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testo di Niccolò ammaniti............., Slide di Italiano

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Tipologia: Slide

2021/2022

Caricato il 05/12/2022

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Scarica testo di Niccolò ammaniti............. e più Slide in PDF di Italiano solo su Docsity! NICCOLÒ AMMANITI 10 NON HO PAURA GA Niccolò Ammaniti, Io non ho paura. Copyright 2001 Giulio Einaudi editore. L'estate più calda del secolo. Quattro case sperdute nel grano. I grandi so- no tappati in casa. Sei bambini, sulle loro biciclette, si avventurano nella campagna rovente e abbandonata. In mezzo a quel mare di spighe c'è un se- greto pauroso, un segreto che cambierà per sempre la vita di uno di loro. Dopo ti prendo e ti porto via, Niccolò Ammaniti in questo romanzo va al cuore della sua narrativa, con una storia tesa e dal ritmo serrato, un conge- gno a orologeria che si carica fino a una conclusione sorprendente e mette in scena la paura stessa. Michele Amitrano, nove anni, si trova di colpo a fare i conti con un segreto così grande e terribile da non poterlo nemmeno raccontare e per affrontarlo dovrà trovare la forza proprio nelle sue fantasie di bambino, mentre il lettore assiste a una doppia storia quella vista con gli occhi di Michele e quella, tragi- ca, che coinvolge i grandi di Acqua Traverse, misera frazione dispersa tra i campi di grano. Il risultato è un racconto potente e di assoluta felicità narrativa, dove si re- spirano atmosfere che vanno da Olive Barker alle Avventure di Tom Sawyer, alle Fiabe italiane di Calvino. La storia è ambientata nell'estate torrida del 1978 nella campagna di un Sud dell'Italia non identificato, ma evocato con rara forza descrittiva. In que- sto paesaggio dominato dal contrasto tra la luce abbagliante del sole e il buio della notte. Ammaniti alterna, a colpi di scena sapienti, la commedia, il mon- do dei rapporti infantili, la lingua e la buffa saggezza dei bambini, la loro te- nacia, la forza dell'amicizia e il dramma del tradimento e insieme tratteggia un indimenticabile campionario di adulti. Romanzo della scoperta di se attraverso il rischio più estremo, e la necessi- tà di affrontarlo, io non ho paura diventa un addio struggente all'età dei gio- chi e dello stupore, all'energia magica che ci fa lottare contro i mostri. E si in- sinua sotto pelle in ciascuno di noi, come una tenera pugnalata nel petto. Niccolò Ammaniti e nato a Roma nel 1966. Ha esordito con il romanzo Branchie (Ediesse 1994, Einaudi Stile libero 1997) Nel 1996 ha pubblicato la raccolta di racconti Fango (Mondadori) e nel 1999 il romanzo Ti prendo e ti Barbara Mura saliva a quattro zampe come una scrofa inferocita. Tutta su- data e coperta di terra. "Che fai, non vai dalla sorellina? Non l'hai sentita? Si è fatta male, poveri- na," ha grugnito felice. Per una volta non sarebbe toccata a lei la penitenza. "Ci vado, ci vado... E ti batto pure". Non potevo dargliela vinta così. Mi sono voltato e ho cominciato a scendere, agitando le braccia e urlando come un sioux. I sandali di cuoio scivolavano sul grano. Sono finito culo a terra un paio di volte. Non la vedevo. "Maria! Maria! Dove stai? "Michele... Eccola. Era lì. Piccola e infelice. Seduta sopra un cerchio di steli spezzati. Con una mano si massaggiava una caviglia e con l'altra si teneva gli occhiali. Aveva i capelli appiccicati alla fronte e gli occhi lucidi. Quando mi ha visto, ha storto la bocca e si è gonfiata come un tacchino. "Michele...? "Maria, mi hai fatto perdere la gara! Te l'avevo detto di non venire, man- naggia a te". Mi sono seduto. "Che ti sei fatta? "Sono inciampata. Mi sono fatta male al piede e... " Ha spalancato la bocca, ha strizzato gli occhi, ha dondolato la testa ed è esplosa a frignare. "Gli oc- chiali! Gli occhiali si sono rotti! Le avrei mollato uno schiaffone. Era la terza volta che rompeva gli occhiali da quando era finita la scuola. E ogni volta con chi se la prendeva mamma? «Devi stare attento a tua sorella, sei il fratello maggiore». «Mamma, io...» «Niente mamma io. Tu non hai ancora capito, ma io i soldi non li trovo nell'orto. La prossima volta che rompete gli occhiali ti prendi una di quelle punizioni che...» Si erano spezzati al centro, dove erano stati già incollati. Erano da buttare. Mia sorella intanto continuava a piangere. "Mamma... Si arrabbia... Come si fa? "E come si fa? Ci mettiamo lo scotch. Alzati, su. "Sono brutti con lo scotch. Sono bruttissimi. Non mi piacciono. Mi sono infilato gli occhiali in tasca. Senza, Maria non ci vedeva, aveva gli occhi storti e il medico aveva detto che si sarebbe dovuta operare prima di diventare grande. "Non fa niente. Alzati. Ha smesso di piangere e ha cominciato a tirare su con il naso. "Mi fa male il piede. "Dove?" Continuavo a pensare agli altri, dovevano essere arrivati sopra la collina da un'ora. Ero ultimo. Speravo solo che il Teschio non mi facesse scontare una peni- tenza troppo dura. Una volta che avevo perso una gara mi aveva obbligato a correre nell'ortica. "Dove ti fa male? "Qua". Mi ha mostrato la caviglia. "Una storta. Non è niente. Passa subito. Le ho slacciato la scarpa da ginnastica e l'ho sfilata con molta attenzione. Come avrebbe fatto un dottore. "Ora va meglio? "Un po'. Torniamo a casa? Ho sete da morire. E mamma... Aveva ragione. Ci eravamo allontanati troppo. E da troppo tempo. L'ora di pranzo era passata da un pezzo e mamma do- veva stare di vedetta alla finestra. Lo vedevo male il ritorno a casa. Ma chi se lo immaginava poche ore prima. Quella mattina avevamo preso le biciclette. Di solito facevamo dei giri piccoli, intorno alle case, arrivavamo ai bordi dei campi, al torrente secco e tornavamo indietro facendo le gare. La mia bicicletta era un ferro vecchio, con il sellino rattoppato, e così alta che dovevo piegarmi tutto per toccare a terra. Tutti la chiamavano la Scassona. Salvatore diceva che era la bicicletta degli alpini. Ma a me piaceva, era quella di mio padre. Se non andavamo in bicicletta ce ne stavamo in strada a giocare a pallone, a ruba bandiera, a un due tre stella o sotto la tettoia del capannone a non fa- re niente. Potevamo fare quello che ci pareva. Macchine non ne passavano. Pericoli non ce n'erano. E i grandi se ne stavano rintanati in casa, come rospi che a- spettano la fine del caldo. Il tempo scorreva lento. A fine estate non vedevamo l'ora che ricominciasse la scuola. Quella mattina avevamo attaccato a parlare dei maiali di Melichetti. Si parlava spesso, tra noi, dei maiali di Melichetti. Si diceva che il vecchio Melichetti li addestrava a sbranare le galline, e a volte pure i conigli e i gatti che raccattava per strada. Il Teschio ha sputato uno spruzzo di saliva bianca. "Finora non ve l'ho mai raccontato. Perché non lo potevo dire. Ma ora ve lo dico: quei maiali si sono mangiati il bassotto della figlia di Melichetti. Si è sollevato un coro generale. "No, non è vero! "E' vero. Ve lo giuro sul cuore della Madonna. Vivo. Completamente vivo. "E' impossibile! Che razza di bestie dovevano essere per mangiarsi pure un cane di razza? Il Teschio ha fatto di si con la testa. "Melichetti glielo ha lanciato dentro il recinto. Il bassotto ha provato a scappare, è un animale furbo, ma i maiali di Melichetti di più. Non gli hanno dato scampo. Massacrato in due secondi". Poi ha aggiunto: "Peggio dei cinghiali. Barbara gli ha chiesto: "E perché glielo ha lanciato? Il Teschio ci ha pensato un po'. "Ha pisciato in casa. E se tu finisci là den- tro, cicciona come sei, ti spolpano fino alle ossa. Maria si è messa in piedi. "E' pazzo Melichetti? Il Teschio ha sputato di nuovo a terra. "Più pazzo dei suoi maiali. Siamo rimasti zitti a immaginarci la figlia di Melichetti con un padre così cat- tivo. Nessuno di noi sapeva come si chiamava, ma era famosa per avere una specie di armatura di ferro intorno a una gamba. "Possiamo andarli a vedere!" me ne sono uscito. "Una spedizione!" ha fatto Barbara. "E' lontanissima la fattoria di Melichetti. Ci mettiamo un sacco," ha bronto- lato Salvatore. "E invece è vicinissima, andiamo... "Il Teschio è montato sulla bicicletta. Non sprecava mai l'occasione per avere la meglio su Salvatore. Mi è venuta un'idea. "Perché non prendiamo una gallina dal pollaio di Re- mo, così quando arriviamo la gettiamo nel recinto dei maiali e vediamo come la spolpano? "Forte!" il Teschio ha approvato. "Ma papà mi uccide se gli prendiamo una gallina," ha piagnucolato Remo. Non c'è stato niente da fare, l'idea era buonissima. Siamo entrati nel pollaio, abbiamo scelto la gallina più magra e spelacchiata e l'abbiamo messa in una sacca. E siamo partiti, tutti e sei e la gallina, per andare a vedere questi famosi maiali di Melichetti e abbiamo pedalato tra i campi di grano, e pedala pedala il sole è salito e ha arroventato tutto. Salvatore aveva ragione, la fattoria di Melichetti era lontanissima. Quando ci siamo arrivati avevamo una sete tremenda e la testa che bolliva. Melichetti se ne stava con gli occhiali da sole seduto su un vecchio dondolo, sotto un ombrellone storto. La fattoria cadeva a pezzi e il tetto era stato riparato alla meglio con latta e catrame. Nel cortile ci stava un mucchio di roba buttata: ruote di trattore, una Bianchina arrugginita, sedie sfondate, un tavolo senza una gamba. Su un palo di legno coperto di edera erano appesi dei teschi di mucca consumati dalla pioggia e dal sole. E un cranio più piccolo e senza corna. Chissà di che bestia era. Un cagnaccio pelle e ossa abbaiava alla catena. In fondo c'erano delle baracche di lamiera e i recinti dei maiali, sull'orlo di una gravina. Ci siamo voltati. "Cosa? "Quella. Era una collina. Sembrava un panettone. Un enorme panettone posato da un gigante sulla pianura. Si sollevava di fronte a noi a un paio di chilometri. Dorata e immen- sa. Il grano la copriva come una pelliccia. Non c'era un albero, una punta, un'imperfezione che ne rovinava il profilo. Il cielo, intorno, era liquido e spor- co. Le altre colline, dietro, sembravano nani in confronto a quella cupola e- norme. Chissà come mai fino a quel momento nessuno di noi l'aveva notata. L'ave- vamo vista, ma senza vederla veramente. Forse perché si confondeva con il paesaggio. Forse perché eravamo stati tutti con gli occhi puntati sulla strada a scovare la fattoria di Melichetti. "Scaliamola". Il Teschio l'ha indicata. "Scaliamo quella montagna. Ho detto: "Chissà cosa ci sarà lassù. Doveva essere un posto incredibile, magari ci viveva qualche animale stra- no. Così in alto nessuno di noi era mai salito. Salvatore si è riparato gli occhi con la mano e ha scrutato la cima. "Ci scommetto che da là sopra si vede il mare. Si, la dobbiamo scalare. Siamo rimasti a guardarla in silenzio. Quella era un'avventura, altro che i maiali di Melichetti. "E sul cocuzzolo ci mettiamo la nostra bandiera. Così se qualcuno ci salirà, capirà che siamo arrivati prima noi," ho fatto io. "Che bandiera? Non abbiamo la bandiera," ha detto Salvatore. "Ci mettiamo la gallina. Il Teschio ha afferrato il sacco dove stava il volatile e ha cominciato a farlo girare in aria. "Giusto! Le tiriamo il collo e poi le infiliamo una mazza in culo e la piantiamo per terra. Rimarrà lo scheletro. La porto su io. Una gallina impalata potevano prenderla per un segno delle streghe. Ma il Teschio ha tirato fuori l'asso. "Dritti, su per la collina. Niente curve. E' vietato stare uno dietro l'altro. E' vietato fermarsi. Chi arriva ultimo paga pe- nitenza. Siamo rimasti senza parole. Una gara! Perché? Era chiaro. Per vendicarsi di Barbara. Sarebbe arrivata ultima e avrebbe pagato. Ho pensato a mia sorella. Ho detto che era troppo piccola per gareggiare e che non era valido, avrebbe perso. Barbara ha fatto di no con il dito. Aveva capito la sorpresina che le stava preparando il Teschio. "Che c'entra? Una gara è una gara. E' venuta con noi. Sennò ci deve aspet- tare giù. Questo non si poteva fare. Non potevo lasciare Maria. La storia dei cocco- drilli continuava a ronzarmi in testa. Melichetti era stato gentile, ma non biso- gnava fidarsi troppo. Se l'ammazzava, io poi che raccontavo a mamma? "Se mia sorella resta, resto anch'io. Ci si è messa pure Maria. "Non sono piccola! Voglio fare la gara. "Tu stai zitta! Ci ha pensato il Teschio a risolvere. Poteva venire, ma non gareggiava. Abbiamo buttato le biciclette dietro il fontanile e siamo partiti. Ecco perché mi trovavo sopra quella collina. Ho rimesso la scarpa a Maria. "Ce la fai a camminare? "No. Mi fa troppo male. "Aspetta". Le ho soffiato due volte sulla gamba. Poi ho affondato le mani nella terra rovente. Ne ho presa un po', ci ho sputato sopra e gliel'ho spalmata sulla caviglia. "Così passa". Sapevo che non funzionava. La terra era buona per le punture di api e l'ortica, non per le storte, ma forse ci cascava. "Va meglio? Si è pulita il naso con un braccio. "Un po'. "Ce la fai a camminare? "Si. L'ho presa per mano. "Allora andiamo, forza, che siamo ultimi. Ci siamo avviati verso la cima. Ogni cinque minuti Maria doveva sedersi per far riposare la gamba. Per fortuna si è alzato un po' di vento che ha migliora- to le cose. Frusciava nel grano, facendo un suono che assomigliava a un re- spiro. A un tratto mi è sembrato di scorgere un animale passarci accanto. Ne- ro, veloce, silenzioso. Un lupo? Non c'erano lupi dalle nostre parti. Forse una volpe o un cane. La salita era ripida e non finiva mai. Davanti agli occhi avevo solo grano, ma quando ho cominciato a vedere uno spicchio di cielo ho capito che man- cava poco, che la cima era là, e senza neanche rendercene conto, ci stavamo sopra. Non c'era proprio niente di speciale. Era coperta di grano come tutto il re- sto. Sotto i piedi avevamo la stessa terra rossa e cotta. Sopra la testa lo stes- so sole incandescente. Ho guardato l'orizzonte. Una foschia lattiginosa velava le cose. Il mare non si vedeva. Si vedevano però le altre colline, più basse, e la fattoria di Meli- chetti con i suoi recinti per i maiali e la gravina e si vedeva la strada bianca che tagliava i campi, quella lunga strada che avevamo percorso in bicicletta per arrivare fino a lì. E, piccola piccola, si vedeva la frazione dove abitavamo. Acqua Traverse. Quattro casette e una vecchia villa di campagna disperse nel grano. Lucignano, il paese vicino, era nascosto dalla nebbia. Mia sorella ha detto: "Voglio guardare pure io. Fammi guardare. Me la sono messa sulle spalle, anche se non mi reggevo in piedi dalla fati- ca. Chissà cosa vedeva senza occhiali. "Dove stanno gli altri? Dov'erano passati l'ordine delle spighe era sparito, molti steli erano piegati in due e alcuni erano spezzati. Abbiamo seguito le tracce che portavano verso l'altro versante della collina. Maria mi ha stretto la mano e mi ha conficcato le unghie nella pelle. "Che schifo! Mi sono voltato. Lo avevano fatto. Avevano impalato la gallina. Se ne stava in punta a una canna. Le zampe penzoloni, le ali spalancate. Come se prima di rendere l'anima al Creatore si fosse abbandonata ai suoi carnefici. La testa le pendeva da un lato, come un orripilante pendaglio intri- so di sangue. Dal becco socchiuso colavano pesanti gocce rosse. E dal petto le usciva la punta della canna. Un nugolo di mosche metallizzate le ronzava intorno e si affollava sugli occhi, sul sangue. Un brivido mi si è arrampicato sulla schiena. Siamo andati avanti e dopo aver superato la spina dorsale della collina ab- biamo cominciato a scendere. Dove diavolo erano andati gli altri? Perché erano scesi da quella parte? Abbiamo fatto un'altra ventina di metri e lo abbiamo scoperto. La collina non era tonda. Dietro perdeva la sua inappuntabile perfezione. Si allungava in una specie di gobba che degradava torcendosi dolcemente fino a unirsi alla pianura. In mezzo c'era una valle stretta, chiusa, invisibile se non da là sopra o da un aeroplano. Con la creta sarebbe facilissimo modellare quella collina. Basta fare una palla. Tagliarla in due. Una metà poggiarla sul tavolo. Con l'altra metà fare una salsiccia, una specie di verme ciccione, da appiccicare dietro, lasciando al centro una piccola conca. La cosa strana era che dentro quella conca nascosta erano cresciuti degli alberi. Al riparo