria evoluzionista, che è quella di Darwin, quella di Lorenz. Questa teoria evoluzionista dice invece: non si parla solo di natura, ma si parla di adattamento delle mie caratteristiche alle caratteristiche dell'ambiente e all’apprendimento individuale. La specie umana, si è adattata nel corso dei millenni, nel corso dell’evoluzione, alle caratteristiche dell'ambiente e sono quindi sopravvissute quelle capacità, quelle caratteristiche, quei comportamenti che sono più adattivi, in termini di sopravvivenza della specie. Quindi le specie che si sono più adattate come l'homo sapiens, come gli esseri umani, sono quelli che hanno avuto un adattamento maggiore alle caratteristiche dell'ambiente. Non solo, la teoria dell’attaccamento ci dice che, sempre sulla base dell'evoluzione, già i neonati della specie degli esseri umani, sono predisposti all'interazione sociale, quindi già i neonati molto piccoli, per esempio, riconoscono il volto della madre, cercano di rispondere ai comportamenti della madre, alle carezze, alla voce della madre. Quindi i neonati sono già biologicamente predisposti all'interazione sociale e questo, secondo la teoria evoluzionista, è una predisposizione che è innata, cioè l'abbiamo acquisita essa stessa nel corso dell’evoluzione. Una delle tesi di questo libro è che da un lato l'evoluzione, da un lato l'adattamento degli esseri umani nel corso dei secoli, ci ha permesso, ci ha consegnato, neonati disponibili all'interazione sociale, predisposti a interagire. Questo è frutto di una evoluzione sociale. È anche vero che questa interazione sociale avviene sulla base di routine quotidiane, durante le interazioni quotidiane. Quindi, il modo in cui il neonato apprende e poi successivamente i bambini apprendono, sono proprio queste interazioni routinarie, questi schemi di azioni che si ripetono giorno dopo giorno. Allora, per esempio una routine è andare a letto sempre alla stessa ora, lavandosi i denti, mettendosi il pigiama in un certo ordine, abbassando le luci, prendendo i pupazzetti preferiti, ecc. Questa routine permette, non solo al bambino di rassicurarsi riguardo all’andare a dormire, ma permette anche al bambino di avere come una struttura che gli permette di scandire i ritmi della giornata. La tesi di questo libro è proprio sulle routine e sull'importanza delle routine all’interno della vita dei bambini. Queste routine vengono chiamate proprio “un ponte per la sopravvivenza”, perché permettono non solo l'interazione con gli adulti significativi, quindi la madre, il padre, gli educatori, le persone che accudiscono il neonato, ma permettono anche al neonato di avere un'interazione sociale significativa con adulti significativi. Voi sapete che senza interazione sociale significativa i bambini sono molto deprivati, a volte muoiono. Sono stati fatti degli esperimenti di dubbia etica che hanno proprio messo in luce come i bambini sono cresciuti; anche un po’ di interazione sociale comunque è fondamentale per lo sviluppo dei bambini. Una tesi che percorre tutto il libro riguarda l'importanza delle routine per lo sviluppo dei bambini. Ci sono molte ricerche che riguardano il ruolo della cultura nello sviluppo infantile. La cultura viene definita in molti modi, diciamo che è un’eredità simbolica e comportamentale, ricevuta dal passato, che fornisce a ciascuna persona appartenente a quella cultura uno schema di riferimento condiviso. Cosa vuol dire? Vuol dire che la cultura sono tutte quelle conoscenze, comportamenti, credenze, opinioni, condivise all’interno di un gruppo, che ci provengono dalle generazioni passate e quindi è come una specie di influenza sociale. Cioè la cultura è come un insieme di regole, di comportamenti condivisi, che ci orientano verso un certo modo di vivere, un modo di pensare, un modo di comportarsi. Viene distinto in un aspetto simbolico e in un aspetto comportamentale. L'aspetto simbolico sono proprio le credenze, le conoscenze che condividiamo. Quindi, per esempio, all’interno della nostra cultura, riguardo alla crescita dei bambini, si sa che l'alimentazione è molto importante, si sa che è ma più di un adulto, quindi bambino e un adulto, bambini e due adulti, due bambini e un adulto o due bambini. Quindi sono rituali che spesso coinvolgono lo spazio intersoggettivo, quindi per esempio un bambino di un anno che è seduto, lancia la palla all'amico e l’amico gliela rilancia e di nuovo gliela rilancia, maldestramente, ma gliela rilancia. Questo spazio di intersoggettività, questo lancio reciproco della palla è uno dei molti rituali che danno senso alla quotidianità. La terza caratteristica della quotidianità è quella che viene detta regolazione. Un tipo di regolazione riguarda il seguire le regole che ci sono già nel contesto ma anche costruirne di nuove. Allora, per esempio, la regolazione ha a che fare con il fatto che i bambini anche molto piccoli imparano che quando c'è un amico o un'amica che entra all'asilo, si va a salutarlo o si va a portargli un gioco. Se gli si porta un gioco comincia un rituale per cui ti porto un gioco, ci parliamo, e magari ci mettiamo anche a giocare, a fare il gioco simbolico insieme. La presenza di regole, che in questo caso sono rituali, tra bambini ma potrebbero essere anche regole diciamo di quelle di tipo adulto/bambino, dà una forma di prevedibilità e di familiarità al contesto quotidiano. Per cui i rituali non solo riguardano la ripetizione di gesti, quotidianamente, ma possono riguardare anche l'acquisizione di regole che sono presenti in un certo contesto. Per esempio, una regola che si impara quando si va all'asilo nido, è che ci si lava le mani prima di mangiare e anche dopo aver mangiato oppure che non si danno i giochi in testa agli altri bambini. Queste regole devono venire continuamente ripetute, fatte rispettare, segnalate dall’adulto di riferimento. La ripetizione di queste regole porta piano piano anche all'acquisizione, anche all’appropriarsi di queste regole, che prima magari non conoscevamo perché non abbiamo fratelli, non abbiamo amici. Sappiamo che la società attuale è organizzata anche sulla base di regole più o meno formali. Queste regole, che possono essere sia delle convenzioni quindi degli accordi sia regole formali, sono acquisite di solito dai bambini intorno ai 3 anni, i quali cominciano a comprendere quella che viene chiamata la struttura normativa degli atti quotidiani. Quindi, per esempio, cominciano intorno ai 3 anni a comprendere che è opportuno non alzare la voce quando si parla con gli