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Tesina burnout.doc, Tesine universitarie di Psicologia Sociale

Tesina riassuntiva della sindrome del burnout

Tipologia: Tesine universitarie

2015/2016
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Caricato il 31/05/2016

martinadc92
martinadc92 🇮🇹

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Scarica Tesina burnout.doc e più Tesine universitarie in PDF di Psicologia Sociale solo su Docsity! UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “SAPIENZA” Insegnamento: “Analisi dello sviluppo del disagio psicosociale” Tesina “Empowerment e burnout nelle professioni di aiuto” capitolo 8 Lavoro di Gruppo: _________________________ Anno Accademico 2015/2016 Dallo stress lavorativo al burnout Negli ultimi decenni, è stata data molta importanza alla condizione della singola persona in tutte le sue sfaccettature, e di conseguenza c’è stato anche un approfondimento degli studi su tutte quelle situazioni di disagio psicologico che spesso trovano nella cattiva o non corretta organizzazione del lavoro, una delle loro cause più importanti. Un rilevante filone di ricerca sviluppatosi nel corso del tempo, è quello legato allo “stress lavorativo” definito così in quanto è strettamente legato all’ambiente di lavoro; ciò rappresenta un aspetto molto interessante se si considera che al giorno d’oggi il lavoro impegna gran parte della giornata, ma anche della vita di una persona, ed è anche tramite il suo tornaconto economico che si vengono a determinare gli standard individuali di vita e lo stress sociale connesso. Lo stress fu definito inizialmente nel 1936 da Hans Selye come “la reazione biologica aspecifica dell’organismo alla presenza di un agente stressante tesa a ristabilire la condizione precedente”. Il termine stress nasce all’interno delle discipline scientifiche per indicare una somma di forze che si oppone ad una resistenza, per poi essere, successivamente, ripreso dalle discipline bio-mediche. Il fisiologo canadese Hans Selye studiando le risposte fisiologiche di alcuni organismi a determinati agenti nocivi, precedentemente somministrati, osservò che essi determinavano dei cambiamenti biochimici e morfologici sugli organi interni. Oltre ad una serie di reazioni specifiche, dovute ai tentativi di contrastare le suddette sostanze, si svilupparono anche dei processi biologici aspecifici, inattesi ed indipendenti dalle sostanze iniettate. Tali processi servivano a far adattare l’organismo ai cambiamenti avvenuti, ristabilendo una situazione di equilibrio. Selye, allora, ipotizzò l’esistenza di alcuni meccanismi biologici che, nel caso di esposizione ad un agente nocivo, scatenavano una serie di reazioni e sintomi tra loro correlati, tanto da far pensare ad una sindrome generalizzata. Selye ricondusse quest’insieme di sintomi allo stress, o meglio alla “sindrome generale di adattamento” definita come: “una risposta (generale) aspecifica a qualsiasi richiesta proveniente dall’ambiente”. In questa definizione è necessario focalizzarsi sui termini “aspecifica” ed “ambiente”. L’aspecificità sta a sottolineare l’impossibilità di Già agli inizi del 1900 Emil Kraepelin, psichiatra e psicologo tedesco, utilizza il termine burnout (dall’inglese: bruciato, scoppiato, esaurito) ed evidenzia i disagi legati alla professione di psichiatria, ed individua come principale difficoltà: l’eccessivo carico di lavoro, uno scarso piacere ricavato dal lavoro clinico, ed un finale esaurimento del medico. Successivamente, verso la fine degli anni ’30, compare nuovamente in lingua inglese il termine burnout, per designare il fenomeno in riferimento all’ambito sportivo anglosassone, per il quale un atleta, apparentemente molto dotato, dopo alcuni successi non riesce a dare più nulla sul piano agonistico, risultando incapace di ottenere risultati e/o mantenere quelli finora ottenuti. In seguito, nel 1974, il termine burnout fu utilizzato dallo psicologo Herbert J. Freudenberger descrivendo l’esaurimento fisico ed emotivo sperimentato dagli operatori di una istituzione psichiatrica; osservando, tuttavia, i lavoratori volontari di un ospedale pubblico. Egli dà una prima descrizione dei segni e dei sintomi specifici che ritiene compaiano dopo il primo anno di lavoro in un setting istituzionale, osservando che vi è una maggiore incidenza negli operatori più motivati, dando molta importanza tanto alla noia quanto alla routine definendoli come aspetti fondamentali per capire la condizione psicofisica degli operatori. Si deve in un certo senso a H.J.Freudenberger la definizione di burnout, il quale lo definisce: uno “stato di frustrazione nato dalla devozione ad una causa, da uno stile di vita, da una relazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa”. Successivamente a Freudenberger, si fa sempre più crescente l’attenzione al fenomeno ed il termine burnout viene usato per descrivere situazioni tra loro affini, ma anche diverse, racchiudendo in sé troppi significati contraddittori fra di loro, come: perdita di volontà, ansietà con depressione e cedimento, alienazione, perdita di spirito, stratagemma usato (con scarso successo) per fronteggiare lo stress, e così via… La ricerca empirica permette, in quegli anni, una maggiore conoscenza del fenomeno. Il burnout viene “misurato” per la prima volta, nel 1977, su 83 operatori del Day Care Center. In questo studio, partendo dal concetto di alienazione lo si definisce come: “il limite oltre il quale un operatore si separa o si ritira dal significato originale e dallo scopo del suo lavoro, esprimendo estraniamento dai pazienti, dai colleghi e dall’ente per cui lavora”, (le aree principali di ricerca sono la psicologia sociale e quella clinica). Bisogna aspettare il 1975 per definire il burnout come una vera e propria malattia professionale, dalla psichiatra americana Christina Maslach, la