dal vento e dal sole ci stava un boschetto di querce. E una casa abbandonata, con il tetto tutto sfondato, le tegole marroni e i travi scuri, spuntava tra le fronde verdi. Siamo scesi giù per il viottolo e siamo entrati nella valletta. Era l'ultima cosa che mi sarei aspettato. Alberi. Ombra. Fresco. Non si sentivano più i grilli, ma il cinguettio degli uccelli. C'erano ciclamini viola. E tappeti d'edera verde. E un buon odore. Veniva voglia di trovarsi un posticino accanto a un tronco e farsi un sonno. Salvatore è apparso all'improvviso, come un fantasma. "Hai visto? Forte! deravo essere lontano. C'era qualcosa di sporco, di... Non lo so. Di brutto, ec- co. E mi dava fastidio che ci fosse mia sorella lì. "Te lo puoi scordare," ha fatto Barbara scuotendo la testa. "Non m'importa se mi picchi. Il Teschio si è messo in piedi e le si è avvicinato con le mani in tasca. Tra i denti stringeva una spiga di grano. Le si è parato davanti. Ha allungato il collo. Non è che poi era tanto più alto di Barbara. E nemmeno tanto più forte. Non ci avrei messo una mano sul fuoco che se il Teschio e Barbara facevano a botte, il Teschio aveva la meglio tanto facilmente. Se Barbara lo buttava a terra e gli saltava sopra lo poteva pure soffocare. "Hai perso. Ora ti abbassi i pantaloni. Così impari a fare la stronza. "No! Il Teschio le ha dato uno schiaffo. Barbara ha spalancato la bocca come una trota e si è massaggiata la guan- cia. Ancora non piangeva. Si è girata verso di noi. "Non dite niente voi?" ha piagnucolato. "Siete come lui! Noi zitti. "Va bene. Ma non mi vedrete mai più. Lo giuro sulla testa di mia madre. "Che fai, piangi?" Il Teschio se la godeva da matti. "No, non piango," è riuscita a dire trattenendo i singhiozzi. Aveva dei pantaloni di cotone verdi con le toppe marroni sulle ginocchia, di quelli che si compravano al mercato dell'usato. Le andavano stretti e la ciccia le ricadeva sopra la cinta. Si è aperta la fibbia e ha cominciato a slacciarsi i bottoni. Ho intravisto le mutande bianche con dei fiorellini gialli. "Aspetta! Io sono arrivato ultimo," ho sentito che diceva la mia voce. Tutti si sono girati. "Si," ho inghiottito. "La voglio fare io. "Cosa?" mi ha chiesto Remo. "La penitenza. "No. Tocca a lei," mi ha fulminato il Teschio. "Tu non c'entri niente. Stai zitto. "C'entro, invece. Io sono arrivato ultimo. La devo fare io. "No. Decido io". Il Teschio mi è venuto incontro. Mi tremavano le gambe, ma speravo che nessuno se ne accorgesse. "Rifac- ciamo la votazione. Salvatore si è messo tra me e il Teschio. "Si può rifare. Tra noi esistevano delle regole e tra queste c'era che una votazione si po- teva rifare. Ho alzato la mano. "Tocca a me. Salvatore ha alzato la mano. "Tocca a Michele. Barbara si è riallacciata la cinta e ha singhiozzato. "Tocca a lui. E' giusto. Il Teschio è stato preso alla sprovvista, ha fissato Remo con gli occhi da pazzo. "E tu? Remo ha sospirato. "Tocca a Barbara. "Che devo fare?" ha chiesto Maria. Le ho fatto segno di sì con la testa. "Tocca a mio fratello. E Salvatore ha detto: "Quattro contro due. Ha vinto Michele. Tocca a lui. Arrivare al piano di sopra della casa non è stato semplice. La scala non esisteva più. I gradini erano ridotti a un ammasso di blocchi di pietra. Riuscivo a salire aggrappandomi ai rami del fico. I rovi mi graffiavano le braccia e le gambe. Una spina mi aveva scorticato la guancia destra. Di camminare sul parapetto, non se ne parlava. Se franava finivo di sotto, in una selva di ortiche e rose selvatiche. Era la penitenza che mi ero beccato per aver fatto l'eroe. "Devi salire al primo piano. Entrare. Attraversare tutta la casa e dalla fine- stra in fondo saltare sull'albero e scendere. Avevo temuto che il Teschio mi avrebbe costretto a mostrare il pesce o a infilarmi una mazza in culo e invece aveva scelto di farmi fare una cosa peri- colosa, dove al massimo mi potevo ferire. Meglio. Stringevo i denti e avanzavo senza lamentarmi. Gli altri stavano seduti sotto una quercia a godersi lo spettacolo di Michele Amitrano che si scassava le corna. Ogni tanto arrivava un consiglio. "Passa di là. "Devi andare dritto. Lì è pieno di spine. "Mangiati una mora che ti fa bene. Non li stavo a sentire. Ero sul terrazzino. C'era uno spazio stretto tra i rovi e il muro. Mi ci sono in- filato dentro e sono arrivato alla porta. Era chiusa con una catena ma il luc- chetto, mangiato dalla ruggine, era aperto. Ho spinto un battente e con un gemito ferroso la porta si è spalancata. Un gran frullare di ali. Piume. Uno stormo di piccioni ha preso il volo ed è uscito attraverso un buco nel tetto. "Com'è? Com'è dentro?" ho sentito che domandava il Teschio. Non mi sono dato pena di rispondergli. Sono entrato, attento a dove mette- vo i piedi. Ero in una stanza grande. Molte tegole erano cadute e un trave penzolava al centro. In un angolo c'era un camino, con una cappa a forma di piramide annerita dal fumo. In un altro angolo erano ammassati dei mobili. Una vec- chia cucina rovesciata e arrugginita. Bottiglie. Cocci. Tegole. Una rete sfonda- ta. Tutto era coperto di merda di piccioni. E c'era un odore forte, un tanfo a- cre che ti si ficcava in fondo al naso e alla gola. Sopra il pavimento di grani- glia era cresciuta una selva di piante ed erbacce selvatiche. In fondo alla stanza c'era una porta dipinta di rosso, chiusa, che di sicuro dava sulle altre stanze della casa. Dovevo passare di lì. Ho poggiato un piede, sotto le suole le assi scricchiolavano e il pavimento ondeggiava. A quel tempo pesavo sui trentacinque chili. Più o meno come una tanica d'acqua. Mi sono chiesto se una tanica d'acqua, messa al centro di quella stanza, sfondava il pavimento. Meglio non provarci. Per arrivare alla porta successiva era più prudente camminare raso ai muri. Trattenendo il respiro, in punta di piedi come una ballerina, ho seguito il pe- rimetro della camera. Se il pavimento si sfondava finivo nella stalla, dopo un volo di almeno quattro metri. Roba da spaccarsi le ossa. Ma non è accaduto. Nella stanza dopo, grande più o meno come la cucina, il pavimento manca- va del tutto. Ai lati era crollato e ora solo una specie di ponte univa la mia porta con quella dall'altra parte. Dei sei travi che reggevano il pavimento era- no rimasti sani solo i due al centro. Gli altri erano tronconi mangiati dai tarli. Non potevo seguire i muri. Mi toccava attraversare quel ponte. I travi che lo sostenevano non dovevano essere in condizioni migliori degli altri. Mi sono paralizzato sotto lo stipite della porta. Non potevo tornare indietro. Mi avrebbero rotto le scatole fino alla morte. E se mi buttavo di sotto? All'improvviso quei quattro metri che mi dividevano dalla stalla non sembravano più tanti. Potevo dire agli altri che era impossibile arrivare alla finestra. In certi momenti il cervello gioca brutti scherzi. Circa dieci anni dopo mi è successo di andare a sciare sul Gran Sasso. Era il giorno sbagliato, nevicava, faceva un freddo polare, tirava un ventaccio che ghiacciava le orecchie e c'era la nebbia. Avevo diciannove anni e a sciare c'ero stato una volta sola. Ero eccitatissi- mo e non mi importava niente se tutti dicevano che era pericoloso, io volevo sciare. Sono montato sulla seggiovia, imbacuccato come un eschimese, e so- no partito per le piste. Il vento era così forte che il motore dell'impianto si spegneva automatica- mente e si riavviava solo quando le raffiche si attenuavano. Faceva dieci me- tri poi si bloccava per un quarto d'ora poi altri quaranta metri e venti minuti fermo. Così, all'infinito. Da impazzire. Per quel poco che riuscivo a vedere la seggiovia era vuota. Piano piano ho smesso di sentire le punte dei piedi, le orecchie, le dita delle mani. Cercavo di spazzarmi la neve di dosso, ma era fa- tica sprecata, cadeva silenziosa, leggera e incessante. A un certo punto ho cominciato ad assopirmi, a ragionare più lentamente, mi sono fatto forza e mi sono detto che se mi addormentavo sarei morto. Ho urlato, ho chiesto aiuto. Ho fatto un salto indietro e per poco non sono inciampato. Una gamba? Ho preso fiato e mi sono affacciato un istante. Era una gamba. Ho sentito le orecchie bollenti, la testa e le braccia che mi pesavano. Stavo per svenire. Mi sono seduto, ho chiuso gli occhi, ho poggiato la fronte su una mano, ho respirato. Avevo la tentazione di scappare, di correre dagli altri. Ma non pote- vo. Dovevo prima guardare un'altra volta. Mi sono avvicinato e ho sporto la testa. Era la gamba di un bambino. E un gomito spuntava dagli stracci. In fondo a quel buco c'era un bambino. Era steso su un fianco. Aveva la testa nascosta tra le gambe. Non si muoveva. Era morto. Sono rimasto a guardarlo per non so quanto tempo. C'era anche un sec- chio. E un pentolino. Forse dormiva. Ho preso un sasso piccolo e gliel'ho tirato. L'ho colpito sulla coscia. Non si è mosso. Era morto. Mortissimo. Un brivido mi ha morso la nuca. Ho preso un altro sasso e l'ho colpito sul collo. Ho avuto l'impressione che si muovesse. Un leggero movi- mento del braccio. "Dove stai? Dove stai? Dove sei finito, recchione? Gli altri! Il Teschio mi stava chiamando. Ho afferrato la lastra e l'ho tirata fino a tappare il buco. Poi ho sparpagliato le foglie e la terra e ci ho rimesso su il materasso. "Dove stai, Michele? Sono andato via, ma prima mi sono girato un paio di volte a controllare che ogni cosa fosse al suo posto. Pedalavo sulla Scassona. Il sole alle mie spalle era una palla rossa e immensa, e quando finalmente è finito nel grano, è scomparso lasciandosi dietro una cosa arancione e viola. Mi avevano chiesto com'era andata nella casa, se era stato pericoloso, se ero caduto, se ci stavano cose strane, se saltare sull'albero era stato difficile. Avevo risposto a monosillabi. Alla fine, annoiati, avevamo preso la via del ritorno. Un sentiero partiva dal- la valle, attraversava i campi ocra e raggiungeva la strada. Avevamo recupe- rato le biciclette e pedalavamo in silenzio. Sciami di moscerini ci ronzavano intorno. Guardavo Maria che mi seguiva sulla sua Graziella con le ruote mangiate dalle pietre, il Teschio, davanti a tutti, con accanto il suo scudiere Remo, Sal- vatore che avanzava zigzagando, Barbara sulla sua Bianchi troppo grande, e pensavo al bambino nel buco. Non avrei detto niente a nessuno. "Le cose sono di chi le trova per primo," aveva deciso il Teschio. Se era così, il bambino in fondo al buco era mio. Se lo dicevo, il Teschio, come sempre, si prendeva tutto il merito della sco- perta. Avrebbe raccontato a tutti che lo aveva trovato lui perché era stato lui a decidere di salire sopra la collina. Questa volta no. Io avevo fatto la penitenza, io ero caduto dall'albero e io l'avevo trovato. Non era del Teschio. E neanche di Barbara. Non era di Salvatore. Era mio. Era la mia scoperta segreta. Non sapevo se avevo trovato un morto o un vivo. Forse il braccio non si era mosso. Me l'ero immaginato. O forse erano le contrazioni di un cadavere. Come quelle delle vespe, che anche se le dividi in due con le forbici continua- no a camminare, o come i polli, che anche senza testa sbattono le ali. Ma che ci faceva là dentro? "Che diciamo a mamma? Non mi ero accorto che mia sorella mi pedalava accanto. "Cosa? "Che diciamo a mamma? "Non lo so. "Glielo dici tu degli occhiali? "Si, ma non le devi dire niente di dove siamo andati. Se lo scopre dirà che gli occhiali li hai rotti perché siamo saliti lassù. "Va bene. "Giuramelo. "Te lo giuro". Si è baciata gli indici. Oggi Acqua Traverse è una frazione di Lucignano. A metà degli anni Ottan- ta un geometra ha costruito due lunghe schiere di villette di cemento armato. Dei cubi con le finestre circolari, le ringhiere azzurre e i tondini d'acciaio che spuntano dal tetto. Poi sono arrivati una Coop e un bar tabacchi. E una stra- da asfaltata a due corsie che corre dritta come una pista d'atterraggio fino a Lucignano. Nel 1978 Acqua Traverse invece era così piccola che non era niente. Un borgo di campagna, lo chiamerebbero oggi su una rivista di viaggi. Nessuno sapeva perché quel posto si chiamava così, neanche il vecchio Tronca. Acqua non ce n'era, se non quella che portavano con l'autocisterna ogni due settimane. C'era la villa di Salvatore, che chiamavamo il Palazzo. Un casone costruito nell'Ottocento, lungo e grigio e con un grande portico di pietra e un cortile in- terno con una palma. E c'erano altre quattro case. Non per modo di dire. Quattro case in tutto. Quattro misere case di pietra e malta con il tetto di te- gole e le finestre piccole. La nostra. Quella della famiglia del Teschio. Quella della famiglia di Remo che la divideva col vecchio Tronca. Tronca era sordo e gli era morta la moglie, e viveva in due stanze che davano sull'orto. E c'era la casa di Pietro Mura, il padre di Barbara. Angela, la moglie, di sotto aveva lo spaccio dove potevi comprare il pane, la pasta e il sapone. E potevi telefona- re. Due case da una parte, due dall'altra. E una strada, sterrata e piena di bu- che, al centro. Non c'era una piazza. Non c'erano vicoli. C'erano però due panchine sotto una pergola di uva fragola e una fontanella che aveva il rubi- netto con la chiave per non sprecare acqua. Tutto intorno i campi di grano. L'unica cosa che si era guadagnata quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini era un bel cartello blu con scritto in maiuscolo ACQUA TRAVERSE. "E' arrivato papà!" ha gridato mia sorella. Ha buttato la bicicletta ed è corsa su per le scale. Davanti a casa nostra c'era il suo camion, un Lupetto Fiat con il telone ver- de. A quel tempo papà faceva il camionista e stava fuori per molte settimane. Prendeva la merce e la portava al Nord. Aveva promesso che una volta mi ci avrebbe portato pure a me al Nord. Non riuscivo tanto bene a immaginarmi questo Nord. Sapevo che il Nord era ricco e che il Sud era povero. E noi eravamo poveri. Mamma diceva che se papà continuava a lavorare così tanto, presto non saremmo stati più poveri, saremmo stati benestanti. E quindi non dovevamo lamentarci se papà non c'era. Lo faceva per noi. Sono entrato in casa con il fiatone. Papà era seduto al tavolo in mutande e canottiera. Aveva davanti una bot- tiglia di vino rosso e tra le labbra una sigaretta con il bocchino e mia sorella appollaiata su una coscia. Mamma, di spalle, cucinava. C'era odore di cipolle e salsa di pomodoro. Il televisore, uno scatolone Grundig in bianco e nero che aveva portato papà qualche mese prima, era acceso. Il ventilatore ronzava. "Michele, dove siete stati tutto il giorno? Vostra madre stava impazzendo. Non pensate a questa povera donna che deve già aspettare il marito e non può aspettare pure voi? Che è successo agli occhiali di tua sorella? Non era arrabbiato veramente. Quando si arrabbiava veramente gli occhi gli uscivano fuori come ai rospi. Era felice di essere a casa. Mia sorella mi ha guardato. "Abbiamo costruito una capanna al torrente, "ho tirato fuori dalla tasca gli occhiali. "E si sono rotti. Ha sputato una nuvola di fumo. "Vieni qua. A nessuno dei due piaceva andare alla fontana e quindi si faceva a turno, un giorno per uno. Ma era tornato papà e per mia sorella significava che le regole non valevano più. Ho fatto no con il dito. "Tocca a te. Maria ha incrociato le braccia. "Io non ci vado. "Perché? "Mi fa male la testa. Ogni volta che non le andava di fare una cosa diceva che le faceva male la testa. Era la sua scusa preferita. "Non è vero, non ti fa male, bugiarda. "E' vero!" E si è cominciata a massaggiare la fronte con un'espressione di dolore sulla faccia. Mi veniva voglia di strangolarla. "Tocca a lei! Deve andare lei! Mamma, stufata, mi ha messo in mano la brocca. "Vai tu, Michele, che sei più grande. Non fare tante discussioni," lo ha detto come se fosse una cosa da niente, senza importanza. Un sorriso di trionfo si è allargato sulle labbra di mia sorella. "Hai visto? "Non è giusto. Ieri ci sono andato io. Non ci vado. Mamma mi ha detto con quel tono aspro che le veniva un attimo prima di infuriarsi: "Ubbidisci, Michele. "No". Sono andato da papà a lamentarmi. "Papà, non tocca a me. Ieri ci sono andato io. Ha tolto lo sguardo dalla televisione e mi ha guardato come se fosse la pri- ma volta che mi vedeva, si è massaggiato la bocca e