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Testo e contesto, Natalino Irti, Sintesi del corso di Diritto Civile

Riassunti sostitutivi del libro Testo e contesto di Natalino Irti, diritto civile.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 05/06/2021

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Scarica Testo e contesto, Natalino Irti e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Civile solo su Docsity! TESTO E CONTESTO Cap I L’art 1362 c1 prescrive all’interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole, di non star dentro al confine tracciato dal senso letterale. Il limite, onde oltrepassato, è necessario che prima venga conosciuto e definito. L’indagine sul senso letterale precede ogni altra ricerca dell’interprete. Il dovere di andar oltre si ricava anche dall’art 1363, il quale prescrive di inserire la parola in circoli sempre più larghi: la frase, la clausola, l’intero testo del contratto. ma l’art 1363 trattiene l’interprete nell’orizzonte del testo: il materiale per interpretare coincide con l’oggetto da interpretare. Si parla di contesto verbale = relazioni grammaticali sintattiche semantiche, che si svolgono oltre la singola parola, ma entro il testo. L’art 1362 sospinge l’interprete fuori dal testo, verso contegni, linguistici e non linguistici, che le parti tengono nel corso del tempo. donde il principio di ultraletteralità, il quale a rigore designa ogni indagine su elementi, che siano oltre la lettera: e, dunque, così la ricerca entro li giro complessivo delle parole (contesto verbale) come attraverso il contegno complessivo delle parti (contesto situazionale). I due tipi di contesto segnano le direzioni, percorse dal principio di ultraletteralità, ma l’uno impiega solo elementi interni, mentre l’altro si volge a dati esterni alle tavole verbali. Potremmo distinguere ultraletteralità intratestuale e ultraletteralità extratestuale. Il principio di letteralità, nella teoria dell’interpretazione giuridica servirebbe a indicare la separazione tra il senso letterale e il contesto, cioè l’isolamento delle parole nella loro grammaticale singolarità. L’ultraletteralità allarga l’indagine e valica il senso primario della parola, la quale viene inserita nel contesto verbale (coincide con il testo linguistico) o situazionale. All’uno si riferisce l’art 1363, all’atro l’art 1362. Che cos’è il senso letterale? Il senso letterale è un senso in se compiuto, e potrebbe star da solo: ma l’art 1362 c1 ne denuncia l’insufficienza rispetto ad altro. Mettiamo a confronto la comune intenzione delle parti e il senso letterale delle parole: l’intenzione è comune alle parti; la lettera è comune ai fruitori di un codice linguistico. Il senso letterale della parola è il senso di essa in una lingua, indipendentemente dall’uso individuale. Vediamo di precisare meglio la nozione di senso letterale delle parole. Potremmo dire che senso letterale è il senso o la pluralità di sensi che la parola riceve nel codice linguistico di una data comunità di fruitori: senso del vocabolario. Ogni parola, però, contiene in se una pluralità di sensi: taluno appartenente al codice più diffuso; altri, appartenenti ad ambiti limitati. Il ricorso al vocabolario è indispensabile: nessuna parola può spiegare se stessa. Ma l’art 1362 vuole riferisti al senso letterale come al senso più diffuso e generale in una data epoca storica: il senso primario, che la parola riceve nel dialogo quotidiano. In cospetto a questo senso, gli altri non hanno il medesimo grado di letteralità, ancorché appartengono, pure essi, a codici minori o a sottocodici. Il senso secondario è, non già un senso individuale, ma sempre senso di codice, oggettivamente accertabile nei repertori linguistici della comunità di utenti. Tutti i sensi attribuiti alla parola da codici e sottocodici, a rigore, devono dirsi letterali, cioè propri dell’unità linguistica nelle varie cerchie di fruitori. L’art 1362, discorrendo al singolare di “senso letterale”, mostra di riferirsi al senso letterale primario, mentre deputa la comune intenzione a scrutinare gli ulteriori sensi della parola. Il problema sta appunto nella scelta del senso, se il primario o il secondario. Dovere dell’interprete è di non restringersi al primo, e di scandagliare tutte le potenzialità espressive della parola. Questa selezione può seguire o attraverso il semplice contesto verbale, o mediante l’indagine della comune intenzione, slargandosi al contesto situazionale, offerto dal contegno anteriore e posteriore delle parti. Il principio di ultraletteralità non permette di sovvertire i sensi oggettivamente reperibili, ma solo di allargare l’indagine e di adibire a fini selettivi la comune intenzione delle parti. A ben vedere gli arti 1362 e 1363 tracciano metodi diversi di selezione: l’uno è autorizzato a rivolgersi all’esterno del testo; l’altro è tenuto a rinchiudervisi. Ma sempre essi operano entro la pluralità dei sensi oggettivamente reperibili, scegliendo il senso di uno o di altro codice. L’art 1362 si riferisce ad un accordo che le parti abbiano concluso mediante parole. Ma le parti, dove non siano vincolate dalla legge o della propria volontà, possono stringere accordi con modalità espressive diverse dalla parola: contegni, dai quali è inferibile la loro decisione (cd contegni concludenti); contegni sottoposti a valutazione tipica o per regole sociali o per scelta legale. Qui non c’è parola; o più precisamente non c’è la parola delle parti, c’è solo la parola dell’interprete che traduce in verba il significato dei comportamenti tenuti dalle parti. È applicabile l’art 1362? La domanda si risolve in altra: se sia concepibile un senso letterale di contegni concludenti: un senso letterale, che permetta di svolgere il confronto con la comune intenzione delle parti. Bisogna distinguere tra diverse categorie di contegni: a. Contegni previsti da accordi delle parti le quali ne convengono e definiscono il significato b. Contegni sottoposti a regole e letture di una data cerchia sociale, e perciò dotati di uno o più significati oggettivi. c. Contegni che il legislatore provvede di un significato tipico e incontestabile d. Contegni estranei così a convenzioni delle parti così come a codici sociali e giuridici, di cui perciò, di caso in caso, dovrà accertarsi il significato. Nelle ipotesi sub a) e c), ci troviamo dinanzi a contegni provvisti di significati rigidi e perciò insuscettibili di confronto con la comune intenzione. Nell’ipotesi sub d) tutti i contegni sono utilizzati per determinare il senso di un agire, a cui non risultano applicabili ne intese bilaterali ne codici sociali. il giudizio di concludenza nasce da più larga e libera indagine, che abbraccia tanto la concreta situazione di interessi quanto i modi di comportarsi delle parti. Qui non si da un senso letterale, ma solo un senso desumibile dal complesso delle circostanze. L’ipotesi sub b), dove il contegno riceve uno o più sensi da regole sociali, e dove è configurabile un conflitto sul significato, l’art 1362 può trovare applicazione analogica. Quando il contegno appartiene ad un codice sociale, esso possiede un senso letterale che ciascun membro della comunità riconosce nell’atto compiuto e percepisce nell’osservarlo e giudicarlo. Allora può bene stabilirsi una somiglianza di casi e un’identità di ratio con l’art 1362 il quale è fondato, non sull’uso delle parole, ma sulla dialettica tra comune intenzione e senso letterale (sia questo attribuito ad una parola o ad un contegno non linguistico). Il dovere di non limitarsi indica che il senso letterale delle parole va, ad un tempo, conservato e oltrepassato. Esso è iniziale e provvisorio. A torto si vedrebbe il fine nell’indagare la comune intenzione: interpretare il contratto è stabilire il significato di quel punto o segmento che si colloca tra il prima e il dopo. il contegno anteriore e posteriore viene in rilievo come fonte della comune intenzione, la quale andrà messa a confronto con il senso delle parole, e chiamata a scegliere tra la pluralità dei significati oggettivamente possibili. Insomma, interpretare il contratto è accertare il senso delle parole: ed accertarlo così nel contesto verbale, nell’unità di tutte le clausole, come nel contesto situazionale. I due contesti, in cui le singole parole vengono impaginate servono, secondo i diversi casi, a scegliere entro la pluralità dei sensi possibili. Questo è propriamente il rispetto del testo. “non limitarsi al senso letterale delle parole non vuol dire che è consentito attribuire alla dichiarazione, in base a dati extratestuali, un significato privo di congruenza col testo. I metodi, prescritti dall’art 1362 (l’indagine della comune intenzione e la ricognizione del senso letterale si riferiscono sempre a dati oggettivi: oggettiva è la lettera delle parole; oggettivo è il comportamento tenuto dalle parti. Lo sguardo dell’interprete cade sull’agire dell’uomo, non già su sentimenti e volontà interiori. La parola “intenzione” ha una coloritura psicologica ma l’art 1362 la dice “comune” (e “comune non può darsi se non viene esternata dall’una all’altra parte, e da questa condivisa), e la lascia ricavare dal comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto. l’accertamento del senso letterale e la valutazione del comportamento complessivo sono, dunque, metodi oggettivi. Il criterio discretivo risiede altrove: il primo ha carattere astratto; il secondo ha carattere concreto. Il senso letterale è accertato in base alle regole del codice linguistico che sono generali; la valutazione del comportamento complessivo è governata da particolarità e concretezza. Il legislatore usa il verbo “valutare” che ha un contenuto di apprezzamento e di giudizio. Il comportamento complessivo, tenuto dalle parti, è determinato nei soggetti, nella situazione degli interessi, nello spazio e nel tempo. esso, così come è, può esserci una volta sola. Di qui il duplice atteggiamento dell’interprete, a cui si affida l’art 1362: ricognitivo nell’un caso; valutativo nell’altro. Ma ambedue oggettivi, poiché riguardano dati esteriormente accertabili. Il principio di ultraletteralità si determina e conclude nel principio di complessità. Il legislatore usa l’aggettivo complessivo nel secondo comma dell’art 1362 e nella rubrica dell’art 1363; ed il sostantivo complesso nel testo di quest’ultimo art. La disciplina dell’interpretazione è pervasa dall’immagine di un Quanto detto ci permette di individuare un duplice criterio di valutazione del comportamento complessivo.ll segmento anteriore la conclusione del contratto richiede un criterio prospettico. Le intenzioni