adulti di riferimento o che è opportuno esplicitare chiaramente quello di cui si ha bisogno senza urlare. Perché? Perché cominciano a comprendere quelli che sono i cardini normativi del contesto sociale in cui vivono. E come li acquisiscono? Attraverso i gesti quotidiani, attraverso le interazioni quotidiane. Questa comprensione degli standard normativi è qualcosa che avviene gradualmente, piano piano. Per esempio, intorno ai 18 mesi i bambini cominciano a vedere le conseguenze delle proprie azioni, per cui cominciano a rendersi conto del fatto che alcune azioni hanno conseguenze positive oppure alcune azioni hanno conseguenze negative. Il cominciare a comprendere le conseguenze delle proprie azioni, ha anche a che fare con la comprensione di quelli che sono gli standard normativi appropriati, di ciò che è appropriato o non appropriato, ciò che è permesso e ciò che non è permesso, all’interno di un certo contesto. Piano piano anche i bambini cominciano a comprendere i sentimenti degli altri. Per cui, per esempio, se durante l'interazione il bambino dà un gioco in testa all’altro bambino, quest’ultimo piange. Allora piano piano i bambini non solo sviluppano una comprensione dei propri stati d'animo ma anche cominciano a capire la teoria della mente, ossia cominciano ad avere una comprensione del punto di vista degli altri e quindi cominciano a capire quelli che sono i sentimenti degli altri e gli obiettivi degli altri. Per esempio, se dopo aver dato un gioco in testa ad un altro bambino, il bambino piange e la maestra mi sgrida, allora forse c'è una regola per cui non si danno i giochi sulla testa degli altri bambini, forse c'è una regola sociale che io sto cominciando a comprendere e a introiettare, che riguarda ciò che è appropriato e ciò che non è appropriato fare con gli altri bambini. Di solito le ricerche mostrano, intorno ai 2 anni, che i bambini si aspettano delle routine esplicite che danno controllo e previsione al mondo. Verso i 4 anni, quelli che studiano lo sviluppo sociale dei bambini, ritengono che i bambini sappiano non solo comprendere i propri stati d'animo ma che li sappiamo esplicitare a parole, quindi non solo li comprendono, ma lo verbalizzano, lo dicono, esprimono le proprie emozioni a parole ed esprimono anche le cause delle proprie emozioni: sono triste perché non posso guardare i miei cartoni animati preferiti, sono triste perché non posso avere un'altra fetta di torta. Ma sono anche in grado di dar conto, quindi di riconoscere e di verbalizzare quelle che sono le cause delle emozioni negli altri, per cui sono in grado di dire e di riconoscere: la mamma è felice perché..... Quindi sono anche in grado di sviluppare quella che viene detta una comprensione degli Stati d'animo degli altri. Alcuni sociologi parlano di quotidianizzazione, che vuol dire la familiarizzazione delle esperienze. Ciò che noi viviamo quotidianamente diventa, attraverso queste routine, familiare per noi e viene quotidianizzato, cioè viene reso esplicito, familiare, attraverso la ripetizione dei gesti. Sono queste routine che sono le impalcature di stabilità di questa quotidianità. Queste routine forniscono una struttura, come i rami degli alberi per le foglie, cioè le routine scandiscono la giornata quotidiana e danno senso all’organizzazione. Quindi per esempio la routine del pranzo, la routine del pisolino dopo il pranzo, la routine della preparazione del risveglio, ecc. sono routine che danno struttura, un'impalcatura, una forma di stabilità alla giornata quotidiana. Si parla proprio di scaffolding, che in inglese vuol dire proprio impalcatura e si riferisce non solo alle routine oggettive ma anche alla funzione che hanno gli adulti durante le routine, di organizzare i comportamenti dei bambini. Allora per esempio la funzione di scaffolding è quella che fa l'adulto di riferimento al nido quando ricorda ai bambini che bisogna lavarsi le mani prima di pranzare. È la funzione di ritualizzazione che dice: adesso due alla volta andate lì, laviamo le manine e ce le asciughiamo e poi torniamo di là. Poi altri due bambini si lavano le manine e se le asciugano e poi torniamo di là. Questo ruolo degli adulti è fondamentale affinché queste routine vengano interiorizzate, vengano comprese dal bambino in maniera più efficace di quanto potrebbe esserlo se lo facesse da solo, perché l'adulto di riferimento fornisce anche dei rinforzi positivi o negativi: bravo che ti sei lavato le manine, eh insomma te le sei lavate un po' di fretta ma va bene, domani lo facciamo con più attenzione. Per cui l'adulto fornisce anche dei feedback che organizzano, strutturano l'appropriatezza o meno di queste routine. Questa impalcatura, questo scaffolding, permette ai bambini una crescita verso maggiori competenze, nel senso che è l'intervento di scaffolding dell'adulto che permette al bambino di acquisire per esempio una maggiore comprensione della realtà: è importante lavarsi le mani per mangiare cose buone. Ma anche per imparare proprio a vivere insieme agli altri e per imparare a migliorare la propria igiene personale. Quindi la funzione degli adulti è proprio quella di supportare e sostenere il bambino nell’acquisizione di un maggior livello di competenza, intesa sia come competenza sociale, quindi competenza dello stare insieme, ma anche proprio come competenza nei diversi ambiti, quindi nel mantenere la matita colorata in mano, nel girare le pagine con cura senza troppo sgualcirle, anche quindi competenze più di tipo scolastico. Questa funziona di scaffolding, che viene fatta durante le attività quotidiane, permette anche le interazioni sociali. In che senso? Nel senso che la presenza di rituali con una impalcatura di scaffolding che viene dagli adulti di riferimento, permette anche di facilitare le interazioni tra pari e con gli adulti. Allora, per esempio, l'interazione tra pari, durante il gioco simbolico, per esempio, si sta giocando al parrucchiere e durante un'interazione tra due o più bambini al nido o alla scuola materna, l'adulto di riferimento cerca di svolgere questa funzione di scaffolding, per esempio, suggerendo quali sono i comportamenti appropriati. Allora per esempio l'adulto può intervenire dicendo: ecco, ricordati di salutare il cliente quando entra nel negozio. Il bambino e la bambina cominciano a salutare il cliente quando viene nel negozio e, la volta successiva che giocano, hanno introiettato questa regola e salutano il cliente simbolico che arriva nel negozio. Oppure una routine è quando il