ha detto: "Lo conosci il tocco del soldato? "No. Cos'è? "Lo sai come facevano i soldati durante la guerra per decidere chi andava a fare le missioni mortali?" Ha tirato fuori dalla tasca una scatola di fiammiferi e me l'ha mostrata. "No, non lo so. "Si prendono tre fiammiferi," li ha tirati fuori dalla scatola, "uno per te, uno per me e uno per Maria. A uno si toglie la capocchia". Ne ha preso uno e lo ha spezzato, poi li ha stretti tutti e tre nel pugno e ha fatto sporgere fuori i bastoncini. "Chi prende quello senza testa va a prendere l'acqua. Scegline uno, forza. Ne ho tirato fuori uno sano. Ho fatto un salto di gioia. "Maria, tocca a te. Vieni. Mia sorella ne ha preso anche lei uno sano e ha battuto le mani. "Mi sa che tocca a me," papà ha tirato fuori quello spezzato. Io e Maria abbiamo cominciato a ridere e a urlare. "Tocca a te! Tocca a te! Hai perso! Hai perso! Vai a prendere l'acqua! Papà si è alzato un po' avvilito. "Quando torno vi dovete essere lavati. Chia- ro? "Vuoi che ci vado io? Tu sei stanco," ha detto mamma. "Non puoi. E' una missione mortale. E devo prendere le sigarette nel ca- mion". E' uscito di casa con la brocca in mano. Ci siamo lavati, abbiamo mangiato pasta al pomodoro e frittata e dopo aver baciato papà e mamma ce ne siamo andati a letto senza neanche insistere per vedere la televisione. Mi sono svegliato durante la notte. Per un brutto sogno. Gesù diceva alzati e cammina a Lazzaro. Ma Lazzaro non si alzava. Alzati e cammina, ripeteva Gesù. Lazzaro non ne voleva proprio sapere di resuscitare. Gesù, che assomigliava a Severino, quello che guidava l'autocisterna dell'ac- qua, si arrabbiava. Era una figuraccia. Quando Gesù ti dice alzati e cammina, tu lo devi fare, soprattutto se sei morto. Invece Lazzaro se ne stava steso, rinsecchito. Allora Gesù incominciava a scuoterlo come una bambola e Lazza- ro alla fine si alzava e gli azzannava la gola. Lascia stare i morti, diceva con le labbra imbrattate di sangue. Ho sbarrato gli occhi tutto sudato. Quelle notti faceva così caldo, che se, per disgrazia, ti svegliavi, era difficile riaddormentarti. La stanza mia e di mia sorella era stretta e lunga. Era ricavata da un corridoio. I due letti erano messi per lungo, uno dopo l'altro, sotto la finestra. Da un lato c'era il muro, dall'altro una trentina di cen- timetri per muoverci. Per il resto la stanza era bianca e spoglia. D'inverno ci faceva freddo e d'estate non ci si respirava. Il calore accumulato di giorno dai muri e dal soffitto veniva buttato fuori durante la notte. Avevi la sensazione che il cuscino e il materasso di lana fos- sero appena usciti da un forno. Dietro i miei piedi vedevo la testa scura di Maria. Dormiva con gli occhiali, a pancia all'aria, completamente abbandonata, le braccia e le gambe larghe. Diceva che se si svegliava senza gli occhiali le veniva paura. Di solito mamma glieli toglieva appena si addormentava, perché le rimanevano i segni in faccia. Lo zampirone sul davanzale produceva un fumo denso e tossico che stec- chiva le zanzare e neanche a noi faceva tanto bene. Ma allora nessuno si preoccupava di questo genere di cose. Attaccata alla nostra stanza c'era la camera dei nostri genitori. Sentivo papà russare. Il ventilatore che soffiava. L'ansimare di mia sorella. Il richiamo mo- notono di una civetta. Il ronzio del frigorifero. La puzza di fogna che usciva dal gabinetto. Mi sono messo in ginocchio sul letto e mi sono appoggiato alla finestra per prendere un po' d'aria. C'era la luna piena. Era alta e luminosa. Si vedeva lontano, come fosse giorno. I campi sembravano fosforescenti. L'aria ferma. Le case buie, silen- ziose. Forse ero l'unico sveglio in tutta Acqua Traverse. Mi è sembrata una bella cosa. Il bambino era nel buco. Me lo immaginavo morto nella terra. Scarafaggi, cimici e millepiedi che gli camminavano addosso, sulla pelle esangue, e vermi che gli uscivano dalle labbra livide. Gli occhi sembravano due uova sode. Io un morto non lo avevo mai visto. Solo mia nonna Giovanna. Sul suo let- to, con le braccia incrociate, il vestito nero e le scarpe. La faccia sembrava di gomma. Gialla come cera. Papà mi aveva detto che dovevo baciarla. Tutti piangevano. Papà mi spingeva. Le avevo posato la bocca sulla guancia fred- da. Aveva un odore dolciastro e disgustoso che si mischiava con l'odore dei ceri. Dopo mi ero lavato la bocca con il sapone. E se invece il bambino era vivo? Se voleva uscire e graffiava con le dita le pareti del buco e chiedeva aiuto? Se lo aveva preso un orco? Mi sono affacciato fuori e in fondo alla pianura ho visto la collina. Sembrava apparsa dal nulla e si stagliava, come un'isola uscita dal mare, altissima e ne- ra, con il suo segreto che mi aspettava. "Michele, ho sete... "Maria si è svegliata. "Mi dai un bicchiere d'acqua?" Par- lava a occhi chiusi e si passava la lingua sulle labbra secche. "Aspetta... "Mi sono alzato. Non volevo aprire la porta. Se mia nonna Giovanna era seduta a tavola in- sieme al bambino? E mi diceva, vieni, siediti qui con noi, che mangiamo? E sul piatto c'era la gallina impalata? Non c'era nessuno. Un raggio di luna cadeva sul vecchio divano a fiori, sulla credenza con i piatti bianchi, sul pavimento di graniglia bianca e nera e face- va capolino nella camera di papà e mamma, arrampicandosi sul letto. Ho vi- sto i piedi, intrecciati. Ho aperto il frigorifero e ho tirato fuori la brocca con l'acqua fredda. Mi ci sono attaccato, poi ho riempito un bicchiere per mia so- rella che se lo è bevuto in un sorso. "Grazie. "Ora dormi. "Perché hai fatto la penitenza al posto di Barbara? "Non lo so... "Non ti andava che si abbassava le mutande? "No. "E se lo dovevo fare io? "Cosa? Nulla. "Sei vivo? Mi senti? Ho aspettato, poi ho preso un sasso e gliel'ho tirato. L'ho colpito su un pie- de. Su un piede magro e sottile e con le dita nere. Su un piede che non si è mosso di un millimetro. Era morto. E da lì si sarebbe sollevato solo se Gesù in persona glielo ordi- nava. Mi è venuta la pelle d'oca. I cani e i gatti morti non mi avevano mai fatto tanta impressione. Il pelo nasconde la morte. Quel cadavere invece, così bianco, con un braccio buttato da una parte, la testa contro la parete, faceva ribrezzo. Non c'era sangue, niente. Solo un corpo senza vita in un buco sperduto. Non aveva più niente di umano. Dovevo vedergli la faccia. La faccia è la cosa più importante. Dalla faccia si capisce tutto. Ma scendere lì dentro mi faceva paura. Potevo girarlo con una mazza. Ci voleva una mazza bella lunga. Sono entrato nella stalla e lì ho trovato un pa- lo, ma era corto. Sono tornato indietro. Sul cortile si affacciava una porticina chiusa a chiave. Ho provato a spingerla, ma anche se era malmessa, resiste- va. Sopra la porta c'era una finestrella. Mi sono arrampicato puntellandomi sugli stipiti e, di testa, mi sono infilato dentro. Bastavano un paio di chili in più, o il culo di Barbara, e non ci sarei passato. Mi sono ritrovato nella stanza che avevo visto mentre attraversavo il ponte. C'erano i pacchi di pasta. I barattoli di pelati aperti. Bottiglie di birra vuote. I resti di un fuoco. Dei giornali. Un materasso. Un bidone pieno d'acqua. Un cestino. Ho avuto la sensazione del giorno prima, che li ci veniva qualcuno. Quella stanza non era abbandonata come il resto della casa. Sotto una coperta grigia c'era uno scatolone. Dentro ho trovato una corda che finiva con un uncino di ferro. Con questa posso andare giù, ho pensato. L'ho presa e l'ho buttata dalla finestrella e sono uscito. Per terra c'era il braccio arrugginito di una gru. Ci ho legato intorno la corda. Ma avevo paura che si scioglieva e io rimane- vo nel buco insieme al morto. Ho fatto tre nodi, come quelli che faceva papà al telone del camion. Ho tirato con tutta la forza, resisteva. Allora l'ho gettata nel buco. "Io non ho paura di niente," ho sussurrato per farmi coraggio, ma le gambe mi cedevano e una voce nel cervello mi urlava di non andare. I morti non fanno niente, mi sono detto, mi sono fatto il segno della croce e sono sceso. Dentro faceva più freddo. La pelle del morto era sudicia, incrostata di fango e merda. Era nudo. Alto come me, ma più magro. Era pelle e ossa. Le costole gli sporgevano. Doveva avere più o meno la mia età. Gli ho toccato la mano con la punta del piede, ma è rimasta senza vita. Ho sollevato la coperta che gli copriva le gambe. Intorno alla caviglia destra ave- va una grossa catena chiusa con un lucchetto. La pelle era scorticata e rosa. Un liquido trasparente e denso trasudava dalla carne e colava sulle maglie ar- rugginite della catena attaccata a un anello interrato. Volevo vedergli la faccia. Ma non volevo toccargli la testa. Mi faceva im- pressione. Alla fine, tentennando, ho allungato un braccio e ho afferrato con due dita un lembo della coperta e stavo cercando di levargliela dal viso quando il mor- to ha piegato la gamba. Ho stretto i pugni e ho spalancato la bocca e il terrore mi ha afferrato le palle con una mano gelata. Poi il morto ha sollevato il busto come fosse vivo e a occhi chiusi ha allun- gato le braccia verso di me. I capelli mi si sono rizzati in testa, ho cacciato un urlo, ho fatto un salto in- dietro e sono inciampato nel secchio e la merda si è versata ovunque. Sono finito schiena a terra urlando. Anche il morto ha cominciato a urlare. Mi sono dimenato nella merda. Poi finalmente con uno scatto disperato ho preso la corda e sono schizzato fuori da quel buco come una pulce impazzita. Pedalavo, mi infilavo tra buche e cunette rischiando di spezzarmi la schiena, ma non frenavo. Il cuore mi esplodeva, i polmoni mi bruciavano. Ho preso un dosso e mi sono ritrovato in aria. Sono atterrato male, ho stru- sciato un piede a terra e ho tirato i freni, ma è stato peggio, la ruota davanti si è inchiodata e sono scivolato nel fosso a lato della strada. Mi sono rimesso in piedi con le gambe che mi tremavano e mi sono guardato. Un ginocchio era sbucciato a sangue, la maglietta era tutta sporca di merda, una striscia di cuoio del sandalo si era spezzata. Respira, mi sono detto. Respiravo e sentivo il cuore placarsi, il fiato tornare normale e improvvisa- mente mi è venuto sonno. Mi sono sdraiato. Ho chiuso gli occhi sotto le pal- pebre era tutto rosso. La paura c'era ancora, ma era appena un bruciore in fondo allo stomaco. Il sole mi scaldava le braccia gelate. I grilli mi strillavano nelle orecchie. Il ginocchio mi pulsava. Quando ho riaperto gli occhi delle grosse formiche nere mi camminavano addosso. Quanto avevo dormito? Potevano essere cinque minuti come due ore. Sono salito sulla Scassona e ho ripreso la strada di casa. Mentre pedalavo continuavo a vedere il bambino morto che si sollevava e stendeva le mani verso di me. Quella faccia scavata, quegli occhi chiusi, quella bocca spalanca- ta continuavano a balenarmi davanti. Ora mi appariva come un sogno. Un incubo che non aveva più forza. Era vivo. Aveva fatto finta di essere morto. Perché? Forse era malato. Forse era un mostro. Un lupo mannaro Di notte diventava un lupo. Lo tenevano incatenato lì perché era pericoloso. Avevo visto alla televisione un film di un uomo che nelle notti di luna piena si trasformava in lupo e assaliva la gente. I contadini preparavano una trappola e il lupo ci finiva dentro e un cacciato- re gli sparava e il lupo moriva e tornava uomo. Era il farmacista. E il cacciato- re era il figlio del farmacista. Quel bambino lo tenevano incatenato sotto una lastra coperta di terra per non esporlo ai raggi della luna. I lupi mannari non si possono curare. Per ucciderli bisogna avere una pal- lottola d'argento. Ma i lupi mannari non esistevano. «Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. I fantasmi, i lu- pi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri», mi aveva detto pa- pà un giorno che gli avevo chiesto se i mostri potevano respirare sott'acqua. Ma se lo avevano nascosto lì ci doveva essere una ragione. Papà mi avrebbe spiegato tutto. "Papà! Papà... "Ho spinto la porta e mi sono precipitato dentro. "Papà! Ti devo dire... "Il resto mi si è spento tra le labbra. Stava sulla poltrona, il giornale tra le mani e mi guardava con gli occhi da rospo. I peggiori occhi da rospo che mi era capitato di vedere dal giorno in cui mi ero bevuto l'acqua di Lourdes pensando che era l'acqua con le bollici- ne. Ha schiacciato la cicca nella tazzina del caffè. Mamma era seduta sul divano a cucire, ha alzato la testa e l'ha riabbassata. Papà ha preso aria con il naso e ha detto: "Dove sei stato tutto il giorno?" Mi ha squadrato da capo a piedi. "Ma ti sei visto? Dove cazzo ti sei rotolato?" Ha fatto una smorfia. "Nella merda? Puzzi come un maiale! Hai rotto pure i sandali! Ha guardato l'orologio. "Lo sai che ore sono? Sono rimasto in silenzio. "Te lo dico io. Le tre e venti. A pranzo non ti sei fatto vedere. Nessuno sa- peva dove stavi. Ti sono andato a cercare fino a Lucignano. Ieri l'hai passata liscia, oggi no. Sono saltato giù dal carrubo. "Vabbe', vengo, solo per questa sera però. A cena nessuno parlava. Sembrava che ci stava il morto in casa. Io e mia sorella mangiavamo seduti a tavola. Mamma lavava i piatti. "Quando avete finito andate a letto senza fiatare. Ha chiesto Maria: "E la televisione? "Niente televisione. Tra un po' torna vostro padre e se vi trova alzati sono dolori. Ho chiesto: "E' ancora molto arrabbiato? "Sì. "Che ha detto? "Ha detto che se continui così, il prossimo anno ti porta dai frati. Appena facevo una cosa sbagliata papà mi voleva mandare dai frati. Salvatore e la madre ogni tanto andavano al monastero di San Biagio per- ché lo zio era frate guardiano. Un giorno avevo chiesto a Salvatore come si stava dai frati. "Di merda," mi aveva risposto. "Stai tutto il giorno a pregare e la sera ti chiudono in una stanza e se ti scappa la pipì non la puoi fare e ti fanno tene- re i sandali pure se fa freddo. Io li odiavo i frati, ma sapevo che non ci sarei andato mai perché papà li o- diava più di me e diceva che erano dei maiali. Ho messo il piatto nell'acquaio. "A papà non gli passa mai più? Mamma ha detto: "Se ti trova che dormi forse gli passa. Mamma non sedeva mai a tavola con noi. Ci serviva e mangiava in piedi. Con il piatto poggiato sopra il frigorifero. Parlava poco, e stava in piedi. Lei stava sempre in piedi. A cucinare. A lavare. A stirare. Se non stava in piedi, allora dormiva. La televisione la stufava. Quando era stanca si buttava sul letto e moriva. Al tempo di questa storia mamma aveva trentatré anni. Era ancora bella. Aveva lunghi capelli neri che le arrivavano a metà schiena e li teneva sciolti. Aveva due occhi scuri e grandi come mandorle, una bocca larga, denti forti e bianchi e un mento a punta. Sembrava araba. Era alta, formosa, aveva il pet- to grande, la vita stretta e un sedere che faceva venire voglia di toccarglielo e i fianchi larghi. Quando andavamo al mercato di Lucignano vedevo come gli uomini le ap- piccicavano gli occhi addosso. Vedevo il fruttivendolo che dava una gomitata a quello del banco accanto e le guardavano il sedere e poi alzavano la testa al cielo. Io la tenevo per mano, mi attaccavo alla gonna. E' mia, lasciatela in pace, avrei voluto urlare. "Teresa, tu fai venire i cattivi pensieri," le diceva Severino, quello che por- tava l'autocisterna. A mamma queste cose non interessavano. Non le vedeva. Quelle occhiate voraci le scivolavano addosso. Quelle sbirciate nella v del vestito non le face- vano né caldo né freddo. Non era una smorfiosa. Dall'afa non si respirava. Eravamo a letto. Al buio. "Conosci un animale che comincia con un frutto?" mi ha chiesto Maria. "Come? "Un animale che comincia con un frutto. Ho cominciato a pensarci. "Tu lo sai? "Sì. "E chi te l'ha detto? "Barbara. Non mi veniva niente. "Non esistono. "Esistono, esistono. Ci ho provato. "Il pescatore. "Non è un animale. Non vale. Avevo il vuoto in testa. Mi ripetevo tutta la frutta che conoscevo e ci attac- cavo dietro pezzi di animali e non ne usciva niente. "Il Susinello? "No. "Il Perana? "No. "Non lo so. Mi arrendo. Qual è? "Non te lo dico. "Ora me lo devi dire. "Vabbe', te lo dico. Il coccodrillo. Mi sono dato uno schiaffo sulla fronte. "E' vero! Il cocco drillo! Era facilissi- mo. Che cretino... "Buona notte," mi ha detto Maria. "Buona notte," le ho risposto. Ho provato a dormire, ma non avevo sonno, mi rigiravo nel letto. Mi sono affacciato alla finestra. La luna non era più una palla perfetta e c'e- rano stelle da tutte le parti. Quella notte il bambino non poteva trasformarsi in lupo. Ho guardato verso la collina. E per un istante, ho avuto l'impressione che una lucina baluginasse sulla cima. Chissà cosa succedeva nella casa abbandonata. Forse c'erano le streghe, nude e vecchie, che stavano intorno al buco a ri- dere senza denti e forse tiravano fuori dal buco il bambino e lo facevano bal- lare e gli tiravano il pesce. Forse c'era l'orco e gli zingari che se lo cucinavano sulla brace. Non sarei andato là sopra di notte per tutto l'oro del mondo. Mi sarebbe piaciuto trasformarmi in un pipistrello e volare sopra la casa. O mettermi l'armatura antica che il papà di Salvatore teneva all'ingresso di casa e salire sulla collina. Con quella addosso le streghe non mi potevano fare niente. 