si dirigono verso la conclusione del contratto. Intenzione comune emerge da un materiale più grezzo e più Ampio chi viene selezionato nel dialogo delle parti. Qui l'interprete deve distinguere ciò che cade e ciò che sopravvive, dove lo scopo rimane una sola parte e dove si fa comune ad entrambe. Il segmento posteriore la conclusione del contratto esige un criterio retrospettivo. Il contratto è ormai concluso. Scopi, interessi e attese hanno già trovato misura nel contratto. Intenzione comune assume uno scatto carattere interpretativo: il comune modo di comportarsi è un comune modo di intendere l'accordo già concluso. Ancora che non compia una interpretazione autentica, le parti tuttavia prendono posizione rispetto al contenuto del contratto. La dottrina ha da tempo distinto l’oggetto e lo strumento. Oggetto dell’interpretazione e il contratto, ovvero l'accordo raggiunto dalle parti; Strumento e l'indagine sulla comune intenzione quale si ricava dal loro comportamento complessivo. Nell'articolo 1362 cc la comune intenzione delle parti è strumento e mezzo per l'interpretazione dell'accordo. La distinzione affiora dalle parole usate: l’interpretare è riferito solo al contratto, mentre la comune intenzione viene indagata e determinata ed il comportamento complessivo valutato. Nel disegno dell’articolo 1362 cc la comune intenzione è messa a confronto con il senso letterale delle parole. Queste formano un testo, una sorta di rigido intervallo tra comportamenti anteriori e comportamenti posteriori. Il testo verbale rinvia il codice di una comunità parlante. Esso ci fornisce il senso letterale, un senso astratto e generale che prescinde dall’uso individuale. Le intenzioni sono invece singolari e concrete di certe parti in una data situazione di interessi. Il confronto è dunque tra la particolarità di scopi perseguiti e la astratta letteralità del senso. nel rapporto tra comportamenti parole bisogna distinguere considerare molteplici ipotesi: a. che il contratto esiga una forma ad substantiam. In questa, che Betti definisce ipotesi estrema, Si determinerebbe una netta scissione tra dichiarazione conclusiva e preliminare. ma l'articolo 1362 cc è dettato per qualsiasi categoria di contratti: anche le parole, documentate nella scrittura privata o raccolte da un pubblico ufficiale, sono provviste di un senso letterale. il formalismo non impedisce dunque che da questi comportamenti si è ricavata la comune intenzione delle parti e che essa si è messa a confronto con il senso letterale delle parole. impedisce solo che comportamenti concordanti allarghino o integrino il contenuto del contratto. la forma serve a definire l'oggetto, non lo strumento dell'interpretazione; b. che il contratto sia stato stipulato mediante parole, dette o scritte. Anche qui i comportamenti anteriori o posteriori si distinguono dalle parole. ma il verbalismo non è formalismo: infatti una cosa è l'onere giuridico di esprimersi scrivendo o pronunciando parole; un'altra e la libera scelta di esprimersi mediante parole. in quest'ultimo caso del comportamento complessivo sono ricavabili non solo comune intenzione delle parti ma anche accordi che integrino o modifichino il contratto. Questo infatti è concluso per verba ma non per verba necessaria e dunque è suscettibile di integrazione o modificazione anche con accordi non verbali; c. che il contratto sia concluso senza l'uso di parole . Qui non ci sono parole e dunque non c'è un senso letterale delle parole. Ma l'articolo 1362 cc è applicabile in linea analogica anche questa ipotesi. Cap III Intenzione comune e senso letterale delle parole non debbono immaginarsi in ordine cronologico, ma in reciproca circolarità. il senso letterale influisce sull’altra immagine; e questa, a sua volta, orienta la scelta del significato astratto generale. l'interprete, valutato il comportamento complessivo delle parti e determinata la comune intenzione, mette tale risultato confronto con il senso letterale delle parole. l'ipotesi più felice e più agevole e che vi sia concordanza tra comune intenzione e senso letterale o primario delle parole, ossia che i verba, nella tipicità del loro significato, esprimono gli scopi insieme perseguiti dalle parti. qui l'interprete accerta che l'indagine sulla con una intenzione lo riconduce al senso letterale e che l’una combacia e si identifica con l'altro. Il vero problema nasce quando la comune intenzione non coincide con il senso letterale. Vi è il dovere di non limitarsi al senso primario e dunque dovere di adottare uno dei sensi secondari, quale si determina in base alla comune intenzione delle parti. ma il senso secondario rimane pur sempre senso delle parole e queste non vengono ridotte a semplici veicoli della comune intenzione. Le parole non sono gusci vuoti riempibili con l’interpretazione. Il senso primario è un limite da oltrepassare; il senso secondario un limite da rispettare. Dunque, l’art 1362 implica che le parole usate abbiano un senso primario ed uno o più sensi secondari, tra i quali l’interprete sceglie in base alla comune intenzione delle parti. ( Mengoni enuncia la funzione delle regole del linguaggio: “Esse hanno anzitutto una funzione negativa in quanto segnano il limite esterno delle possibilità d'interpretazione, scartando i progetti di senso con i quali le parole della legge non hanno alcuna congruenza; e poi anche una funzione positiva in quanto sviluppano la forza evocativa o figurativa del linguaggio, contribuendo alla formazione di ipotesi di soluzione oggettivamente fornite di senso”). Questa è criterio selettivo all’interno di una pluralità di sensi. Non costituisce il senso, ma lo individua. Il senso primario è il senso normativo e tipico. L’intenzione comune o combacia con esso, e così dimostra che le parti hanno adottato le parole nel senso primario, o discorda da esso, e allora suscita il problema di determinare un altro senso delle parole usate. Un altro senso sì, ma tra i sensi oggettivamente assegnati alle parole in esame e dunque letterali anch’essi. L’intenzione comune non può prevalere sul senso delle parole, poiché solo da queste è ricavabile il contenuto del contratto. Il comportamento anteriore e posteriore non appartiene alla fattispecie del contratto. Non è quindi da condividere la tesi di Carnuletti che allarga la fattispecie del contratto fino a includervi tutto il contegno delle parti. l’art 1362 non identifica l’accordo con l’intenzione comune, ma si serve di questa per determinare il contenuto di quello. Il comportamento delle parti si scandisce in tre sezioni. Nella sezione intermedia sta il contratto; le altre sezioni sono valutate per trarre l’intenzione comune e quindi per interpretare il contratto. Il contegno quindi è materiale per l’interpretazione, NON oggetto di interpretazione. Il problema ancora una volta è nel rapporto tra soggettiva particolarità dell’intenzione ed astratta tipicità di senso. La comune intenzione va messa al confronto con il senso primario delle parole. Vi sono parole, dotate di un solo senso (monosemia) e parole dotate di una pluralità di sensi (polisemia). In quest’ultimo caso, accanto al senso primario si pongono sensi secondari, propri di sottocodici, sociali geografici funzionali. Entro la polisemia è chiamata ad agire la comune intenzione: essa adempie una funzione selettiva, scegliendo il senso conforme agli scopi insieme perseguiti dalle parti. la comune intenzione quindi serve a scegliere uno dei sensi, oggettivamente offerti dalle parole. L’intenzione comune ci permette di sciogliere la polisemia e di identificare il sottocodice linguistico, di cui le parole si sono servite. Sottocodice definibile in base ad uno od altro criterio geografico-territoriale; sociale; funzionale. Appartengono al sottocodice funzionale i sensi, che le unità foniche ricevono in comunità di affari, mercati di servizi o di altri beni, cerchie tecniche e scientifiche. Si tratta di linguaggi o gerghi settoriali, che assegnano alle singole parole un senso, diverso dal senso della lingua generale. Il problema della polisemia domina la disciplina dell’interpretazione: art 1368 ha riguardo alle “clausole ambigue”: l’art 1369 alle “espressioni con più sensi”. Questi e altri criteri intervengono quando l’indagine sulla comune intenzione mostra di non poter sciogliere la polisemia. Mediante l’accertamento degli scopi condivisi si scioglie la polisemia e si determina il senso del testo verbale. Esaminiamo ora il caso che la comune intenzione urti contro il senso primario e che tuttavia le parole siano provviste di un solo ed esclusivo significato. Qui il risultato dell’indagine è antiletterale, ma le parole sono strette dal vincolo della monosemia. Messa in disparte l’ipotesi dell’errore, il problema sta nella prevalenza della comune intenzione o dell’unico senso delle parole. La prevalenza della prima richiederebbe che l’art 1362 da un lato risolva il contratto nel comportamento complessivo; dall’altro subordini il senso delle parole alla comune intenzione delle parti. Ma l’art 1362 obbedisce a una logica diversa: di distribuire il contegno delle parti in 3 segmenti, distinguendo l’anteriore ed il posteriore alla conclusione del contratto; di valutare il contegno del primo e del terzo, al fine di trarre la comune intenzione; di mettere quest’ultima a confronto con il senso letterale delle parole. Il dovere di non limitarsi al senso letterale delle parole non esclude il dovere di interpretare il testo verbale, ossia il dovere di garantire la compatibilità fra comune intenzione e senso delle parole. In caso di polisemia l’intenzione comune svolge una funzione selettiva e circoscrive nella molteplicità dei sensi oggettivamente possibili il senso utilizzato dalle parti. in caso di monosemia, se l’intenzione comune urta nel senso delle parole, quest’ultimo ha da prevalere poiché è il senso dell’accordo contrattuale. Qui, non il senso letterale delle parole, ma l’unico senso, prevale sulla comune intenzione. Nel caso di monosemia, il senso c’è; e ad esso deve piegarsi la comune intenzione delle parti, poiché i verba furono da costoro consapevolmente e volontariamente adoperati. Un grande studioso germanico, Bernard Windscheid, insegna che, se il senso letterale non è sicuro, il vero senso della dichiarazione deve trovarsi, tenendo conto “specialmente del complesso delle circostanze, nelle quali è stato concluso il negozio giuridico”; e che quei mezzi “autorizzano pure, quando il senso letterale è certo, a far valere in opposizione ad esso la vera volontà dei dichiaranti”. Proviamo a replicare che questa vera volontà o si è fissata in accordi, che