quale indica il burnout come “la perdita di interesse per la gente con cui si lavora, cioè la tendenza a trattare i pazienti in modo distaccato e meccanico quando le richieste di lavoro diventano eccessive”. Nel 1977, lo definisce come una condizione in cui, dopo mesi o anni di impegno generoso, gli operatori si bruciano, manifestano atteggiamenti di nervosismo, irrequietezza o apatia ed indifferenza fino al cinismo. In Italia invece, il fenomeno del burnout è stato inizialmente descritto nel 1978 da Augusto Palmonari, ma non esistendo una traduzione italiana del termine del tutto convincente, si è preferito quello anglosassone. Egli, tuttavia, definisce il burnout come: “sindrome di improduttività e auspica una maggiore attenzione degli studiosi alle difficoltà, connesse al lavoro sociale, quindi non determinate da caratteristiche psicologiche individuali. Il vero precursore degli scarsi studi italiani sul burnout fu Guido Contessa, il quale in un articolo del 1981 inventa la “metafora del circuito”. Rifacendosi a Edelwich e Brodsky (1980) egli definisce il burnout come “una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano”. Le conseguenze del cortocircuito sono molto gravi a tre livelli: 1. a livello degli operatori, che pagano il cortocircuito in termini personali, anche attraverso gravi somatizzazioni (mancano dati sulle malattie professionali degli operatori sociali), ma soprattutto attraverso frustrazioni, dispersione di risorse, sotto utilizzazione di potenziali, ecc. 2. a livello dei clienti, per i quali un contatto con operatori sociali in cortocircuito, risulta frustrante, inefficace o dannoso; 3. a livello sociale, per la comunità in generale, che vede svanire forti investimenti nei servizi sociali. il cortocircuito é il risultato di numerose concause, appartenenti ad ordini logici diversi: a) entusiasmo iniziale e nobili aspirazioni, b) mancanza di criteri e metodi per misurare il successo, e) bassa retribuzione a fronte di alti livelli di istruzione, capacità e responsabilità, d) possibilità di carriera limitate al settore amministrativo, e) maschilismo, f) inadeguatezza dei fondi e dei supporti istituzionali, g) uso irrazionale delle risorse, h) alta visibilità unita a diffidenza e incomprensione. In genere la visione di cosa determini maggiormente il cortocircuito, varia in base alla posizione gerarchica dell’operatore ed in base alla sua formazione e mansione. In base alla gerarchia possiamo trovare tre livelli: • l’équipe di coloro che operano direttamente con l’utenza (costoro hanno come principale il problema dell’impotenza e della inefficacia, e, come conseguenza, una polarizzazione antagonista verso operatori di più alto status nello stesso servizio: infermieri contro dottori, assistenti sociali contro psicologi, psicologi contro medici, ecc.); • quadri intermedi (costoro hanno il problema di equilibrare la propria lealtà verso l’alto e verso il basso); • vertice responsabile (il problema di costoro è trovare un equilibrio fra interno ed esterno: dirigere l’interno, ma difenderlo da un esterno minaccioso e critico). In base alla formazione ed alla mansione, vi sono: • i volontari senza una formazione formale (temporaneità), 3. Corrisponde ad un grave livello di stress, con sintomatologia fisica ingravescente. Le possibili reazioni a questo disagio possono essere: • abbandono del posto di lavoro, • assunzione di un atteggiamento negativo, cinico e distaccato: 4. prevede un crollo a livello lavorativo e/o privato, con possibile presenza di: • gravi patologie somatiche, • gravi quadri psichiatrici. Nel 1994 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito il burnout nella classificazione internazionale delle malattie, nel capitolo XXI, riguardante i “Fattori che influenzano lo stato di salute e il contatto con i servizi sanitari”. Esistono infatti diversi punti di vista sul burnout: 1. psicologia dell’apprendimento: il burnout come “impotenza appresa”. Essa si manifesta nell’uomo con deficit motivazionale (è compromessa l’iniziativa finalizzata a riprendere il controllo della situazione), deficit cognitivo (il soggetto non è cosciente che gli avvenimenti dipendano almeno in parte dalle sue azioni) e deficit emozionale (paura, depressione, ansia, rabbia). Gli esseri umani nella costruzione delle loro aspettative si basano spesso sull’intuizione usando regole approssimative o si lasciano sviare da opinioni persistenti invece di compiere una precisa valutazione della situazione attuale (stima soggettiva delle possibilità di successo) 2. clinico-psicoanalitico: il burnout come autonomia. La mente umana ha la capacità di difendere illusoriamente se stessa di fronte a un dolore ritenuto intollerabile auto mutilandosi e rifiutando di vivere l’esperienza dolorosa. Autonomia come tendenza umana della mente ad evacuare e allontanare da sé le esperienza frustranti e dolorose che restano aldilà della barriera della pensabilità 3. sociologico: burnout come conseguenza del declino della vita in comunità. Nelle società moderne prevale l’anomia, nella vita comunitaria c’era un maggior senso comunitario, un sistema di sostegno primario come vicinato, parrocchia, famiglia patriarcale, svolgevano un’importante funzione psicologica che si è persa nei grandi agglomerati urbani; fornivano valori, aiuto morale, sicurezza che aiutava a comprendere e affrontare le varie forme di disagio. Ciò favorisce l’insorgenza del burnout in 4 modi: • il tessuto sociale tende a disgregarsi e aumentano le forme di handicap psicologico (incremento della domanda di servizi sociosanitari, possibile sovraccarico degli operatori che devono gestire un numero maggiore di pazienti); • diminuzione dei sostegni informali attivi in passato: i centri formali (centri d’igiene) devono intervenire più spesso per fornire sostegno emotivo e guida alle persone sofferenti; • gli utenti non hanno più fiducia nei servizi sociali; • diversi atteggiamenti dei giovani verso il lavoro: oggi ricerca di novità e autorealizzazione, la sicurezza economica e la possibilità di aiutare gli altri non sono più considerati ricompensa adeguata. 