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Tesi maturità 2014 sulla fotografia, Tesine di Maturità di Matematica

Tesi di maturità centrata sul tema della fotografia. Materie trattate: italiano Verga e il Verismo con la volontà di dare una descrizione più possibile oggettiva della realtà con l'ausilio dell'allora neonata tecnica fotografica; arte dalle origini della fotografia ad esempi dei primi scatti famosi come quelli di Nadar e Sarony.

Tipologia: Tesine di Maturità

2015/2016
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Caricato il 19/05/2016

mattia_berto
mattia_berto 🇮🇹

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Scarica Tesi maturità 2014 sulla fotografia e più Tesine di Maturità in PDF di Matematica solo su Docsity! LICEO SCIENTIFICO STATALE “GALILEO GALILEI” ANNO SCOLASTICO 2013 – 2014 CLASSE 5^/C Esami di maturità 2014 Fotografia: arte meccanica. Di Mattia Berto 1 Fotografia: arte meccanica. Indice delle materie trattate: • LETTERATURA ITALIANA: Verga e la fotografia; affinità tra la fotografia e le opere dell’autore; analisi del parere della critica. • ARTE: Invenzione della fotografia e sviluppi successivi; origini dell’estetica fotografica e breve analisi dei processi giuridici più noti che hanno portato al riconoscimento della nuova tecnica come forma d’arte. • 2 della sua vena scrittoria. Come prova di questa affermazione riportiamo di seguito la risposta di Verga ad una lettera di Capuana, che chiedeva riguardo alla sua attività fotografica, “questa [la fotografia] è rimasta l’unica mia gran passione.” Stando a questo si potrebbe pensare che le due passioni procedessero parallelamente perché il verbo “rimasta” suggerisce come la fotografia avesse resistito alla crisi che aveva colpito l’attività letteraria. Come ulteriore prova, sempre con Capuana, lo scrittore siciliano si lamenta delle foto da quest’ultimo scattate per la loro mancanza di fedeltà e per la loro distorsione della realtà: “non sono […] contento delle prove fotografiche -degli orrori- e tutti i tuoi fotografati con me. De Roberto ha gli orecchioni. Ferlito è il Vinto della caricatura. Mio fratello è losco e non somiglia al figlio di suo padre. Io e Paola siamo i nonni di noi stessi”. A questa osservazione si aggiunge il fatto che nelle opere verghiane la sua attività come fotografo non venga mai menzionata. Verga farà più volte analogie con pittura, scultura e parlerà di microscopi e cannocchiali pur non essendo né pittore né scultore, ma non menzionerà mai la fotografia. Per i critici aderenti a questa prima ipotesi, dunque, Verga fu un grande scrittore e, separatamente, un fotografo tanto che definiscono la sua produzione fotografica come semplice svago, una sorta di “art for art’s sake”. Sicuramente, invece, analizzando la seconda ipotesi, sono molte le analogie tra le due attività, tanto da far pensare che Verga si servisse di una per sviluppare l’altra, come se percepisse il mondo da lui narrato attraverso la lente della sua macchina fotografica e che quindi il suo modo di fotografare la realtà con questo strumento così innovativo andasse di pari passo con il suo modo di fotografarla con le parole. Per iniziare, possiamo riferirci ancora all’amico Capuana. Infatti Verga chiede a quest’ultimo, in una lettera del 26 dicembre 1881, “Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti, e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario. Potrai farmeli anche tu con la tua macchina fotografica da S. Margherita […]”. Osservando le fotografie di Verga, come già detto in precedenza, possiamo notare la prevalenza di personaggi rurali, immortalati nella loro quotidianità, persone comuni. Tutto questo deriva dal voler studiare i meccanismi della società e per farlo l’autore verista parte dal “basso”, dove tali meccanismi sono più facili da individuare. Al fine di comprendere al meglio come in tutto questo la fotografia possa essere d’aiuto allo scrittore, risulta utile leggere il seguente estratto della novella Fantasticherie dove il narratore si rivolge alla lettrice, a cui la scrittura è esplicitamente indirizzata. “Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di panico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente, voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale?”