costituiscono il contratto, o degrada a comune intenzione, esterna al contenuto del contratto. Il senso letterale è sempre un limite da oltrepassare per l’indagine della comune intenzione; ma un limite, entro il quale si ritorna, allorché la comune intenzione si infrange contro l’unico ed esclusivo senso delle parole. Nei rari casi di monosemia l’indagine sulla comune intenzione finisce per rivelarsi inutile, poiché essa sarebbe destinata ad infrangersi contro il solo significato, che la parola riceve nel codice linguistico. Né al riguardo potrebbe diseppellirsi il ditterio dell’”in claris” con quel che segue, poiché l’unico senso è sempre da accertare mediante la consultazione del codice linguistico; e qui non l’unicità deriva dalla chiarezza, ma questa discende da quella. Il processo interpretativo non è lineare, sicché muova dal senso letterale alla comune intenzione e da questa vada oltre, ma circolare: esso trascorre dal senso letterale alla comune intenzione e da questa ritorna al senso letterale. In caso di discordanza, l’interprete, utilizzando la comune intenzione, scrutina e consulta gli altri significati oggettivamente attribuiti alla parola. La comune intenzione, scopertasi difforme dal senso primario, risveglia tutte le risorse espressive della parola, la quale viene interrogata e scava fino al limite esterno. Questo confine è segnato dalla storicità di una dotazione linguistica e si fa garante della reciproca intelligibilità dei parlanti. Nella funzione selettiva la comune intenzione trova l’ausilio del contesto verbale, cioè delle giunture grammaticali e sintattiche in cui la parola è inserita. Cap IV Siamo venuti accertando un variabile grado di resistenza, che il senso delle parole oppone alla comune intenzione delle parti. Debole, nel caso di polisemia, perché la comune intenzione serve a scegliere e circoscrivere uno dei sensi oggettivamente possibili; forte, nel caso di monosemia, quando la comune intenzione cede all’unico senso delle parole. È sovente interesse delle parti che il grado di resistenza sia insuperabile, e che il senso delle parole non venga minacciato dalla comune intenzione. Risultato che esse provano a raggiungere con triplice tecnica: a. Esclusione convenzionale della polisemia: le parti provvedono, esse stesse, a scegliere uno dei sensi, di cui la parola è dotata. Scegliendo uno dei sensi possibili e dunque risolvendo la polisemia in monosemia, le parti irrigidiscono il testo verbale e lo oppongono alla comune intenzione, che per avventura sia discordante da esso. Può accedere che le parti, o nel testo dell’accordo o in sede esterna (ed in tempo anteriore o posteriore alla conclusione del contratto), enuncino gli scopi divisati e le aspettativi insieme nutrite questa enunciazione non preclude all’interprete di allargare l’indagine a tutti i contegni, tenuti dalle parti, dai quali, secondo l’art 1362, va appunto ricavata la comune intenzione. La determinazione di essa è uno strumento dell’attività interpretativa, quale è prevista e disciplinata dalla legge. le parti possono proteggere il testo attraverso vincoli di significato, non già sostituendosi all’interprete nella determinazione della comune intenzione. Le dichiarazioni enunciative (lettere di intenti, premesse programmatiche…) rientrano nel comportamento complessivo delle parti, cioè nel materiale utilizzabile per fissare la comune intenzione. Esse non escludono, ma piuttosto sono incluse nel totale agire delle parti. Nella riduzione della polisemia a monosemia, non si ha costruzione di una lingua artificiale, ma solo fissazione di uno dei sensi socialmente possibili. b. Ridefinizione del senso: le parti attribuiscono ad un segno, già appartenente ad un codice linguistico, un senso diverso e affatto convenzionale. Qui la convenzione non riguarda la scelta tra sensi possibili, ma l’attribuzione di senso ad un segno, che di altro senso è già dotato. Poiché la relazione tra significante e significato ha carattere arbitrario e non naturale o necessario, le parti possono sciogliere il nesso, istituito dal codice generale, e ristabilirlo in altro modo. Il fenomeno presenta una duplicità di piani: l’uno, esterno, in cui la parola permane nel senso codificato; l’altro, interno, in cui la parola assume il senso convenzionale. Fenomeno, che il giurista conosce come simulazione del contratto: il testo verbale riceve una doppia lettura, svolta o in base al codice linguistico generale (comune ai terzi) o alla convenzione intercorsa tra le parti. A ben vedere, il linguaggio simulato, comportando la sostituzione del senso convenzionale al senso di codice (cd senso normativo o istituzionale), non Tornando al tema della nostra indagine e riconosciuto che l'articolo 1362 si applica in linea analogica anche ai contratti conclusi senza parole, è necessario osservare il rapporto tra comune intenzione e significato, ricavabile dai simboli convenzionali o naturali diversi dalla parola. Se la convenzione d'uso permette una pluralità di sensi allora la comune intenzione svolge la consueta funzione selettiva: serve a scegliere uno dei sensi possibili. Monosemia o polisemia dipendono dal grado di rigidità della convenzione. Nel caso di segni naturali, la polisemia concerne le illazioni ricavabili dall’atto o dagli atti compiuti. Entro la pluralità di illazioni, resa possibile dalla scarsa rigidità delle regole di convinzione o dall’incertezza degli atti compiuti, opera utilmente la comune intenzione delle parti. A ben vedere la funzione selettiva assume caratteristiche diverse: trattandosi di segni convenzionali, essa si svolge non tanto sui significati, quanto sull’accordo stipulato per l'uso dei segni; trattandosi di segni naturali essa tocca soprattutto la capacità conclusiva dell’atto o degli atti compiuti ossia la loro utilizzabilità per argomentare una certa decisione delle parti. La scansione temporale disegnata dall’art 1362 cc esige non solo che le parti concludano il contratto ma che esse vengano nl rapporto nella fase anteriore e posteriore e che il loro contegno lasci ricostruire un'intenzione comune ad entrambe. L'esperienza di questo tempo ci offre fenomeni di radicale diversità: folle di consumatori acquistano beni nei grandi magazzini e nei centri commerciali. L’acquirente è ignoto al venditore: egli sceglie, raduna le merci preferite nel carrello, volge verso l'uscita: tutti i suoi gesti sono silenziosi, non usa parole e ha rapporto solo con le cose. Alla cassa le merci vengono scrutinate, calcolate; si determina il prezzo complessivo che viene subito pagato. La parola è risparmiata; il silenzio esalta il gesto ma non il gesto del singolo quanto piuttosto il gesto meccanico, anonimo e impersonale. Questi, denominati contratti di massa , presuppongono certamente la decisione di vendere e di acquistare. Il rapporto materiale con la cosa è al centro del fenomeno (almeno fino ad oggi perché sono già in uso e più largamente potrebbero diffondersi tecniche visive dove l’una parte fa vedere e l'altra sceglie tra le cose viste  quello che avviene ai nostri tempi con la vendita online). Riprendendo le parole di P.Grossi, “ in un mondo disordinato e socialmente insicuro, si assiste alla tendenza della compravendita a trasformarsi in un contratto reale e ad avvicinarsi allo schema della permuta con l'unica differenza secondaria che nella prima la cosa commutata consiste in una somma di denaro”. Si segnala la rigida tipizzazione dei comportamenti, ciascuno dei quali per le regole proprie del mercato ha solo un significato. Il mercato raccogliendo uno actu, le fasi della conclusione e dell’esecuzione del contratto, assegna ai gesti un significato incontestabile. Il grande magazzino non è il luogo del discorso ma dei gesti tipici e rituali, non delle parole ma degli atti in cui la decisione delle parti si esterna e si compie. La funzionalità del mercato riduce lo scambio alla sua primitiva e fisica realtà. Il grado di tipizzazione sociale è estremo; nessuno dubita ne può dubitare del significato dei comportamenti. La comune intenzione, posto che essa sia concepibile, è destinata a infrangersi davanti alla rigidità del significato tipico, alla funzionalità di gesti anonimi e ripetitivi. Questa funzionalità persegue lo scopo medesimo che la forma solenne svolgeva nell’economia agricola e nel primo capitalismo: di irrigidire i significati e così di proteggerli contro letture arbitrarie e impulsi soggettivi. L'interesse del mercato è di spersonalizzare i rapporti liberando gli scambi dalla comunicazione linguistica, riducendoli a proposta e scelta di cose. La compravendita dunque assume la fisionomia di uno scambio tra cosa e denaro. Il processo si concluderà nella pura scelta di merci offerte in concreta fisicità o in immagini visive. La compravendita si riduce in atto di scelta, solitario, puntuale come un punto e non un segmento immerso nella continuità e complessità dell’agire. Il regime giuridico del mercato è misura dell’autonomia delle parti e dunque della protezione accordata a scopi e interessi individuali. Cap VI Intenzione comune non significa comportamento comune (=tenuto insieme): gli scopi, condivisi da entrambe le parti e perciò comuni, sono ricavabili da contegno unilaterali o bilaterali, eguali o diversi, simultanei o successivi. questo contegno è detto dall’art 1362 “complessivo”, ossia valutabile nella continuità e molteplicità del suo svolgimento. Complessità de comportamento= pluralità e durata, un numero non determinabile di contegni. Il flusso dei comportamenti è valutato dall’interprete al fine di trarne l’intenzione delle parti: questa sì comune, poiché lo scopo è condiviso. La semplice conoscenza non rende comune lo scopo dell’altra parte. Il vocabolo “comportamento” abbraccia tutte le forme dell’agire (parlare, scrivere, contegni materiali, atti giuridici, ecc.). questo materiale è definito soggettivamente dalla qualità degli autori, cioè le parti del contratto.  