bambino e la bambina salutano il cliente che arriva nel negozio e il cliente che arriva nel negozio a sua volta saluta l’altro bambino o bambina che funge da parrucchiere. Per cui, questa ritualizzazione del gioco simbolico, permette proprio di interagire tra i bambini all’interno del gioco. Con gli adulti c'è lo stesso ragionamento. Per cui la ritualizzazione del giochiamo insieme fa sì che per esempio il bambino o la bambina prenda il suo libro preferito e vada dall’adulto di riferimento e gli chieda “ me lo leggi per favore?” sorridendo. L'adulto di riferimento accoglie questa richiesta, prende il bambino sulle ginocchia e gli legge il libro. Questo, ripetuto nella quotidianità, questo gesto di rinforzo che viene dato dall’adulto al bambino, permette lo stabilirsi di una routine che permette quindi l'acquisizione di una buona interazione a livello sociale. Questo scaffolding funziona come base sicura. Cosa si intende per base sicura? È proprio quella routine che produce una forma di sicurezza, dove per sicurezza si intende la familiarità, cioè il fatto di stare in un contesto che si conosce, non problematico, prevedibile, che fornisce all'occorrenza anche guida e supporto. L'idea è proprio quella di fornire un'attività dell'adulto che fornisce un'attività di scaffolding o che permette la costruzione di una base sicura per il bambino e la bambina, nel mondo. L'esempio che viene fatto qui è il fatto che la madre fornisce un'attività di scaffolding anche attraverso i segnali espressivi che rivolge verso il bambino e la bambina, per cui il bambino o la bambina che prende la tazza di latte e la rovescia per terra, la madre vede questo gesto non solo maldestro ma anche distratto, e quindi può correggere intervenendo con una funzione di scaffolding, per esempio segnalando con le sue espressioni verbali o non verbali che quello non è un comportamento appropriato. Può darsi che con il passare del tempo quel bambino o quella bambina introietterà questo tipo di appropriatezza o non appropriatezza del comportamento. È così che avviene la regolazione del proprio comportamento, nel senso che il bambino o la bambina acquisiscono una forma di autoregolazione per cui nel quotidiano non verrà più o verrà meno versata la tazza di latte. Viene anche detto che le routine sono il nucleo della cultura del gruppo. In che senso? Esemplificano quelli che sono i valori condivisi all'interno del gruppo. Per cui, per esempio, il bambino che lancia la palla al suo amico, il suo amico gliela rilancia e il bambino 1 la riprende e la lancia di nuovo, questo gioco di scambio della palla è un rituale che esemplifica la condivisione, l’intersoggettività, ma esemplifica anche uno dei capisaldi della nostra società, cioè che noi viviamo in gruppi. Noi non viviamo isolati, viviamo in branco praticamente, che può essere la nostra famiglia, il nostro lavoro, la nostra città, il nostro paese, ma comunque viviamo insieme agli altri. Per cui questa intersoggettività, questa capacità di interazione con gli altri, viene anche in questo modo acquisita attraverso i rituali. Viene ripetuto di nuovo che questi rituali rendono stabili i comportamenti e le credenze del gruppo per esempio. Se una credenza all'interno del gruppo è che sia importante ridurre il consumo di carne, il fatto che settimanalmente in una famiglia si mangi carne solo due volte la settimana o una volta alla settimana, ritualizzato, ripetuto per molte settimane, fa sì che il bambino o la bambina comprenda il significato della protezione degli animali, della riduzione dell'impatto sull’ecosistema ecc. quindi le credenze del gruppo vengono perpetuate attraverso questi rituali. Lezione del 22/03/2021 Per scaffolding si intendono tutti quei comportamenti verbali, non verbali, tutti quei modi in cui gli adulti funzionano da struttura per l'apprendimento dei bambini. Gli adulti, che possono essere sia i genitori, sia gli educatori che gli insegnanti, sia altri adulti significativi, come gli zii, i vicini di casa, i fratelli grandi ecc. In che modo l'adulto può supportare, può aiutare il bambino a organizzare il proprio comportamento? L'esempio che viene fatto qui è quello che riguarda la comprensione delle norme morali. Es. la mamma è a spasso con il figlio e incontrano la sorella della madre per strada, che non è particolarmente simpatica ai bambini, e quindi i bambini non la salutano, non le rivolgono la parola, si allontanano, vanno a giocare lontano ecc. la madre, con un comportamento verbale dice:” non si fa così!” Oppure non verbale con delle occhiatacce, costruisce l'idea che non è opportuno questo comportamento e favorisce, nel bambino, la comprensione di quelli che sono quindi gli standard morali. Per esempio, in questo caso, anche se non ti è simpatica la zia, un minimo di educazione ci vuole, quindi la saluti e poi ti fai i fatti tuoi. Lo può dire sia verbalmente sia non verbalmente. Ovviamente con il contributo del bambino, nel senso che la funzione di scaffolding avviene durante le interazioni quotidiane che i bambini hanno con gli adulti. È una impalcatura non rigida, ma flessibile, nel senso che spesso questa impalcatura di scaffolding si modella sulle caratteristiche della situazione. Quindi, questo comportamento della madre nel contesto della zia, viene attuato in un certo modo ma mettiamo che l'evento a cui si partecipa è un evento di famiglia in cui ci si va a incontrare un collega sul piano professionale della madre o del padre, allora magari in questo caso il comportamento dovrà essere più o meno formale, a seconda dell'ambito lavorativo dove ci si trova ma comunque magari l'intervento di scaffolding della madre o del padre, in questo caso, sarà modellato sul tipo di situazione sociale da considerare. Quindi, per esempio, se la madre ha un lavoro molto formale e il padre ha un lavoro molto formale, e ci si trova a cena con la famiglia di questo collega di lavoro, allora la madre e il padre dovrebbero favorire comportamenti consoni alla formalità della situazione. Se il bambino fa casino, si rotola per terra, non saluta, ecc, ecco che l’attività di scaffolding è l’attività proprio di fornire un'impalcatura per orientare il bambino o la bambina all’interno di questo specifico contesto. Man mano che il bambino o la bambina diventano più grandi e quindi acquistano sempre maggiore consapevolezza e competenza sociale e relazionale, allora anche gli interventi di scaffolding possono cambiare, nel senso che non mettiamo in atto lo stesso comportamento nello