4. psicosociale: la prospettiva più efficace perché considera i rapporti del lavoratore con l’equipe, colleghi, superiori, struttura organizzativa. È più facile ristrutturare un ruolo professionale che il carattere di un individuo o società. Ogni organizzazione ha struttura (ruoli occupati dalle persone), meccanismi culturali (norme e regole esplicite e non), persone. Il ruolo professionale è la sequenza di comportamenti e azioni che una persona deve svolgere perché occupa una data posizione nell’organizzazione. Si distingue da: • status: posizione occupata che definisce compensi e diritti, • mansioni da espletare, • atteggiamenti: lo stile personale con cui si eseguono i compiti. Componenti che si combinano in modo più o meno armonico e coerente e determinano l’esercizio concreto della professione. Fattori di stress lavorativo: - sovraccarico di lavoro: lavoro eccessivo per risorse in termini di tempo e fatica conflitto di ruolo: richieste incompatibili - sovraccarico di ruolo: quando due segmenti dello stesso ruolo devono esser espletati (per es. burocratico e professionale) - conflitto individuo/ruolo: il soggetto si sente costretto dalle esigenze della sua professione a svolgere una mansione in cui crede. In Italia a partire dal 2008, con l’entrata in vigore del Testo Unico sulla Sicurezza (d.lgs. 81/2008, art. 1, c. 1) si stabilisce che oltre alla valutazione dei rischi “tradizionali” devono essere valutati anche quelli da stress lavoro correlato. Con il Progetto di Legge 4562 del 2 maggio 2000 il burnout è stato definito come sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e di riduzione delle capacità professionali che può presentarsi in soggetti che per mestiere si occupano degli altri e si esprime in una costellazione di sintomi quali somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, incidenti. Il burnout è una possibile conseguenza dello stress ma è un fenomeno molto più complesso, poiché determinato non solo dalle componenti soggettiva e oggettiva dello stress individuale, ma anche da variabili storico-sociali e culturali. Per cui, anche se l’opinione comune induce a considerare il come un problema esclusivo della persona più che un problema inerente al lavoro, esso in realtà viene ritenuto un fenomeno multidimensionale ▲ la capacità di fare un’analisi critica dei sistemi sociali e politici che definiscono il proprio ambiente; ▲ l’abilità di sviluppare strategie di azione e di coltivare risorse per raggiungere i propri scopi imparando ad assumere la responsabilità delle azioni; ▲ la capacità di agire in modo efficace in collaborazione con altri per definire e raggiungere scopi collettivi di cambiamento. Esistono più livelli nei quali si attua il processo di Empowerment e diversi tipi di intervento per ciascuno di questi livelli: ▲ Gli interventi sulla dimensione personale: questi interventi consistono in un lavoro iniziale con i soggetti bisognosi di assistenza per motivi che possono riguardare mancanza di risorse, problemi relazionali o emotivi. Quindi si deve stabilire con l’utente un rapporto di lavoro e valutare i bisogni e le risorse. ▲ Gli interventi sulla dimensione interpersonale: sono interventi rivolti a fornire conoscenze ed abilità necessarie per gestire ed affrontare i problemi che si possono presentare. Gli interventi in questo caso possono comprendere seminari e incontri, ma soprattutto lavoro con piccoli gruppi in modo che gli individui con gli stessi problemi possano sostenersi a vicenda. ▲ Gli interventi sulla dimensione micro-ambientale: si focalizzano sul cambiamento immediato del contesto in cui si trova a vivere l’utente, imparando quali sono le risorse disponibili e come accedere ad esse. ▲ Gli interventi sulla dimensione macro-ambientale: coinvolgono gli utenti negli aspetti politici dei problemi, aiutando le persone a cogliere i legami tra problemi personali e dinamiche sociali. Gli individui vengono incoraggiati a partecipare ad azioni sociali o sforzi collettivi per influenzare le forze ambientali. Spreitzer e la Psychological Empowermwnt Scale Spreitzer nel 1995 ha sviluppato un modello di Empowerment basato su quattro componenti riferite agli stati psicologici individuali: ▲ la significatività: ovvero la corrispondenza tra le richieste dei compiti lavorativi e il sistema di valori della persona; ▲ la competenza: ossia la convinzione di possedere abilità e strumenti necessari per svolgere un lavoro e in modo corretto; ▲ l’autonomia: è la sensazione di controllo rispetto al proprio lavoro ed avere la libertà di iniziativa e di organizzazione del lavoro in termini di tempo, metodi ed intensità; ▲ l’Influenza: ovvero la convinzione di poter incidere sugli esiti strategici, amministrativi ed operativi del proprio lavoro. A questo proposito Spreitzer ha ideato uno strumento conducendo dei studi di validazione e applicandolo in particolare ai manager di aziende. Nel suo modello le quattro componenti si combinano determinando il costrutto generale dell’ Empowerment, la mancanza di una di esse diminuisce il livello totale di Empowerment. Questa Scala di Spreitzer, (la Psychological Empowerment Scale- PES, a 12 item), viene utilizzata anche per analizzare l’Empowerment anche nelle professioni di aiuto. In una ricerca condotta su un campione di circa 670 operatori dell’area sanitaria e socio- educativa sono emersi livelli differenziati di Empowerment in base a variabili socio- demografiche, delle caratteristiche legate al ruolo professionale e alla tipologia di utenti. Le donne dichiarano di considerare il proprio lavoro in modo più significativo e di possedere abilità e potenziale