criterio discretivo, che esclude i comportamenti tenuti da terzi nel proprio interesse, ed include i comportamenti tenuti da terzi nell’interesse delle parti. vin influiscono perciò comportamenti di procuratori e mandatari e di ogni altro soggetto che presti cooperazione nella fase anteriore o posteriore alla conclusione del contratto. Anteriori sono i contegni tenuti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, art 1337. Proposta e accettazione possono essere preceduti da discussioni, da scambi di idee fra le parti, da formulazioni di singole clausole e singole condizioni, da accordi parziali, da impegni preliminari. La comune intenzione, quale può trarsi dai contegni anteriori, sta prima e fuori dell’accordo: è comune intenzione, non ancora accordo. Nella fase anteriore, la comune intenzione si colloca fra i punti di vista individuali e l’accordo: segna un superamento dei primi e procede verso il secondo. Insomma, il comportamento anteriore è da valutare come preparatorio, come orientato a costruire l’accordo. Questo è il punto in cui gli scopi condivisi sono fissati in clausole del contratto e si fanno disciplina degli interessi in gioco. la conversione degli scopi in regole, delle attese comuni in parole dell’accordo, segna il passaggio dalle trattative al contratto. Le trattative diventano mezzo per l’interpretazione. Quando l’accordo è stato raggiunto, il contratto si presenta in un testo di parole. Nel farsi parola, scopi ed attese delle parti perdono singolarità e concretezza: essi entrano nell’orizzonte dei segni, ciascuno dei quali ha un senso oggettivo e costante. Perciò l’art 1362 restaura il legame di continuità e chiama l’interprete a confronto tra comune intenzione e uso letterale delle parole. La concretezza viene recuperata sotto specie di comune intenzione delle parti. Il contegno anteriore, mentre offre elementi utili per determinare la comune intenzione, non è in grado di svolgere una vera e propria funzione interpretativa: il testo dell'accordo sta dopo, e non prima, si che le parti possono bensì usare linguaggi convenzionali, o ridefinire parole del lessico ordinario, ma non interpretare un testo che ancora non c'è. la valutazione del contegno anteriore va orientata in senso prospettico ciò in vista dell'accordo futuro. l'accordo esaurisce questa fase, determinando il salto all’oggettività e letteralità della formula. la comune intenzione, ossia la condivisione degli scopi, sta oltre i punti di vista parziali e prima dell'accordo: dall' originaria parzialità all’accordo attraverso la comune intenzione. questo procede in avanti viene ripercorso all'indietro, quando l'interprete è chiamato il confronto tra comune intenzione e senso letterale: donde l'inversione dell’iter genetico nel processo interpretativo. il contratto non si esaurisce nel suo accadere, è solo una fase successiva perché introduce un criterio di giudizio del comportamento futuro. gli effetti non sono contegno dell'uomo ma pure vicende giuridiche: il costruire, regolare o estinguere un rapporto di carattere patrimoniale. queste vicende sono intangibili e di materiali ed esprimono la forza con cui l'accordo vincola le parti. quando la vicenda consiste nel costruire un rapporto, cioè una correlazione di diritto d’obbligo, allora il contratto attende di essere eseguito. l'effetto non è esecuzione, ma esecuzione postula l'effetto. eseguire è seguire fuori e design comportamenti nei quali si realizza un vincolo interiore. la esecuzione del contratto ex art 1375 implica una sequenza di due fasi: la prima prospetta o prescrive; la seconda attua e realizza. L’art 1362 Trova applicazione con riguardo al contratto preliminare e al contratto definitivo. ciascun contratto è sottoposto al trattamento interpretativo previsto dalla norma e ciascuno funge da contegno utilizzabile per l'intelligenza dell'altro. Il preliminare rientra fra i contegni anteriori alla conclusione del contratto definitivo; e questo nella categoria dei contratti posteriori alla conclusione del contratto preliminare. la comune intenzione diversa per ciascuno dei due contratti è però ricostruibile anche attraverso l'uno e l'altro di essi. Questi rilievi sono estensibili alle figure dei contratti tipo, dei contratti regolamentari e dei contratti normativi: dov'è oggetto di interpretazione o il contratto principale o i contratti particolari E l’uno giova a ricostruire la comune intenzione proprio dell'altro. il comportamento posteriore ex art 1362 co 2, non si identifica con il comportamento esecutivo. Possono darsi comportamenti posteriori non esecutivi: cioè privi di rilevanza solutoria, e tuttavia utilizzabili per la determinazione della comune intenzione. Nella fase delle trattative, l’agire delle parti è dominato dal punto di vista individuale dalla tutela di singoli interessi. l'accordo segna la fissazione di un criterio di giudizio, sotto il quale vengono ricondotti tutti i comportamenti delle parti. il criterio opera in duplice senso: controlla l'esecuzione del contratto; valuta per intero il contegno posteriore, al fine di trarne la comune intenzione delle parti. interpretare ed eseguire non si collocano in ordine di successione temporale. Tedeschi configura per ciascuna delle parti un onere di interpretazione al quale si collegherebbe il rischio di eseguire un contratto di contenuto diverso da quello legislativamente fissato attraverso le disposizioni in questione. ma codesto onere e privo di qualsiasi rilevanza giuridica: al diritto premi all'adempimento delle obbligazioni senza scrutare le ragioni interiori di una od altra decisione. L’interpretare dell'art 1362 è esterno al comportamento delle parti: un angolo di osservazione, dal quale si indaga il contegno complessivo dell'una e dell'altra ricavandone la comune intenzione. l'orizzonte interpretativo comprende anche l'esecuzione, ed utilizzi contegno con i quali le parti adempiono le obbligazioni assunte. la rilevanza interpretativa non coincide con la rilevanza esecutiva. Contegni, irrilevanti per l’adempimento delle obbligazioni, possono invece riuscire utili nel determinare la comune intenzione delle parti. poiché il contratto è ormai misura del comportamento delle parti, si sarebbe tentati di dire che tutti gli atti esecutivi- e massime come osserva Osti, gli atti compiuti dalla parte in proprio svantaggio; o gli atti compiuti proprio vantaggio, ma accettati dall’altra- racchiudono un’interpretazione autentica dell’accordo. il corollario ci sembra infondato. l'interpretazione autentica esige che le parti si pongano esplicitamente un problema di intelligibilità del contratto e mirino a chiarire il già detto o il già scritto. a tale atto si riannoda l'effetto che il Falzea denomina preclusivo. i contegni posteriori quindi possono derivare da un’interpretazione del contratto ma non costituiscono di per sè interpretazione autentica di esso. la tesi dell’Osti si studia di cogliere la diversa rilevanza delle due specie di contegni anteriori e posteriori. gli anteriori, poiché procedono da punti di vista parziali verso l'accordo, non postulano un criterio di valutazione già fermo e stipulato tra le parti: donde il carattere prospettico dinamico del giudizio ad essi relativo. i posteriori richiedono un giudizio di carattere sostanzialmente statico, dato che essi non convengono nell’accordo, ma provengono dal medesimo; non contribuiscono alla formazione del contratto, ma lo postulano formato e concluso. la diversità cronologica chiede all’interprete una diversità di attitudine valutativa: “valutare” e la parola usata dall’art 1362 proprio perché il contegno va apprezzato in funzione o di un contratto non ancora concluso o di un contratto già concluso. la conclusione del contratto non soltanto scandisce i tre tempi del fenomeno, ma orienta e guida la valutazione dei contegni. gli anteriori vogliono una considerazione dinamica poiché essi muovono verso l'accordo, cioè verso la fissazione del testo linguistico; i posteriori, una considerazione statica, poiché l'accordo c'è già e l'intera fase è dominata dal profilo dell’esecuzione e quindi dalla conformità o difformità rispetto al testo. speciale attenzione va riservata all’ipotesi in cui la decisione di una parte si esterni mediante parole e la decisione dell'altra per contegni concludenti. l'accordo si raggiunge tra decisioni esteriormente eterogenee. Es: la decisione di vendere un bene mobile viene esternata mediante parole (con proposta scritta); la decisione di acquistare invece argomentata da un contegno della parte. L'interprete è chiamato ad una duplice funzione: in primo luogo ad accertare la coerenza della illazione; in secondo luogo ad applicare l’art 1362 utilizzando contegno anteriori e posteriori diverso da quello formativo del contratto. altro e il problema dell'efficacia significativa attribuibile al contegno; altro il problema di interpretazione dell'accordo così accertato. il fenomeno assume caratteristiche più ardue nell’art 1327: “Qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell'affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l'esecuzione. L'accettante deve dare prontamente avviso all'altra parte della iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno”. La proposta non attendo risposta ma solo esecuzione della prestazione: questo rapporto stabilito o da richiesta del proponente o dalla natura dell’affare o dagli usi. la proposta trova tuttavia risposta nella stessa esecuzione. non siamo dinanzi ad una proposta senza risposta: la risposta non è preventiva ma c'è. L’art 1327 si limita a risolvere il problema del luogo e del tempo di conclusione del contratto. le tre fonti introducono fra le parti un codice di significati, e conferiscono all’esecuzione il valore espressivo dell’accettazione. le parti comunicano attraverso i significati che le tre fonti codice attribuiscono al comportamento esecutivo. bisogna distinguere ordine cronologico ed ordine logico: nella dimensione del tempo c'è solo il contegno, tenuto dal destinatario della proposta: sul terreno giuridico questo contegno da un lato esprime il senso stabilito nel codice e dall'altro esegue il contegno così concluso. è annullata la separazione cronologica: rimane la sequenza logica. la teoria di “negozio di attuazione”, cioè di negozio in cui la volontà non è l’invalidità delle deliberazioni difformi. Altro è il potere deferito al privato; altro, l’interpretazione dell’atto, con cui il privato esercita tale potere. l’identità delle conseguenze (invalidità della deliberazione) non elide la diversità delle fonti, legali o convenzionali, da cui sono stabiliti i singoli oneri di forma e contenuto. Ne si oppone l’oggettivarsi degli interessi dei soci, poiché sempre, quando le parti trascorrono dagli originari punti di vista e giungono concordi ad un testo linguistico, si ha un oggettivarsi, una fissazione esterna delle intese raggiunte. Non giova, infine, di distinguere tra i commi dell’art 1362 i quali sono inscindibili, e stanno o cadono insieme: la valutazione del contegno complessivo è prevista al fine di determinare la comune intenzione; è questa determinazione, al fine di raffrontarla con il senso letterale delle parole. Diversa, infine, l’interpretazione dei contratti, stipulati dalla società: ai quali va senza dubbio applicato l’art 