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Tfa Sostegno riassunti, Appunti di TFA Sostegno

Tfa Sostegno riassunti del manuale di preparazione

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 26/03/2020

jonnydeep77
jonnydeep77 🇮🇹

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Scarica Tfa Sostegno riassunti e più Appunti in PDF di TFA Sostegno solo su Docsity! lOMoAR cPSD|4605717 Riassunto Edises tfa sostegno Dalle scuole speciali all'inclusione degli alunni con disabilità (tutti i documenti e le azioni promosse dal governo per arrivare ad una vera inclusione, per es. Riforma Gentile, Documento Falcucci, legge 227 del 1975, legge 104 del 92, Legge Bassanini, POF lOMoAR cPSD|4605717 Concetto di BES Gruppi di lavoro per l'inclusione GLI, GLH, GLO, etc.. Programmazione, progetto di vita, Didattica dell'integrazione (Dewey, Montessori, etc..) Mediatori didattici Empatia ed intelligenza emotiva Psicologia dello sviluppo (Piaget, Vygotskij, I disturbi del linguaggio I disturbi della comunicazione Motivazione Gardner e le intelligenze multiple Goleman Teoria delle emozioni La formazione della personalità La definizione dell'identità (identità sessuale, Legame di attaccamento (Bowlby) I disturbi psichici Psicosi, psicoterapie Le principali teorie dello sviluppo (comportamentismo, condizionamento classico e operante - Pavlov e Skinner) Socializzazione e aggressività in età scolare Modelli educativi contemporanei Disturbi specifici dell'apprendimento Didattica individualizzata e personalizzata Compiti del docente e della famiglia Principali manuali diagnostici 1 lOMoAR cPSD|4605717 1. Il primo periodo riguarda l’antichità, in cui domina la necessità della sopravvivenza alimentare. Il più debole non trova una grande considerazione. 2. Il secondo periodo è caratterizzato dalla pietà cristiana. Il disabile viene tollerato ma vive ai margini della società vengono istituiti dei centri di raccolta per i minorati, gli abbandonati e i poveri. Per gli esposti o i derelitti, tra cui si trovavano probabilmente molti disabili, venero istituiti i “torni” e le “ruote” presso conventi e ospedali. 3. Il terzo periodo è caratterizzato da un approccio scientifico ai problemi dell’handicap considerato un accidente naturale e non una colpa individuale. Si passa dall’idea di uomo come puro spirito a quella di un essere come meccanismo vivente. In questo periodo si colloca il pensiero di Condillac. 4. Nel quarto periodo predomina l’aspetto economico. Alla fine del XIX secolo, sotto la spinta dello sviluppo scientifico e in particolare, di quello industriale e per la pressione della presa di coscienza della classe operaia , emerge con chiarezza che la possibilità di impiegare alcune tipologie di disabilità poteva essere utile all’economia di una società moderna. LA NASCITA DELLE SCUOLE SPECIALI IN ITALIA Le istituzioni più diffuse riguardavano soprattutto ciechi e sordomuti e solo successivamente vennero presi in considerazione i minorati psichici. La prima scuola per sordomuti fu fondata a Roma nel 1784. Un contributo molto importante ai problemi educativi dei sordomuti arrivò da Tommaso Pendola che riconobbe le loro capacità intellettuali e approfondì la tesi dell’oralismo. Pertanto venne istituita una scuola per la preparazione di insegnanti qualificati all’applicazione di tale metodo. La prima scuola per ciechi sorse a Napoli nel 1818. Il passaggio da un interesse curativo ad uno educativo e sociale nei confronti dei minorati psichici si sviluppò in maniera sistematica verso la fine dell’Ottocento con la creazione di istituti medico- pedagogici che si distaccarono dai manicomi per assumere una loro autonomia e valenza educativa – ad opera di studiosi come: Antonio Gonnelli Cioni che ricolse il suo metodo alla persona e non alla disabilità puntando sullo sviluppo delle capacità residue, valorizzando la vita di relazione e l’inserimento nella società. La sua opera rappresentò il primo momento di totale distacco dalle concezioni esclusivamente mediche. Un altro studioso da ricordare è Sante de Sanctis (1862-1935) che fondò a Roma nel 1935 il primo asilo-scuola. In De Sanctis si possono riconoscere i precursori dei moderni centri medico-psicopedagogici. Il problema delle minoranze psichiche veniva affrontato sotto diversi profili: psichiatrico, psicologico e sociale. Nel 1910 nacque la prima