stesso modo con un bambino di 2 anni, con un bambino di 4 e con un bambino di 6. È ovvio che le strategie, i modi, ecc devono adattarsi alle caratteristiche dello sviluppo dei diversi bambini. Di nuovo viene sottolineata l'importanza delle routine, in particolare l’azione di scaffolding che avviene durante le routine, che sono quindi quei rituali più o meno espliciti che avvengono in ogni famiglia, in ogni contesto educativo, sono particolarmente significative per il bambino. Perché? Facciamo un esempio concreto di un rituale. Uno dei rituali potrebbe essere la cena di famiglia con la famiglia allargata, per cui c'è la cena in cui ci sono due genitori, due bambini ma anche i nonni, la sorella di lui e la sorella di lei con i rispettivi compagni e con eventualmente i bambini. Quello che regole. Gli studi hanno osservato che questo tipo di istituzioni totalizzanti, che oggi non esistono più in Italia, non permettono ai bambini di costruirsi proprio questi schemi mentali ma anche questi schemi di comprensione della realtà, e quindi non permettono neanche un sentimento di efficacia ai bambini perché i bambini non imparano che possono modificare l’ambiente in cui stanno e quindi si sentono completamente inefficaci rispetto all'ambiente in cui stanno, e questo ha delle ripercussioni anche sulla costruzione della loro identità, perché magari i bambini che crescono in queste istituzioni totalizzanti sono non solo bambini deprivati dal punto di vista degli stimoli sensoriali, affettivi ecc. ma sono anche bambini che poi non imparano a far valere i propri diritti, non imparano a dare voce ai propri bisogni, non riescono a costruirsi un'identità forte che gli permetta di vivere serenamente la loro vita adulta. Lezione del 24/03/2021 CAPITOLO 3 Questo capitolo riguarda in particolare il legame e il contesto della famiglia, nel quale vengono costruiti dei significati che i bambini apprendono durante il loro sviluppo. Esiste una molteplicità di famiglie: non solo la famiglia tradizionale madre padre e figlio ma anche per esempio famiglie bi-generazionali, cioè famiglia dove ci sono i nonni, i genitori e i nipoti che vivono nella stessa casa. Oppure famiglie adottive, quindi non famiglie che hanno figli biologici ma che adottano o hanno in affidamento bambini; famiglie monoparentali, ossia con un solo genitore, a seguito di separazioni, lutti. Famiglie ricostituite, cioè famiglie che si sono formate, dove almeno uno dei due genitori era stato precedentemente in una relazione di coppia e aveva magari altri figli. Vi sono anche le famiglie in cui ci sono per esempio due genitori dello stesso sesso che hanno adottato un bambino non nato biologicamente da loro. Molte ricerche hanno messo in evidenza una forma di pregiudizio verso la famiglia mono nucleare, nel senso non che la famiglia mono nucleare sia oggetto di pregiudizio, ma c'è come una preferenza verso quella famiglia; si tende a considerare la famiglia con due genitori di sesso diverso e uno o più bambini come la normalità, e tutto il resto invece è diverso. Molte ricerche hanno proprio cercato di dimostrare l’esistenza di un qualche deficit di queste famiglie, che non sarebbero completamente in grado di crescere figli adeguati, sani, integrati, ecc. Tutte queste ricerche non hanno mostrato effettivamente questo deficit in queste famiglie, cioè andando a studiare lo sviluppo da molti punti di vista, lo sviluppo sociale, cognitivo, ecc. dei bambini cresciuti in famiglie non mono nucleari, hanno mostrato che i bambini possono svilupparsi molto bene, da molti punti di vista, se hanno un legame di attaccamento forte con almeno un componente della famiglia, quindi non ha importanza il tipo di famiglia in cui crescono. Questo è stato messo in evidenza anche nelle famiglie in cui entrambi i genitori sono dello stesso sesso. Cioè le ricerche sono andate proprio a vedere come stanno i bambini che sono cresciuti all’interno delle famiglie con genitori dello stesso sesso e, hanno mostrato che i bambini crescono molto bene, che hanno uno sviluppo sociale, cognitivo, affettivo, assolutamente adeguato alla loro età. L'esempio riportato dal libro è quello dei kibbutz israeliani che sono queste forme di vita comunitaria nei quali i bambini, che vivono in queste famiglie, sono in realtà educati, durante tutto il giorno, da strutture specifiche, come delle grandi scuole che durano tutto il giorno e dove ci sono educatori che li seguono, liberando in questo modo la famiglia, i genitori, che possono lavorare e vivere la loro vita in qualche modo. Gli studi fatti su questo tipo di famiglia non tradizionale, hanno mostrato che in realtà i bambini possono vivere molto bene e possono svilupparsi e crescere bene. Quindi queste ricerche da un lato hanno fallito nel cercare di dimostrare questo deficit delle famiglie non tradizionali e dall'altro hanno mostrato che è proprio un pregiudizio, quello che c'è verso le famiglie non tradizionali. È così solida la ricerca scientifica su questi temi che l'Associazione Italiana di psicologia e l’APA hanno fatto proprio dei comunicati stampa in cui dichiarano apertamente che non si possono discriminare le famiglie con genitori dello stesso sesso perché, per esempio, gli studi hanno dimostrato che i bambini, allevati nelle famiglie con genitori dello stesso sesso, stanno tanto bene quanto i bambini che crescono nelle famiglie mono nucleari, se hanno legami di attaccamento forti. Una definizione che viene data di “famiglia” nel libro è questa: la famiglia diventa un sistema di relazioni che nasce ma può cambiare, all’interno della famiglia stessa, attraverso i processi interpersonali, sociali e culturali. Cosa vuol dire? Vuol dire che, da un lato, le famiglie sono costituite dalle relazioni tra i singoli componenti e dall'altro che queste relazioni e questo sistema non è fisso ma può cambiare nel tempo e può cambiare per esempio se c'è l'influenza della cultura, dell'ambiente socio culturale dove la famiglia vive, dove per effetto di fenomeni sociali come per esempio un tempo era il progressivo lavoro delle donne fuori dalla famiglia mentre adesso c’è il fenomeno contrario, molte donne che perdono il lavoro e quindi si dedicano solo alla famiglia, e i processi interpersonali come per esempio la crescita dei figli, come questa crescita dei figli cambia le relazioni all’interno della famiglia. Le famiglie sono parte di una società più ampia, quindi si considerano le famiglie nel contesto socioculturale di riferimento. La famiglia non è