maggiore rispetto ai colleghi maschi, gli uomini invece dichiarano di essere più autonomi nello svolgimento dei compiti lavorativi rispetto alle donne. Con l’aumentare degli anni di anzianità diminuisce la significatività percepita del proprio lavoro. La sindrome del burnout e le sue fasi Si comincia a parlare di "sindrome di burnout" nella prima metà degli anni ‘70, negli Stati Uniti, per identificare una patologia professionale che veniva osservata sempre più frequentemente tra gli operatori impegnati nelle cosiddette professioni di aiuto, specialmente dell'area socio-sanitaria: medici, psicologi, assistenti sociali, counselors, fisioterapeuti, infermieri, notando un rapido decadimento delle risorse psicofisiche e un altrettanto rapido peggioramento delle prestazioni professionali. Il burnout non è, tuttavia, manifestazione peculiare delle professioni sociosanitarie, ma costituisce un rischio potenziale per ogni operatore che lavora “con la gente”: dall'insegnante al sacerdote, dal consulente legale all'educatore. Questo rischio sembra derivare da rapporti interpersonali, frequenti e intensi, che tali operatori intrecciano con i loro utenti. Rapporti spesso carichi emotivamente, caratterizzati da stati di tensione, di ansia, di imbarazzo e anche di ostilità. Si è visto come negli anni, sono state proposte differenti definizioni concettuali di burnout. Tuttavia, Maslach (1982) ritiene che, pur nelle differenze, si abbiano anche consistenti analogie, utili per una definizione provvisoria condivisibile dalla maggioranza degli specialisti. In termini più specifici, Maslach e Jackson (1981) definiscono il burnout come una sindrome costituita da: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione professionale. Per esaurimento emotivo si intende lo svuotamento delle risorse emotive e personali e la sensazione che non si abbia più niente da offrire a livello psicologico; la depersonalizzazione si riferisce ad atteggiamenti negativi, di distacco, di cinismo, di ostilità nei confronti della gente con cui si lavora. La ridotta realizzazione, infine, riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, implica una caduta dell'autostima e una attenuazione del desiderio di successo. La definizione proposta da Maslach e Jackson (1981) – divenuta punto di riferimento per gli studiosi di questa sindrome – ha contribuito ad evitare che il termine burnout divenisse un «contenitore» di tutti i tipi di crisi lavorative (Meier, 1983; Savicki e Cooley, 1983). Ancora, Cherniss (Cherniss,1986), con "burn-out syndrome" definiva la risposta individuale ad una situazione lavorativa percepita come stressante e nella quale l'individuo non dispone di risorse e di strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiarla. La prima fase – preparatoria -, è quella dell’entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale. A tal proposito, bisogna partire dalle motivazioni che spingono un operatore sociale a fare questa scelta professionale. Un elemento centrale è sicuramente riscontrabile nella voglia di fare qualcosa per migliorare il “mondo”, ma ve ne possono essere svariati. In certi casi vi è un sottofondo ideale, religioso, politico o umanistico; in altri tecnocratico: ma, solitamente, la base è sempre entusiastica. Un secondo motivo è da rintracciarsi nella sicurezza dell’impiego pubblico e sicuro. Un terzo, è quello di svolgere un lavoro non manuale e di prestigio. Ci sono poi motivazioni meno consapevoli come: il desiderio di approfondire la conoscenza di sé e il desiderio di esercitare un controllo o un potere sugli altri. In questo stadio un intervento possibile ha a che fare con la formazione di base, che oltre a dare capacità, dovrebbe approfondire molto le motivazioni reali che stanno alla base della scelta. Spesso una spinta alla scelta deriva dalla identificazione con un operatore che ha lavorato con successo col soggetto che compie la scelta. Molti diventano psicoterapeuti dopo una psicoterapia fortunata; molti scelgono l’insegnamento come emulazione di un loro maestro. In questi casi le scelte partono da una base di ottimismo, che sottolinea più i lati positivi e fortunati di una professione, piuttosto che quelli negativi e scomodi. Argomento a parte è quello che riguarda le aspettative dell’operatore: — aspettative di onnipotenza o "idealismo narcisistico"; — aspettative miracolose per se stessi (<<la mia vita sarà risolta>>); — aspettative di soluzioni semplici (negazione delle resistenze); — aspettative di successo generalizzato (negazione delle incompatibilità); — aspettative di successo immediato (negazione dei lunghi periodi); — aspettative circa le motivazioni degli utenti (negazione dell’alienazione); — aspettative di controllo (negazione della fantasmatica dell’utente); — aspettative di apprezzamento (negazione dell’ostilità dell’utente); — aspettative di rapporto con l’utenza (negazione del lavoro a tavola); — aspettative di status (negazione della quotidianità). Queste aspettative, se presenti in misura eccessiva, sono una delle cause principali del cortocircuito. Quando a queste si aggiungono: aspettative di compiti concreti (negazione della complessità); aspettative di un ambiente nutritivo (negazione delle dinamiche istituzionali e comunitarie); aspettative di formazione permanente (negazione dell’efficienza), la situazione diventa ancora più pericolosa. FASE 2: Stagnazione Questa fase riguarda un primo stallo dopo l’iniziale entusiasmo. L’operatore continua a lavorare, ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. Di solito le prime avvisaglie della stagnazione derivano dalla scoperta che i risultati dell’impegno sono impalpabili, incerti e aleatori. "Che cosa sto facendo?" è la domanda tipica, che apre la stagnazione. Il super-impegno iniziale, la chiusura dell’operatore nel "primo mondo" dei colleghi, l’uso di "portarsi a