classe differenziale. A Maria Montessori si deve la prima applicazione dei principi pedagogici di interazione del soggetto con il suo ambiente e di sviluppo delle sue capacità attraverso l’aiuto e gli stimoli che il docente è in grado di offrire. La Montessori, ispirandosi ai metodi di Itard e Sèguin, destinati ai bambini con disturbo atipico, scoprì la loro applicabilità nell’educazione dei bambini senza difficoltà. In Italia, almeno fino al 1923, si lamenta la totale assenza dello Stato nel settore dell’educazione speciale. Lo Stato trascura, infatti, il problema dell’educazione dei minorati e lascia che di essi si occupino i privati e i Comuni. Infatti le prime scuole speciali in Italia sorsero grazie all’iniziativa di grandi comuni e non dello Stato. 4 lOMoAR cPSD|4605717 Il primo intervento dello Stato nei confronti dell’educazione speciale è la riforma Gentile del 1923 con la quale viene sancito l’obbligo scolastico per i ciechi e i sordomuti e vengono istituite scuole speciali e classi differenziali. La legislazione prevede anche la preparazione di insegnanti specializzati. Ci si inizia ad occupare, quindi, di ciechi e sordomuti, mentre si continuano ad escludere i bambini con anomalie psichiche. Si pensava, quindi, che solo alcuni minorati fossero “rieducabili”. I minorati fisici “gravi” e quelli “psichici” erano normalmente considerati “non rieducabili” o comunque “non scolarizzabili” neppure nelle scuole speciali. Con la costituzione del 1948 furono consolidate le istituzioni speciali e le relative scuole di metodo per gli insegnanti. Prima della Costituzione l’educazione degli anormali veniva affidata a tre tipi di scuola: classi differenziali, classi annesse e asilo-scuola, chiamato anche “scuola autonoma” o “scuola ausiliare”. In queste scuole vi erano dei principi di base: la possibilità di sviluppo intellettuale e morale degli anormali psichici; la curabilità delle malattie che causavano l’anormalità. Le classi differenziali avevano carattere provvisorio e servivano per permettere il recupero di quegli alunni “tardivi” che successivamente sarebbero stati accolti nelle classi “normali”. Nel caso in cui, invece, non vi fosse stata alcuna forma di recupero, gli stessi ragazzi passavano nelle “scuole autonome” e venivano classificati come “anormali psichici veri”. Con la Costituzione si riconosce pari dignità sociale a tutti i cittadini. Le disposizioni contenute in essa rappresentano il punto di partenza per la futura normativa a favore dell’integrazione scolastica e sociale dei disabili. La circolare del 4 gennaio 1962 definì le varie tipologie di classi differenziali: tardivi e falsi minorati psichici, minorati psichici, minorati fisici, ambliopi (alterazione della visione dello spazio), sordastri. Veniva inoltre stabilito che le suddette classi non potevano avere più di 15 alunni e che questi dovessero avere appositi programmi e orai d’insegnamento. Inoltre potevano avere un calendario speciale. L’anno successivo, il 1963, si avviarono alle scuole speciali anche alunni affetti da minoranze psichiche più gravi, mentre erano da avviare alle classi differenziali gli allievi con lievi anomalie del carattere o gli alunni scarsamente dotati, con un quoziente intellettivo di poco inferiore a quello normale. Si sosteneva l’importanza di una collaborazione costante tra le famiglie e le istituzioni speciali. Il decennio dal 1960 al 1970 è caratterizzato dall’aumento di classi differenziali e di scuole speciali. Questo rappresentò un punto critico nello sviluppo della scuola, spesso accusata di praticare forme di esclusione. Vi fu, infatti, un lento declino delle scuole speciali a partire dal 1974 per inserire gli alunni con disabilità nelle classi comuni. Con la legge n. 118/71 si chiedeva l’abolizione delle classi differenziali e di quelle speciali che si erano rivelate strumenti inefficaci in quanto portavano alla segregazione e al’alienazione e si chiedeva la parità dei diritti anche per i disabili. Negli anni Settanta, quindi, tante classi differenziali si convertirono in classi comuni e vennero impiegati insegnanti speciali in funzione di sostegno per gli studenti con disabilità. Il movimento del ’68 contribuì a creare un nuovo approccio nei confronti delle categorie deboli: non più oggetto di aiuto e assistenza di tipo umanitario, ma possibile risorsa della società. Tale