una cellula isolata ma vive in una società con credenze, con valori, che la famiglia più o meno condivide. Ovviamente queste credenze e questi valori hanno delle regole riguardo a cosa è accettato e cosa no, cosa è giusto e cosa è sbagliato, in termini di ruoli parentali, comportamenti e relazioni familiari. Per esempio, non è tanto accettato che la madre lavori fuori casa e passi alcuni giorni della settimana fuori casa per motivi lavorativi. Mentre se lo fa il padre questo non pone assolutamente nessun problema. Nessuno si domanda se l'assenza del padre possa portare conseguenze negative per lo sviluppo dei bambini. Se la madre si assenta 2/3/4 giorni la settimana, può dare adito a ipotesi. Questo secondo me indica molto bene che cosa è accettato e che cosa non è accettato, in termini di ruoli genitoriali, in una società nella quale viviamo tutti. Però, contemporaneamente, la famiglia non solo risente delle influenze esterne ma è essa stessa un luogo, uno spazio dove viene costruita una propria cultura. Quando uno dei figli di una famiglia si comporta ripetutamente in un certo modo, quel comportamento viene detto, se il bambino si chiama Giulio, che è una Giuliata, una cosa tipica di Giulio, un po’ strana, un po’ stravagante, ecc. E magari, 50 anni dopo, quella famiglia si ritrova e parla di un evento successo a qualcuno, e qualcuno della famiglia dice:” ma quella è una giuliata.” È un lessico tipico di quella famiglia, che non è comprensibile al di fuori di quella famiglia, ma che in qualche modo sancisce e descrive quali sono i comportamenti accettati e quali sono i comportamenti non accettati. lo ho fatto l'esempio di una singola parola, “giuliata”, ma potrebbero essere anche delle storie che vengono raccontate, come per esempio “mio padre si è trasferito al nord per lavoro, con la valigia di cartone, non conosceva nessuno, non aveva lavoro, non aveva amici, ma è riuscito a trovare lavoro, a migliorare la sua vita, ad avere una famiglia, a crescere dei figli che adesso vanno a scuola e alcuni all’università.” Questa è come una storia di rivalsa e di potercela fare con le proprie forze, che rimane all’interno delle famiglie come voglia di costruire, come bisogno di costruire una propria identità. Perché? Perché attraverso questa microcultura che ogni famiglia ha al suo interno, si costruisce quella che è l’identità della famiglia, si costruisce quella che è l'identità nel senso quelle caratteristiche che noi, componenti di quella famiglia, riteniamo fondamentali per definire chi siamo. Quindi le famiglie sono contemporaneamente influenzate dalla cultura in cui sono immerse ma sono anche luoghi in cui viene prodotta una cultura, viene costruita una propria cultura. La cultura non è qualcosa che ci viene solo imposta dall'esterno ma è una dimensione che noi possiamo costruire durante le interazioni quotidiane, durante gli scambi, durante il nostro interagire quotidiano. In particolare, queste narrazioni nella vita quotidiana, che avvengono in ogni famiglia, permettono proprio di ricostruire, quindi di ripetere e condividere, all’interno della famiglia, eventi nella loro sequenza temporale, che ci saremmo potuti dimenticare ma il fatto che li ripetiamo, il fatto che in maniera rituale ri raccontiamo le stesse storie, ci ricorda qual era la sequenza temporale degli eventi, ci ricorda i nessi causa-effetto che collegano gli eventi. Per esempio, due fratelli che si incontrano e si raccontano di nuovo di quella volta in cui il fratello grande è riuscito ad avere l'accordo dei genitori per acquistare una macchina, e, il fratello piccolo ha subito beneficiato di questo accordo perché nel giro di due anni anche il fratello piccolo ha potuto beneficiare di quella macchina. Se il fratello grande non avesse concordato con i genitori questo cambiamento, anche il fratello piccolo non avrebbe potuto godere di questa nuova situazione. Quindi, in qualche modo, la sequenza temporale, il fatto che è stato prima il fratello grande a negoziare e poi il fratello piccolo a beneficiare, rimane nella memoria della famiglia come uno degli elementi che ci ricordano sempre che caratteristiche ha la nostra famiglia. Queste narrazioni sono interessanti da osservare perché ogni componente della famiglia si colloca, all'interno di queste narrazioni, come uno dei vari protagonisti o come un osservatore di queste narrazioni, ma soprattutto, sono spesso orientate verso alcune polarità che sono sempre abbastanza diffuse e sono per esempio buono o cattivo. Nelle famiglie, per esempio, ci raccontiamo spesso di quella volta che il bambino X o la bambina X ha dato una forchettata sulla gamba del suo amichetto con cui non correva buon sangue oppure di quella volta in cui il bambino o la bambina X ha aiutato e ha dato metà della propria cioccolata al suo amico o alla sua amica, come segno di grande generosità. Questi eventi, queste narrazioni, che vengono ripetute, raccontate, spesso sono organizzate in base a queste polarità. Si parla spesso, per esempio, della svegliezza, di quanto è intelligente, di quanto è furbo questo bambino o bambina e quanto il comportamento, per esempio, sia giusto o ingiusto, perché per esempio il fratello più grande potrebbe recriminare il fatto che è lui che ha dovuto affrontare tutte le battaglie più dure con i genitori, battaglie che i figli più piccoli non hanno dovuto affrontare, perché comunque erano state già combattute, già negoziate dal fratello o dalla sorella più grande. Quindi magari il fratello più grande può vedere e raccontare questa storia anche in termini di rivendicazione. Se però, queste culture che si sviluppano all’interno delle famiglie, sono abbastanza omogenee, perché ogni componente della famiglia condivide valori, credenze, contemporaneamente, però, come mai allora ci sono fratelli diversissimi l'uno dall'altro? A volte anche i gemelli sono molto diversi tra loro. Come mai figli che crescono nelle stesse famiglie vengono su con inclinazioni, comportamenti, atteggiamenti diversi? La narrazione che cerca di spiegare queste differenze, la narrazione comune, quotidiana, fa riferimento alle esperienze cosiddette non condivise, cioè fa riferimento a tutte quelle esperienze che sono tipiche di un figlio, di un fratello, di una sorella e non dell'altro. Allora, per esempio, uno dei due fratelli, potrebbe essere colui o colei che ha avuto un'ottima maestra di matematica e quest'ottima maestra l'ha portato ad avere un pensiero razionale, a sviluppare le competenze matematiche, ad