casa" il lavoro cominciano a diventare meno giustificati e sopportabili. In questa fase si affacciano i rimpianti per il super investimento nel lavoro ed il disinvestimento nel privato. Avanza un sentimento di "carriera bloccata", come se non ci fossero nuove esperienze e nuovi sforzi da fare. Diventa consapevole anzitutto la delusione circa il basso salario. Questa delusione si accentua nel confronto con: i salari di alcuni utenti, i salari di operatori di più alto status nello stesso servizio, i salari di operatori con stessi titoli ma operanti in settori privati. Si affaccia anche una preoccupazione per la carriera. L’operatore sociale scopre che una eventuale carriera comporta un cambiamento di lavoro, cioè un salto dal lavoro sul campo ad un lavoro d’ufficio, di solito di natura prevalentemente amministrativa. Spesso a questo punto sorge l’esigenza di riprendere gli studi, passare ad un livello superiore d’istruzione, per ottenere un più alto status nell’ambito dello stesso servizio. Durante la fase di stagnazione l’operatore rischia di passare da una situazione di super investimento ad una di disinvestimento totale; oppure di fuggire alla ricerca di altre situazioni che dovrebbero consentirgli la realizzazione delle sue aspettative. FASE 3: Frustrazione La frustrazione è il momento cruciale del cortocircuito. La frustrazione massima si ha quando l’operatore comincia a pensare di "non aiutare realmente nessuno" e di non "servire a nulla". Appare invaso di dubbi globali sul tipo di lavoro, il suo significato, la sua utilità effettiva. I due cardini centrali della frustrazione sono: il senso di impotenza dell’operatore e la non rispondenza del servizio ai bisogni reali degli utenti. La frustrazione riguarda il vissuto di inutilità del lavoro sociale sia individuale sia organizzato e istituzionale. L’impotenza riguarda il rapporto operatore-utente, ma anche il rapporto operatore-comunità e il rapporto operatore-istituzione. Molti lamentano il fatto di non riuscire a influire effettivamente sui problemi ed altri accusano di essere lasciati soli a decidere. Il senso di impotenza non ha dunque a che fare con l’assenza di potere: sorge essenzialmente dalla caduta dell’onnipotenza e dalla constatazione della parzialità radicale del proprio intervento. Anche le istituzioni nelle quali l’operatore lavora vengono vissute come impotenti ed emerge drammaticamente la discrepanza fra obiettivi dichiarati e formali, e modalità e risultati realizzati. “servizi di prevenzione che diventano ambulatori; servizi antidroga sommersi da compiti burocratici; servizi di educazione, che operano come centri di custodia”. A ciò si aggiunga il burocratismo, i giochi di corridoio a sfondo partitico, il conservatorismo istituzionale, la rigidità organizzativa, la spersonalizzazione: tutto porta ad un quadro di impotenza istituzionale e di frustrazione generalizzata. Un mega-corto-circuito nazionale, dove le vie d’uscita sembrano inesistenti. Uno degli elementi del senso di impotenza dell’operatore è poi la scoperta che egli stesso e l’istituzione per cui lavora non rispondono ai bisogni reali degli utenti. Quali bisogni e quali utenti? Gli utenti dei servizi sociali, come i genitori della scuola, vengono tirati in ballo strumentalmente a seconda dei casi dai conservatori o dai progressisti, dagli operatori di base e dagli amministratori, dai politici locali e dalle avanguardie degli utenti stessi. Gli utenti sono via via soggetti che conoscono i loro bisogni o che li ignorano; che vanno coinvolti o che vanno esclusi; che hanno sempre ragione o sempre torto; che sono insieme vittime e colpevoli. Il problema è sempre derivante dal fatto che l’ideologismo e la magia "morte professionale" dell’operatore. Ideali e potenziale personale, realizzazione sul lavoro, autostima, subiscono un arresto. In questo stadio solo una forte scossa emotiva o un drastico cambiamento possono superare il cortocircuito. Riprendendo il concetto di entusiasmo idealistico, Cherniss (1983), evidenzia cinque conseguenze negative della “mistica professionale”: a) La prima conseguenza negativa nasce dalla convinzione presente in molti operatori che sia vera l’equazione “credenziali = competenza = successo”, molti operatori credono che la competenza porti sempre ad un’alta percentuale di riuscita nel lavoro. In realtà il possesso di un titolo non garantisce automaticamente una competenza professionale. b) Un secondo importante aspetto della mistica professionale è l’aspettativa che lo status (psicologo, formatore, educatore, medico) garantisca sempre un alto livello di autonomia personale e di controllo sul proprio lavoro. c) Una terza componente della mistica professionale riguarda il comportamento degli interlocutori. Si suppone che allievi, pazienti e clienti siano sempre riconoscenti e disposti a collaborare, il che non è vero. d) Ci si aspetta, inoltre, che le relazioni tra i colleghi siano improntate al reciproco aiuto e alla collaborazione quando invece molto spesso insorgono conflitti di interesse e varie forme di competizione. e) Infine, si pensa sovente che il lavoro in sé sia intrinsecamente interessante, significativo e stimolante, trascurando o dimenticando quegli aspetti di difficoltà e di routine che sono comunque presenti. CAUSE: Nella società moderna vi è una maggiore presenza della sindrome di burnout in varie professioni sanitarie e sociali. Nei paesi Occidentali tale sindrome sta diventando sempre più presente ma questo non è dovuto ad un mal funzionamento della persona ma ai vari cambiamenti avvenuti nel contesto lavorativo (ambiente freddo, ostile, esigente) e che influenzeranno l’atteggiamento della persona. Il burnout può essere inteso come l’ultimo passo, di una serie di tentativi falliti per superare situazioni stressanti; può, quindi, essere una drastica conseguenza di uno stato di stress emotivo. Il