idea 5 lOMoAR cPSD|4605717 si concretizza con la legge 118 del 1971 che è entrata nella scuola italiana come il primo riconoscimentogiuridicoufficialeafavoredell’inserimentodeisoggettidisabilinellescuole normali. Riconosce loro il diritto di frequentare la scuola dell’obbligo e varie provvidenze di tipo sociale, sanitario ed economico. Tale legge poneva, tuttavia, alcuni condizionamenti, quando faceva eccezione per i casi in cui i soggetti fossero affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche tali da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle classi normali. Il Documento Falcucci può essere considerato il primo studio sistematico sull’inserimento dei ragazzi con disabilità nelle scuole comuni dal quale trasse origine la legge n. 227 del 1975. Il punto saliente del D. Falcucci era il superamento della distinzione normale/anormale per evitare il pericolo di emarginazione. I portatori di handicap, secondo il documento, erano tutti quei “minori che in seguito a evento morboso o traumatico pre-peri-post natale presentano una menomazione delle proprie condizioni psichiche o fisiche che li mettono in difficoltà di apprendimento o relazione”. Per questo motivo la scuola avrebbe dovuto favorire i processi di socializzazione e il tempo peno venne ritenuto uno strumento utile in tal senso. La valutazione non doveva essere circoscritta la mero voto ma anche e soprattutto al livello di maturazione. Il Documento segnava la decisa presa di posizione verso l’integrazione della persona con disabilità. Veniva confermata la tendenza, già in atto, di abolire le classi differenziali per favorire il processo di inserimento nella scuola normale. Di particolare importanza si presentava la proposta di revisione dei programmi, ritenuti statici, da sostituire con la programmazione, in vista del raggiungimento di obiettivi personali e differenziati. Il Documento Falcucci sottolineava l’importanza dell’individualizzazione degli interventi didattici, di nuove attività integrative, della scoperta di nuovi linguaggi espressivi, del riconoscimento di un’intelligenza non soltanto logico – astrattiva ma anche senso-motoria e pratica. Le conseguenze operative più immediate del documento Falcucci furono l’istituzione di un ufficio speciale per i problemi degli alunni handicappati presso il Ministero e l’emanazione della circolare 227/1975 con la quale si adottava il principio della massima integrazione nelle classi normali per cui le scuole comuni dovevano essere rinnovate al massimo per accogliere tutti i discenti. Questo tentativo d’integrazione prevedeva che in ogni provincia uno o due gruppi di scuole disponessero di qualche aula in più per attività speciali, di una palestra o salone, di un apposito locale per il servizio medico e di sufficiente spazio all’aperto. Gli accessi agli edifici e alle aule non avrebbero dovuto presentare impedimenti per alunni con difficoltà. Uno dei provvedimenti più rilevanti per quanto concerne l’innovazione didattica e l’integrazione scolastica dei soggetti con disabilità è la legge n. 517/1977 che rappresenta l’atto legislativo più importante in materia. Questa legge abolisce le classi differenziali e stabilisce il diritto all’integrazione dei disabili in una classe normale aperta, composta da non più di 20 alunni con la presenza di un insegnante specializzato. La programmazione è vista come strumento flessibile che può comprendere attività scolastiche integrative. L’insegnante di sostegno viene introdotta nella scuola elementare e media. Nella scuola elementare venivano previste attività scolastiche integrative per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse. Nella scuola media veniva 6 lOMoAR cPSD|4605717 I BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI Ianes definisce il bisogno educativo speciale come “qualsiasi difficoltà evolutiva di funzionamento, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o apprenditivo, dovuta all’interazione dei vari fattori che necessita di educazione speciale individualizzata”. L’alunno speciale non è più soltanto quello in situazione di disabilità originata da deficienze fisiche e/o psichiche oggettivamente “certificabili” ma è anche l’alunno che, a causa di determinate situazioni familiari e ambientali, si trova in una posizione permanente o transitoria di bisogno e che di conseguenza necessita di