appassionarsi alla matematica. Mentre l’altra sorella o l’altro fratello ha avuto un ottimo maestro di storia che l’ha portato ad appassionarsi alla storia e anche oggi gli piacciono molto i romanzi storici, ecc. Per cui, le differenze tra i fratelli vengono narrate come l’esito di esperienze peculiari, non condivise all’interno della famiglia ma tipiche di ciascun figlio. Ogni famiglia e quindi ogni cultura tipica di quella famiglia, in realtà esprime, comunica, delle specifiche visioni del mondo. Le culture all’interno delle famiglie non rimangono legate ai singoli comportamenti ma fanno proprio riferimento a specifiche visioni del mondo, sistemi di credenze, modi di vedere la realtà. In che senso? Nel senso che all’interno di ogni cultura, all'interno di ogni famiglia vengono comunicati, perpetuati, diffusi, appresi, specifici valori che possono essere per esempio il denaro, il successo lavorativo, la fedeltà coniugale, la condivisione di ciò che si ha, la seduzione, ecc. o tutti questi valori contemporaneamente, oppure due di questi valori e non altri. In che senso? Nel senso che attraverso queste narrazioni, ogni cultura perpetua, comunica quali sono i valori importanti e facilita, nei bambini, l’introiettare, il comprendere e fare propri, quindi l’aderire a questi valori, che sono tipici della famiglia. L'esempio che viene sempre in mente riguardo al denaro è quando in una famiglia si giudica sempre il valore di una persona, un oggetto o un evento in base a quanto costa. Quantificare sempre il valore della persona in base a quando guadagna, oppure quantificare un oggetto in base a quanto costa e quindi se costa tanto è un ottimo oggetto. Questo tipo di narrazione trasmette l'idea che nel giudicare un oggetto o una persona, è il denaro il valore che va considerato per primo. Quindi se questa famiglia ha questo valore condiviso, è oggetto di narrazioni ma anche non consapevoli. Non è che siamo continuamente ad auto monitorarci, a guardarci dall'esterno per dare di noi una presentazione migliore, ma contemporaneamente le mettiamo in atto e quindi bambini che crescono in famiglie dove ci sono questi tipi di valori, ovviamente tenderanno a aderire a questo tipo di valori. Questi valori sono organizzati in modo da avere una doppia polarità: da una parte c'è il valore e dall'altra c'è l'assenza di quel valore. Quindi, per esempio, nel caso del denaro, la polarità è avere denaro/non avere denaro. Se la polarità riguarda il successo lavorativo, avere successo lavorativo/non avere successo lavorativo. Per cui, per esempio, se c'è una famiglia che giudica le persone, i componenti della famiglia solo sulla base del successo lavorativo, misurato non si sa come, ma comunque solo sulla base di quanto successo ha quella persona nel suo ambiente lavorativo, beh allora, se una persona non ha lavoro, allora quella persona non vale niente. Quindi è l'assenza di quel valore che viene narrata e attraverso questa lente, questa doppia polarità, si legge il comportamento, gli eventi, i fatti, che accadono quotidianamente. Ogni famiglia ha i propri valori, a volte ne condivide più/meno. Per esempio, ci sono famiglie nelle quali il volontariato è un valore fondamentale, famiglie in cui la religione è un valore fondamentale, famiglie in cui il valore è l’unità, il fatto di aiutarsi reciprocamente, che sono valori fondamentali, ma ci sono famiglie che condividono anche più valori contemporaneamente. Questi valori vengono comunicati, trasmessi anche attraverso le narrazioni, quindi non solo vengono trasmessi direttamente ma anche indirettamente, per esempio elogiando il comportamento di un’altra famiglia che partecipa attivamente alla vita religiosa e segue con grande attenzione i precetti della religione. Ovviamente i valori e le credenze della famiglia vengono comunicati soprattutto nei rituali. Abbiamo visto già cos'è un rituale: sono proprio quelle routine che possono essere le cene di famiglia, di Natale, il pranzo invece iper-controllo chi ritiene che sia importante seguire con accuratezza i figli. Ma indipendentemente da dove ci collochiamo e da dove riteniamo che sia opportuno collocarci, questa è una delle dicotomie, una delle dimensioni su cui si organizzano le rappresentazioni e i comportamenti dei genitori. Le ricerche sono andate a vedere, per esempio, se uno stile educativo autoritario è migliore rispetto a uno stile educativo permissivo, in termini di autonomia, condotte, devianti dei figli, comportamenti oppositivi ecc. Si è osservato come a volte anche stili contrapposti, come possono essere lo stile autoritario e lo stile trascurante, per esempio, abbiano delle conseguenze simili. Per esempio, se è uno stile molto autoritario, non permette una graduale responsabilizzazione dei bambini; se è uno stile molto trascurante, cioè una situazione proprio di abbandono, negligenza, si parla a volte di povertà educativa. Questi stili opposti potrebbero avere gli stessi risultati, cioè potrebbero non permettere ai bambini e poi agli adolescenti di crearsi una propria identità solida, che gli permetta di vivere una vita serena. Le ricerche dicono che non c'è uno stile educativo migliore di un altro in assoluto, ma c'è una ricerca continua del modo di coniugare da un lato una relazione affettuosa, presente e accudente, con un atteggiamento autoritario che è necessario, per esempio, per la trasmissione delle norme morali, delle regole che vigono all’interno di una comunità, comunità che può essere la famiglia ma anche il nido, la città in cui viviamo, la nazione in cui viviamo. La risposta che questo libro propone è la flessibilità a livello comportamentale, cioè la soluzione proposta dagli autori è quella di valutare di situazione in situazione e quindi di cambiare il proprio stile educativo in funzione della situazione e decidere continuamente su come è meglio ed opportuno comportarsi in rapporto all'educazione dei figli. Bisogna quindi essere flessibili, riuscire a mettere in campo stili educativi diversi per rispondere a situazioni diverse. | sistemi di credenze, che sono propri di ogni cultura, riguardano anche gli stili educativi, quindi riguardano anche che cosa è opportuno fare in certe situazioni. | sistemi di credenze sono dei principi guida, delle visioni del mondo che influiscono su come vediamo il nostro ruolo genitoriale e i comportamenti dei genitori. Se io fossi un genitore e pensassi che la mia bambina sia una persona troppo vivace, e invece ritenessi che sia appropriato per le bambine