. In queste poche righe emerge quello che il critico A. Asor Rosa ha definito principio ottico di distanziamento. Si distinguono tre momenti: il rimpicciolimento dell’osservatore, il suo farsi formica tra le formiche; quindi l’ingrandimento e avvicinamento ottenuto mediante il microscopio che corregge infine l’aberrazione iniziale del cannocchiale. Verga riesce a farsi “formica”, riesce a penetrare e descrivere il mondo popolare secondo modalità che gli sono state suggerite dalla sua esperienza di fotografo. Nelle fotografie viene fissato, bloccato, immortalato un sistema di vita con le sue regole e tradizioni che altrimenti sarebbero impenetrabili, poi, osservando dall’alto, lo scrittore può effettuare un “crop” al fine di evidenziare certi aspetti da lui scelti. Nel trasportare il risultato ottenuto in parole 5 l’autore si troverà in una posizione simmetrica rispetto a quella del lettore, ovvero, entrambi chinati come a guardare una foto. Sempre a sostegno di questa seconda ipotesi, un’ulteriore prova della coesistenza dell’arte visiva e di quella scrittoria è rappresentata dall’uso parsimonioso dei colori che fa l’autore nei suoi scritti. Un chiaro esempio è costituito da I Malavoglia, ambientato ad Aci Trezza, scenario in cui il mare è il protagonista della scena, dove il termine “azzurro” ricorre in tutto il romanzo una sola volta, ed inoltre in una situazione del tutto diversa: “… ma la ragazza cantava come uno stornello, perché aveva diciotto anni, e a quell’età se il cielo è azzurro, vi ride negli occhi, e uccelli vi cantano nel cuore…”. Verga eleverà al massimo grado l’importanza del semplice fatto umano, e a questo scopo, fondamentale fu l’incontro con la fotografia. Sembra infatti che questa costituisca per Verga un modello a cui ispirare lo stile nei propri racconti, e che dunque fosse stata proprio questa a suggerirgli di fotografare la realtà con le parole, mantenendosi sempre obiettivo, impersonale ed in “bianco e nero”. Nell’introduzione ai Malavoglia Verga scrive che il cammino “fatale e incessante” che segue l’umanità, l’“immensa corrente dell’attività umana” ha un fine preciso, che, da lontano, visto nell’insieme, è grandioso: la conquista del progresso. “Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è di già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà come’è stata, o come avrebbe dovuto essere.” Quale altro mezzo più che la fotografia ha creato questa possibilità “di trarsi fuori un istante,” di continuare a scorrere con la corrente e tuttavia di fermare il mondo, di rappresentare per un attimo una realtà in movimento? Difficile è definire con sicurezza il rapporto che legava Verga alla fotografia, ma il nuovo mezzo espressivo doveva affascinarlo per l’illusione con esso creata di fermare il tempo correndo con il tempo, di dare solidità all’effimera accelerazione della modernità. Allo stesso tempo, Verga doveva subirne il fascino profondamente elegiaco: fotografia come figura melanconica di un mondo perennemente in declino, al tramonto, in rovina. Pur accettando l’idea che il progresso fosse qualcosa di necessario e inevitabile, per lo scrittore siculo era anche qualcosa che inevitabilmente sarebbe finito nella sconfitta; e quest’idea può essere rapportata al modo di vedere la fotografia, che è da una parte strumento del progresso, e dall’altra, invece, richiamo nostalgico del passato. Arrivati a questo punto risulta chiaro come l’incontro tra scrittore e quella che lui definì una “segreta mania” non sia stato un evento superficiale e marginale, ma abbia messo in moto profonde affinità poetiche e ideologiche. Qui di seguito, alcune foto utilizzate dall’autore come modelli per la realizzazione delle sue opere. 6 In questa foto scattata da Verga vi è una panoramica di Vizzini, paesaggio descritto nell’incipit del romanzo Mastro Don Gesualdo. Suonava la messa dell'alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. […] Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l'allarme anch'esso; poi la campana fessa di San Vito; l'altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra s'erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre. Questa fotografia con una bambina affacciata ad una finestra di una casa in un paesino fra quelli di cui Verga era solito narrare, potrebbe essere stata un modello di personaggio nel romanzo I Malavoglia, forse per Lia, la più piccola nella casa del Nespolo. 