3. La mattina mi sono svegliato tranquillo, non avevo fatto sogni brutti. Sono rimasto un po' a letto, a occhi chiusi, ad ascoltare gli uccelli. Poi ho comincia- to a rivedere il bambino che si sollevava e allungava le braccia. "Aiuto!" ho detto. Che stupido! Per quello si era alzato. Mi chiedeva aiuto e io ero scappato via. Sono uscito in mutande dalla stanza. Papà stava avvitando la macchinetta del caffè. Il padre di Barbara era seduto a tavola. "Buon giorno," ha detto papà. Non era più arrabbiato. "Ciao, Michele," ha detto il padre di Barbara. "Come stai? "Bene. Pietro Mura era un uomo basso e tozzo, con un paio di baffoni neri che gli coprivano la bocca e un testone quadrato. Indossava un completo nero con le righine bianche e sotto la canottiera. Per tanti anni aveva fatto il barbiere a Lucignano, ma gli affari non erano mai andati bene e quando avevano aperto un nuovo salone con la manicure e i tagli moderni aveva chiuso bottega e ora faceva il contadino. Ma ad Acqua Traverse lo continuavano a chiamare il bar- biere. Se ti dovevi tagliare i capelli andavi a casa sua. Ti faceva sedere in cucina, al sole, accanto alla gabbia con i cardellini, apri- va un cassetto e tirava fuori un panno arrotolato, dentro ci teneva i pettini e le forbici ben oliate. Pietro Mura aveva le dita grosse e corte come sigari toscani che entravano appena nelle forbici, e prima di cominciare a tagliare allargava le lame e te le passava sulla testa, avanti e indietro, come un rabdomante. Diceva che in quel modo poteva sentirti i pensieri, se erano buoni o cattivi. E io, quando faceva così, cercavo di pensare solo a cose belle come i gelati, le stelle cadenti o a quanto volevo bene a mamma. Mi ha guardato e ha detto: "Che vuoi fare, il capellone? Ho fatto segno di no con la testa. Papà ha versato il caffè nelle tazzine buone. "Ieri mi ha fatto arrabbiare. Se continua così lo mando dai frati. Il barbiere mi ha chiesto: "Lo sai come si tagliano i capelli ai frati? "Con il buco al centro. "Bravo. Ti conviene ubbidire, quindi. Salsa di pomodoro. L'ho rimessa a posto e ho riempito la bottiglia d'acqua e l'ho chiusa con un tappo di sughero, ho preso il cestino e sono uscito fuori. Ho afferrato la corda, ci ho legato il cestino e ci ho poggiato dentro la bot- tiglia. "Te la calo," ho detto. "Prendila. Con la coperta addosso, a tentoni, ha cercato la bottiglia nel cestino, l'ha stappata e l'ha versata nel pentolino senza farne cadere neanche un po', poi l'ha rimessa nel paniere e ha dato uno strattone alla corda. Come una cosa che faceva sempre, tutti i giorni. Siccome non me la ripren- devo ha dato un secondo strattone e ha grugnito qualcosa arrabbiato. Appena l'ho tirata su, ha abbassato la testa e senza sollevare il pentolino ha cominciato a bere, a quattro zampe, come un cane. Quando ha finito si è ac- coccolato da una parte e non si è più mosso. Era tardi. "Allora... Ciao". Ho coperto il buco e me ne sono andato. Mentre pedalavo verso Acqua Traverse, pensavo alla pentola che avevo trovato nella cascina. Mi sembrava strano che era uguale alla nostra. Non lo so, forse perché Maria aveva scelto quella tra tante. Come se fosse speciale, più bella, con quelle mele rosse. Sono arrivato a casa giusto in tempo per il pranzo. "Veloce, vatti a lavare le mani," mi ha detto papà. Era seduto a tavola ac- canto a mia sorella. Aspettavano che mamma scolava la pastasciutta. Sono corso in bagno e mi sono sfregato le mani con il sapone, mi sono fat- to la riga a destra e li ho raggiunti mentre mamma riempiva i piatti di pasta. Non usava la pentola con le mele. Ho guardato le stoviglie ad asciugare sul lavello, ma anche lì non l'ho vista. Doveva essere nella credenza. "Tra un paio di giorni viene a stare qui una persona," ha detto papà con il boccone in bocca. "Dovete fare i bravi. Niente pianti e urli. Non mi fate fare figure di merda. Ho chiesto: "Chi è questa per sona? Si è versato un bicchiere di vino. "E' un amico mio. "Come si chiama?" ha domandato mia sorella. "Sergio. "Sergio," ha ripetuto Maria. "Che nome buffo. Era la prima volta che veniva uno a stare da noi. A Natale venivano gli zii ma non rimanevano a dormire quasi mai. Non c'era posto. Ho chiesto: "E quanto sta? Papà si è riempito il piatto di nuovo. "Un po'. Mamma ci ha messo davanti la fettina di carne. Era mercoledì. E il mercoledì era il giorno della fettina. La fettina che fa bene e che a me e a mia sorella faceva schifo. Io, con uno sforzo enorme, quella suoletta dura e insipida la buttavo giù, mia sorella no. Maria poteva masticarla per ore fino a quando diventava una palla bianca e stopposa che le si gonfiava in bocca. E quando non ce la faceva proprio più l'appiccicava sotto il tavolo. Lì la carne fermentava. Mamma non si raccapez- zava. "Ma da dove viene questa puzza? Ma che sarà?" Fino a quando, un giorno, ha sfilato il cassetto delle posate e ha trovato tutte quelle orrende pallottole attaccate alle assi come alveari. Ma oramai il trucco era stato scoperto. Maria ha cominciato a lamentarsi. "Non la voglio! Non mi piace! Mamma si è arrabbiata subito. "Maria, mangia quella carne! "Non posso. Mi fa venire il male alla testa," ha detto mia sorella come se le offrissero del veleno. Mamma le ha mollato uno scapaccione e Maria ha cominciato a frignare. Ora finisce a letto, ho pensato. Ma papà invece ha preso il piatto e ha guardato mamma negli occhi. "La- sciala stare, Teresa. Non mangerà. Pazienza. Mettila da parte. Dopo mangiato i miei genitori sono andati a riposare. La casa era un forno, ma loro riuscivano a dormire lo stesso. Era il momento adatto per cercare la pentola. Ho aperto la credenza e ho rovistato tra le stoviglie. Ho guardato nel cas- settone dove mettevamo le cose che non si usavano più. Sono uscito fuori e sono andato dietro casa dove c'era il lavatoio, l'orto e i fili con i panni stesi. Ogni tanto mamma lavava li le stoviglie e poi le faceva asciugare al sole. Niente. La pentola con le mele era scomparsa. Ce ne stavamo sotto la pergola a giocare a sputo nell'oceano e ad aspettare che il sole se ne calasse un po' per farci una partita a calcio, quando ho visto papà che scendeva le scale, con i pantaloni buoni e la camicia pulita. In mano stringeva una borsa blu che non avevo mai visto. Io e Maria ci siamo alzati e l'abbiamo raggiunto mentre saliva sul camion. "Papà, papà, dove vai? Parti?" gli ho domandato attaccato alla portiera. "Possiamo venire con te?" ha implorato mia sorella. Un bel giro in camion ci voleva proprio. Ci ricordavamo tutti e due di quan- do ci aveva portato a mangiare i rustici e le paste alla crema. Ha acceso il motore. "Mi dispiace, ragazzi. Oggi no. Ho cercato d'infilarmi dentro la cabina. "Ma avevi detto che non partivi più, che stavi a casa... "Torno presto. Domani o dopodomani. Scendete, forza". Andava di fretta. Non aveva voglia di discutere. Mia sorella ha provato ancora un po' a insistere. Io no, tanto non c'era niente da fare. Lo abbiamo guardato allontanarsi nella polvere, al volante della sua grossa scatola verde. Mi sono svegliato durante la notte. E non per un sogno. Per un rumore. Sono rimasto così, a occhi chiusi, ad ascoltare. Mi sembrava di essere a mare. Lo sentivo. Solo che era un mare di ferro, un oceano pigro di bulloni, viti e chiodi che lambiva la riva di una spiaggia. Lente onde di ferraglia si rompevano in una pesante risacca che ne copriva e scopriva i bordi. A quel suono si univano gli ululati e i guaiti disperati di un branco di cani, un coro lugubre e dissonante che non attenuava il fragore del ferro ma lo amplificava. Ho guardato fuori dalla finestra. Una mietitrebbia avanzava sferragliando sul crinale di una collina bagnato dai raggi della luna. Assomigliava a una gi- gantesca cavalletta di metallo, con due piccoli occhi tondi e luminosi e una bocca larga fatta di lame e punte. Un insetto meccanico che divorava grano e cacava paglia. Lavorava di notte perche di giorno era troppo caldo. Era lei che faceva il rumore del mare. Gli ululati sapevo da dove venivano. Dal canile del padre del Teschio. Italo Natale aveva costruito dietro casa una baracca di lamiera e ci teneva chiusi i cani da caccia. Stavano sempre là dentro, estate e inverno, dietro una rete metallica. Quando la mattina il padre del Teschio gli portava da mangiare, abbaiavano. Quella notte, chissà perché, avevano cominciato a ululare tutti insieme. Ho guardato verso la collina. Papà era lì. Aveva portato la fettina di mia sorella al bambino e per questo aveva fatto finta di partire e per questo aveva una borsa, per nasconderla dentro. Prima di cena avevo aperto il frigorifero e la carne non c'era più. "Mamma, dov'è la fettina? Mi aveva guardato stupita. "Ora ti piace la carne? "Sì. "Non c'è più. Se l'è mangiata tuo padre. Non era vero. L'aveva presa per il bambino. Perché il bambino era mio fratello. Come Nunzio Scardaccione, il fratello maggiore di Salvatore. Nunzio non era un pazzo cattivo, ma io non lo potevo guardare. Avevo paura che mi mi- schiava la sua follia. Nunzio si strappava i capelli con le mani e se li mangia- va. In testa era tutto buchi e croste e sbavava. Sua madre gli metteva un pevano che aveva fatto il militare a Brindisi. Aveva il viso affilato di un barra- cuda e i denti piccoli e separati come quelli di un coccodrillo appena nato. Una volta ci aveva detto che li aveva così perché erano ancora i denti da lat- te. Non li aveva mai cambiati. Se non apriva la bocca era quasi un bel ragazzo, ma se spalancava il forno, se rideva, facevi due passi indietro. E se ti beccava a guardargli i denti erano dolori. Poi un giorno benedetto, senza dire niente a nessuno, era partito. Se chiedevi al Teschio dov'era andato suo fra- tello rispondeva: "Al Nord. A lavorare. Questo ci bastava e ci avanzava. Ora invece era rispuntato come un'erbaccia velenosa. Sulla sua 127 color merda sciolta. E scendeva giù dalla casa abbandonata. Ce l'aveva messo lui il bambino nel buco. Ecco chi ce l'aveva messo. Nascosto tra gli alberi, ho controllato che nella valletta non ci fosse nessu- no. Quando sono stato sicuro di essere solo, sono uscito dal bosco e sono en- trato nella casa passando per la solita chiostrina. Oltre i pacchi di pasta, le bottiglie di birra, la pentola con le mele, per terra c'erano un paio di scatolet- te di tonno aperte. E da una parte, arrotolato, un sacco a pelo militare. Felice. Era suo. Me lo vedevo, imbustato nel suo sacco, tutto contento, che si mangiava il tonno. Ho riempito una bottiglia d'acqua, ho preso la corda dallo scatolone e l'ho portata fuori, l'ho legata al braccio della gru, ho scostato la lastra e il mate- rasso e ho guardato di sotto. Era raggomitolato come un porcospino nella coperta marrone. Non avevo voglia di scendere là dentro, ma dovevo scoprire se c'erano i re- sti della fettina di mia sorella. Anche se avevo visto Felice arrivare dalla colli- na non riuscivo a togliermi dalla testa che quel bambino poteva essere mio fratello. Ho tirato fuori il formaggio e gli ho domandato: "Posso venire? Sono quello dell'acqua. Ti ricordi? Ti ho portato da mangiare. La caciotta. E' buona la ca- ciotta. Meglio, mille volte meglio della fettina. Se non mi attacchi, te la dò. Non mi ha risposto. "Allora, posso scendere? Felice poteva averlo sgozzato. "Ti tiro la caciotta. Prendila. Gliel'ho lanciata. Gli è caduta vicino. Una mano nera e rapida come una tarantola è sbucata dalla coperta e ha cominciato a tastare a terra fino a quando non ha trovato il formaggio, lo ha afferrato e lo ha fatto scomparire. Mentre mangiava le gambe gli fremevano, come quei cani bastardi che si trovano davanti un avanzo di bistecca dopo giorni di digiuno. "Ho anche dell'acqua... Te la porto giù? Ha fatto un gesto con un braccio. Mi sono calato. Appena ha sentito che gli stavo vicino, si è acciambellato contro la parete. Ho guardato intorno, non c'era traccia della fettina. "Non ti faccio niente. Hai sete?" Gli ho teso la bottiglia. "Bevi, è buona. Si è messo seduto senza levarsi di dosso la coperta. Sembrava un piccolo fantasma straccione. Le gambe magre spuntavano simili a due ramoscelli bianchi e striminziti. Una era legata alla catena. Ha tirato fuori un braccio e mi ha strappato la bottiglia e, come il formaggio, è scomparsa sotto la coperta. Al fantasma si è formato un lungo naso da formichiere. Beveva. Se l'è fatta fuori tutta in venti secondi. E quando ha finito, ha fatto pure un rutto. "Come ti chiami?" gli ho chiesto. Si è riaccucciato senza degnarsi di rispondere. "Come si chiama tuo padre? Ho aspettato invano. "Mio padre si chiama Pino, e il tuo? Pure il tuo si chiama Pino? Sembrava addormentato. Sono rimasto a guardarlo, poi ho detto: "Felice! Quello lo conosci? L'ho vi- sto. Scendeva giù in macchina... "Non sapevo più che dire. "Vuoi che me ne vado? Se vuoi me ne vado". Niente. "Va bene, me ne vado". Ho afferrato la corda. "Ciao, allora... Ho sentito un sussurro, un respiro, qualcosa è uscito dalla coperta. Mi sono avvicinato. "Hai parlato? Ha bisbigliato ancora. "Non capisco. Parla più forte. "Gli orsetti...!" ha urlato. Ho fatto un salto. "Gli orsetti? Come gli orsetti? Ha abbassato il tono della voce. "Gli orsetti lavatori... "Gli orsetti lavatori? "Gli orsetti lavatori. Se lasci aperta la finestra della cucina gli orsetti lavatori entrano dentro e rubano le torte o i biscotti, a seconda di quello che si man- gia quel giorno," ha detto molto serio. "Se tu, per esempio, lasci la spazzatu- ra davanti a casa, gli orsetti lavatori vengono la notte e se la mangiano. Era come una radio rotta che improvvisamente riprendeva a trasmettere. "E' molto importante chiudere bene il secchio sennò buttano tutto fuori. Di che stava parlando? Ho cercato d'interromperlo. "Qui non ci stanno orsi. E neanche lupi. Le volpi, si". E poi gli ho chiesto: "Ieri per caso hai mangiato una fettina di carne? "Gli orsetti lavatori mordono perché hanno paura dell'uomo. Chi cavolo erano questi orsetti lavatori? E cosa lavavano? I panni? E poi gli orsi parlano solo nei fumetti. Non mi piaceva questa storia degli orsetti lava- tori. Ho insistito. "Mi potresti dire, per favore, se ieri sera hai mangiato la fetti- na? E' molto importante. E lui mi ha risposto: "Gli orsetti mi hanno detto che tu non hai paura del si- gnore dei vermi. Una vocina nel cervello mi diceva che non dovevo starlo a sentire, che me ne dovevo scappare. Mi sono aggrappato alla corda, ma non riuscivo ad andarmene, continuavo a fissarlo incantato. Ha insistito. "Tu non hai paura del signore dei vermi. "Il signore dei vermi? E chi è? "Il signore dei vermi dice: Ehi, fessacchiotto! Ora ti mando giù la roba. Prendila e ridammi il secchio. Sennò scendo e ti schiaccio come un verme. Si, ti schiaccio come un verme. Tu sei l'angelo cu- stode? "Come? "Sei l'angelo custode? Ho balbettato. "Io... Io, no... Io non sono l'angelo... "Tu sei l'angelo. Hai la stessa voce. "Quale angelo? "Quello che parla, che dice le cose. "Non sono gli orsetti lavatori che parlano? Non riuscivo a trovare un senso a quel farneticare. "Me lo avevi detto tu... "Gli orsetti parlano, ma certe volte dicono le bugie. L'angelo dice sempre la verità. Tu sei l'angelo custode". Ha alzato il tono di voce. "A me lo puoi dire. Mi sentivo debole. La puzza di merda mi