interventi specifici o specialistici. La nozione di bisogno educativo speciale - scrivono Ianes e Cramerotti – si avvicina molto a quella di difficoltà di apprendimento, categoria diagnostica con la quale si fa riferimento a qualsiasi difficoltà riscontrata da uno studente durante la sua carriera scolastica e ricollegabile – come sostiene Cornoldi – ad un complesso variegato di cause individuali e contestuali. La didattica speciale interviene, perciò, là dove il percorso educativo è intralciato da difficoltà o resistenze specifiche causate da deficit personali oppure da condizioni di svantaggio sociale che impediscono o limitano i processi d’integrazione. La scuola, quindi, deve riorganizzarsi come sistema capace d’individuare i bisogni educativi speciali di tutti gli alunni, non solo di quelli disabili, per intervenire con azioni mirate a promuovere le capacità e lo sviluppo umano. Gli insegnanti, specialmente quelli di sostegno, devono dare un contributo che è fondamentale per il successo dell’intervento educativo speciale. Tutti hanno bisogni speciali ma non tutti hanno bisogni educativi speciali. Le persone posseggono risorse non solo espresse, ma anche potenziali e residue. Perciò non è mai opportuno assegnare certe “etichette” che possono introdurre distorsioni nella relazione educativa ma occorre piuttosto che si compia uno sforzo di comprensione per poi disegnare un percorso di crescita e accompagnamento. Per poter adeguatamente lavorare in questa direzione , il docente deve avere competenze e risorse altrettanto “speciali”: deve conoscere, cioè, le condizioni che generano difficoltà e i loro effetti sui normali processi di sviluppo. L’intervento educativo individualizzato, il lavoro scolastico, la famiglia e il raccordo tra tutte le risorse territoriali extra-scolastiche rappresentano i quattro ambiti operativi per una linea d’intervento valida per tutte quelle situazioni di disagio, di difficoltà o di bisogno educativo speciale che necessitano di percorsi di presa di carico più o meno duraturi o strutturati. Se il bisogno educativo speciale deriva da una difficoltà nell’apprendimento e/o nello sviluppo, connaturata ad un deficit specifico, la risposta educativa speciale deve mirare, secondo precisi protocolli, al superamento o all’aggiramento della difficoltà. Il fine è la promozione dell’individuo secondo le sue potenzialità interiori ed esteriori, per realizzarne la dignità, qualunque sia il tipo di disadattamento dal quale egli è colpito. L’intervento educativo non ha alcuna possibilità di successo se manca il dialogo tra scuola e famiglia. I programmi devono, inoltre, essere flessibili. Per guidare l’intervento, adattarlo alle eventuali sopravvivenze e verificarne i risultati, può essere utile la costruzione di mappe logico disposizioni, rappresentazioni grafiche che, partendo proprio dal riconoscimento di determinate carenze, permettono di programmare le azioni educative necessarie al raggiungimento di capacità e abilità funzionali all’interno di un contesto integrato. 9 lOMoAR cPSD|4605717 Classificazioni internazionali: Si passa dall’uso della parola Handicappato (I.C.I.D.H, 1980) all’uso del concetto di persona con disabilità (I.C.F. 2001). Da un modello medico si passa ad un modello sociale. Il piano educativo individualizzato (PEI) è il documento nel quale vengono descritti e integrati gli interventi predisposti per l’alunno con disabilità, in un determinato periodo di tempo, ai fini della realizzazione del diritto all’educazione e all’istruzione ai sensi dell’art. 12 della L. 104/1992. Il P.E.I. è redatto ogni anno , entro il secondo mese dell’anno scolastico, congiuntamente dagli operatori sanitari individuati dall’ASL e dal personale insegnante curriculare e di sostegno della scuola e, ove presente, con la partecipazione dell’insegnante operatore psico-pedagogico, in collaborazione con i genitori. Ed è verificato con scadenza trimestrale per cui può essere modificato in caso di nuove esigenze. I soggetti chiamati a definirne i contenuti propongono, ciascuno in base alla propria esperienza pedagogica, medico-scientifica e di contatto e sulla base dei dati derivanti dalla diagnosi funzionale e dal profilo dinamico funzionale, gli interventi necessari per la piena realizzazione del diritto all’educazione, all’istruzione e all’integrazione scolastica dell’alunno