1362, riguardandosi il contegno (anteriore e posteriore) tenuto dalla società e dall’altra parte, e desumendone la comune intenzione. Il punto fondamentale sta nella tutela dei terzi, cioè in un’esigenza generale, che emerge con peculiare vivezza sul terreno societario, ma che è comune ad ogni tipo e categoria di contratti. È perciò opportuno di considerarla in questo più largo orizzonte. Cap VIII il testo linguistico può rivelare un senso primario (quel senso in cui il 1362 vieta di rinchiudersi) ed una pluralità di ulteriori sensi, che alle medesime parole sono attribuiti da sottocodici geografici o professionali. La comune intenzione svolge una funzione selettiva entro la pluralità dei sensi possibili: essa individua il senso conforme agli scopi, condivisi e perseguiti dalle parti. questo è il lato interno del contratto. tra le parti vige il senso individuato, tra quelli oggettivamente possibili, mediante l’uso della comune intenzione. Ma qual è il senso nel lato esterno, allorché soggetti, diversi dalle parti ed estranei all’accordo, assumono decisioni in base al significato del contratto? sfruttando per intero la logica della simulazione, dobbiamo fermare il principio: che, dovunque si sia conflitto tra terzi e parti (gli uni, invocanti il senso primario delle parole; le altre, il senso prescelto in base alla comune intenzione) deve assegnarsi prevalenza al senso primario. Ne polisemia ne linguaggi convenzionali ne accordi interpretativi possono tornare in svantaggio di terzi, i quali confidano nella stabilità del senso letterale. sappiamo che il senso letterale non è un dato di natura, suscettivo di incontestabile ricognizione; e che codici e sottocodici possono ambire al più alto grado di oggettività o generalità. Giova tuttavia mettere questo significato, o questi significati, al riparo dalla comune intenzione, la quale è bensì in grado di scegliere il senso più conforme agli scopi perseguiti, ma spesso più lontano dal senso generalmente accettato. La disciplina della simulazione, rendendo inopponibile ai terzi l’accordo linguistico stipulato tra le parti, fa applicazione del principio generale qui ragionato: la convenzione sul senso delle parole, ancorché corrispondente agli scopi perseguiti dalle parti, cede dinanzi al senso letterale, conoscibile da soggetti estranei. Lo stesso principio di inopponibilità torna a regolare tutti i casi, in cui le parti contestino pretese di terzi in base alla comune intenzione ed i terzi le accampino in forza del senso primario delle parole. Il testo linguistico possiede una sorta d’impenetrabile oggettività, che la comune intenzione delle parti non può attraversare e che perciò garantisce la decisione e l’azione dei terzi. le parti, come produttori del testo, corrono il rischio che esso sia inteso nel senso letterale: cioè, disciolto dal contesto. la tutela dei terzi è tutela del codice linguistico, socialmente accettato e generalmente praticato. Questo codice alza un diaframma nei confronti della comune intenzione, la quale consentirebbe di scendere a sottocodici od a gerghi di settore, a linguaggi geograficamente o funzionalmente caratterizzati. La tutela dei terzi non p volta a garantire la mera conoscenza o conoscibilità dei testi linguistici (nel lor senso letterale), ma le situazioni giuridiche, acquisite sulla base di essi. Il fondamento della tutela risiede nel principio generale di sopra enunciato: la misura è circoscritta agli interessati che meritano difesa attraverso la letteralità del senso. Nulla perciò impedisce alle parti (in assenza di questi interessi) di far valere significati diversi da quello letterale, e così di rimuovere il rischio dell’oggettività linguistica. Ci chiediamo, infine, se i terzi possano attraversare il diaframma linguistico, e utilizzare, essi e non le parti, la comune intenzione, quale emerga dal contegno anteriore e posteriore al contratto. direi che il diaframma si innalza dall’un lato e dall’altro e che la comune intenzione non è opponibile ne dalle parti ai terzi ne dai terzi alle parti. questo principio conosce ipotesi derogatorie: nella prima direzione, quando difettino interessi di terzi meritevoli di protezione mediante l’oggettività del senso; nella seconda direzione, quando le parti abbiano fatto uso fraudolento o pregiudizievole del linguaggio, ed i terzi siano legittimati a scoprire il significato, da esse attribuite al testo. È dato, dunque, di fermare un criterio di massima: poter le parti superare l’oggettività del testo, quando non vi siano situazioni protette di terzi; poter i terzi far valere significati diversi dal letterale, quando vi siano loro situazioni protette. In un caso, l’inesistenza; nell’altro, l’esistenza di situazioni giuridiche di terzi; permettono di attraversare l’oggettività del codice linguistico. Forse è opportuno aggiungere qualche chiarimento. Se appena osserviamo il contegno delle parti, siamo in grado di distinguere la concorde adozione del testo contrattuale ed il complesso agire, che precede o segue quella conclusiva decisione. Orbene, quando nasca conflitto tra le parti (conflitto cd interno) circa il contenuto dell’accordo, il testo viene immesso nella continuità e complessità dell’agire. Si trascorre dal testo al contesto, dalle parole ai comportamenti: ‘art 1362 prescrive all’interprete di oltrepassare il senso letterale e di svolgerne il confronto con la comune intenzione. Potremmo mutuare da studiosi di altre discipline la nozione di contesto situazionale, cioè di insieme delle condizioni generali, delle caratteristiche culturali, delle situazioni singole che accompagnano un atto di lingua. Il testo non può essere sciolto dal contesto; le parole vengono considerate nella concretezza e determinatezza delle parti. Quando invece il conflitto si fa esterno, ed il contenuto dell’accordo cade in disputa con terzi, allora il testo riprende una rigorosa oggettività: distaccandosi dal contesto situazionale, esso si raccoglie tuto nel contesto verbale, cioè negli intimi legami di carattere grammaticale e sintattico. Si rifletta: le parti, appunto perché parti, hanno dialogato tra loro e negoziato e abbandonato o corretto originario punti di vista; e, infine, raggiungono l’accordo. il terzo è estraneo al dialogo; egli trova dinnanzi a se il testo delle parole, disciolto dal contengo anteriore e posteriore.  il terzo è messo di fronte all’oggettività delle parole. L’intenzione comune è comune alle parti; non può, per sua natura, farsi comune ad un terzo. Il conflitto interno può essere definito in base alla comune intenzione, quale si trae dalle fasi programmatiche. Il conflitto esterno si chiude nell’orizzonte verbale. Il primo esige il confronto fra testo e contesto situazionale; il secondo è stretto nel contesto verbale, nei nessi grammaticali e sintattici delle parole. Il principio di letteralità domina le relazioni esterne del testo: donde quella inopponibilità enunciata nel primo comma del 1415. Il contesto situazionale, usato dalle parti contro la lettera del testo, trova ostacolo negli interessi (giuridicamente tutelati) dei terzi; ma i terzi possono attraversare la lettera del testo quando il contesto situazionale pregiudichi i loro diritti. Il tema va concluso con un cenno ai profili dell’appartenenza e della buona fede. L’oggettività del testo, valevole nei confronti dei terzi e non confutabile in base alla comune intenzione (ossia, sulla scorta di illazioni, desumibili dal contegno anteriore e posteriore alla conclusione del contratto), non si collega ad un fenomeno di apparenza, ma piuttosto a ciò: che essa esonera il soggetto dall’accertamento della realtà giuridica dichiarata. Il terzo non ne può ne deve attraversare la letteralità delle parole, le quali porgono, nell’astratta tipicità dei significati, il contenuto dell’accordo. qui non c’è problema di divario o di contrasto fra appartenenza e realtà giuridica del terzo ed egli, salvo i vasi di pregiudizio cagionato per ‘uso fraudolento del linguaggio, non può ne deve spingersi oltre. l’impiego del linguaggio determina di per se una realtà, socialmente e giuridicamente rilevante, su cui il terzo confida e pe cui assume decisioni dell’agire. La intenzione delle parti non gli è comune, sicché il contegno di esse, anteriore e posteriore al contratto, non può fungere da materiale interpretativo e da selettore dei significati attribuibili alle parole. La disciplina della simulazione rannoda l’inoppobilità dell’accordo linguistico alla buona fede del terzo: onde, se questi conosce l’uso convenzionale delle parole, non può invocare la tutela fondata sulla letteralità. Ci domandiamo se sia ricavabile un principio generale applicabile anche alla comune intenzione. Il terzo che conosca il contegno tenuto dalle parti e ne desuma la comune intenzione può tuttavia proteggersi dietro lo schermo della letteralità? La costruzione di un principio generale incontra seri ostacoli: non si tratta, come nella simulazione, di conoscere un fatto unico e specifico (l’accordo sull’uso del linguaggio), ma di raccogliere e valutare il contegno complessivo delle parti, individuando gli scopi da esse condivisi e perseguiti. Al comune intenzione non è un fatto, ma il risultato di una valutazione argomentativa, che sale dall’accertamento dei contegni anteriori e posteriori al contratto. non sembra ne logico ne utile ipotizzare che il terzo (cioè l’estraneo) sia in grado di raccogliere gli elementi di fatto e di trarne al conoscenza della comune intenzione. Qui la letteralità raggiunge un assoluto primato: il terzo è esonerato da qualsiasi accertamento; ed il suo conoscere o non conoscere è privo di rilevanza. Le parti corrono per intero il rischio del testo che si giova del contesto verbale, ma non può prender luce dal contesto situazionale proprio ed esclusivo degli autori del contratto. Cap IX L'art 1362 disciplina interpretazione del contratto. A quali diversi atti esso è applicabile in linea diretta o analogica? (Il problema fu avvertito da Carnelutti con riguardo all'articolo 1131 del codice civile del 1865  Il giurista notava che “per le altre dichiarazioni di volontà manca la eadem ratio non esistendo altro caso in cui la intenzione del dichiarante debba essere nota in quanto gli sia comune al destinatario; neanche per gli accordi, posta la differenza formale esistente tra i due tipi di convenzione, ciò potrebbe essere ammesso”.) La ratio dell’articolo 1362 risiede nella dialettica tra comune intenzione delle parti e senso primario sicchè trasceso il confine della letteralità, l’intenzione giovi a scegliere uno dei sensi oggettivamente ascrivibili alle parole. Dove non