tappava la bocca, il naso, il cervel- lo. "Io non sono un angelo... Io sono Michele, Michele Amitrano. Non sono un... "ho mormorato e mi sono appoggiato contro la parete e sono scivolato a terra e lui si è alzato, ha teso le braccia verso di me come un lebbroso che chiede la carità ed è rimasto sollevato pochi istanti, poi ha fatto un passo ed è caduto giù, in ginocchio, sotto la coperta, ai miei piedi. Mi ha toccato un dito sussurrando. Ho cacciato un urlo. Come se mi avesse toccato una medusa schifosa, un ragno infetto. Con quella manina ossuta, con quelle sue unghie nere, lunghe e storte. Parlava troppo piano. "Cosa, cosa hai detto? "Cosa hai detto? Sono morto!" ha risposto. Me lo ricordo come fosse ieri. Per tutta la vita, quando ho ascoltato la Tra- viata, mi sono rivisto con il sedere all'aria, sulle gambe di mia madre che, se- duta composta sul divano, mi gonfiava di botte. "Che facciamo?" mi ha chiesto Salvatore. Eravamo seduti sulla panchina e tiravamo i sassi contro uno scaldabagno buttato nel grano. Chi lo colpiva faceva punto. Gli altri, in fondo alla strada, giocavano a nascondino. La giornata era stata ventosa, ma ora, al crepuscolo, l'aria si era fermata, c'era afa, e dietro i campi si era appoggiata una striscia di nuvole livide e stanche. Ho lanciato troppo lontano. "Non lo so. In bicicletta non ci posso andare, mi fa male il culo. Mia madre mi ha picchiato. "Perché? "Perché torno tardi a casa. A te, tua madre ti picchia? Salvatore ha lanciato e ha colpito lo scaldabagno con un bel toc. "Punto! Tre a uno". Poi ha scosso la testa. "No. Non ce la fa. E' troppo grossa. "Beato te. Mia madre invece è fortissima e può correre più veloce di una bi- cicletta. Si è messo a ridere. "Impossibile. Ho raccolto un sasso più piccolo e l'ho scagliato. A questo giro l'ho quasi preso. "Te lo giuro. Una volta, a Lucignano, dove- vamo prendere il pullman. Quando siamo arrivati era appena partito. Mamma si è messa a correre così veloce che l'ha raggiunto e ha cominciato a dare pugni sulla porta. Si sono fermati. "Mia madre se si mette a correre muore. "Senti," ho detto. "Ti ricordi quando la signorina Destani ci ha raccontato la storia del miracolo di Lazzaro? "Sì. "Secondo te quando è risorto, Lazzaro sapeva di essere morto? Salvatore ci ha pensato su. "No. Secondo me pensava di essersi ammalato. "Ma come faceva a camminare? Il corpo dei morti è tutto duro. Ti ricordi quel gatto che abbiamo trovato com'era duro. "Quale gatto?" ha tirato e ha preso lo scaldabagno di nuovo. Aveva una mi- ra infallibile. "Il gatto nero, vicino al torrente... Ti ricordi? "Sì, mi ricordo. Il Teschio lo ha spezzato in due. "Se uno è morto e si risveglia, non cammina proprio normale e diventa paz- zo perché gli è marcito il cervello e dice cose strane, non credi? "Penso di sì. "Secondo te si può rianimare un morto o solo Gesù Cristo in persona ci può riuscire? Salvatore si è grattato la testa. "Non lo so. Mia zia mi ha raccontato una storia vera. Che una volta il figlio di uno è stato investito da una macchina ed è morto tutto maciullato. Il padre non riusciva più a vivere, stava male, pian- geva tutto il giorno, è andato da un mago e gli ha dato tutti i soldi per resu- scitargli il figlio. Il mago ha detto: «Vai a casa e aspetta. Tuo figlio tornerà stanotte». Il padre si è messo ad aspettare, ma quello non tornava, alla fine se n'è andato a letto. Si stava addormentando quando ha sentito dei passi in cucina. Si è alzato tutto felice e ha visto il figlio, era tutto maciullato e non aveva un braccio e aveva la testa spaccata, con il cervello che gli colava e diceva che lo odiava perché lo aveva lasciato in mezzo alla strada per andare con le donne ed era colpa sua se era morto. "E allora? "E allora il padre ha preso la benzina e gli ha dato fuoco. "Ha fatto bene". Ho lanciato e finalmente ho fatto centro. "Punto! Quattro a due. Salvatore si è piegato a cercare un sasso. "Ha fatto bene, sì. "Ma secondo te è una storia vera? "No. "Anche secondo me. Mi sono svegliato perché mi scappava la pipì. Mio padre era tornato. Ho sentito la sua voce in cucina. C'era gente. Discutevano, si interrompevano, si insultavano. Papà era molto arrabbiato. Quella sera eravamo andati a dormire subito dopo cena. Avevo ronzato intorno a mamma come una falena, per fare pace. Mi ero messo addirittura a pelare le patate, ma mi aveva tenuto il muso tutto il po- meriggio. A cena ci aveva sbattuto i piatti davanti e noi avevamo mangiato in silenzio, mentre lei girava per la cucina e guardava la strada. Mia sorella dormiva. Mi sono inginocchiato sul letto e mi sono affacciato alla finestra. Il camion era posteggiato accanto a una grande macchina scura con il mu- so argentato. Una macchina per ricchi. Mi scappava, ma per raggiungere il bagno dovevo passare dalla cucina. Con tutte quelle persone mi vergognavo, però me la stavo facendo addosso. Mi sono alzato e mi sono avvicinato alla porta. Ho afferrato la maniglia. Ho contato. "Uno, due, tre... Quattro, cinque e sei". E ho aperto. Erano seduti a tavola. Italo Natale, il padre del Teschio. Pietro Mura, il barbiere. Angela Mura. Fe- lice. Papà. E un vecchio che non avevo mai visto. Doveva essere Sergio, l'a- mico di papà." Fumavano. Avevano le facce rosse e stanche e gli occhi piccoli piccoli. Il tavolo era coperto di bottiglie vuote, ceneriere piene di mozziconi, pac- chetti di Nazionali e Milde Sorte, briciole di pane. Il ventilatore girava, ma non serviva a niente. Si moriva di caldo. Il televisore era acceso, senza il volume. C'era odore di pomodoro, sudore e zampirone. Mamma preparava il caffè. Ho guardato il vecchio che tirava fuori una sigaretta da un pacchetto di Dunhill. Ho saputo poi che si chiamava Sergio Materia. All'epoca aveva sessantasette anni e veniva da Roma, dove era diventato famoso, vent'anni prima, per una rapina in una pellicceria di Monte Mario e un colpo alla sede centrale della Banca dell'Agricoltura. Una settimana dopo la rapina si era comprato una rosticceria-tavola calda in piazza Bologna. Vole- va riciclare il denaro, ma i carabinieri lo avevano incastrato proprio il giorno dell'inaugurazione. Si era fatto parecchia galera, per buona condotta era tor- nato in libertà ed era emigrato in Sud America. Sergio Materia era magro. Con la testa pelata. Sopra le orecchie gli crescevano dei capelli giallastri e radi che teneva rac- colti in una coda. Aveva il naso lungo, gli occhi infossati e la barba, bianca, di almeno un paio di giorni, gli macchiava le guance incavate. Le sopracciglia lunghe e biondicce sembravano ciuffi di peli incollati sulla fronte. Il collo era grinzoso, a chiazze, come se glielo avessero sbiancato con la candeggina. In- dossava un completo azzurro e una camicia di seta marrone. Un paio di oc- chiali d'oro gli poggiavano sulla pelata lucida. E una catena d'oro con un sole spuntava fra i peli del petto. Al polso portava un orologio d'oro massiccio. Era furibondo. "Fin dall'inizio avete fatto uno sbaglio dietro l'altro". Parlava strano. "E questo qua è un coglione... "Ha indicato Felice. Lo guardava con la faccia con cui si guarda uno stronzo di cane. Ha preso uno stecchino e ha cominciato a pulirsi i denti gialli. Felice era piegato sulla tavola e con la forchetta faceva disegni sulla tova- glia. Era uguale preciso al fratello quando la madre lo sgridava. Il vecchio si è grattato la gola. "Su lo avevo detto che non ci dovevamo fi- dare di voi. Non siete buoni. E' stata un'idea del cazzo. Avete fatto stronzate su stronzate. Voi state a scherzare col fuoco". Ha buttato lo stecchino nel piatto. "Sono un idiota! Me ne sto qua a perdere tempo... Se le cose andavano come dovevano an- dare, a quest'ora dovevo stare in Brasile e invece sto in questo posto di mer- da. Papà ha provato a ribattere. "Sergio ascolta... E tutti hanno ricominciato a urlare. Mi sono infilato in camera, ho chiuso la porta, sono salito sulla finestra e l'ho fatta di sotto. Erano stati papà e gli altri a prendere il bambino a quella signora della tele- visione. La pipì scrosciava sul telone del camion e le gocce brillavano alla luce del lampione. «Attento, Michele, non devi uscire di notte», mi diceva sempre mamma. «Con il buio esce l'uomo nero e prende i bambini e li vende agli zingari». Papà era l'uomo nero. Di giorno era buono, ma di notte era cattivo. Tutti gli altri erano zingari. Zingari travestiti da persone. E quel vecchio era il re degli zingari e papà il suo servo. Mamma no, però. Mi immaginavo che gli zingari erano una specie di nanetti velocissimi, con le orecchie di volpe e le zampe di gallina. E invece erano persone normali. Perché non glielo ridavano? Che se ne facevano di un bambino pazzo? La mamma di Filippo stava male, si vedeva. Se lo chiedeva in televisione voleva dire che le importava molto di suo figlio. E papà gli voleva tagliare pure le orecchie. "Che fai?" ho sobbalzato, mi sono voltato e per poco non l'ho fatta sul letto. Maria si era svegliata. Mi sono rimesso l'uccello nelle mutande. "Niente. "Facevi pipì, ti ho visto. "Mi scappava. "Che c'è di là? Se dicevo a Maria che papà era l'uomo nero poteva pure impazzire. Ho sol- levato le spalle. "Niente. "E perché litigano? "Così. "Come così? Mi sono buttato. "Stanno giocando a tombola. "A tombola? "Sì. Litigano per chi tira fuori i numeri. "Chi sta vincendo? "Sergio, l'amico di papà. "E' arrivato? "Sì. "Com'è? "Vecchio. Dormi ora. "Non ci riesco. Fa troppo caldo. C'è rumore. Quando se ne vanno? Di là continuavano a urlare. Sono sceso giù dalla finestra. "Non lo so. "Michele, mi racconti una favola così mi addormento? Papà ci raccontava le storie di Agnolotto in Africa. Agnolotto era un cagno- lino di città che si nascondeva in una valigia e finiva per sbaglio in Africa, tra i leoni e gli elefanti. Ci piaceva molto questa storia. Agnolotto era capace di tenere testa agli sciacalli. E aveva una marmotta per amica. Di solito quando papà tornava ci raccontava una nuova puntata. Era la prima volta che Maria mi chiedeva di raccontarle una favola, ero mol- to onorato. Il guaio era che io non le conoscevo. "Ecco... Io non le so," ho dovuto ammettere. "Non è vero. Le conosci. "E quale conosco? "Ti ricordi la favola che ci ha raccontato quella volta la mamma di Barbara? Quella di Pierino Pierone? "Ah, già! "Me la racconti? "Va bene, ma non me la ricordo tanto. "Ti va di raccontarmela nella tenda? "Sì". Così almeno non sentivamo gli strilli in cucina. Mi sono messo nel letto di mia sorella e ci siamo tirati il lenzuolo sopra la testa. "Comincia," mi ha sussurrato in un orecchio. "Allora, c'era Pierino Pierone che si arrampicava sempre sugli alberi per mangiarsi la frutta. Un giorno stava là sopra quando è arrivata la strega Bi- strega. E ha detto: «Pierino Pierone, dammi una pera che ho una fame tre- menda». E Pierino Pierone le ha lanciato una pera. Mi ha interrotto. "Non hai detto com'è fatta la strega Bistrega. "Giusto. E' bruttissima. Senza i capelli sopra. Ha la coda di cavallo e il naso lungo. E' alta e si mangia i bambini. E suo marito è l'uomo nero... Mentre raccontavo, mi vedevo papà che tagliava le orecchie a Filippo e se le metteva in tasca. E le attaccava allo specchietto del camion come con la coda di pelliccia. "Non è vero. Non è sposata. Racconta bene. Io la storia la so. "Pierino Pierone le ha lanciato una pera che è finita dentro la merda di vac- ca. Maria ha cominciato a ridere. Le cose con la cacca le piacevano molto. "La strega Bistrega ha detto ancora: «Pierino Pierone, dammi una pera che ho una fame tremenda». «Prendi questa!» E le ha lanciato la pera nella piscia di vacca. E l'ha sporcata tutta. Altre risate. "La strega gliel'ha chiesta di nuovo. E lui le ha lanciato un'altra pera nel vomito di vacca. Mi ha dato una gomitata. "Questa non c'è. Non vale. Non fare lo scemo. Con mia sorella non si poteva cambiare neanche un po' la storia. "Allora... Ma che facevano di là? Dovevano aver rotto un piatto. Ho alzato il tono. "Allora Pierino Pierone è sceso dall'albero e le ha dato la pera. La strega Bi- strega lo ha preso e lo ha chiuso dentro un sacco e se lo è messo in spalla. Siccome Pierino Pierone mangiava i peperoni che sono pesanti, la strega non ce la faceva a portarlo e si doveva fermare ogni cinque minuti e a un certo punto doveva pure fare la pipì, ha lasciato il sacco e si è nascosta dietro un albero. Pierino Pierone con i denti ha tagliato la corda ed è uscito fuori e ci ha ficcato dentro un orsetto lavatore... "Un orsetto lavatore? Lo avevo detto apposta, per vedere se Maria li conosceva. "Sì, un orsetto lavatore. "Chi sono? "Sono degli orsetti che se tu lasci i panni vicino al fiume loro arrivano e te li lavano. "E dove stanno? "Al Nord. "E allora?" Maria sapeva che Pierino Pierone nel sacco ci aveva messo una pietra, però non ha detto niente. "La strega Bistrega ha ripreso il sacco e se l'è messo sulle spalle e quando è arrivata a casa ha detto a sua figlia: «Margherita Margheritone, vieni giù e apri il portone e prepara il pentolone per bollire Pierino Pierone». Margherita Margheritine ha messo l'acqua sul fuoco e la strega Bistrega ci ha vuotato il sacco dentro e l'orsetto lavatore è saltato fuori e ha cominciato a morderle tutte e due, è sceso nel cortile e ha cominciato a mangiarsi le galline, ha but- tato tutta la spazzatura in aria. La strega si è arrabbiata moltissimo ed è usci- ta un'altra volta a cercare Pierino Pierone. Lo ha trovato e lo ha infilato nel sacco e non si è fermata in nessun posto. Quando è arrivata a casa ha detto a Margherita Margheritone: «Prendilo e chiudilo in cantina che domani ce lo mangiamo...» Mi sono fermato. Maria dormiva e quella era una brutta storia. 5. Il vecchio me lo sono ritrovato nel bagno il mattino dopo. Dovevo andare. E dovevo raccontargli di sua madre, che gli voleva ancora bene e che lo aveva detto alla televisione, così tutti lo sapevano. Ma avevo paura, se alla casa ci trovavo papà e il vecchio? Ho guardato l'orizzonte. Il cielo era piatto, grigio e pesava sui campi di gra- no. La collina era laggiù, gigante, velata dal calore. Se sto attento non mi vedono, mi sono detto. "O partigiano, portami via, che mi devon seppellir. O partigiano, portami vi- a. O bella ciao ciao ciao". Ho sentito una voce che cantava. Ho guardato giù. Barbara Mura trascinava Togo, gli aveva legato uno spago intorno al collo e lo tirava verso l'acqua. "La mamma ora ti fa il bagnetto. Sa- rai tutto pulito. Sei contento? Sì, che sei contento". Ma Togo non sembrava contento. Culo a terra, puntava le zampe e agitava la testa cercando di liberarsi dal cappio. "Sarai bellissimo. E ti porterò a Lucignano. Andremo a prendere il ge- lato e ti comprerò il guinzaglio". Lo ha afferrato, lo ha baciato, si è sfilata i sandali, ha fatto un paio di passi nell'acquitrino e lo ha immerso in quella melma fetente. Togo ha cominciato a divincolarsi ma Barbara lo teneva bloccato per la col- lottola e la coda. Lo ha spinto sott'acqua. L'ho visto scomparire nel fango. Ha ripreso a canticchiare. "Una mattina mi son svegliata. O bella ciao! Bella ciao! Bella ciao ciao ciao! Non lo tirava più fuori. Lo voleva ammazzare. Ho urlato. "Che fai? Mollalo! Barbara ha fatto un salto e per poco non è finita in acqua. Ha lasciato il ca- ne che è riemerso e ha arrancato fino a riva. Con un balzo sono sceso dall'albero. "E tu che ci fai qua?" mi ha chiesto Barbara tutta stizzita. "Che gli stavi facendo? "Niente. Lo lavavo. "Non è vero. Tu lo volevi ammazzare. "No! "Giuralo. "Te lo giuro su Dio e tutti i santi!" Si è messa una mano sul cuore. "Le zec- che e le pulci se lo mangiano. Per questo gli facevo il bagno. Non sapevo se crederle. Ha acchiappato Togo che stava su un sasso e scodinzolava felice. Si era già scordato la brutta esperienza. "Guarda, se dico la verità". Gli ha sollevato un orecchio. "Oddio che schifo! Tutto intorno e dentro il padiglione pullulava di zecche. Faceva venire il vol- tastomaco. Con quelle loro testine affondate nella pelle, con le loro zampette nere e il ventre marrone scuro, gonfio e tondo come un ovetto di cioccolata. "Hai visto? Gli succhiano il sangue. Ho storto il naso. "E con il fango se ne vanno? "Alla televisione Tarzan ha detto che gli elefanti si fanno il bagno nel fango per levarsi