7 all’intensità luminosa stessa. Tramite un procedimento chimico le immagini riprese sulla lastra venivano rese visibili in negativo. Dal negativo alla fine si potevano ricavare infinite ristampe, nelle quale luci e ombre tornavano a invertirsi apparendo come erano al momento della ripresa. Nel 1888, la statunitense Kodak mise a punto il primo rullino fotografico affiancandolo alla produzione della prima fotocamera portatile destinata al grande pubblico: nascono in tal modo le cosiddette istantanee. La fotografia iniziò, così, ad assumere una portata che andava ben oltre quella che era la realtà storica e culturale dell’Ottocento, proiettandosi direttamente nel nostro tempo, nel quale l’immagine (fotografica, cinematografica, televisiva o digitale che sia) è arrivata ad influenzare il modo di vivere e di pensare di milioni di persone. Origini dell’estetica fotografica: arte per diritto Agli esordi della fotografia l’ipotesi che l’immagine fotografica potesse in qualche modo essere considerata frutto del genio artistico di chi materialmente eseguiva lo scatto venne sempre negata. Il fotografo veniva considerato, tutt’al più un tecnico; nessuna sensibilità particolare occorreva per scattare una buona immagine, ma semplicemente una competenza tecnica neanche troppo approfondita. Come ottenere la tutela legale della proprietà artistica per un’immagine che può essere prodotta con estrema esattezza e velocità senza richiedere una competenza artistica e tecnica particolare? Era necessario indubbiamente porre in discussione proprio le idee fondamentali con cui la fotografia fu inizialmente presentata al pubblico. Proprio i punti di forza del nuovo mezzo si configuravano al contempo come i suoi difetti maggiori: la precisione nella resa dei dettagli era comunemente tradotta nell’impossibilità di interpretare la realtà e di costruire universi di sensi; la velocità e la facilità con cui si otteneva l’immagine rendeva poi quasi impossibile considerare ogni singolo scatto il frutto del genio artistico o dell’intelletto umano; se tutti i meriti andavano attribuiti alla macchina, non c’era arte perché l’arte presuppone il contributo dell’intelletto umano. La questione del diritto d’autore in fotografia venne affrontata diverse volte nei tribunali e la sua importanza non si limita esclusivamente alle questioni di natura storico-legale. Dal modo in cui essa venne trattata scaturiscono, infatti, diverse possibilità di interpretazioni teoriche della natura della fotografia. Si ritiene, quindi, necessario esemplificare il problema attraverso l’esposizione di alcuni dei processi più importanti per la conquista di questo diritto. Félix Tournachon, in arte ‘Nadar’, nel 1856 decise di citare in causa il fratello Adrien. I due fratelli avevano in progetto di fondare insieme uno studio fotografico ma Adrien disattese i patti e provò ad avviare un’attività per conto proprio. Così nel 1855 si trasferì in un altro studio con altri fotografi e prese l’abitudine di firmare le sue opere con la sigla ‘Nadar Jeune’. Ciò causò una gran confusione, tutta a svantaggio di Félix, assai più noto e artisticamente più dotato. Quest’ultimo diffidò diverse volte il fratello Adrien, chiedendogli di interrompere l’uso dello pseudonimo ma non venne ascoltato e nello stesso anno si giunse al processo. Felix per far valere i suoi diritti cercò di spiegare la differenza tra la produzione di un’immagine tecnicamente gradevole attraverso il dagherrotipo e la produzione di un’opera meditata non soltanto nelle sue varianti tecniche ma anche in quelle psicologiche. Egli voleva spiegare quali capacita innate doveva avere un fotografo per produrre un’opera che avesse un qualche valore artistico. Egli, nella produzione di una fotografia, evidenziò due livelli distinti: ad un primo livello ci si impegna solo meccanicamente, si adopera uno strumento tecnologico nel migliore dei modi per produrre risultati efficienti; ad un secondo livello, invece, si