c'è intenzione comune e confronto tra essa ed il senso letterale delle parole, non si dà nemmeno l'applicazione dell’articolo 1362 né in via diretta né in via analogica. Non basta la intenzione di una parte che sia nota all'altra ma occorre la intenzione comune desumibile dal contegno anteriore e successivo. È negata da Carnelutti l'applicazione gli accordi, diversi dai contratti perchè “ mentre nell’accordo le dichiarazioni singole hanno tutte un identico contenuto, così non è per gli atti singoli che vanno a comporre il contratto; i partecipanti all’accordo non i partecipanti al contratto dicono tutti la stessa cosa”. Contratti come ad esempio la donazione e la compravendita dove una parte di cedono o vendo e l'altra accetto o compro. Tuttavia Irti afferma che la concordanza di decisioni non esige necessariamente identità di parole, inoltre il nostro legislatore colloca i contratti all'interno del genere degli accordi: infatti ex art 1321 “il contratto è l'accordo …”. Inoltre anche nella figura carneluttiana degli accordi dove le parti usano le medesime parole, si rinnova la dialettica tra senso letterale di esse e comune intenzione; e gli accordi al pari dei contratti sono preceduti e seguiti da contegno dai quali l'interprete è in grado di desumere gli scopi condivisi dalle parti. A compromesso e clausola compromissoria risulta dunque applicabile l'articolo 1362. Quanto agli atti unilaterali, viene in rilievo il criterio di compatibilità enunciato dall’articolo 1324, ma qui la compatibilità è esclusa dalla bilateralità della comune intenzione: la quale è comune alle parti e perciò desumibile dal contegno complessivo da loro tenuto. L’articolo 1362 non regola il rapporto tra intenzione e senso letterale delle parole ma tra comune intenzione e testo linguistico. La funzione del criterio di compatibilità non sta nel ridurre la comune intenzione ad intenzione unilaterale sicchè sia questa a scegliere tra i sensi ascrivibili alle parole, ma nell’escludere il rapporto tra intenzione e testo linguistico restaurando la assoluta oggettività dei significati. Ad esempio, dato il conflitto tra terzo, il quale fondi la pretesa sul senso letterale dell’atto e autore del medesimo invocante invece la propria discorde intenzione, la prevalenza va attribuita al senso letterale; se non si da conflitto, l'autore dell'atto che voglia ridurre o prevenire il rischio delle parole usate è in grado di aggiungere e chiarire e correggere. A ben vedere in questo caso non sia un conflitto interno o esterno ma solo conflitto esterno ossia dissenso sui significati tra l'autore dell'atto e un altro soggetto, in particolare il terzo come soggetto diverso dall'autore dell’atto. Il conflitto non può definirsi in base all’intenzione unilaterale dell’autore poiché l'atto circola nella sua nuda oggettività e come tale promuove e determina decisioni altrui. Solo l'intenzione comune sarebbe in grado di rompere la durezza dell’oggettività appunto perché comune alle parti dell'accordo. L’atto unilaterale non può giovarsi del contesto situazionale ma esclusivamente del contesto verbale cioè delle risorse interpretative offerte dai nessi grammaticali e sintattici. Questi risultati reggono anche sul terreno degli atti unilaterali recettizi; la recezione come atto percettivo non è elemento di un accordo e dunque non tocca la inapplicabilità dell'articolo 1362. Può accadere che autore e destinatario dell'atto mostrino in tempo posteriore al compimento di esso, una comune intenzione; questa non costituirà criterio di interpretazione dell'atto ma spiegherà solo efficacia preclusiva impedendo all’uno e all'altro soggetto di fare valere una difforme lettura del testo. Dal contegno successivo potrà desumersi un accertamento del rapporto, non una comune intenzione utilizzabile nell’interpretazione dell’atto. Facciamo riferimento all'articolo 1414 co 3 che rende applicabile la disciplina della simulazione “agli atti unilaterali destinati a una persona determinata che siano simulati per accordo tra il dichiarante e il destinatario”  la norma allarga la simulazione ad atti unilaterali che in osservanza dell’articolo 1324 e del criterio di compatibilità, ne sarebbero del tutto estranei. Il risultato non ottenibile per il tramite dell’articolo 1324 è raggiunto con specifica disposizione di legge. L’art 1414 co 3 non configura una comune intenzione che sia rintracciabile chiamata al pari della comune intenzione delle parti a sciogliere i casi di polisemia cioè a superare l'ambiguità delle parole. Mentre l’intenzione delle parti si esercita su tutte le parole usate nel testo contrattuale, l’intenzione del legislatore incontra il limite della proprietà dei significati. le intenzioni del legislatore non ha la ampiezza applicativa della comune intenzione delle parti poiché ad essa resiste la proprietà dei vocaboli usati. la proprietà riduce l'uso dell'intenzione legislativa. interpretazione del contratto ed interpretazione della legge sono dunque più vicine ed affini di quanto appaia: in ambedue il criterio di scopo è deputato a selezionare i sensi oggettivamente possibili; nella seconda e non nella prima, esso urta nella proprietà di significati anche le parole già desumono dal semplice con testo verbale. la letteralità è più cedevole della proprietà di senso. la proprietà irrigidisce il testo. l'interpretazione della legge ha di comune con l'interpretazione del contratto il servizio selettivo reso dall’intenzione; ma si separa in ciò che le intenzioni del legislatore trova l’insuperabile limite della proprietà di significati. L’intenzione svolge la funzione di controllo di scelta. ma dove le parole della legge siano dotate di un significato proprio implicito in esse o ricavato dal contesto verbale allora il intenzione deve arrestarsi. nell’interpretazione della legge trovano perciò applicazione i principi di ultra letteralità e di complessità posto che il intenzione al fine di illuminare il senso delle parole non può trarsi da esse ma da fonti extra testuali come lo sviluppo storico politico ed i lavori preparatori. la tecnica del significato irrigidisce e rafforza il testo della legge. dove il intenzione delle parti è raffigurata come un fatto del passato l’intenzione del legislatore è un fatto presente: don del carattere evolutivo o progressivo di questa rispetto a quella. l'interprete vede l'intenzione delle parti in una sorta di tempo storico già definito ed esaurito. L’intenzione del legislatore come scopo risultante dell’intero sistema e perciò legate ad elementi senza sosta variabili, si determina nell’attualità nel tempo presente nell’interpretazione. questa interpretatio ex nunc; interpretatio ex tunc quella. Cap X Art 1362 Confine che l'interprete deve oltrepassare e nel quale lei deve pure tornare. egli deve andare oltre il senso primario delle parole ma non oltre le parole. le parole sono e rimangono l'oggetto da interpretare l'orizzonte entro il quale va accertato il contenuto dell'accordo. tutte le risorse conoscitive tutti gli strumenti di indagine sono mobilitati in funzione della parola che si staglia al centro del contratto o della legge. la parola racchiude il contenuto dell'accordo e lo discopre sempre che sia interrogata con le tecniche, suggerite dall’esperienza o prescritte dal legislatore. Gli art 12 e 1364 esaltano il primato della parola, del diritto come verbum, a servizio del quale sono messe le giunture sintattiche, le connessioni di clausole o di norme, le indagini sull’intenzione delle parti e del legislatore. La parola può avere un suo senso letterale o un significato proprio. c’è una visibilità sociale delle parole, un loro appartenente ad una dotazione comune dalla quale attingono i singoli fruitori. Gli art 12 e 1362 non pure esaltano il primato delle parole, ma le conferiscono un’oggettività di significati. Le parole hanno per sé sensi letterali e non letterali, significati propri e impropri e metaforici e figurati e poetici. Una pluralità di contenuti, rientranti in codici generali o particolari. Essa costituisce il deposito storico di una comunità, il risultato di atti individuali e collettivi, di usi volgari e letterari, di un’esperienza che partecipa e si consolida nell’oggettività della lingua. A quel modo che le leggi, prima dettate da occasioni effimere o da circostanze eccezionali, si reiterano e rinvigoriscono, fino a organarsi nei TU o nei codici; al pari degli atti giuridici che mossi da interessi e bisogni dei singoli si espandono e diffondono, fissandosi poi nella tipicità di schemi e modelli; cosi l’esprimersi degli individui nella varietà degli scambi e commerci sociali, s’innalza all’oggettività della lingua. I nostri pensieri e sentimenti sono individuali: ma noi non possiamo intenderli se non quando e in quanto essi si traducono in schemi che sono parole. Gli art 12 e 1362 studiosi di stabilire l’ordine delle azioni utilizzano la dotazione oggettiva di segni linguistici. Esse si lasciano governare dalla lingua. Il senso letterale è considerato in sé ma privo di qualsiasi riferimento all’autore o agli autori del testo. L’istituzionalizzazione della lingua enunciata e professata da Nencioni fin dal 1946: la lingua come legalità oggettiva e sistematica che valuta e regola il parlare concreto. Quando diciamo lingua ci riferiamo a “quella rete di rapporti, di leggi, di valori, funzioni che rappresentano l’istituzione nel suo piegarsi alle esigenze spirituali di un determinato soggetto. il carattere istituzionale implica quella generalità, ossia quella oggettività che non si ritrova mai nell’espressione concreta, identica solo a se stessa come puntualizzazione soggettiva del sistema”. In tale considerazione ritroviamo la logica dell’art 1362: la dialettica tra oggettività della lingua e concretezza del singolo atto espressivo. Quando l’art 1362 si riferisce al senso letterale; o quando altre norme vincolano l’interprete al testo linguistico; o quando soggetti, estranei all’accordo, ne invocano il tenore; in tutti questi casi, le parole sono assunte nella loro oggettiva legalità, nei loro significati tipici ed istituzionali. Dove l’intenzione non sia chiamata a scegliere tra i sensi della parola, questa rimane chiusa nel giro verbale. Fuori da quelle ipotesi, il mondo del diritto si costruisce e svolge intorno all’istituzionalità dei significati, poiché gli uomini, attraverso di essi parlano e s’intendono. Nell’esprimersi il singolo assume il rischio della parola, il rischio che essa circoli carica di significati oggettivi, non più manovrabili né correggibile dal dichiarante. Il diritto esige dal singolo il sacrificio di sé, della sua