gli animaletti di dosso. "Ma Togo non è un elefante. "Che c'entra? E' sempre un animale. "Secondo me bisogna tirargliele via," ho detto. "Con il fango non se ne vanno. "E come? "Con le mani. "E chi lo fa? A me fa senso. "Ci provo io". Con due dita ne ho presa una bella gonfia, ho chiuso gli occhi e ho tirato forte. Togo ha mugolato, ma il mostro è venuto via. L'ho messo su un sasso e l'abbiamo osservato. Agitava le zampette ma non riusciva a muoversi per quanto era gonfio di sangue. "Muori, vampiro! Muori!" Barbara l'ha schiacciato con una pietra trasfor- mandolo in un impiastro rosso. Gliene ho staccate come minimo una ventina. Barbara mi teneva il cane fermo. Dopo un po' mi sono stufato. Anche Togo non ce la faceva più. Guaiva appena lo sfioravo. "Le altre gliele leviamo un altro giorno. Va bene? "Va bene". Barbara si è guardata in giro. "Io me ne vado. Tu che fai? "Resto un altro po' qui". Appena si allontanava, prendevo la Scassona e an- davo da Filippo. Ha rimesso lo spago intorno al collo di Togo. "Allora ci vediamo dopo?" ha detto mentre si avviava. "Sì. Si è fermata. "C'è uno a casa tua. Con quella macchina grigia. E' un tuo pa- rente? "No. "Oggi è venuto pure a casa mia. "Che voleva? "Non lo so. Parlava con papà. Poi sono partiti. Mi sa che c'era pure tuo pa- dre. Sulla macchinona. E certo. Andavano a tagliare le orecchie a Filippo. Ha fatto una smorfia e mi ha domandato: "A te quello là piace? "No. "A me nemmeno. E' rimasta in silenzio. Sembrava che non se ne volesse più andare. Si è gi- rata e ha sussurrato un grazie. "Per cosa? "Per l'altro giorno... Quando hai fatto la penitenza al posto mio. Ho alzato le spalle. "Niente. "Senti... "E' diventata tutta rossa. Mi ha guardato per un secondo e ha det- to: "Ti vorresti fidanzare con me? La faccia mi è diventata bollente. "Come? Si è piegata a carezzare Togo. "Fidanzarci. "Io e te? "Si. Ho abbassato la testa e mi sono guardato la punta dei piedi. "Ecco... Non tanto. Ha lasciato andare un sospiro trattenuto. "Non fa niente. Non abbiamo ne- anche gli stessi anni". Si è passata la mano tra i capelli. "Ciao, allora. "Ciao. Se n'è andata tirandosi dietro Togo. Mi è venuta paura delle vipere, così, all'improvviso. Fino a quel giorno, quando salivo sulla collina, non ci avevo pensato mai al- le vipere. Continuava a balenarmi davanti l'immagine di quel bracco che ad aprile era stato morso sul naso da una vipera. La povera bestia era stesa in un angolo del capannone, ansimante, con l'occhio fisso, la schiuma bianca sulle gengive e la lingua di fuori. "Oramai non c'è più niente da fare". Aveva detto il padre del Teschio. "Il veleno gli è entrato nel cuore. Stavamo tutti in cerchio a guardarlo. "Portiamolo a Lucignano. Dal dottore degli animali," avevo proposto. "Soldi buttati. E' un ladro quello, gli fa una siringa d'acqua e ti ridà il cane morto. Andate via, forza, lasciatelo morire in pace". Ci aveva spinti fuori. Ma- ria si era messa a piangere. Attraversavo il grano e mi sembrava di vedere serpenti strisciare dappertut- to. Saltavo come una quaglia e con una mazza menavo gran colpi per terra, era un fuggi fuggì di grilli e cavallette. Il sole picchiava in testa e sul collo, non c'era un alito di vento e in lontananza la pianura era tutta sfocata. Quando sono arrivato al margine della valle ero sfinito. Un po' d'ombra e una bevuta d'acqua era quello che ci voleva, mi sono avviato nel boschetto. Ma c'era qualcosa di diverso dal solito. Mi sono fermato. Sotto gli uccelli, i grilli e le cicale si sentiva della musica. Mi sono precipitato dietro un tronco. Il Teschio si è indispettito. "Siete due merdosi! Allora, sapete che faccio? Me ne vado a Lucignano". E se n'è andato tutto incazzato. Ci siamo messi a ridere, poi Salvatore mi ha detto: "Vado a casa. Vuoi veni- re da me che giochiamo a Subbuteo? "Non mi va tanto. Mi ha dato una pacca sulle spalle. "Va bene. Allora ci vediamo dopo. Ciao". Si è allontanato palleggiando. Salvatore mi piaceva. Mi piaceva come rimaneva sempre tranquillo e non si offendeva ogni cinque minuti. Con il Teschio prima di dire una cosa dovevi pensarci tre volte. Ho pedalato fino alla fontana. Maria aveva preso la bacinella smaltata e la usava come piscina per le Bar- bie. Ne aveva due, una normale e una tutta nera con un braccio squagliato e senza capelli. Ero stato io a ridurla così. Una sera avevo visto alla televisione la storia di Giovanna d'Arco e avevo acchiappato la Barbie e l'avevo gettata nel fuoco ur- lando: "Brucia! Strega! Brucia!" Quando mi ero accorto che bruciava vera- mente, l'avevo afferrata per un piede e l'avevo buttata dentro la pentola del minestrone. Mamma mi aveva levato la bicicletta per una settimana e mi aveva obbliga- to a mangiarmi tutto il minestrone da solo. Maria aveva implorato di com- prargliene un'altra. "Alla tua festa. Per ora gioca con questa. Prenditela con quell'idiota di tuo fratello". E Maria si era adattata. La Barbie bella si chiama- va Paola e quella bruciata Poverella. "Ciao, Maria," le ho detto smontando dalla bicicletta. Si è messa una mano sulla fronte per ripararsi dal sole. "Papà ti ha cerca- to... Mamma è arrabbiata. "Lo so. Ha preso Poverella e l'ha messa nella piscina. "La fai sempre arrabbiare. "Io vado su. "Papà ha detto che deve parlare con Sergio e non vuole che stiamo in mez- zo. "Ma io ho fame... Ha preso un'albicocca dalla tasca dei pantaloni. "La vuoi? "Sì". Era calda e moscia, ma l'ho divorata e ho sputato l'osso lontano. Papà è uscito sul terrazzino, mi ha visto e mi ha chiamato. "Michele, vieni qua". Era in camicia e pantaloncini. Non ci volevo parlare. "Non posso, ho da fare! Mi ha fatto segno di salire su. "Vieni qua. Ho poggiato la bicicletta contro il muro e ho salito le scale a testa bassa, rassegnato. Papà si è seduto sull'ultimo gradino. "Mettiti qui, vicino a me". Ha tirato fuori un pacchetto di Nazionali dalla tasca della camicia, ha preso una sigaret- ta, l'ha infilata nel bocchino e se l'è accesa. "Dobbiamo parlare io e te. Non mi sembrava tanto arrabbiato. Siamo rimasti in silenzio. A guardare, oltre i tetti, i campi gialli. "Fa caldo, eh?" mi ha chiesto. "Molto. Ha cacciato una nuvola di fumo. "Dove te ne vai tutto il giorno, si può sape- re? "Da nessuna parte. "Non è vero. Da qualche parte vai. "A fare dei giretti qui intorno. "Da solo? "Sì. "Che c'è? Non ti piace stare con gli amici tuoi? "No, mi piace. E' che mi piace pure stare da solo. Ha fatto segno di sì con la testa, gli occhi persi nel vuoto. L'ho guardato. Sembrava più vecchio, tra i capelli neri ne spuntava qualcuno bianco, le guance gli si erano scavate e sembrava che non dormiva da una settimana. "Hai fatto arrabbiare tua madre. Ho strappato un rametto di rosmarino da un vaso e ho cominciato a rigi- rarmelo tra le mani. "Non l'ho fatto apposta. "Ha detto che non vuoi dormire con Sergio. "Non mi va... "E perché? "Perché voglio dormire con voi. Nel vostro letto. Tutti insieme. Se ci strin- giamo, c'entriamo. "Sergio che penserà se non dormi con lui? "Non m'importa. "Non si trattano così gli ospiti. Immagina se tu vai a stare da qualcuno e nessuno vuole dormire con te. Che penseresti? "Non m'importerebbe, io vorrei una stanza tutta per me. Come all'albergo. Ha accennato un sorriso e con due dita ha lanciato il mozzicone in strada. Gli ho chiesto: "Sergio è il tuo capo? Per questo deve stare da noi? Mi ha guardato sorpreso. "Come è il mio capo? "Sì, decide lui le cose. "No, non decide niente. E' un mio amico. Non era vero. Il vecchio non era suo amico, era il suo capo. Io lo sapevo. Poteva dirgli pure le male parole. "Papà, ma tu dove dormi quando vai al Nord? "Perché? "Così. "In albergo, dove capita, a volte nel camion. "Ma di notte al Nord che succede? Mi ha guardato, ha preso un respiro con il naso e mi ha chiesto: "Che c'è? Non sei contento che sono tornato? "Sì. "Di' la verità. "Sì, sono contento. "Mi ha stretto tra le braccia, forte. Sentivo il suo sudore. Mi ha sussurrato in un orecchio: "Stringimi, Michele, stringimi! Fammi sentire quanto sei forte. L'ho abbracciato più forte che potevo e mi veniva da piangere. Le lacrime mi scendevano e mi si stringeva la gola. "Che fai, piangi? Ho singhiozzato. "No, non piango. Ha tirato fuori dalla tasca un fazzoletto stropicciato. "Asciugati quelle lacri- me, che se qualcuno ti vede fai la figura della femmina. Michele, in questi giorni ho molto da fare e quindi devi ubbidire. Tua madre è stanca. Piantala con questi capricci. Se fai il bravo, appena finisco ti porto al mare. Andiamo sul pedalò. Ho rantolato. "Che è il pedalò? "E' una barca che invece dei remi ha i pedali come una bicicletta. Mi sono asciugato le lacrime. "Ci si può andare fino in Africa? "Devi pedalare per arrivare in Africa. "Io voglio andare via da Acqua Traverse. "Che c'è, non ti piace più? Gli ho ridato il fazzoletto. "Andiamo al Nord. "Perché te ne vuoi andare? "Non lo so... Non mi piace più stare qua. Ha guardato lontano. "Ci andremo. Ho strappato un altro rametto di rosmarino. Aveva un buon odore. "Tu li conosci gli orsetti lavatori? Ha aggrottato le sopracciglia. "Gli orsetti lavatori? "Sì. "No, che sono? "Niente... Sono degli orsi che lavano i panni... Ma forse non esistono. Papà si è rimesso in piedi e si è sgranchito la schiena. "Aahh! Senti, io torno in casa, devo parlare con Sergio. Perché non vai a giocare che tra un po' mangiamo?" Ha aperto la porta e stava per entrare, ma si è fermato. "Mam- ma ha preparato le tagliatelle. Dopo, chiedile scusa. "Perché non esci da quella coperta?" gli ho domandato e mi sono rannic- chiato vicino a lui. "Non posso, sono cieco... "Come sei cieco? "Gli occhi non si aprono. Voglio aprirli ma rimangono chiusi. Al buio ci vedo. Al buio non sono cieco". Ha avuto un'esitazione. "Lo sai, me lo avevano detto che tornavi. "Chi? "Gli orsetti lavatori. "Basta con questi orsetti lavatori! Papà mi ha detto che non esistono. Hai sete? "Sì. Ho aperto la cartella e ho tirato fuori la bottiglia. "Ecco. "Vieni". Ha sollevato la coperta. Ho fatto una smorfia. "Lì sotto?" Mi faceva un po' schifo. Ma così potevo vedere se aveva ancora le orecchie al loro posto. Ha cominciato a toccarmi. "Quanti anni hai? Mi passava le dita sul naso, sulla bocca, sugli occhi. E'ro paralizzato. "Nove. E tu? "Nove. "Quando sei nato? "Il dodici settembre. E tu? "Il venti novembre. "Come ti chiami? "Michele. Michele Amitrano. Tu che classe fai? "La quarta. E tu? "La quarta. "Uguale. "Uguale. "Ho sete. Gli ho dato la bottiglia. Ha bevuto. "Buona. Vuoi? Ho bevuto pure io. "Posso alzare un po' la coperta?" Stavo crepando di cal- do e di puzza. "Poco. L'ho tirata via quel tanto che bastava a prendere aria e a guardargli la fac- cia. Era nera. Sudicia. I capelli biondi e sottili si erano impastati con la terra formando un groviglio duro e secco. Il sangue rappreso gli aveva sigillato le palpebre. Le labbra erano nere e spaccate. Le narici otturate dal moccio e dalle croste. "Posso lavarti la faccia?" gli ho domandato. Ha allungato il collo, ha sollevato la testa e un sorriso si è aperto sulle lab- bra martoriate. Gli erano diventati tutti i denti neri. Mi sono tolto la maglietta e l'ho bagnata con l'acqua e ho cominciato a pu- lirgli sul viso. Dove passavo rimaneva la pelle bianca, così bianca che sembrava traspa- rente, come la carne di un pesce bollito. Prima sulla fronte, poi sulle guance. Quando gli ho bagnato gli occhi ha detto: "Piano, fa male. "Faccio piano. Non riuscivo a sciogliere le croste. Erano dure e spesse. Ma sapevo che e- rano come le croste dei cani. Quando gliele stacchi i cani riprendono a vede- re. Ho continuato a bagnargliele, ad ammorbidirle fino a quando una palpe- bra si è sollevata e subito si è richiusa. Un istante solo, sufficiente perché un raggio di luce gli ferisse l'occhio. "Aaahhhaa!" ha urlato e ha infilato la testa nella coperta come uno struzzo. L'ho sbatacchiato. "Lo vedi? Lo vedi? Non sei cieco! Non sei cieco per nien- te! "Non posso tenerli aperti. "E' perché stai sempre al buio. Però ci vedi, vero? "Si! Sei piccolo. "Non sono piccolo. Ho nove anni. "Hai i capelli neri. "Sì. Era molto tardi. Dovevo tornare a casa. "Ora però devo andare. Domani torno. Con la testa sotto la coperta ha detto: "Promesso? "Promesso. Quando il vecchio è entrato nella mia camera mi stavo organizzando per fregare i mostri. Da piccolo sognavo sempre i mostri E anche ora, da adulto, ogni tanto, mi capita, ma non riesco più a fregarli. Aspettavano solo che mi addormentassi per impaurirmi. Fino a quando, una notte, ho inventato un sistema per non fare brutti so- gni. Ho trovato un posto dove rinchiudere quegli esseri deformi e spaventosi e dormire sereno. Mi rilassavo e aspettavo che le palpebre diventassero pesanti e quando sta- vo per cadere addormentato, proprio in quel momento esatto, mi immagina- vo di vederli camminare, tutti insieme, su per una salita. Come nella proces- sione della Madonna di Lucignano. La strega Bistrega gobba e rugosa. Il lupo mannaro a quattro zampe, con i vestiti strappati e le zanne bianche. L'uomo nero, un'ombra che scivolava come una serpe tra le pietre. Lazzaro, un mangiacadaveri divorato dagli in- setti e avvolto da una nube di mosche. L'orco, un gigante con gli occhi piccoli e il gozzo, le scarpe enormi e un sacco sulle spalle pieno di bambini. Gli zin- gari, delle specie di volpi che camminavano su zampe di gallina. L'uomo con il cerchio, un tipo con una tuta blu elettrico e un cerchio di luce che poteva lan- ciare lontanissimo. L'uomo pesce che viveva nelle profondità del mare e reg- geva la madre sulle spalle. Il bambino polpo, nato con i tentacoli al posto del- le gambe e delle braccia. Avanzavano tutti insieme. Verso un posto imprecisato. Erano terrificanti. E infatti nessuno si fermava a guardarli. A un tratto appariva un pullman, tutto dorato, con i campanelli e le lucette colorate. Sul tetto c'era un megafono che strillava. «Signore e signori, salite sul pullman dei desideri! Salite su questo pullman magnifico che vi porterà tutti al circo senza tirare fuori una lira! Oggi gratis al circo! Salite! Salite!» I mostri, felici di quella insperata occasione, salivano sul pullman. A quel punto m'immaginavo che la mia pancia si apriva, un lungo taglio si spalanca- va e loro ci entravano dentro tutti tranquilli. Quegli scemi credevano che era il circo. Io richiudevo la ferita e loro rima- nevano fregati. Ora bastava addormentarsi con le mani sulla pancia per non fare brutti sogni. Li avevo appena intrappolati, quando il vecchio è entrato, mi sono distratto, ho tolto le mani e loro sono fuggiti. Ho chiuso gli occhi e ho fatto finta di dormire. Il vecchio faceva un sacco di rumori. Trafficava nella valigia. Tossiva. Sof- fiava. Mi sono coperto la testa con un braccio e ho guardato che combinava. Un raggio di luce rischiarava uno spicchio di stanza. Il vecchio stava seduto sul letto di Maria. Secco, gobbo e scuro. Fumava. E quando aspirava vedevo quel naso a bec- co e gli occhi incavati tingersi di rosso. Sentivo l'odore del fumo e l'odore del- la colonia. Ogni tanto faceva no con la testa. Poi sbuffava come se stesse liti- gando con qualcuno. Ha incominciato a spogliarsi. Si è tolto gli stivaletti, le calze, i pantaloni, la camicia. E' rimasto in mutande. Aveva la pelle flaccida, appesa a quelle ossa lunghe come se l'avessero cucita sopra. Ha buttato la sigaretta dalla finestra. La cicca è scomparsa nella notte, come un lapillo infuocato. Si è sciolto i ca- pelli e sembrava un vecchio Tarzan malato. Si è sdraiato sul letto. Ora non lo vedevo più, ma era vicino. A meno di mezzo metro dai miei pie- di. Se allungava un braccio mi acchiappava una caviglia. Mi sono chiuso come un riccio. Non dovevo dormire. Se mi addormentavo mi poteva prendere. Dovevo in- ventarmi qualcosa. di plastica colorata. L'ho aperto. Nella prima pagina c'era scritto: questo qua- derno appartiene a Filippo Carducci. Quarta C. Le prime pagine erano strappate. L'ho sfogliato. C'erano dei dettati, dei riassunti e un tema. Racconta cosa hai fatto domenica. Domenica è tornato mio papà. Mio papà vive in America molto spesso e torna ogni tanto. Ha una villa con la piscina e il trampolino e ci sono gli orset- ti lavatori. Vivono nel giardino, Io ci devo andare. In