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Tesina sulla FOLLIA e come è stata vista da alcuni autori, Tesine di Maturità di Italiano

Questo documento è composto da una piccola introduzione, poi come materie abbiamo italiano, tedesco, inglese e arte

Tipologia: Tesine di Maturità

2017/2018
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Caricato il 16/05/2018

ilaria-pietraforte
ilaria-pietraforte 🇮🇹

4.4

(5)

22 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Tesina sulla FOLLIA e come è stata vista da alcuni autori e più Tesine di Maturità in PDF di Italiano solo su Docsity! Perché la follia? Follia, follia, follia. Quante volte sentiamo o pronunciamo questa parola facendole assumere una connotazione negativa. Quante volte la usiamo nei confronti di chi non rispecchia la società in tutti i suoi costumi, in tutti i suoi obblighi. Ma facciamo bene ad usarla in questo modo o meglio, capiamo il vero senso di questa parola? In psicologia, psichiatria e nel senso comune con il termine follia o pazzia si indica genericamente una condizione psichica che identifica una mancanza di adattamento che il soggetto esibisce nei confronti della società, tipicamente attraverso il suo comportamento, le relazioni interpersonali e stati psichici alterati ovvero considerati anormali fino a causare stati di sofferenza psicologica per il soggetto. La definizione di follia è influenzata dal momento storico, dalla cultura, dalle convenzioni, quindi è possibile considerare folle qualcosa o qualcuno che prima era normale e viceversa; purtroppo conosciamo solo questa di definizione, e dato che mi sembrava non tanto sbagliata quanto incompleta, ho cercato di aggiungere il mio punto di vista a questa definizione cosi troppo dentro gli schemi, attraverso il percorso della mia tesina: analizzando personaggi della letteratura, ma anche intellettuali; la conoscenza che si aveva della causa di questa “malattia” nel ‘900 e di quanto possa essere stata interessante la sua scoperta a tal punto da ispirare dei pittori. Enrico IV: come ho già detto ho analizzato personaggi della letteratura, in particolare ho scelto di prendere in considerazione la visione che Pirandello ha di questo tema e di come si riflette nella sua opera teatrale. Partiamo dal presupposto che per Pirandello il pazzo è il personaggio filosofo, il personaggio che riflette sulla realtà e, rifiutato da essa, se ne aliena. Nell'Enrico IV il protagonista, partecipando a una cavalcata in costume, viene fatto cadere da cavallo dal rivale in amore; a seguito del colpo si identifica con il personaggio da lui interpretato, appunto l'imperatore Enrico IV di Sassonia. La famiglia per non creargli traumi lo mantiene in un falso castello medievale dove è ricostruita la corte dell'imperatore. Ma Enrico IV, ritornato in sé dopo dodici anni, preferisce continuare a vivere una lucida pazzia in una realtà tutta sua, tra persone pagate per servirlo, che tornare nella "vera" realtà perché in venti anni tutti hanno vissuto la loro vita in un fluire inarrestabile mentre Enrico IV è rimasto fermo al giorno di quella cavalcata, fissato nell'immutabile forma di un giovane imperatore. Il rifiuto di Enrico IV della società e la sua esclusione dalla stessa hanno molti tratti in comune con quello degli altri «matti» nell'opera di Pirandello. E' uno degli innumerevoli personaggi di natura contemplativa, estranei al mondo intorno. Si «vedono vivere», si sdoppiano come davanti a uno specchio. II folle e l'attore sono appunto i due ruoli rappresentati dal protagonista, e si caratterizzano per la distanza non solo dall'esistenza reale, in cui sono immersi gli uomini comuni, ma anche dai propri sentimenti che vivono sdoppiati, come da fuori: Enrico era già dapprima un attore bravo, e diventa magnifico (da folle) con la maschera di Enrico IV. Ha sempre avuto la vocazione di recitare, invece di vivere la vita. Come lo specchio di Moscarda e la macchina fotografica di Serafino Gubbio, la maschera di Enrico è la cosa che prima lo aliena completamente, nella vera follia, e che poi funziona da «gradino» o da mezzo per salvarsi, per porsi fuori dal mondo circostante. Si può dire che Enrico IV sceglie la finzione come soluzione al problema del rapporto tra io e la realtà. Egli dimostra che l'autenticità è un'ideale irraggiungibile e che la finzione vissuta coscientemente è meglio della normalità vissuta incoscientemente. Ma alla fine del testo ritorna matto Enrico IV? Egli sceglie di rimanere nella sua finzione della follia, «e viverla con la più lucida coscienza», perché è una dimensione più rassicurante e meno ipocrita della vita degli altri. Loro non sono coscienti di portare maschere, pretendono di sapere la verità: “Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! Il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia” Enrico IV espone infatti la propria maschera, ci gioca coscientemente, la esagera volutamente, per dimostrare il suo carattere fittizio, per far vedere l'assurdità nel fatto che tutti si fissino nel proprio «concetto», nell'immagine di sé, senza esserne coscienti — credendo che sia la verità. L'isolamento di Enrico IV nella villa è il compimento concreto e finale di uno stato già presente. Ora, nella finzione, egli non ha più conflitti col mondo circostante. Il