propria unicità espressiva. Tutto questo si nota per ribadire che le proposizioni linguistiche hanno il loro proprio significato anche al di fuori di ogni riferimento alla persona del dichiarante; e che, dunque, l’indagine sull’intenzione, quale può desumersi dal contegno dell’autore o degli autori, non sarebbe necessaria all’attività interpretativa. Il primato dell’oggettività assegna all’intenzione l’ufficio di scegliere uno tra i sensi possibili: il senso che risulti concordante con lo scopo perseguito dalle parti. questo ufficio viene di volta in volta delegato all’intenzione; è escluso per gli atti unilaterali e nei rapporti con i terzi; è respinto dalla proprietà di significati di cui siano dotate le parole della legge. L’individualità dell’atto linguistico, cioè il concreto uso delle parole depositate nella memoria collettiva si fa valere sotto specie di intenzione del dichiarante. Un’intenzione che l’interprete ricostruisce con fatti visibili e oggettivi, con quel materiale extratestuale offerto nell’art 12 dallo sviluppo storico-politico, e nell’art 1362 dal contegno complessivo delle parti. Le parti, così nelle trattative come nell’adozione conclusiva del testo linguistico, parlano tra oro, ed esercitano la capacità di espressione entro i moduli, ereditati dalla tradizione storica e ricevuti in una data cerchi di fruitori. A meno che non provvedano a ridefinire le singole parole, o addirittura costruiscano un linguaggio convenzionale, la libertà espressiva si svolge entro le funzioni proprie di una lingua: è libertà possibile entro una forma. Il singolo atto linguistico non sovverte ne altera i significati, ma li adegua e congiunge alla concretezza di ciascun rapporto. Orbene, questa sintesi (onde l’oggettiva lingua si fa concreta espressione di uno od altro oggetto) chiede all’interprete di slargare l’orizzonte dalla parola all’unità della frase e del testo, e poi alla situazione complessiva dei dichiaranti. Quando la legge autorizza l’interprete a oltrepassare il confine del senso primario, di quel senso grammaticale da tutti visibile e percepibile, essa vuole che il significato della parola sia individuato in base al contesto situazionale; vuole, cioè, che sia ripercorso l’esercizio della libertà entro le funzioni espressive della lingua. Qui si coglie l’ardua e suprema mediazione, che il diritto si studia di svolgere tra l’oggettività del testo, garante della fiducia dei terzi e dell’ordine sociale, e la soggettività dei dichiaranti. La concretezza dell’atto è tuttavia ritrovata in forza di indici esteriori e riconoscibili: non introspezioni su segreti proposti e stati d’animo, ma ricognizione e valutazione di contegni (anteriori e posteriori al contratto). la comune intenzione rivela l’uso dei segni offerti dal sistema, la maniera in cui le parti hanno manovrato le sue risorse funzionali. La comune intenzione non si muove, perciò, fuori dal sistema ne contro i significati potenziali delle parole usate. Come il singolo atto espressivo soggiace alla legalità della lingua, così l’intenzione agisce all’interno di essa, giovando a determinare il significato prescelto dalle parti. il senso primario è uno tra i significati, che la parla riceve nel sistema linguistico: senso grammaticale, a cui si affiancano, con minor grado di visibilità sociale, sensi di sottocodici o di gerghi settoriali. Orbene, le ulteriori risorse (ulteriori rispetto al senso primario) non verrebbero in gioco, se l’art 1362 non vietasse di limitarsi al senso letterale e non slargasse l’indagine della comune intenzione, deputandola a scegliere entro quella latitudine di significati. Del pari, l’intenzione del legislatore non è chiamata a sovvertire i potenziali significati, assegnabili alle parole dalla legge, ma a selezionare tra di essi il significato conforme allo scopo. Funzione, che essa non può tuttavia adempiere contro il significato proprio delle parole: la letteralità primaria di senso è superabile in base alla conforme intenzione delle parti; la proprietà di senso resiste all’intenzione del legislatore. La latitudine espressiva delle parole, entro la quale può muoversi l’indagine sull’intenzione del legislatore, è circoscritta e ridotta dai significati propri. Gli art 1362 e 12, al fine di congiungere l’oggettività della lingua e l’individualità dei locutori, ricorrono all’intenzione (concreta e particolare) per selezionare i significati possibili e scegliere quello conforme allo scopo perseguito. L’individualità è propria dei contegni, da cui l’interprete argomenta gli scopi delle parti: essa viene posta a confronto con le funzioni espressive della parola, ed allora o se ne disvia totalmente, ed apparirà vana e inutilizzabile, o si muoverà entro l’orizzonte semantico del testo e potrà così isolare il significato conforme allo scopo. La soggettività dell’intenzione si dispiega entro i significati, che la parola riceve nel sistema linguistico; non può ne sovvertirli ne rovesciarli. Siamo giunti alla relazione tra soggettività ed oggettività della lingua. Da un lato, i contegni di soggetti determinati, dai quali l’interprete ricava la comune intenzione; la legalità della lingua, dall’altro, che valuta e regola l’atto dei parlanti in che modo entrano in contatto questi termini? Come è possibile non far sacrificio ne dell’oggettività alla cui garanzia si affidano i terzi e l’ordine sociale, ne della soggettività, cioè della concreta situazione dei parlanti? L’art 1362, rifiutando le soluzioni estreme (o l’intangibilità del senso primario e la prevalenza della comune intenzione), percorre una linea mediatrice: la comune intenzione non è in grado di sovvertire o di sostituire i potenziali significati della parola, ma può andar oltre il senso primario, aggirarlo, per dir così, e scandagliare tutte le risorse espressive della lingua. Ricostruito e valutato il contegno delle parti, determinata la comune intenzione, l’interprete è fornito dello strumento tecnico per tornare al testo linguistico. Egli è andato oltre, ma nel testo conclude il proprio cammino qui, come ormai sappiamo, si aprono varie ipotesi: - che il senso primario coincida con l’intenzione delle parti. questo indica che esse hanno utilizzato la funzione più visibile della parola; - che l’intenzione, trovandosi discorde dal senso primario, cerchi e scruti tra gli altri significati, e che si ricongiunga ad uno di essi: le parti hanno adottato una funzione meno visibile della parola; - che si riveli un’assoluta dissonanza tra la comune intenzione ed i significati della parola: allora l’indagine esterna, svolta sul contegno delle parti, si mostra del tutto infruttuosa; il testo si rinchiude in se stesso; e l’interprete può muoversi soltanto entro il cerchio verbale. Il testo non pu degradare nell’occasionalismo del pretesto. Esso va interpretato, non usato. Se il ricorso all’intenzione è precluso od inutile, rimane la totalità della frase e del contratto, ossia la relazione reciproca delle parole. Il dovere di non limitarsi al senso letterale delle parole diviene ora, dopo l’insuccesso della ricerca esterna, dovere di limitarsi ai potenziali significati, che la parola riceve nel sistema. ma come scegliere entro la pluralità di essi? Mancato l’ausilio della comune intenzione, rimane solo l’indagine interna; il testo deve fornirci il criterio di selezione e determinazione. Il principio di complessità non si applica qui al contegno delle parti, ma alle parole del testo. Le parole non sono veicoli vuoti, riempibili di qualsiasi materia e pronti a qualsiasi trasporto; ma valori saputi, depositati dalla storia nella memoria collettiva. Se così non fosse, mancherebbe la possibilità di un’intesa, poiché complesso fonico è esso stesso storicizzato, nel senso che, nel sistema di cui fa parte, non può distinguere se non quel dato sapere. Ciò costituisce la stabilità della lingua, la sua obiettività funzionale che consente a innumerevoli individui di esprimersi e di comprendersi. Dunque, quando l’interprete abbia invano consultato le risorse esterne (il contegno complessivo delle parti), o quando il risultato di tale ricerca si mostri discordante dai potenziali sensi della parola, egli non rimane dinanzi a semplici segni fonici o grafici, ma è sostenuto e guidato dall’oggettività della lingua. L’insuccesso dell’indagine, o anche l’inopponibilità dei suoi risultati nei confronti dei terzi, costringono l’interprete entro i confini verbali e lo spingono a interrogare solo la dotazione di sensi, che la storia ha depositati nelle parole. L’oggettività esalta il senso di responsabilità ed eccita l’avvedutezza del parlante. Questi sa che l’uso delle parole non è mai innocuo; e che qualsiasi testo linguistico reca in se il rischio dell’oggettività. E così s’illumina la logica dell’art 1362: si può bensì guardare oltre, ma per ritornare entro il testo. L’immagine del circolo accompagna da sempre il cammino dell’interprete, poiché il testo è, insieme, punto di partenza e punto d’arrivo. Quando l’interprete ritorna al testo, da cui mosso, ed è o sfornito della comune intenzione o in possesso d’una intenzione non utilizzabile, allora la parola, inserita nel giro unitario della frase e nel complesso dell’atto, sprigiona tutta la propria dotazione e porge alla scelta i significati storicamente fruibili. Mentre l’indagine sull’intenzione registra le varianti individuali, l’indagine testuale ricorre alla continuità dei significati oggettivi, di misure semantiche capaci di calcolare qualsiasi discorso. Qui si giunge al profilo della calcolabilità dei significati. Le decisioni giuridiche si determinano sempre rispetto a situazioni date, alle cose come sono prima della scelta. Il calcolo investe anche contratti, stipulati che la domanda fondata dalla parte sul senso letterale delle parole o sul semplice con testo verbale sia invece accolta in base all’indagine della comune intenzione; o invece respinta in forza dei criteri oggettivi. Dove vi sia concordanza delle parti nell’interpretazione del contratto o le parti procedono alla definizione convenzionale della lite, oh immettono nel processo ulteriori fatti che il giudice valuterà in funzione delle domande proposte. Le partì dunque o incidono sulla stessa potestà di giudicare sottraendole o limitandole la materia controversa, o introducono nel processo altri fatti i quali rimangono sottoposti alla valutazione del giudicante. Le parti hanno l'onere di provare il fatto dell’accordo e di proporre una lettura di esso; ma così non vincolano la lettura del terzo giudicante.] Riprendiamo due temi nei quali si registra un declino della comune intenzione: nei contratti di