con disabilità, in relazione al deficit specifico da cui è affetto, alle difficoltà che gli impediscono una normale partecipazione alla vita sociale e alle potenzialità residue e disponibili. Il P.E.I. è tanto più funzionale quanto più vi è definito il ruolo dell’insegnante di sostegno, nei suoi rapporti con gli altri insegnanti di classe e di scuola, nella sua funzione di ‘mediatore della comunicazione’ tra tutti coloro chiamati a lavorare con l’alunno. La legge 104 del 1992, all’articolo 15, ha previsto due strumenti indispensabili per coinvolgere nel processo d’integrazione tutte le professionalità necessarie: il gruppo di lavoro provinciale per l’integrazione scolastica, situato presso ogni ufficio scolastico provinciale, e i gruppi di lavoro e di studio a livello dei singoli istituti scolastici. Il gruppo di lavoro provinciale dura in carica tre anni ed è composto da un ispettore tecnico nominato dal provveditorato agli studi, da un esperto della scuola, da due esperti designati dagli enti locali, due esperti delle unità sanitarie locali, tre esperti designati dalle associazioni delle persone handicappate maggiormente rappresentative a livello provinciale nominate dal provveditore agli studi sulla bas dei criteri indicati con decreto ministeriale. I gruppi di lavoro e di studio d’istituto, invece, sono composti da insegnanti, operatori dei servizi, familiari e studenti. Essi sono costituiti a cura del capo d’istituto, sentiti il consiglio d’istituto e il collegio dei docenti. Al gruppo di lavoro provinciale sono attribuiti compiti di consulenza e proposta al provveditore agli studi, di consulenza alle singole scuole, di collaborazione con gli enti locali e le Asl per la conclusione e la verifica dell’esecuzione degli accordi di programma previsti dalla stessa legge, per l’impostazione e l’attuazione dei piani educativi individualizzati, nonché per qualsiasi altra attività inerente all’integrazione egli alunni in difficoltà d’apprendimento. Il gruppo di lavoro per l’handicap operativo costituito all’inizio dell’anno scolastico per ogni alunno svantaggiato, composto dal dirigente, da almeno un rappresentante degli insegnanti di classe, dall’insegnante specializzato sul sostegno, dall’assistente educatore eventualmente presente, dagli operatori della Asl che si occupano del caso, dai genitori o dai facenti funzione e da qualunque altra figura significativa che operi nei confronti dell’alunno, è l’organo fondamentale per la 10 lOMoAR cPSD|4605717 realizzazione delle attività relative all’alunno diversamente abile nella sua specificità e ha il compito di predisporre e aggiornare il profilo dinamico funzionale, di predisporre il piano educativo individualizzato . I centri territoriali di supporto (CTS) e i centri territoriali per l’inclusione (CTI) La direttiva del 27 dicembre 2012 prospetta una rete ben articolata tra tutte le istituzioni scolastiche che operano sul territorio per permettere ai docenti di interagire e per intervenire sulle problematiche che riguardano i BES. La direttiva prevede che i centri territoriali di supporto devono essere collocati presso le scuole di riferimento o polo per assicurare un’equa distribuzione territoriale. Tali centri devono, poi, essere affiancati da una rete di centri territoriali per l’inclusione (CTI). I CENTRI TERRITORIALI DI SUPPORTO sono stati istituiti dagli Uffici Scolastici Regionali in accordo con il MIUR mediante il Progetto “Nuove tecnologie e Disabilità” (azioni 4 e 5). I centri sono collocati presso le scuole polo e la loro sede coincide con quella dell’istituzione scolastica che li accoglie. È pertanto facoltà degli Uffici Scolastici Regionali integrare o riorganizzare la rete regionale dei CTS laddove le necessità dovessero variare. È auspicabile la presenta di un CTS uin ogni provincia della regione, nelle aree metropolitane possono essercene più di uno per l’ampia densità di popolazione. In alcune regioni i CTS, di livello provinciale, sono stati affiancati dai CTI, di livello distrettuale. L’organizzazione territoriale per l’inclusione prevede quindi: - I GLH a livello di ogni singola scuola, eventualmente affiancati da gruppi di lavoro per l’Inclusione; i GLH di rete o distrettuali - I Centri territoriali per l’inclusione (CTI) a livello di distretto sociosanitario - Almeno un CTS a livello provinciale Sono composti dal