conflitto arrivò al suo culmine durante la cavalcata carnevalesca dove venne anche «risolto», in un primo momento negativamente e tragicamente con la vera pazzia; e dopo, con la guarigione, la maschera lo aiuta a distaccarsi dai drammi banali della vita normale. Nei testi di Pirandello i «matti» non sono privi di sentimenti. Ridono e piangono per gioia o dolore, e anche se rinunciano alla sessualità, la loro logica non è quella fredda, negativa e formale del mondo razionale. I matti (invece) sospendono gli usuali significati, facendo calare su di essi gli interrogativi e i dubbi di chi vi cerca un significato universale. I matti sono spesso i portavoce dell'autore. Non ci si può limitare a giudicare la logica dei matti come negativa e morbosa, è proprio la loro estraneità e capacità di astrazione che sospende il senso comune, mostrando la «follia» della vita associata di ogni giorno, la sua insensatezza. Il critico Gioanola interpreta la predilezione dello scrittore per il tema della pazzia in un'ottica psicanalitica, sostenendo che nell'opera e nella seemed that in the depths of her depression she found most of her inspirations for her literary works, the dark aspect of her lifelong struggle are reflected in her fiction through a distinct and recurrent negative vocabulary. Her characters were an extension of herself; in her novel "Mrs Dalloway" (1925), Septimus Warren Smith's decision to commit suicide and Clarissa Dalloway's praise of it may have reflected Woolf's personal struggle. She was interested in giving voice to the complex inner world of feeling and memory and conceived the human personality as a continuous shift of impression and emotions. So the events that traditionally made up a story were no longer important for her; what mattered was the impression they made on the characters who experienced them. Woolf subjective reality comes to be identified with the technique " stream of consciousness". She never lets her characters' thoughts flow without control, and maintains logical and grammatical organisation. She gives the impression of a simultaneous connection between the inner and the outer world. Ma oltre alla letteratura, l’interesse per il concetto di follia come forma di creatività è arrivato nel 1945 anche in arte. Art Brut: Il concetto di Art brut è stato coniato nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti, da artisti autodidatti, emarginali e rintanati in uno spirito ribelle o impermeabili alle norme collettive e pensionanti dell'ospedale psichiatrico che operano al di fuori delle norme estetiche convenzionali. Creano senza preoccupazione per la critica pubblica né per lo sguardo degli altri. Non esistono più convenzioni formali, ciò che predomina è il puro istinto, un linguaggio arcaico e primitivo, uno stile semplificato, infantile, irrazionale, quello dei bimbi, degli ignoranti, dei malati di mente: il risultato è una pittura di grande originalità di forme, di modi espressivi, di tecniche , di materiali, di assemblaggi, dove il colore viene sommariamente trattato, con libertà ed esuberanza, le linee sono casuali ed elementari, i soggetti enigmatici, talvolta indecifrabili, nel nome della più assoluta spontaneità ed immediatezza, sia contenutistica che formale. Non c'è bisogno di riconoscimento o di approvazione, visto che progettano un mondo per il solo loro uso. I loro lavori, svolti con mezzi e materiali di genere insolito, sono liberi dalle influenze della tradizione artistica e implementano modalità singolari di rappresentazione. Egli intendeva, in tal modo, definire un'arte spontanea, senza pretese culturali e senza alcuna riflessione. Jean Dubuffet Jean Dubuffet (1901-1985) è l’artista francese più significativo della seconda metà del XX secolo. Fu per tutta la vita un ribelle e si oppose all’arte tradizionale andando alla ricerca di nuove forme espressive. E’ stato il primo a riconoscere la qualità artistica di creazioni spontanee e autodidatte, da lui scoperte negli ospedali psichiatrici e in prigione, in riunioni spirituali o presso outsider della società. Ed è stato lui a coniare l'espressione «Art Brut» nel 1946 per definire "un'operazione artistica che è completamente pura, grezza, reinventata in tutte le sue fasi dal suo autore, fondata esclusivamente sui propri impulsi". Li osserva, vede che dipingono anche senza aver studiato le regole della composizione artistica, lasciandosi trasportare dai sentimenti e dalla voglia di “pasticciare” con i diversi materiali. Nel 1947, assieme ad André Breton, Paulhan e Drouin, fonda la "Compagnie de l'art brut": Jean Dubuffet aveva raccolto 133 artisti nel 1971. Produce anche lui opere di questo genere, divertendosi e diventando quasi un bambino che si diverte con l'arte.Usa materiali diversissimi e vari: terra, fango, pezzi di opere precedenti, giornali, elementi vegetali e animali, tra cui persino ali di farfalla. Ogni cosa è buona, se serve a lasciarsi andare.Ad oggi, circa 400 artisti hanno aderito alla raccolta. Nel 1971 ha regalato la sua immensa raccolta alla città di Losanna, la cui Collection de l'Art Brut è ormai l'epicentro mondiale delle espressioni artistiche alternative. L'esposizione permanente è di quasi 700 opere di sessanta artisti.
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