burnout, come sottolineato da Rossati e Magro, è un fenomeno più complesso dello stress, poiché lo stress è un fenomeno individuale, il burnout, invece, è un fenomeno psicosociale. Pertanto, le cause possono essere molteplici: individuali, che si suddividono in soggettive e oggettive, e socio – culturali. Gli elementi individuali reputano la persona soggetta al burnout estremamente empatica, ansiosa, introversa e ossessiva. L’influenza ambientale porta il soggetto ad avere mancanza di autonomia, di formazione, di supporto psicologico, di supervisione, di risorse e strumenti. Le cause individuali soggettive sono caratterizzate da elementi tipici della personalità e dalle aspettative professionali. I primi sono: incapacità di mantenere le relazioni sociali, immaturità emotiva, incapacità di gestione del tempo, frustrazione, poca ambizione. Le seconde, invece, sono caratterizzate da: desiderio di comandare, visioni distorta riguardo la professione e i vari compiti, narcisismo. Un contributo importante su tale argomento è stato dato da K. Lewin (psicologo). Egli ha evidenziato come la soddisfazione e la capacità di controllo del proprio lavoro incidono nel cosiddetto successo psicologico. Quest’ultimo si raggiunge quando l’individuo si prefigge di raggiungere una meta precisa a prescindere dall’eventuale conseguimento dell’obiettivo. Viene a determinarsi, quindi, un forte bisogno interiore che, però, viene ostacolato da alcuni fattori esterni (ostacoli della struttura organizzativa del lavoro). Tutto questo porta la persona a dover assumere degli atteggiamenti come negazione ed evitare situazioni spiacevoli. Le cause individuali oggettive riguardano maggiormente il contesto lavorativo, prestando attenzione alla struttura organizzativa. A tal proposito Cherniss analizza alcuni fattori tipici della struttura organizzativa: struttura di ruolo, struttura di potere, struttura normativa. Per struttura di ruolo si intende la suddivisione dei compiti e delle funzioni dell’organizzazione. Quando questa varia ci si ritroverà davanti a una maggiore o minore partecipazione verso la propria equipe che potrebbe portare a tensioni e di conseguenza al burnout. Ciò che crea maggiormente tensione e stress all’interno di un’organizzazione sono il conflitto di ruolo, l’ambiguità di ruolo e la mancanza di stimoli. Un esempio potrebbe essere il “sovraccarico di ruolo”, inteso come l’eccessivo carico di lavoro e/o di responsabilità rispetto al tempo e alle forze che l’operatore possiede. L’ambiguità di ruolo, invece, è causata dall’insufficienza di informazioni che si possiedono e che impediscono di svolgere al meglio i singoli compiti. Questo porta l’operatore a non avere consapevolezza del proprio ruolo entrando in conflitto con se stesso. Per struttura di potere, invece, si intende la suddivisione e la gestione dei vari incarichi e responsabilità delle decisioni da prendere. Se un’organizzazione è gerarchica, burocratizzata e formalizzata sarà caratterizzata da una limitata autonomia individuale e da una poca partecipazione e interesse per le attività da svolgere. Quando si parla di decisione si può fare riferimento a varie tipologie: decisione autonoma, la decisione collettiva e la decisione gerarchica. La decisione autonoma viene presa dalla singola persona. Quella collettiva viene presa dal singolo in collaborazione con un gruppo di altre persone. La decisione gerarchica, invece, consiste nella supervisione ed è quella che può alimentare maggiormente la sindrome di burnout. Questo perché la decisione che deve essere presa su una persona viene subita da quest’ultima poiché impotente. Il terzo fattore che costruisce la struttura organizzativa è la struttura normativa. Essa alimenta la condizione di burnout influenzando il ruolo e le strutture di potere in quattro modi diversi: • l’intensità, la chiarezza e il grado di identificazione dello staff con il modello di gestione della terapia; • la forza e la capacità di diffusione della mentalità burocratica; • l’importanza della sperimentazione e dell’acquisizione di nuove conoscenze che costituiscono precisi obiettivi del programma; • il grado di interesse del personale e l’impatto delle condizioni di lavoro su di esso. Tale modello organizzativo, però, viene influenzato anche dai rapporti che il singolo operatore instaura con i colleghi. L’operatore per mantenere la sua condizione di benessere • assenza di equità: suddivisione non obiettiva dei carichi di lavoro, delle retribuzioni o promozioni. • valori contrastanti: se i principi personali e professionali non corrispondono con gli obiettivi prefissati dall’organizzazione per cui lavora. Alcuni studi recenti anno fatto emergere come, oggi, le cause maggiormente rilevanti per l’insorgere del burnout sono: • strutture mal gestite • tempi e spazi insufficienti • scarsa retribuzione • eccessivo carico di lavoro • rapporti impersonali con i colleghi/superiori/direttori • problemi personali e familiari Reputo necessario aggiungere tra le cause più recenti dell’insorgenza del burnout alcuni elementi collegati agli stereotipi sociali: • immagine sociale distorta della professione • professione in continua ridefinizione poiché soggetta a vari mutamenti sociali • elevate aspettative della società nei confronti della professione • basso riconoscimento da parte di altri professionisti Pertanto, tutto questo fa capire come il burnout non è un problema che riguarda solo l’individuo in quanto singolo ma l’individuo influenzato dal contesto sociale, dalla struttura e dal funzionamento del posto di lavoro in cui opera. Quando l’ambiente lavorativo non riconosce l’aspetto umano del lavoro il rischio del burnout cresce sempre di più. Sintomatologia: Molto spesso l’operatore si trova a dover lavorare in una rete caratterizzata da un insieme di interdipendenze facendo diventare la diversità una grande fonte