Dirigente scolastico, da almeno tre docenti curricolari e di sostegno, da un rappresentante dell’USR, da un operatore sanitario e da docenti specializzati. Compito dei CTS è realizzare una rete territoriale permanente che consenta di accumulare, conservare e diffondere le conoscenze (buone pratiche, corsi di formazione) e le risorse (hardware e software) a favore dell’integrazione didattica degli alunni attraverso le Nuove Tecnologie. Hanno lo scopo di attivare sul territorio iniziative di formazione sull’uso corretto delle tecnologie rivolte gli insegnanti e agli altri operatori scolastici, nonché ai genitori e agli stessi alunni. La rete dovrà inoltre essere in grado di sostenere concretamente le scuole nell’acquisto e nell’uso efficiente delle nuove tecnologie per l’integrazione scolastica. I CTS informano gli alunni, i genitori e i docenti delle risorse tecnologiche disponibili, sia gratuite che commerciali. Per questo motivo organizzano incontri di presentazione di nuovi ausili o li pubblicano sul loro sito. Possono anche darli in comodato d’uso alla scuola e se necessario prevedono la presenza di un esperto che spieghi agli insegnanti come utilizzale quella determinata tecnologia. Laddove l’alunno dovesse cambiare scuola (nella stessa provincia) l’ausilio di proprietà del CTS seguirà l’alunno. Periodicamente, insieme ai docenti dell’alunno, viene verificata l’utilità dell’ausilio. In ogni CTS dovrebbero essere presenti tre operatori, almeno uno specializzato in DSA. 11 lOMoAR cPSD|4605717 Il 15 marzo 1997 il Parlamento approva la legge delega n. 59, meglio nota come la “Legge Bassanini” che attribuisce al governo il potere di emanare decreti delegati al fine di riformare l’intero sistema amministrativo italiano. In particolare la legge impone due principi: la semplificazione delle procedure amministrative e dei vincoli burocratici alle attività private e, soprattutto il federalismo amministrativo. Nell’art. 21 viene definita l’autonomia scolastica, che opera a tre livelli: organizzativo, didattico e finanziario. Ma soprattutto questa autonomia è finalizzata ad arricchire e diversificare l’offerta formativa delle scuole e favorire una loro più stretta collaborazione con il territorio. Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà d’insegnamento e del pluralismo culturale, progetteranno e realizzeranno gli interventi di educazione, formazione e istruzione adeguandoli a diversi contesti e in coerenza con le finalità del sistema d’istruzione nazionale. La legge 59/1997 introduce il principio della flessibilità oraria dei docenti. 13 lOMoAR cPSD|4605717 Il D.P.R. 275/1999, decreto attuatore dell’autonomia, chiarisce che il concetto di autonomia progettuale formativa delle istituzioni scolastiche mira allo sviluppo della persona umana, il cui successo formativo testimonia l’efficacia del processo d’insegnamento-apprendimento messo in atto dalla scuola. L’autonomia è garanzia di libertà d’insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione adeguati a diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti affinché sia garantito il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema d’istruzione. In questa attività di progettazione complessiva s’inserisce il POF. Il piano presenta le scelte pedagogiche, organizzative e gestionali della scuola, esplicitando le finalità educative, gli obiettivi generali relativi alle attività didattiche e le risorse previste per realizzarli. Il POF è elaborato dal collegio docenti sulla base degli indirizzi generali per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e di amministrazione definiti dal consiglio d’istituto, tenuto conto delle proposte dei genitori, e nelle scuole superiori, degli studenti. Il piano è adottato dal consiglio di circolo o d’istituto e viene consegnato alle famiglie al momento dell’iscrizione. L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà d’insegnamento e di pluralismo culturale; essa si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione, attraverso il POF, di interventi di educazione, formazione e istruzione, mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti. Tutto ciò al fine di garantire alle scuole il successo formativo coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema d’istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento/apprendimento. Il POF deve essere dunque coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi e indirizzi di studi che vengono determinati a livello nazionale, ma, nello stesso tempo, deve partire dalla storia e dall’analisi delle condizioni sociali, economiche e culturali di quel territorio. All’interno del POF deve essere prodotto, entro il mese di giugno un PIANO ANNUALE PER L’INCLUSIONE (PAI) riferito a tutti gli alunni con BES, sulla base del quale le scuole avanzeranno richieste di personale di sostegno alla rispettiva USR che procederà ad assegnare alle scuole le risorse di sostegno. A redigerlo dovrà essere il Gruppo di Lavoro per l’Inclusione (GLI) che nasce dall’estensione dei compiti e dei componenti del gruppo di lavoro per l’handicap (GLH) istituito presso ogni istituzione scolastica (L.104/1992) formato da docenti, esperti e genitori. Al fine di predisporre il PAI, il gruppo di lavoro per l’inclusione procederà ad un’analisi delle criticità e dei punti di forza degli interventi d’inclusione scolastica operati nell’anno appena trascorso. Il piano sarà quindi discusso e deliberato in collegio docenti e inviato agli uffici degli UUSSRR, nonché ai GLIP e al GLIR, per la richiesta di organico di sostegno e alle altre istituzioni territoriali come proposta di assegnazione delle risorse di competenza, considerando anche gli Accordi di Programma in vigore o altre specifiche intese sull’integrazione scolastica sottoscritte con gli Enti Locali. A seguito di ciò gli Uffici scolastici assegneranno le risorse di sostegno. Le iniziative previste dal POF devono includere anche le attività e i progetti rivolti agli alunni diversamente abili. 14 lOMoAR cPSD|4605717 Nella sentenza n. 226/2001 la Corte Costituzionale afferma che il diritto all’istruzione dei diversamente abili sussiste anche nel periodo successivo a quello durante il quale la frequenza scolastica è obbligatoria (scuola dell’obbligo dai 6 ai 14 anni, con il limiti massimo ai 15). Vengono predisposti corsi per adulti nei quali devono essere assicurate le stesse misure di sostegno previste dalla legge 104 del ’92. Tali corsi diventano ancora più rilevanti per gli adulti con disabilità poiché si è ancora più vicini ad un’integrazione totale e ad un completo inserimento nella società. Nella Gazzetta Ufficiale n. 61 del 14 marzo 2009 è stata pubblicata la Legge 3 marzo 2009 n. 18, recante la ratifica e l’esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata a New York il 13 dicembre 2006. E’ il primo trattato del nuovo secolo con ampi contenuti sui diritti umani e segna un punto di svolta nelle relazioni verso le persone con disabilità; non più individui bisognosi di carità, cure mediche e protezione sociale ma “persone” capaci di rivendicare i propri diritti e prendere decisioni per la propria vita, basate sul consenso libero e informato, ed essere membri attivamente inclusi nella società. La Convenzione (Legge 18/2009) chiarisce che tutte le categorie di diritti si applicano alle persone con disabilità e identifica le aree nelle quali può essere necessario intervenire per rendere possibile ed effettiva la fruizione di tali diritti; identifica inoltre le aree nelle quali vi sono violazioni e quelle nelle quali la protezione va rafforzata. Scopo della Convenzione non è dunque quello di affermare nuovi diritti umani, ma di stabilire gli obblighi a carico delle Parti volti a promuovere, tutelare e assicurare i diritti delle persone con disabilità. E’ importante sottolineare che il “Preambolo” della Convenzione riconosce “la disabilità” un concetto in evoluzione, e che essa è il risultato dell’interazione tra persone con menomazione e barriere comportamentali ed ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva inclusione partecipata nella società su base di uguaglianza con gli altri. Di conseguenza, la nozione di “disabilità” non viene fissata una volta per tutte, ma può cambiare a seconda degli ambienti che caratterizzano le diverse società. È necessario che il contesto si adatti ai bisogni specifici delle p ersone con disabilità, attraverso ciò che la convenzione definisce “accomodamento ragionevole”: indica le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, sulla base dell’eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali (art.2). Il Ruolo degli Uffici Scolastici Regionali Gli Uffici scolastici regionali devono: - attivare ogni possibile iniziativa finalizzata alla stipula di accordi di programma regionali per il coordinamento, l’ottimizzazione e l’uso delle risorse, riconducendo le iniziative regionali ad un quadro unitario compatibile con i programmi nazionali d’istruzione e formazione con quelli socio- sanitari. - promuovere la costituzione di GLIR (GRUPPO DI LAVORO INTERISTITUZIONALE REGIONALE) al quale demandare la realizzazione dell’obiettivo sopra individuato. 