America lui ci sta per la- voro e quando torna mi porta sempre i regali. Questa volta mi ha portato del- le ||: specie di racchette da tennis che si mettono sotto i piedi e così si può camminare sulla neve. Senza si affonda e si può anche morire. Quando andrò in montagna le dovrò usare quando vado sulla neve. Papà mi ha detto che queste racchette le usano gli eschimesi. Gli eschimesi vivono sul ghiaccio al Polo Nord e hanno anche le case di ghiaccio. Dentro non hanno il frigorifero perché non servirebbe a niente. Mangiano molte foche e qualche volta i pinguini. Ha detto che una volta mi ci porta. Io gli ho chiesto se può venire anche Peppino con noi. Peppino è il no- stro giardiniere e deve tagliare tutte le piante e quando è inverno deve toglie- re tutte le foglie dal prato. Peppino ha almeno cento anni e appena vede una pianta la taglia. Si stanca molto e la sera deve mettere i piedi nell'acqua cal- da. Se viene con noi al Polo Nord non deve fare niente. lì non ci sono piante c'è solo la neve e può riposarsi. Papà ha detto che ci deve pensare se può venire anche Peppino con noi. Dopo essere andati all'aeroporto siamo andati a mangiare al ristorante. io, mio papà e mia mamma. Loro hanno parlato di dove devo fare le medie. Se devo stare a Pavia oppure in America. Io non ho detto niente ma preferisco Pavia dove vanno tutti i miei compagni. In Ameri- ca posso giocare con gli orsetti lavatori. Dopo pranzo siamo tornati a casa ho mangiato un'altra volta e sono andato a letto. Questo ho fatto domenica. I compiti li avevo già fatti sabato. Ho chiuso il quaderno di Filippo e l'ho infilato nella cartellina. In fondo alla valigia c'era un asciugamano arrotolato. L'ho aperto e dentro c'era una pistola. Sono rimasto a fissarla. Era grande, aveva il calcio di legno ed era nera. L'ho sollevata. Era pesantissima. Forse era carica. L'ho rimessa a posto. «Inseguendo una libellula in un prato, un giorno che avevo rotto col passa- to», cantavano alla radio. Mamma ballava e intanto stirava e cantava anche lei. "Quando già credevo di esserci riuscito son caduto. Era di buon umore. Da una settimana era peggio di un cane rabbioso e ora cantava tutta contenta con la sua voce rauca e maschile. "Una frase sciocca, un volgare doppio senso, mi ha allarmato... Sono uscito dalla mia camera abbottonandomi i pantaloncini. Lei mi ha sor- riso. "Eccolo qua! Quello che non dormiva con gli ospiti... Buon giorno! Vieni a darmi un baci- o. Grande, lo voglio. Voglio vedere quanto grande lo riesci a dare. "Mi acchiappi? "Si. Ti acchiappo. Ho preso la rincorsa e le sono saltato in braccio e lei mi ha afferrato al volo e mi ha stampato un bacio sulla guancia. Poi mi ha stretto e mi ha fatto gira- re. Io pure le ho dato un sacco di baci. "Anch'io! Anch'io!" ha strillato Maria. Ha lanciato le bambole in aria e si è avvinghiata a noi. "Tocca a me. Tocca a me. Togliti," le ho detto. "Michele, non fare così". Mamma ha preso anche Maria. "Tutti e due!" E ha cominciato a girare per la stanza cantando a squarciagola. "Il magazzino che contiene tante casse, alcune nere, alcune gialle, alcune rosse... Da una parte all'altra. Da una parte all'altra. Fino a quando non siamo crollati sul divano. "Sentite... Il cuore. Sentite il cuore... di vostra. .. madre... muore... "Aveva il fiatone. Le abbiamo poggiato la mano sul seno, sotto c'era un tamburo. Siamo rimasti uno vicino all'altro, buttati sui cuscini. Poi mamma si è siste- mata i capelli e mi ha chiesto: "Allora Sergio non ti ha mangiato questa not- te? "No. "Ti ha fatto dormire? "Si. "Russava? "Sì. "Come russava? Fammi sentire. Ho cercato di fargli il verso. "Ma questo è un maiale! Così fanno i maiali. Maria, facci sentire come russa papà. E Maria ha fatto papà. "Non siete capaci. Adesso vi faccio sentire papà. Lo faceva identico. Con il fischio. Abbiamo riso molto. Si è alzata e si è tirata giù il vestito. "Ti scaldo il latte. Le ho chiesto: "E papà dove sta? "E' uscito con Sergio... Ha detto che la prossima settimana ci porta a mare. E andremo pure al ristorante a mangiare le cozze. Io e Maria abbiamo cominciato a saltare sul divano. "A mare! A mare! A mangiare le cozze! Mamma ha guardato verso i campi poi ha chiuso le persiane. "Speriamo bene. Ho fatto colazione. C'era il pan di Spagna. Me ne sono mangiate due fette inzuppate nel latte. Senza farmi vedere ne ho tagliata un'altra, l'ho avvolta nel tovagliolo e me la sono cacciata in tasca. Filippo sarebbe stato felice. Mamma ha sparecchiato. "Appena hai finito porta questo dolce a casa di Salvatore. Mettiti la maglietta pulita. Mamma era brava a cucinare. E quando preparava le torte o i maccheroni al forno o cuoceva il pane, ne faceva sempre in più e lo vendeva alla mamma di Salvatore. Mi sono lavato i denti, ho messo la maglietta delle Olimpiadi e sono uscito con la teglia tra le mani. Non c'era vento. Il sole piombava a picco sulle case. Maria stava seduta sulle scale con le sue Barbie, in uno spicchio d'ombra. "Tu la sai costruire una casa per le bambole? "Certo". Non lo avevo mai fatto, ma non doveva essere difficile. "Nel ca- mion di papà c'è uno scatolone. Possiamo tagliarlo e farci una casa. E poi co- lorarlo. Ora non ho tempo, però. Devo andare da Salvatore". Sono sceso in strada. Non c'era nessuno. Solo le galline che razzolavano nella polvere e le rondini che s'infilavano sotto i tetti. Dal capannone venivano dei rumori. Mi sono avvicinato. La 127 di Felice aveva il cofano sollevato e stava tutta piegata da una parte. Da sotto spunta- vano un paio di grossi anfibi neri. Quando Felice era ad Acqua Traverse trafficava sempre con la macchina. La lavava. La ingrassava. La spolverava. Ci aveva pure dipinto sopra una larga striscia nera, come su quelle dei poliziotti americani. Smontava il motore e poi non riusciva a rimetterlo a posto o si perdeva qualche bullone, allora ci obbli- gava ad andare fino a Lucignano a comprarglielo. "Michele! Michele, vieni qua!" ha urlato Felice da sotto la macchina. Mi sono fermato. "Che vuoi? "Aiutami. "Non posso. Devo fare un servizio per mia madre". Volevo dare la torta alla mamma di Salvatore, saltare sulla Scassona e correre da Filippo. "Vieni qua. "Non posso... Devo fare una cosa. Ha ringhiato. "Se non vieni qua, ti ammazzo... "Che vuoi? "Sono incastrato. Non posso muovermi. Si è staccata una ruota mentre sta- vo sotto, porcalaputtana. Sto qua sotto da mezz'ora! Antonia Ammirati aveva diciotto anni, era magra ma non tanto. Aveva i ca- pelli rossi e gli occhi blu e quando era piccola le erano morti i genitori in un incidente stradale. Sono andato da Antonia e le ho dato la torta. Lei mi ha carezzato la testa con il dorso della mano. Antonia mi piaceva molto, era bella e mi sarebbe piaciuto fidanzarmi con lei, ma era troppo grande e aveva il ragazzo a Lucignano che montava le an- tenne della televisione. "Quant'è brava la tua mamma, eh?" ha detto Letìzia Scardaccione. "E quant'è bella?" ha aggiunto zia Lucilia. "E anche tu sei proprio un bel bambino. E vero, Lucilia? "E' proprio bello. "Antonia, non è bello Michele? Se fosse grande non te lo sposeresti? Antonia ha riso. "Subito me lo sposerei. Zia Lucilia mi ha acchiappato una guancia e me l'ha quasi staccata. "E tu te la piglieresti Antonia? Sono diventato tutto rosso e ho fatto no con la testa. E le due sorelle si sono messe a ridere tutte contente e non la finivano più. Poi Letìzia Scardaccione ha preso un sacchetto. "Qua ci sono dei vestiti che a Salvatore vanno piccoli. Prenditeli. Se i pantaloni sono troppo lunghi te li accorcio. Prenditeli, fammi questo favore. Guarda come vai combinato. Mi sarebbe piaciuto. Erano come nuovi. Ma mamma diceva che noi non ac- cettavamo l'elemosina da nessuno. Soprattutto da quelle due. Diceva che i miei vestiti andavano benissimo. E che quando era ora di cambiarli, lo deci- deva lei. "Grazie, signora. Ma non posso. Zia Lucilia ha aperto una scatola di latta e ha battuto le mani. "Guarda che tengo qui. Le caramelle al miele! Ti piacciono le caramelle al miele? "Molto, signora. "Accomodati pure. Queste le potevo prendere. Mamma non poteva scoprirlo perché me le mangiavo tutte. Ne ho fatto una bella scorta. Mi sono riempito le tasche. E Letizia Scardaccione ha aggiunto: "E dàlle anche a tua sorella. La prossi- ma volta che vieni porta pure lei. Ho ripetuto come un pappagallo. "Grazie, grazie, grazie... "Prima di andartene vai a salutare Salvatore. Sta in camera sua. Mi raccomando però, non rimanere assai che deve suo- nare. Oggi ha la lezione. Sono uscito dalla cucina e ho attraversato quel corridoio tetro, con quei mobili neri e tristi. Sono passato davanti alla camera di Nunzio. La porta era chiusa a chiave. Una volta l'avevo trovata aperta ed ero entrato. Non c'era niente, tranne un letto alto con le ringhiere di ferro e delle cin- ghie di cuoio. Al centro, le mattonelle del pavimento erano tutte rigate e rovi- nate. Quando passavi sotto il palazzo vedevi Nunzio che camminava avanti e indietro, dalla porta alla finestra. L'avvocato aveva provato ogni cosa per farlo guarire, una volta lo aveva pure portato da padre Pio, ma Nunzio si era attaccato a una Madonna e l'a- veva fatta cadere e i frati lo avevano cacciato dalla chiesa. Da quando stava in manicomio non era più tornato ad Acqua Traverse. Dovevo andare da Filippo, glielo avevo promesso. Gli dovevo portare la tor- ta e le caramelle. Ma faceva caldo. Poteva aspettare. Tanto non gli cambiava niente. E poi avevo voglia di stare un po' con Salvatore. Ho sentito il pianoforte attraverso la porta della sua stanza. Ho bussato. "Chi è? "Michele. "Michele?" Mi ha aperto, si è guardato intorno come un ricercato, mi ha spinto dentro e ha chiuso a chiave. La camera di Salvatore era grande, spoglia e con i soffitti alti. Contro una parete c'era un pianoforte verticale. Su un'altra un letto così alto che dovevi prendere uno scaletto per salirci. E una lunga libreria con dentro tanti libri di- sposti secondo i colori delle copertine. I giochi erano conservati in un casset- tone. Una tenda bianca e pesante lasciava filtrare un raggio di luce in cui danzava la polvere. In mezzo alla stanza, sul pavimento, c'era il panno verde del Subbuteo. Schierate sopra, la Juventus e il Torino. Mi ha chiesto: "Che ci fai qua? "Niente. Ho portato una torta. Posso rimanere? Tua madre ha detto che hai la lezione... "Sì, rimani," ha abbassato il tono della voce, "ma se si accorgono che non suono non mi lasciano più in pace". Ha preso un disco e lo ha messo sul gira- dischi. "Così credono che suono". E ha aggiunto tutto serio. "E' Chopin. "Chi è Chopin? "E' uno bravo. Io e Salvatore avevamo la stessa età, però mi sembrava più grande. Un po' perché era più alto di me, un po' perché aveva le camicie bianche sempre pu- lite e i pantaloni lunghi e con la piega. Un po' per il tono pacato che usava. Lo obbligavano a suonare, un insegnante veniva una volta alla settimana da Lucignano a fargli lezione, e lui, anche se odiava la musica, non si lamentava e aggiungeva sempre: "Ma quando sono grande smetto. "Ti va di fare una partita?" gli ho chiesto. Il Subbuteo era il mio gioco preferito. Non ero molto bravo, ma mi piaceva da morire. D'inverno con Salvatore facevamo tornei infiniti, passavamo pome- riggi interi a dare schicchere a quei piccoli calciatori di plastica. Salvatore gio- cava anche da solo. Si spostava da una parte all'altra. Se non giocava con il Subbuteo allora incolonnava migliaia di soldatini per la stanza e copriva tutto il pavimento fino a che non c'era più posto nemmeno per mettere i piedi. E quando finalmente erano ordinati in schiere geometriche cominciava a spo- starli uno per uno. Passava ore in silenzio a disporre eserciti per poi, quando arrivava Antonia a dire che la cena era servita, rimetterli tutti nelle scatole da scarpe. "Guarda," mi ha detto, e ha tirato fuori da un cassetto otto scatolette di cartone verde. Ognuna conteneva una squadra di calcio. "Guarda che mi ha regalato papà. Me le ha portate da Roma. "Tutte queste?" Le ho prese in mano. Doveva essere veramente ricco l'av- vocato per spendere tutti quei soldi. Ogni anno che Dio mandava, alla mia festa e a Natale, chiedevo a papà e a Gesù Bambino di regalarmi il Subbuteo, ma non c'era verso, nessuno dei due ci sentiva. Mi bastava una squadra. Senza il campo e le porte. Pure di serie B. Mi sarebbe piaciuto andare da Salvatore con la mia squadra perché, ne ero sicuro, se era mia avrei giocato meglio, non avrei perso così tanto. Avrei volu- to bene a quei giocatori, ne avrei avuto cura e avrei battuto Salvatore. Lui ne aveva già quattro. E ora il padre gliene aveva comprate altre otto. Perché a me niente? Perché a mio papà non gli fregava niente di me, diceva che mi voleva bene ma non era vero. Mi aveva regalato una stupida barca di Venezia da mettere sopra il televisore. E non potevo neanche toccarla. Ne volevo una. Se suo padre gliene avesse regalate quattro non dicevo niente, ma erano otto. In tutto ora ne aveva dodici. Con una in meno che gli cambiava? Mi sono schiarito la voce e ho sussurrato. "Me ne regali una? Salvatore ha aggrottato le sopracciglia e ha cominciato a girare per la stan- za. Poi ha detto: "Mi dispiace, io te la darei pure, ma non posso. Se papà sa che te l'ho data si arrabbia. Non era vero. Quando mai suo padre controllava le squadre. Salvatore era tirchio. "Ho capito. "Tanto che ti cambia? Ci puoi venire a giocare quando vuoi. Se avessi avuto qualcosa da scambiare forse una me la dava. Ma io non avevo niente. No, una cosa da scambiare ce l'avevo. "Se ti dico un segreto, me ne dai una? Salvatore mi ha guardato di sbieco. "Che segreto? "Un segreto incredibile. va dal petto. Volevo andare subito da Filippo, ma mi sono dovuto accasciare sotto un albero e aspettare che mi passava il fiatone. Quando mi sono sentito meglio, ho guardato se Felice stava nei paraggi. Non c'era nessuno. Sono entrato nella casa, ho preso la corda. Ho spostato la lastra e l'ho chiamato. "Filippo! "Michele!" Ha cominciato a muoversi tutto. Mi stava aspettando. "Sono venuto, hai visto? Hai visto che sono venuto? "Lo sapevo. "Te lo hanno detto gli orsetti lavatori? "No. Lo sapevo io. Lo avevi promesso. "Avevi ragione, gli orsetti lavatori esistono. L'ho letto in un libro. L'ho visto pure in fotografia. "Bello, vero? "Molto. Tu ne hai mai visto uno? "Sì. Li senti? Li senti come fischiano? Non sentivo nessun fischio. Non c'era niente da fare. Era pazzo. "Vieni?" Mi ha fatto segno di scendere. Ho afferrato la corda. "Arrivo". Mi sono calato. Avevano fatto pulizie. Il secchio era vuoto. Il pentolino era pieno d'acqua. Filippo era avvolto nella sua schifosa coperta, solo che lo avevano lavato. Gli avevano fasciato la caviglia con una benda. E intorno al piede non aveva più la catena. "Ti hanno pulito! Ha sorriso. I denti non glieli avevano lavati. "Chi è stato? Teneva una mano sugli occhi. "Il signore dei vermi e i suoi nani servitori. Sono scesi e mi hanno lavato tutto. Io ho detto che potevano lavarmi quanto gli pareva ma tu li avresti acchiappati lo stesso e che potevano fuggire quan- to volevano ma tu potevi inseguirli per diversi chilometri senza stancarti. Gli ho afferrato un polso. "Che gli hai detto il mio nome? "Quale nome? "Il mio. "E qual è il tuo nome? "Michele... "Michele? No! "Mi hai appena chiamato... "Tu non ti chiami Michele. "E come mi chiamo? "Dolores. "Io non mi chiamo Dolores. Sono Michele Amitrano. "Se lo dici tu". Ho avuto l'impressione che mi prendeva in giro. "Ma che gli hai detto al signore dei vermi? "Gli ho detto che l'angelo custode li avrebbe acchiappati. Ho tirato un sospiro di sollievo. "Ah, bravo! Hai detto che ero l'angelo custode". Ho preso la torta dalla tasca. "Guarda che ti ho portato. Si è sbriciolata... "Non ho avuto neanche il tempo di finire la frase che mi si è avventato contro. Mi ha strappato quello che rimaneva della torta e se l'è cacciata tutta in bocca, poi, a occhi chiusi, ha cercato le briciole. Mi ha infilato le mani dovunque. "Ancora! Ancora! Dammene ancora!" Mi graffiava con le unghie. "Non ce ne ho più. Te lo giuro. Aspetta..." Nella tasca di dietro avevo le caramelle. "Tieni. Prendi. Le scartava, le masticava e le ingoiava a una velocità incredibile. "Ancora! Ancora! "Ti ho dato