di arricchimento. Il lavorare in un contesto multidisciplinare e multidimensionale può creare una situazione di disagio personale e professionale dell’operatore. Le professioni più soggette al burnout sono quelle definite “hightouch” (di alto contatto) che prevedono numerosi contatti diretti con le persone in difficoltà. Tali contatti prevedono uno scambio reciproco che porta, però, a un coinvolgimento emotivo e fisico che porta un elevato rischio di conflitto fino a sfociare nella sindrome di burnout. Tale sindrome è il risultato di una non corrispondenza tra ciò che è la persona e ciò che dovrebbe essere e fare. La sindrome del burnout è una malattia che si evolve gradualmente partendo dalle prime sconfitte fino alle manifestazioni vere e proprie delle patologie risucchiando la persona in una “spirale discendente” da cui è difficile riprendersi. Tale situazione inizia con una condizione di sovraccarico lavorativo causato da una carenza di risorse, eccesivo carico lavorativo, poco tempo a disposizione, cattiva gestione delle risorse umane. Il tutto viene alimentato dal continuo contatto con le persone fino a sentirsi vuoto e ad assumere atteggiamenti distaccati nei confronti degli altri colleghi e utenti. L’operatore diventa inefficiente poiché non si sente in grado di svolgere determinati compiti, non ha più fiducia né in se stesso né negli altri. Nei casi più gravi si arriva ad un vero e proprio disinteresse per l’utente, tale che diventa un numero o una cartella, e ai disturbi psicofisici (uso di sostanze stupefacenti, abuso di farmaci e alcool). Alcuni arrivano ad abbandonare il lavoro. La sindrome del burnout si manifesta attraverso varie forme di sintomatologia: psichica, comportamentale e fisica. I sintomi psichici, anche detti cognitivo – emozionali, sono quelli che intervengono sulla sfera emotiva e cognitiva. Sono sentimenti come sensi di colpa, negativismo, isolamento e alterazione del tono dell’umore. I sintomi psichici si possono classificare in 4 categorie: • Collasso delle energie psichiche (apatia, demoralizzazione, irritabilità, scarsa concentrazione, incubi, paure immotivate, senso di colpa, di inadeguatezza e di fallimento. Sono tutti sintomi tipici degli stati ansioso – depressivi) • Collasso della motivazione (disfunzioni psichiche che portano alla depersonalizzazione dell’utente come la perdita empatica, rigidità delle norme e delle regole, disinteresse e rifiuto dell’utente e dei colleghi) • Caduta dell’autostima (crollo della fiducia in se stessi, nelle proprie capacità e risorse, svalutazione dell’operatore sia a livello personale e che professionale) • Perdita di controllo (l’operatore non riesce a dividere la vita privata da quella lavorativa poiché egli pensa sempre alle esigenze/problemi dei propri utenti). I sintomi comportamentali riguardano gli atteggiamenti che l’operatore assume durante le ore di lavoro quali l’assenteismo, cercare scuse per lavorare, poca partecipazione al lavoro di gruppo, perdita dell’autocontrollo, allontanamento dagli utenti e assunzione di psicofarmaci e alcool. I sintomi fisici si differenziano in: • Disfunzioni gastro intestinali (gastrite, ulcera e stitichezza) • Disfunzioni sessuali • Malattie della pelle (dermatite, acne e afte) • Disturbi del sonno (insonnia, incubi ricorrenti) • Disturbi dell’alimentazione • Disturbi psicosomatici (diabete e problemi cardiaci) Fattori Di Rischio: Farber ha fatto degli studi per analizzare quali sono i fattori che portano il soggetto ad avere un esaurimento emozionale e un comportamento difensivo. Egli ha individuato tre tipologie di variabili, fattori di rischio, che influenzano il soggetto: • variabili individuali: riguardano le caratteristiche personali si ogni singolo soggetto come le variabili anagrafiche, i tratti di personalità (bassa autostima, rabbia, eccessivo bisogno di approvazione, impulsività), aspetti motivazionali (aspettative Responsabilità verso i colleghi: • ascolto attento • chiarezza nella comunicazione • riformulazione verbale e restituzione • prestare attenzione alla comunicazione verbale e non verbale • fornire feedback positivi Responsabilità dell’organizzazione: Prevenzione primaria: essa prevede la selezione del personale. Il servizio che ha tale compito deve valutare chi sono gli operatori a rischio di burnout e di conseguenza può decider di escludere i candidati oppure di selezionare tali candidati e costruire un progetto individuale per ogni operatore a rischio. Prevenzione secondaria: Moscher e Burti nella loro opera si occupano delle tecniche specifiche e dei compiti del Direttore. Tra le tecniche di prevenzione più importanti vengono evidenziate: gli esercizi didattici mirati (svolti all’interno dell’equipe da un operatore esterno o da uno specialista interno in modo da trasmettere nuove conoscenze), i gruppi staff (gli operatori si riuniscono in gruppo per analizzare i problemi che si sono presentati), riunioni di gruppo con consulente esterno (viene svolto quando si presentano casi complessi in modo da confrontarsi cercando di non perdere di vista gli obiettivi da voler raggiungere), apprendimento di nuove tecniche (gli operatori mettono in pratica ciò che hanno imparato da altri operatori), supervisione (monitorare la condizione psicologica degli operatori), feste (vengono fatte al di fuori del setting lavorativo per alimentare la coesione, la fiducia e il rispetto reciproco oltre a far nascere delle amicizie al di fuori dell’ambiente lavorativo). Il Direttore, invece, deve essere coerente, rispettoso, riservato, coinvolgente, deve dare compiti coerenti a tutti gli operatori e deve fornire loro dei feedback positivi o negativi ma, ovviamente, costruttivi. Ci sono stati molti autori che hanno cercato di individuare vari strumenti di prevenzione; tra questi Del Rio che ha parlato di tecniche di rilassamento e di gestione dello