comportarsi in maniera educata, calma, tranquilla, allora ecco che il mio comportamento, come educatore, come genitore, sarebbe quello di limitare continuamente i movimenti, gli spostamenti, l’irruenza e la vivacità della mia bambina. Questo è un esempio molto semplice di come le credenze dei genitori riguardo agli stili educativi e riguardo a quali sono i valori fondamentali della crescita dei figli, orientano i comportamenti dei genitori, quindi di come le credenze dei genitori influenzano le pratiche quotidiane. Ma, di conseguenza, queste credenze, non solo influenzano le pratiche quotidiane dei genitori, ma influenzano anche i comportamenti dei bambini, nel senso che se io fossi un genitore e pensassi che la mia bambina ha un comportamento troppo vivace e quindi ritenessi opportuno intervenire più spesso per dirle “stai ferma, non ti muovere, non ti sporcare, facciamo un disegno, leggiamo un libro” continuamente, questo comportamento, questo stile educativo, potrebbe avere la conseguenza di innervosire ulteriormente la bambina. Perché? Perché se la bambina è portata a muoversi e a fare giochi di movimento, l'essere continuamente frustrata e ripresa può portare, per esempio, anche a influenzare il suo di comportamento. Questo è un esempio molto semplice che però ci illustra come le credenze dei genitori influenzino i comportamenti dei genitori che a sua volta influenzano i comportamenti dei bambini. Un particolare sistema di credenze è la norma di internalità. Si parla di norma di internalità quando si dice che in una società è più diffuso, è normale la tendenza a fare attribuzioni interne. Cioè, nelle culture occidentali, è assolutamente diffusa la tendenza ad attribuire i comportamenti degli altri a caratteristiche interne, “si comporta così perché è fatto così”, “si comporta così perché anche da piccolo ha sempre fatto così”, “si comporta in questo modo perché è una persona vivace”. Si tende ad attribuire i comportamenti a cause individuali, come per esempio caratteristiche di personalità, caratteristiche disposizionali, cioè “è la sua natura, è fatto così” e contemporaneamente si tende a sottovalutare, quindi a non dare importanza al peso delle circostanze. Non che fin da piccolo ha avuto intorno a sé esempi di persone molto vivaci, non che la situazione lo ha portato a questo comportamento, ma la causa risiede nelle caratteristiche interne. Questa tendenza ha un nome, si chiama proprio errore fondamentale di attribuzione. Questo errore fondamentale e questa norma di internalità hanno come conseguenza che molto spesso le persone che tendono di più a fare attribuzioni interne, hanno maggiore successo scolastico, come anche lavorativo e anche a livello sociale. Cosa vuol dire? Che la norma di internalità è spesso legata a maggiore successo. Es. alunni della scuola che tendono a fare attribuzioni interne, sono valutati più positivamente dagli insegnanti. Gli insegnanti non sono consapevoli di questa tendenza a favorire questa norma di internalità, ma è quello che avviene. Perché? Perché si basa anche su una credenza della nostra cultura secondo la quale il singolo ha un ruolo determinante in ciò che succede, quindi le persone interiorizzano questa credenza, questa norma di internalità, e chi la condivide maggiormente di solito viene premiato dal contesto, che sia un contesto scolastico, lavorativo, sociale. Di solito le persone che hanno uno status sociale più alto, che hanno voti migliori a scuola o maggiore successo lavorativo, sono quelle che fanno attribuzioni interne. Da un lato è assolutamente comprensibile dal punto di vista proprio logico: per es. se io penso che se mi impegno di più avrò voti migliori, perché penso che i voti dipendano dal mio impegno, beh allora mi impegnerò di più e avrò voti migliori. Se io invece penso che mi impegni però sono un immigrato e comunque c'è razzismo e l'insegnante non mi darà mai il voto che merito, allora non mi impegno neanche, perché non dipende da me ma dall’atteggiamento pregiudizievole dell'insegnante. Vedete che in questa società sono favoriti coloro che hanno una norma di internalità, perché se sono io il responsabile del mio successo, allora tenderò a impegnarmi di più per ottenere successo, rispetto al caso in cui io avessi una norma, una tendenza a fare attribuzioni esterne. Inoltre, il sistema scolastico, il sistema lavorativo, tende, in un circolo virtuoso, a favorire quelle persone che tendono a fare attribuzioni interne in misura maggiore. CAPITOLO 4 Il capitolo 4 prende in esame i cosiddetti contesti triadici. Cosa sono? Sono le interazioni tra madre-padre- bambino/a. Questa triade viene considerata come unità di analisi, l'elemento da analizzare. Si dice che quando nasce un bambino da una coppia, nasce una triade familiare, cioè una forma geometrica, un contesto triadico. Molto spesso, invece, le ricerche studiano le diadi madre-bambino oppure padre- bambino. Mentre questo libro pone l'attenzione sulla triade madre-padre-bambino. Sono luoghi in cui il bambino apprende a stare contemporaneamente nel rapporto con un genitore oppure starne fuori quando interagisce con l’altro genitore, o interagire con entrambi contemporaneamente. Quindi è interessante perché il bambino impara fin dai primi momenti come vivere, come relazionarsi in un contesto triadico. Ovviamente, la triade non è duratura per sempre, nel senso che nel corso della giornata ci sono dei momenti di passaggio in cui il bambino sta con un genitore, con l’altro, con la nonna, con il nonno, con la babysitter, all'asilo nido, alla scuola materna, e poi arriva la mamma, il papà, la nonna. Per cui ci sono momenti di transizione da una triade a una diade o un altro contesto. | momenti di transizione sono interessanti da studiare proprio perché sono momenti di passaggio da una forma di interazione triangolare all’altra. Per esempio, pensate i padri, le madri, il bambino, che si preparano la mattina per uscire verso le loro giornate. Viene portato all'asilo nido dove incontrano l’educatrice. È una triade che si forma tra bambino-madre-educatrice. Poi la madre si allontana e rimane bambino-educatrice, e poi potrebbe diventare bambino-bambino-educatrice, oppure bambino-educatrice-educatrice ecc. cioè ci possono essere altre triadi. Ovviamente, ogni triade, è diversa, quindi ogni passaggio da una triade all'altra, è necessario una fase di decostruzione di quelle che erano le relazioni, i significati precedenti, della triade precedente, e la ricostruzione di una nuova triade, quindi