cospicua entità economica o di rilevanza industriale e finanziaria accade che le parti provvedono a definire le parole usate nel testo: un vocabolario del singolo accordo dove si sceglie e si fissa uno dei significati oggettivamente possibile. La scelta convenzionale del significato protegge il senso del testo contro ogni fattore esterno e dunque anche contro la comune intenzione. Le parti non lasciano all’interprete la possibilità né di scrutinare gli altri significati né di servirsi della comune intenzione ma lo vincolano il senso prescelto. L’esigenza di stabilità e di funzionale calcolabilità suggerisce di irrigidire il testo così che le parti quasi rappresentandosi ed anticipando le dispute sul significato provvedono a scegliere il senso proprio dell'accordo. Una “proprietà” che non discende dalla tradizione legislativa ma dal patto linguistico con cui le parti rinunciano alla fruizione di elementi esterni e vincolano di interprete il significato convenuto  fissano il significato proprio della parola. Lo sbarramento del significato proprio viene applicato dalle parti nei confronti dell' indagine soggettiva essendo precluso di valutare il contegno complessivo e di manovrare la comune intenzione contro il significato convenuto. Le parti non proteggono il senso primario ma quello tra i sensi possibili che con valutazione anticipata appare conforme agli scopi insieme perseguiti. Insomma, la proprietà di significato esprime una funzionalità tecnica che respinge ogni indagine sull’intenzione. Ove l'indagine fosse compiuta; e si giungesse ad accertare che l’intenzione comune è discordante dal significato pattizio, quest'ultimo dovrebbe prevalere perché le parti non hanno semplicemente usato la parola ma definitone anche il significato. A questo estremo di tecnica linguistica si affianca il fenomeno di contrazione espressiva: nel primo, le parti spingono l'esigenza di funzionalità fino al punto da definire il significato delle parole precludendo l'interprete e l'uso della comune intenzione; nel secondo, gli scambi assumono tale carattere di realità e di anonima e meccanica iterazione, da rendere impossibile o superflua qualsiasi indagine soggettiva. I contratti stipulati da folle di consumatori che non dialogano con l'altra parte e non adottano testi linguistici. Dunque l'interpretazione, disegnata dall’articolo 1362 con riguardo al discorso linguistico (la parola detta o scritta), qui si trova davanti alla fisicità dei gesti dotati di un senso oggettivo e incontrovertibile. Tutto si svolge attraverso contegni anonimi, relazioni tra soggetti e cose. Impossibile, da un lato identificare contegni delle due parti, dai quali sia ricavabile intenzione comune; inutile dell'altro poiché tutti i contegni sono impersonali e ricevono un senso dalla stessa funzionalità dello scambio. I due fenomeni apparentemente contrastanti si incontrano e si spiegano nella medesima logica di pervenire ad una funzionalità tecnica la quale rende inutile l'indagine soggettiva. Tuttavia, avvertiamo il carattere razionale ed artificiale di queste procedure volte a garantire la stabilità dei rapporti ed il funzionamento del mercato  la parola dunque nei due casi o si spersonalizza nella proprietà del significato uccide il silenzio del gesto. Produzione in serie e consumi di massa; rapporti tra imprenditori di paesi e tradizioni lontane; questi ed altri fattori esigono un’oggettività impersonale, una meccanica degli accordi, sottratta a qualsiasi rischio e protetta contro il vischioso ed instabile soggettivismo. L’economia del capitalismo, come osserva Max Weber, ha bisogno di “un diritto che si possa calcolare in modo simile a una macchina”, per cui la calcolabilità di significati che le parti hanno provveduto a definire e la calcolabilità di contegno anonimi e ripetitivi escludono per propria natura ogni indagine soggettiva. Dunque in categorie di rapporti apparentemente lontani (degli imprenditori tra loro; degli imprenditori con la massa dei consumatori) riveniamo tratti comuni e logico unitarie. Il fine sta sempre nel ridurre o sopprimere l'influenza di fattori esterni e soggettivi e nel consegnare le decisioni del singolo alla rigidità della parola o alla pura fisicità del gesto. Così si isolano parole e gesti dell’individualità delle parti. L’indagine sulla comune intenzione è destinata a congiungere le oggettività della lingua e la soggettività dei locutori ad utilizzare quest'ultima entro l'orizzonte semantico del testo. Ma la convenuta proprietà della parola o la sua sostituzione con il puro gesto tendono a sciogliere ogni legame con le individualità delle parti le quali ha adottato il testo o svolti i contegni, hanno consumato la loro libertà di decisione e di espressione e si trovano ormai nel vincolo dell’accaduto. Mentre l'indagine sull’intenzione riserva un superstite spazio alla libertà dei parlanti, ora, definito il senso proprio della parola o compiuto il semplice gesto, quella libertà è del tutto esaurita. Stanno da soli la convenuta proprietà della parola è l'oggettivo significato del gesto. Le notazioni svolte indicano la misura i modi del controllo nell’applicazione dell’articolo 1362 il quale stabilisce il dovere negativo di non limitarsi al senso primario delle parole e il dovere positivo di ricostruire la comune intenzione delle parti desumendola dal contegno complessivo e recandola poi al confronto con il senso primario e con gli altri sensi attribuiti al testo dell’accordo. Se la norma prescrivesse solo di accertare la comune intenzione e di farla prevalere sul senso delle parole, il controllo potrebbe esercitarsi: ci troveremo davanti ad un fatto determinato dall' interprete e incontestabile da qualsiasi giudizio esterno, ma l'articolo 1362 disegna un metodo, una procedura di interpretazione per la quale stabilisce materia di indagine i criteri di valutazione. Cade in errore dunque l'interprete che si attenga al senso primario estraniandolo dal confronto con le intenzioni delle parti. Cade in errore l'interprete che non raccolga e ricostruisca il contegno complessivo delle parti, anteriore e posteriore alla conclusione del contratto e non si studi di trarne risultati pratici, condivisi dagli autori dell’accordo. Cade in errore l'interprete che accertata la comune intenzione non la ponga al cospetto del senso primario e non misuri questo su quella; e non proceda nel caso di discordanza ad investigare i scrutinare i sensi ulteriori assegnati alle parole del testo. La funzione selettiva esige nell’interprete la coscienza di tutte le risorse espressive offerte dal testo. Coscienza che presuppone l’istituzionale stabilità della lingua, l’oggettività di significati raccolti nel patrimonio della comunità dal quale attingono di volta in volta i singoli parlanti. Infine, cade in errore l'interprete il quale ricostruita la comune intenzione , scandagliati i possibili significati delle parole e rinvenendole ancora dubbie ed ambigue, non trascorra agli altri metodi e tecniche di indagine previsti dalla legge. Si si tratta dunque di errori di fatto e di diritto: di fatto se concernono dati oggettivi (ad esempio l'identificazione e la scelta dei contegni delle parti; di diritto se riguardano le fasi e i criteri della procedura (ad esempio la violazione dei doveri negativo positivo o il rapporto tra la comune intenzione molteplici sensi della parola). Parliamo di errore nell’applicazione delle norme che regolano l'interpretazione dei contratti, sebbene questo profilo non possa né debba disgiungersi dalla disciplina dei contratti intorno cui di volta in volta si accende la lite delle parti le quali intanto denunciano l'errore nell’applicazione delle regole ermeneutiche in quanto prospettano una diversa ricostruzione del contratto e degli effetti che adesso si ricollegano. Questo è il punto percepito da Rocco dove scrive che “le regole dell'interpretazione dei negozi giuridici non sono che norme complementari di quelli che attribuiscono efficacia giuridica le dichiarazioni private di volontà”. Complementari di tutte le norme opposizioni di legge che concorrono nel delineare il contratto in generale e poi i singoli tipi di contratti. Il carattere ellittico del linguaggio legislativo nasconde dietro l'economia delle parole, la pluralità delle norme confluenti nella disciplina dei singoli contratti. La controversia interpretativa e sempre controversia sugli effetti che da una parte si vogliono ricollegare una certa fattispecie e che dall'altra vengono negati ed esclusi. [Vediamo il rapporto tra interpretazione del contratto e principio dispositivo. Il rapporto si svolge in due problemi: 1. se il giudice possa decidere la causa sulla base di un’interpretazione del contratto diversa da quella legata dalle parti; 2. se il giudice possa decidere la causa sulla base di un’interpretazione del contratto diversa da quella su cui le parti mostrano di concordare. Il Carresi dà una risposta negativa ad entrambe le domande, anche se la soluzione non sembra essere opportuna secondo Shlesinger. Tuttavia, non vi è nessun dubbio circa il vincolo delle decisioni giudiziarie alle domande di parte ed ai fatti allegati o provati. Ma nei casi in esame, non vengono in considerazione né domande proposte nei fatti allegati ma significati di parole: ovvero, come avverte Schelinger, contenuti espressivi che non sono altri fatti ma stanno dentro i fatti. Il giudice applica le norme sull’interpretazione e allo scopo si giova di tutti i fatti allegati e provati dalle parti le quali i mettendoli nel processo, li offrono come materiale utilizzabile dal decidente. Esse possono disporre dei fatti ma non del loro significato le cui procedure di accertamento sono previste dalla legge e controllabili da giudici superiori. Nulla dunque vieta che la domanda fondata dalla parte sul senso letterale delle parole o sul semplice con testo verbale sia invece accolta in base all’indagine della comune intenzione; o invece respinta in forza dei criteri oggettivi. Dove vi sia concordanza delle parti nell’interpretazione del contratto o le parti procedono alla definizione convenzionale della lite, oh immettono nel processo ulteriori fatti che il giudice valuterà in funzione delle domande proposte. Le partì dunque o incidono sulla stessa potestà di giudicare sottraendole o limitandole la materia controversa, o introducono nel processo altri fatti i quali rimangono sottoposti alla valutazione del giudicante. Le parti hanno l'onere di provare il fatto dell’accordo e di proporre una lettura di esso; ma così non vincolano la lettura del terzo giudicante.]
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