stress. Tali tecniche prevedono acquisizione di competenze quali la gestione del tempo, il rafforzamento delle abilità sociali. Tecnica considerata molto utile è il coping, una tecnica di distanziamento che prevede un giusto equilibrio tra il coinvolgimento eccessivo e il totale distacco nel rapporto con l’utente, quindi si parla di un interessamento umanamente ricco. Altri autori non hanno analizzato solo l’aspetto individuale per individuare le strategie d’intervento ma anche gli aspetti organizzativi del lavoro. Tra questi si può fare riferimento a Cherniss che analizza cinque tipi d’intervento: • sviluppo professionale dello staff (gli operatori vengono invitati a ridurre l’ambiguità di ruolo attraverso l’adozione di meccanismi di controllo e di feedback sul proprio lavoro attraverso incontri periodici); • cambiamenti nella struttura di lavoro e di ruolo (distribuire in maniera adeguata i compiti ad ogni operatore in base alle sue competenze. Sono previsti periodi di riposo e la costruzione di nuovi programmi d’intervento per una buona pianificazione del lavoro in modo da bilanciare le attività gratificanti con quelle non gratificanti) • sviluppo del managment (programmi di formazione per il personale amministrativo e i responsabili in modo da fornire un feedback sulle loro prestazioni); • incremento delle modalità di problem – solving organizzativo e di presa di decisioni (creare meccanismi formali in modo da risolvere i conflitti organizzativi e di fornire le abilità per gestire i conflitti, migliorare il grado di autonomia e di partecipazione alle prese di decisioni); • definizione degli obiettivi del programma e di modelli di gestione (alimentare la consapevolezza dei vari operatori di avere obiettivi comuni e di avere determinate responsabilità). Altri studiosi che si sono occupati di prevenzione dal burnout sono stati Santinello e Furlotti. I loro studi iniziavano da una valutazione dei bisogni e dei problemi individuali e organizzativi individuando quattro tipologie d’intervento: • lavorare per obiettivi e piani (definire dei piani d’intervento a lungo – medio termine che siano basati su un’analisi delle possibili fonti di stress e che potranno affiancare gli operatori a raggiungere gli obiettivi) • promuovere la partecipazione del personale ai momenti decisionali ( permette un flusso di comunicazione più aperto per una buona organizzazione) • agire sulla struttura dei compiti e delle mansioni ( è necessario definire gli standard di qualità, i meccanismi di feedback, la varietà delle mansioni poiché influiranno sulla motivazione lavorativa del singolo operatore) • realizzare un sistema di monitoraggio periodico (analizzare il clima psicologico, gli atteggiamenti e le opinioni degli operatori sulle condizioni di lavoro). Tutti gli studiosi concordano nel dire che un elemento essenziale per la prevenzione è la formazione degli operatori. Quando si parla di formazione si fa riferimento alla formazione di base e alla formazione continua (aggiornamento continuo attraverso corsi di formazione, riunioni di gruppo). Pertanto, elementi essenziali della prevenzione sono: 1. adottare obiettivi raggiungibili 2. mantenere la giusta distanza tra operatore e utente 3. sviluppare ed utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back 4. fornire frequenti possibilità di training per incrementare l'efficienza del ruolo 5. preparare l’equipe a difendersi attraverso alcune strategie (studio del tempo) 6. controlli periodici per tutta l’equipe per calcolare il grado di burnout 7. incoraggiare lo sviluppo di gruppi di sostegno e/o sistemi di scambio di risorse. 8. non avere un numero superiore di pazienti/utenti 9. suddivisione dei vari compiti tra i vari membri del gruppo 10. pianificazione giornaliera del lavoro da svolgere 11. non lavorare più delle ore previste per il proprio ruolo 12. rendere liberi i vari operatori di poter creare nuovi programmi d’intervento 13. usare strumenti di supervisione (indagini fatti da supervisori, alcune volte, esterni) 14. alimentare l'autonomia dell’equipe e la sua partecipazione alle fasi decisionali La sindrome del burnout viene intesa come un “virus dell’anima” perché invisibile, sottile e penetrante in maniera silenziosa. Pertanto, se le persone soggette a questa sindrome non vengono accompagnate e inserite in un percorso trattamentale entreranno in un processo di 7. Problem Solving e Decision Making (strategie da usare in caso di indecisione, non ri vuole rischiare, si è troppo impulsivi) 8. Modificare il dialogo interno (non ripetersi continuamente frasi negative o ansiogene) 9. Imparare tecniche di meditazione (gestire la propria emotività) 10. Pratiche di consapevolezza 11. Imparare tecniche di defusione (diventare spettatori dei propri pensieri, emozioni e sensazioni) 12. Lavorare sulla propria autostima 13. Adottare uno stile relazionale assertivo (imparare a mediare con gli altri e ad affermare i propri bisogni e ascoltare quelli altri) 14. Apprendere dal proprio corpo (la tecnica del feedback aiuta a modulare le risposte del sistema nervoso grazie a un segnale visivo o sonoro che manda segnali quando si è rilassati o quando si è emotivamente attivi. Tale feedback monitora lo stato emotivo grazie ad una serie di sensori che registrano frequenza cardiaca, onde cerebrali, temperatura corporea, conduttanza cutanea, tensione muscolare. 15. Stress inoculation training (preparazione del singolo soggetto ad affrontare situazioni stressanti sul lavoro o in casa) 16. Fermarsi a ridefinire i valori (comprendere qual è la direzione verso la quale voglio dirigere la mia vita in modo da agire consapevolmente). Non sempre, però, possono essere attuati tali cambiamenti. Per questo motivo gli studiosi invitano gli operatori e coordinatori dei servizi ad investire molto sulla prevenzione.
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