intuisce, si entra in contatto con il modello. Ma a questo secondo livello può pervenire solo chi è già dotato in partenza di una sensibilità particolare: l’intuizione, il contatto con il modello non si apprendono, si sortiscono dalla natura. Li si ha o non li si ha. La prima dote del fotografo è dunque il “sentimento della luce”. Si tratta di un uso consapevole della luce, della scelta di un tono piuttosto che di un altro sulla base dell’effetto che il fotografo vuole rendere, 10 secondo la fisionomia che si desidera riprodurre. Ecco che Nadar introduce qui un concetto importante: il sentimento, in pieno stile romantico, diventa un elemento di distinzione tra una fotografia impersonale e la fotografia di un artista. Un altro elemento che emerge qui è poi la possibilità del fotografo di adoperare una scelta. La scelta viene effettuata sulla base dell’effetto che si desidera ottenere sulla fisionomia riprodotta. Il fotografo conquista potere decisionale, scegliendo una fisionomia da riprodurre egli personalizza l’immagine. Una seconda – e ancora più importante – dote innata è poi l’attitudine a cogliere e a riproporre la psicologia del soggetto ritratto. È quella che Nadar definisce l’“intelligenza morale” del fotografo ovvero la sua capacità di catturare l’ethos del soggetto, nel senso del “carattere” e nel senso dell’“abitudine”. Davanti a un bravo fotografo, il soggetto si sente nel bell’agio delle sue abitudini e dei suoi atteggiamenti consueti. E ciò contribuisce alla naturalezza dell’immagine. Una buona foto, dunque, oltre a far emergere la personalità di chi scatta, favorisce anche la personalizzazione dell’immagine da parte del soggetto; il soggetto deve emergere nella sua essenza, il soggetto è il centro dell’immagine e il fotografo – se vogliamo – il suo layout. La terza dote innata di un buon fotografo è l’onestà commerciale. In questo senso Nadar intende dire – come specifica subito di seguito – che un fotografo che esegue un vero ritratto d’artista lo fa attraverso lunghe ore di ricerca, di zelo, di impegno. Queste sono le caratteristiche che conferiscono valore alle fotografie: l’intervento e l’impegno di un talento che ricerca un contatto con il modello, che produce un’immagine in cui emerga la personalità del soggetto e il tocco unico del fotografo. Félix Tournachon vinse il processo e soltanto suo figlio ebbe il privilegio di ereditare il celebre e remunerativo pseudonimo ‘Nadar’. La fotografia non aveva ancora assunto lo status giuridico di “opera d’arte”, ma – durante il processo – Nadar aveva fatto valere con successo le sue ragioni di artista. Nadar, Ritratto di Sarah Bernardt, 1859 Il fotografo Napoleon Sarony aveva aperto a Broadway uno studio fotografico la cui attività principale era quella di vendere ritratti di personaggi noti, tra cui quello di Oscar Wilde. Quest’ultimo fu riprodotto in migliaia di copie dalla Burrow-Giles Lithographic Company nel 1883. Sebbene proprio per quel ritratto il soggetto non avesse richiesto denaro per posare (il celebre scrittore riteneva che un’ampia diffusione di sue immagini potesse soltanto renderlo più popolare), Napoléon Sarony decise di intentare causa alla compagnia. Per vincere la causa, Sarony dichiarò che dietro le sue fotografie c’era un gran lavoro artistico e intellettuale e che dunque esse dovevano essere considerate opere d’arte, almeno da un punto di vista giuridico. La difesa fece leva sull’origine chimica e meccanica dell’immagine, assumendo che essa non fosse frutto dell’intelletto umano. Tuttavia Sarony vinse la causa e ottenne l’equivalente attuale di 11.000 euro per ogni copia posseduta dalla Burrow- Giles Lithographic Company. Sarony difese la sua immagine in quanto frutto di lavoro intellettuale e vinse la causa con un lauto compenso. La sua vittoria schiacciante era il simbolo della definitiva liberazione – perlomeno in ambito giuridico – dei pregiudizi artistici legati alla fotografia. 11 L’accettazione di tutto ciò da parte di artisti, pensatori e critici fu comunque graduale e comportò un interminabile dibattito in ambito artistico, per certi aspetti presente tutt’oggi. Napoleon Sarony, Ritratto di Oscar Wilde, 1882 12
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