la ricostruzione di nuove relazioni, nuovi significati nella nuova triade. Questo processo di affidamento del bambino all'asilo nido o alla baby-sitter, ai nonni o agli zii, è connotato da quello che gli autori chiamano svincolo-affidamento-accoglienza-coinvolgimento. Svincolo vuol dire slegarsi dalla relazione precedente; affidamento vuol dire che l'adulto di riferimento affida il bambino al nuovo adulto; accoglienza da parte del nuovo adulto che accoglie il bambino; coinvolgimento del bambino nelle attività della relazione con il nuovo adulto. Quando questo avviene con il primo figlio nel rapporto con il nido, ci possono essere dei sensi di colpa nei genitori, perché è una credenza abbastanza diffusa nella nostra società per cui la madre che affida i figli al nido è una cattiva madre, ma è sempre una cattiva madre anche se stesse tutto il giorno a casa ad accudire i figli, perché le rappresentazioni della buona madre sono una faticaccia per le madri, perché tutti hanno ben in mente cos'è una buona madre e cosa non lo è e tutti sono pronti sempre a criticare una madre. Quindi, in realtà questi sensi di colpa che vengono segnalati da questo libro, ci sarebbero in tutte le situazioni. Però, quello che ci interessa qui, è che, come educatori, bisogna prestare attenzione anche a questi eventuali sensi di colpa perché possono a loro volta influire sulla qualità della transizione, perché ad es. se la madre affida il figlio al nido tutte le mattine e se ne va con sensi di colpa, vivrà male la relazione con il nido, il bambino vivrà male la relazione con il nido, la madre avrà la gastrite e il bambino non vorrà andare al nido. Un altro aspetto di cui parla il libro sono queste strategie triangolari, cioè le ricerche mostrano che anche i bambini molto piccoli (intorno ai 3 mesi) siano in grado di gestire bene queste relazioni triangolari. In che modo? Per es. anche bambini molto piccoli che stanno giocando con la madre, si rivolgono verso il padre e attirano l’attenzione, per esempio sorridendo o guardando il padre. O al contrario i bambini di tre mesi che giocano con il padre, mentre la madre è un po’ più lontana, tendono e sono in grado di attirare l’attenzione della madre sul gioco interessante che stanno facendo. Questo vuol dire che anche i bambini molto piccoli sono in grado di gestire queste relazioni triadiche. Ovviamente il libro sottolinea il ruolo del genitore come guida nel guidare il bambino appunto attraverso le difficoltà di una transizione, da una relazione triadica all'altra. Per cui, se il genitore riesce a passare l'idea che il nido è un posto ricco di significato, che l'educatrice del nido è una persona di fiducia, forse il bambino o la bambina avranno più facilità nella transizione tra la triade con la madre e con il padre alla triade con l’educatrice. Si dice che nei rapporti triadici ci sia un livello interattivo concreto e anche un livello più simbolico. Vuol dire che non ci interessano come educatori solo le interazioni e l'osservazione nelle interazioni triadiche ma ci interessa anche il ruolo che queste interazioni triadiche riveste nel momento in cui non sono immediatamente presenti. Per cui, per esempio, il bambino può ricordare un'interazione che ha avuto precedentemente con un’altra educatrice e riportare questa interazione con la nuova educatrice che ha incontrato da poco, perché sostituisce la precedente. Se ampliamo lo sguardo e guardiamo la genitorialità non solo nell’ambito della triade, ma guardiamo la genitorialità nel contesto sociale più ampio, nella rete sociale più ampia, sappiate che gli psicologi sociali hanno lavorato molto sul ruolo del sostegno sociale. È quella rete di relazioni familiari, amicali, di semplici conoscenti, di vicini di casa, sulla quale possiamo contare. Possiamo contare su aspetti strumentali come per esempio quando chiedo al mio vicino di farmi la spesa ma c'è anche un aspetto emotivo, perchè per esempio il sostegno sociale è quello che io vado a ricercare nel momento in cui per esempio sono in una situazione di quarantena, non posso uscire, vivo da sola, perché non posso mettere a rischio i miei familiari, ma la solitudine mi pesa per cui chiamo al telefono, faccio lunghe chiamate con la mia amica, il mio amico, il mio fidanzato, mia sorella, mia madre, perché questo sostegno sociale di tipo emotivo mi aiuta nell'affrontare la mia quotidianità. Quindi il sostegno sociale è inteso sia dal punto di vista concreto strumentale sia come sostegno sociale di tipo emotivo, quindi intangibile ma estremamente importante. Un terzo tipo di sostegno sociale è quello che viene detto istituzionale ed è quello che si può ottenere da chi fa una professione di aiuto, per es. i servizi sociali, i servizi sanitari. Sono quel tipo di sostegno sociale a cui io posso attingere da enti: per esempio ci sono enti di beneficenza da cui posso avere aiuto, i servizi sociali del comune. Quindi è un sostegno sociale che proviene da enti istituzionali. Il momento di svincolo-affidamento-accoglienza-coinvolgimento che abbiamo visto nelle relazioni triadiche, nel passaggio da una relazione triadica all'altra, trova nell’accoglienza all'asilo nido un momento molto esemplificativo, perché è proprio il passaggio in cui il bambino o la bambina si svincola dalla relazione diadica con la madre, la madre o il padre affida il piccolo ad un altro educatore che accoglie questo bambino in un percorso di inserimento, di coinvolgimento all'interno del nido. Ovviamente, il buon andamento di questo passaggio da una situazione triadica all’altra, dalla famiglia all’asilo, dipende molto anche dalla qualità delle relazioni tra genitori ed educatori. Perché? Perché è ovvio che se c'è un rapporto di fiducia e di dialogo aperto tra la famiglia da un lato e l'educatore dall'altro, ovviamente la famiglia è più rassicurata riguardo al contesto educativo in cui si trova il figlio e gli educatori sono più rassicurati sulla possibilità di avere informazioni, chiarezza e un contributo nell'educazione del bambino da parte della famiglia. È importante sia per i genitori sia per gli educatori del nido, cercare di instaurare una buona relazione reciproca che a volte passa anche per momenti di conoscenza reciproca non strutturati, che non possono essere uguali per tutti, ma questi momenti facilitano la costruzione di una buona qualità della relazione. Sono circoli che si auto alimentano in una spirale che può diventare virtuosa o viziosa.
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