tutto. Non voleva credere che non avevo più niente. Continuava a cercare le briciole. "Domani te ne porto ancora. Cosa vuoi? Ha cominciato a grattarsi la testa. "Voglio... voglio... il pane. Il pane con il burro. Con il burro e la marmellata. Con il prosciutto. E il formaggio. E il cioc- colato. Un panino molto grosso. "Vedo cosa c'è a casa. Mi sono seduto. Filippo non la smetteva di toccarmi i piedi e di slacciarmi i sandali. E a un tratto mi è venuta un'idea. Una grande idea. Non aveva la catena. Era libero. Potevo portarlo fuori. Gli ho chiesto: "Ti va di uscire? "Uscire dove? "Uscire fuori. "Fuori? "Sì, fuori. Fuori dal buco. E' stato zitto e ha chiesto: "Dal buco? Quale buco? "Questo buco qui. Qui dentro. Dove siamo. Ha fatto di no con la testa. "Non ci sono buchi. "Questo non è un buco? "No. "Ma sì che è un buco e lo hai detto pure tu. "Quando l'ho detto? "Hai detto che il mondo è tutto pieno di buchi dove dentro ci stanno i morti. E che anche la luna è piena di buchi. "Ti sbagli. Io non l'ho detto. Cominciavo a perdere la pazienza. "E dove siamo allora? "In un posto dove si aspetta. "E che si aspetta? "Di andare in paradiso. Un po' aveva ragione. Se rimanevi li dentro tutta la vita, morivi e poi la tua anima volava in paradiso. Se ti mettevi a discutere con Filippo, ti si intreccia- vano i pensieri. "Dai, ti porto fuori. Vieni". L'ho preso, ma si è irrigidito tutto e tremava. "Va bene. Va bene. Non usciamo. Stai buono, però. Non ti faccio niente. Ha infilato la testa nella coperta. "Fuori non c'è aria. Fuori soffoco. Non ci voglio andare. "Non è vero. Fuori c'è un sacco d'aria. Io sto sempre fuori e non soffoco. Come mai? "Tu sei un angelo. Dovevo farlo ragionare. "Ascoltami bene. Ieri ti ho giurato che tornavo e sono tornato. Ora ti giuro che se vieni fuori non ti succede niente. Mi devi credere. "Perché devo andare fuori? Io sto bene qui. Dovevo dirgli una bugia. "Perché fuori c'è il paradiso. E io ti devo portare in paradiso. Io sono un angelo e tu sei morto e io ti devo portare in paradiso. Ci ha pensato un po'. "Davvero? "Veramente. "Andiamo, allora". E ha cominciato a fare dei versi acuti. Ho provato a metterlo in piedi, ma teneva le gambe piegate. Non si regge- va. Se non lo sostenevo cadeva. Alla fine gli ho legato la corda intorno ai fianchi. E gli ho avvolto la testa con la coperta, così stava buono. Sono risalito e ho cominciato a issarlo. Pesava troppo. Stava li, a venti centimetri da terra, tutto indurito e sbilenco e io sopra, con la corda sulla spalla, tutto piegato in avanti e senza la forza per tirarlo su. "Aiutami, Filippo. Non ce la faccio. Ma era come un macigno e la corda mi scivolava dalle mani. Ho fatto un passo indietro e la corda si è allentata. Aveva toccato terra. Mi sono affacciato. Era ribaltato, a pancia all'aria, con la coperta in testa. "Filippo, tutto bene? "Sono arrivato?" ha chiesto. "Aspetta". Sono corso intorno alla casa per cercare una tavola, un palo, qualcosa che mi potesse aiutare. Nella stalla ho trovato una vecchia porta scrostata e mezza rotta. L'ho trascinata fino al cortile. Volevo calarla nel buco e farci salire sopra Filippo. L'ho messa in piedi sul ciglio, ma mi è caduta a terra e si è spaccata in due metà piene di schegge appuntite. Il legno era tut- to mangiato dai tarli. Non era buona. "Eri tu!" Felice batteva le mani. "Eri tu, porcalaputtana! Trovavo sempre le cose messe diverse. Prima credevo di essere pazzo. Poi ho pensato che c'era il fantasma Formaggino. E invece eri tu. Michelino. Meno male, stavo uscendo scemo. Ho sentito stringere la caviglia. Filippo mi si era attaccato ai piedi e bisbi- gliava. "Il signore dei vermi viene e va. Il signore dei vermi viene e va. Il signore dei vermi viene e va. Ecco chi era il signore dei vermi! Felice mi ha guardato attraverso i buchi del cappuccio. "Hai fatto amicizia con il principe? Hai visto come l'ho lavato bene? Faceva i capricci, ma alla fine ho vinto io. La coperta però mica me l'ha voluta dare. Ero in trappola. Non riuscivo a vederlo. Il sole che filtrava tra il fogliame mi accecava. "Becca qua! Un coltello si è piantato a terra. A dieci centimetri dal mio sandalo e a venti dalla testa di Filippo. "Hai visto che mira? Potevo farti saltare il ditone del piede come niente. E poi che facevi? Non riuscivo a parlare. Mi si era tappata la gola. "Che facevi senza un dito?" ha ripetuto. "Dimmelo? Dimmelo un po'? "Morivo dissanguato. "Bravo. E se invece ti sparo con questo," mi ha mostrato il fucile, "che ti succede? "Muoio. "Vedi che le cose le sai. Vieni su, forza!" Felice ha preso la scala e l'ha cala- ta giù. Non volevo, ma non avevo altra scelta. Mi avrebbe sparato. Non ero sicuro che ce l'avrei fatta a salire, mi tremavano le gambe. "Aspetta, aspetta," ha detto Felice. "Mi prendi il coltello, per piacere? Mi sono piegato e Filippo ha bisbigliato: "Non torni più? Ho tirato fuori il coltello dalla terra e senza farmi vedere gli ho risposto sot- tovoce: "Torno. "Promesso? Felice mi ha ordinato: "Richiudilo e mettitelo in tasca. "Promesso. "Forza, forza! Sali su, fessacchiotto. Che aspetti? Ho cominciato a salire. Filippo intanto continuava a bisbigliare. "Il signore dei vermi viene e va. Il signore dei vermi viene e va. Il signore dei vermi vie- ne e va. Quando oramai ero quasi fuori, Felice mi ha preso per i pantaloni e con tut- te e due le mani mi ha lanciato contro la casa come un sacco. Mi sono schiantato sul muro e mi sono sciolto a terra. Ho provato ad alzarmi. Avevo sbattuto sul fianco. Una fitta di dolore mi irrigidiva la gamba e il braccio. Mi sono voltato. Felice si era tolto il cappuccio e avanzava verso di me a passo di carica puntandomi il fucile contro. Vedevo il carro armato dei suoi anfibi diventare sempre più grande. Ora mi spara, ho pensato. Ho cominciato a strisciare, tutto acciaccato, verso il bosco. "Volevi farlo scappare, eh? Ma ti sei sbagliato. Hai fatto i conti senza l'hostess". Mi ha dato un calcio sul sedere. "Alzati, fessacchiotto. Che fai là a terra? Alzati! Per caso ti sei fatto male?" Mi ha sol- levato per l'orecchio. "Ringrazia Iddio che sei figlio di tuo padre. Sennò a quest'ora... Ora ti porto a casetta. Deciderà tuo padre la punizione. Io il mio dovere l'ho fatto. Ho fatto la guardia. E ti dovevo sparare". Mi ha trascinato nel boschetto. Avevo così tanta paura che non riuscivo a piangere. Inciampa- vo, finivo a terra e lui mi rimetteva in piedi tirandomi per l'orecchio. "Muoviti, su, su, su! Siamo usciti fuori dagli alberi. Di fronte a noi la distesa gialla e incandescente di grano si allungava fino al cielo. Se mi ci tuffavo dentro non mi avrebbe trovato mai. Con la canna del fucile Felice mi ha spinto alla 127 e ha detto: "Ah già, ri- dammi il coltello! Ho provato a ridarglielo ma non riuscivo a infilare la mano nella tasca. "Faccio io!" Me lo ha preso. Ha aperto lo sportello, ha sollevato il sedile e ha detto: "Sali! Sono entrato e davanti c'era Salvatore. "Salvatore, che ci...?" Il resto mi è morto in bocca. Era stato Salvatore. Aveva fatto la spia a Felice. Salvatore mi ha guardato e si è girato dall'altra parte. Mi sono seduto dietro senza dire una parola. Felice si è piazzato al volante. "Caro Salvatore, sei stato proprio bravo. Qua la mano". Felice gliel'ha presa. "Avevi ragione, il ficcanaso c'era. E io che non ti credevo". E' sceso. "Le promesse sono promesse. E quando Felice Natale fa una promessa, la mantiene. Guida. Vai piano però. "Adesso?" ha chiesto Salvatore. "E quando? Siediti al posto mio. Felice è entrato dalla porta del passeggero e Salvatore è passato al volante. "Qui è perfetto per imparare. Basta che segui la discesa e ogni tanto freni. Salvatore Scardaccione mi aveva venduto per una lezione di guida. "Così mi sfondi la macchina!" Felice urlava e con la testa incollata al para- brezza controllava il fondo sconnesso della strada. "Frena! Frena! Salvatore arrivava appena sopra il volante e lo stringeva come se volesse spezzarlo. Quando Felice mi era venuto addosso puntandomi il fucile contro mi ero pi- sciato sotto. Solo ora me ne accorgevo. Avevo i pantaloncini zuppi. La macchina era piena di tafani impazziti. Sobbalzavamo sui dossi, ci infila- vamo nelle buche. Dovevo aggrapparmi alla maniglia. Salvatore non mi aveva mai detto che voleva guidare la macchina. Poteva chiederlo al padre di insegnargli a portarla. L'avvocato non gli diceva mai di no. Perché lo aveva chiesto a Felice? Mi faceva male tutto, le ginocchia sbucciate, le costole, un braccio e un pol- so. Ma soprattutto il cuore. Salvatore me lo aveva spezzato. Era il mio migliore amico. Una volta, su un ramo del carrubo, avevamo pure fatto il giuramento d'amicizia eterna. Tornavamo insieme da scuola. Se uno usciva prima, aspettava l'altro. Salvatore mi aveva tradito. Aveva ragione mamma quando diceva che gli Scardaccione si credevano chissà chi solo perché avevano i soldi. E diceva che anche se affogavi quelli nemmeno ti guardavano in faccia. E io mi ero immaginato un sacco di volte le due sorelle Scardaccione sul bordo delle sabbie mobili che cucivano a mac- china e io che affondavo e allungavo la mano e chiedevo aiuto e quelle mi lanciavano le caramelle con il miele e dicevano che non potevano alzarsi per colpa delle gambe gonfie. Ma con Salvatore eravamo amici. Mi ero sbagliato. Avevo una voglia tremenda di piangere, ma mi sono giurato che se una so- la lacrima mi usciva dagli occhi, avrei preso la pistola del vecchio e mi sarei sparato. Ho tirato fuori dai pantaloncini la scatola del Lanerossi Vicenza. Era tutta molla di pipì. L'ho poggiata sul sedile. Felice ha urlato: "Basta, ferma! Non ce la faccio più. Salvatore ha frenato di colpo, il motore si è spento, la macchina si è inchio- data e se Felice non metteva le mani avanti si scassava le corna sul parabrez- za. Ha spalancato la portiera ed è sceso. "Levati! Salvatore si è spostato dall'altra parte, muto. Felice ha afferrato il volante e ha detto: "Caro Salvatore, te lo devo dire, tu sei proprio negato a guidare. Lascia perdere. Il ciclismo è il tuo futuro. Quando siamo entrati ad Acqua Traverse mia sorella, Barbara, Remo e il Teschio giocavano a mondo in mezzo alla polvere. Ci hanno visti e hanno smesso di giocare. Il camion di papà non c'era. E neanche la macchina del vecchio. Felice ha parcheggiato la 127 nel capannone. Salvatore è schizzato dalla macchina, ha preso la bicicletta e se n'è andato senza nemmeno guardarmi. Felice ha tirato su il sedile. "Esci fuori! Papà prendeva a calci Felice e Felice strisciava sotto il tavolo e il vecchio cercava di trattenere papà che spalancava la bocca e allungava le mani e but- tava all'aria le sedie con i piedi. Il sibilo nella testa era così forte che non sentivo nemmeno il mio pianto. Mamma mi ha preso e mi ha portato in camera sua, ha chiuso la porta con il gomito e mi ha adagiato sul letto. Non riuscivo a smettere di piangere. Sus- sultavo tutto ed ero paonazzo. Mi stringeva tra le braccia e ripeteva: "Non è niente. Non è niente. Passa. Passa tutto. Mentre piangevo non riuscivo a staccare gli occhi dalla fotografia di padre Pio attaccata all'armadio. Il frate mi guardava e sembrava sorridere soddisfat- to. In cucina papà, il vecchio e Felice urlavano. Poi sono usciti tutti e tre di casa sbattendo la porta. Ed è tornata la calma. I colombi tubavano sotto il tetto. Il rumore del frigorifero. Le cicale. Il ven- tilatore. Quello era il silenzio. Mamma, con gli occhi gonfi, si è vestita, si è disinfettata un graffio su una spalla e mi ha lavato, asciugato, infilato sotto le lenzuola. Mi ha fatto mangia- re una pesca con lo zucchero e si è stesa accanto a me. Mi ha dato la mano. Non parlava più. Non avevo la forza nemmeno per piegare un dito. Ho appoggiato la fronte sul suo stomaco e ho chiuso gli occhi. Si è aperta la porta. "Come sta? La voce di papà. Parlava piano, come se il dottore gli avesse detto che ero in fin di vita. Mamma mi ha accarezzato i capelli. "Ha preso una botta in testa. Ma ora dorme. "Tu come stai? "Bene. "Sicura? "Sì. Ma quello non deve entrare più in casa nostra. Se tocca ancora Michele lo ammazzo e poi ammazzo a te. "Ci ho già pensato io. Devo andare. La porta si è chiusa. Mamma mi si è accoccolata accanto e mi ha sussurrato in un orecchio: "Quando diventi grande te ne devi andare da qui e non ci devi tornare mai più. Era notte. Mamma non c'era. Maria mi dormiva accanto. L'orologio ticchettava sul comodino. Le lancette brillavano di giallo. Il cusci- no odorava di papà. La luce bianca della cucina s'incuneava sotto la porta. Di là stavano litigando. Era pure arrivato l'avvocato Scardaccione, da Roma. Era la prima volta che veniva a casa nostra. Quel pomeriggio erano successe cose terribili. Così terribili, così immense che non ci si poteva nemmeno arrabbiare. Mi avevano lasciato stare. Non ero agitato. Mi sentivo al sicuro. Mamma ci aveva chiusi dentro la sua camera e non avrebbe permesso a nessuno di entrare. In testa avevo un bozzo che se lo toccavo mi faceva male, ma per il resto stavo bene. Questo un po' mi dispiaceva. Appena scoprivano che non ero ma- lato mi rimettevano nella stanza con il vecchio. E io volevo rimanere nel loro letto per sempre. Senza più uscire, senza più vedere Salvatore, Felice, Filippo, nessuno. Nulla sarebbe cambiato. Sentivo le voci in cucina. Il vecchio, l'avvocato, il barbiere, il padre del Te- schio, papà. Litigavano per una telefonata che dovevano fare e su quello che bisognava dire. Ho messo la testa sotto il cuscino. Vedevo l'oceano di ferro in tempesta, cavalloni di chiodi si sollevavano e spruzzi di bulloni colpivano l'autobus bianco che affondava in silenzio solle- vando il muso e dentro c'erano i mostri che si agitavano e sbattevano i pugni terrorizzati. Non c'era niente da fare. I vetri erano indistruttibili. Ho aperto gli occhi. "Michele, svegliati". Papà stava seduto sul bordo del letto e mi scuoteva la spalla. "Ti devo parlare. Era buio. Ma una macchia di luce bagnava il soffitto. Non gli vedevo gli oc- chi e non capivo se era arrabbiato. In cucina continuavano a parlare. "Michele, che hai fatto oggi? "Niente. "Non dire fesserie". Era arrabbiato. "Non ho fatto niente di male. Te lo giuro. "Felice ti ha trovato da quello. Ha detto che lo volevi liberare. Mi sono tirato su. "No! Non è vero! Te lo giuro! L'ho tirato fuori, ma l'ho ri- messo subito dentro. Non lo volevo liberare. E' lui che dice le bugie. "Parla piano che tua sorella dorme". Maria era stesa a pancia in giù e strin- geva il cuscino. Ho sussurrato. "Non mi credi? Mi ha guardato. Gli occhi gli luccicavano nel buio come a un cane. "Quante volte lo hai visto? "Tre. "Quante volte? "Quattro. "Ti può riconoscere? "Come? "Se ti vede ti riconosce? Ci ho pensato. "No. Non ci vede. Tiene sempre la testa sotto la coperta. "Gli hai detto il tuo nome? "No. "Ci hai parlato? "No... Poco. "Che ti ha detto? "Niente. Parla di cose strane. Non si capisce niente. "E tu che gli hai detto? "Niente. Si è alzato. Sembrava se ne volesse andare, poi si è riseduto sul letto. "A- scoltami bene. Non sto scherzando. Se ci torni io ti ammazzo di botte. Se tor- ni un'altra volta lì, quelli gli sparano in testa". Mi ha dato uno strattone violento. "Per colpa tua. Ho balbettato. "Non ci torno più. Te lo giuro. "Giuralo sulla mia testa. "Te lo giuro. "Di', giuro sulla tua testa che non ci torno più. Ho detto: "Giuro sulla tua testa che non ci torno più. "Hai giurato sulla testa di tuo padre". E' rimasto in silenzio seduto vicino a me. In cucina il padre di Barbara urlava con Felice. Papà ha guardato fuori dalla finestra. "Scordalo. Non esiste più. E non ne devi parlare con nessuno. Mai più. "Ho capito. Non ci vado più. Si è acceso una sigaretta. Gli ho chiesto: "Sei ancora arrabbiato con me? "No. Mettiti a dormire". Ha preso una grossa boccata e si è appoggiato con le mani sul davanzale. I capelli lucidi gli brillavano della luce del lampione. "Ma, Cristo di Dio, perché gli altri ragazzini se ne stanno buoni e tu te ne vai in giro a fare fesserie? "Allora sei arrabbiato con me? "No, non sono arrabbiato con te. Piantala". Si è preso la testa tra le mani e ha sussurrato. "Che razza di casino". Scuoteva la testa. "Ci sono cose che
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