15 lOMoAR cPSD|4605717 tutoring, l’apprendimento per scoperta, la suddivisione del tempo in tempi, l’utilizzo di mediatori didattici, di attrezzature e di ausili informatici, di software e sussidi specifici. Da menzioare la necessità che i docenti predispongano i documenti per lo studio o per i compiti a casa in formato elettronico, affinchè essi possano risultare facilmente accessibili agli alunni che utilizzano ausili e computer per svolgere le proprie attività di apprendimento. Un sistema inclusivo considera l’alunno protagonista dell’apprendimento qualunque siano le sue capacità, le sue potenzialità e i suoi limiti. Va favorita, pertanto, la costruzione attiva della conoscenza, attivando le personali strategie di approccio al “sapere” rispettando i ritmi e gli stili di apprendimento e assecondando i meccanismi di autoregolazione. Si suggerisce il ricorso alla metodologia dell’apprendimento cooperativo. Infine, la valutazione dovrà sempre essere considerata come valutazione dei processi e non solo della performance. La didattica dell’integrazione L’interesse pedagogico verso i bambini con deficit nasce nel corso del diciottesimo secolo. Il primo a parlare di educabilità per tutti fu, sul finire dell’età dei lumi, il medico ed educatore francese Jean Marc Gaspard Itard il cui nome è legato al caso del Selvaggio dell’Aveyron. L’800 è l’epoca delle riforme scolastiche e, dietro la spinta della cultura romantica che rifiuta ogni forma di riflessione razionalistica, cambia gradualmente anche l’approccio all’educazione che deve privilegiare la crescita interiore dell’allievo, l’apprendimento delle arti e della cultura umanistica e lo sviluppo del gusto artistico, quest’ultimo attraverso la valorizzazione del gioco come attività libera a ogni condizionamento. Sulla scia del positivismo scientifico, i bisogni educativi speciali restano rigorosamente circoscritti all’area medica che è impegnata nella misurazione delle caratteristiche fisiche e intellettive degli alunni delle scuole, con ricerche antropometriche e psicometriche di tipo quantitativo, condotte per proporre modelli di riforma delle istituzioni scolastiche. Alla fine del secolo si afferma, anche ad opera del filosofo John Dewey (1859-1952), l’attivismo pedagogico, un metodo educativo che si prefigge di creare un modello di scuola non convenzionale. Una scuola, cioè, che focalizza il proprio interesse non più sul docente ma sull’allievo e sulle sue esigenze (puerocentrismo) e all’interno della quale il compito del docente non è quello di trasmettere aride conoscenze ma di guidare il fanciullo nel processo di apprendimento, stimolandolo alla socializzazione e al confronto mediante la progettazione e la realizzazione di lavori di gruppo e laboratori. Maria Montessori (1870-1952) adotta una “pedagogia scientifica”. Sostiene, infatti, che i bisogni educativi speciali vanno affrontati anche dal punto di vista pedagogico e psicologico e non solo medico. Nascono le prime scuole magistrali ortofreniche con orientamento emendativo, per curare la diversità, e si afferma la pedagogia emendativa come settore pedagogico deputato all’educazione dell’infanzia “minorata, irregolare o anormale”. Iolanda Cervellati (1897-1966) afferma che la pedagogia emendativa attinge alle scienze biologiche, psicologiche e neurologiche applicate all’educazione dei disabili per realizzarsi pienamente nella didattica differenziale. Non diversamente dalla Montessori, la Cervellati sostiene la necessità di un’educazione senso-motoria individualmente impartita, con materiali sensoriali adatti alla particolarità di ogni singolo caso al fine di realizzare il principio dell’autoeducazione. La 18 lOMoAR cPSD|4605717 collaborazione dei medici è molto importante, ma anche l’insegnante deve svolgere attività di osservazione e verifica-valutazione. L’osservazione diviene il processo costante che accompagna la didattica differenziale finalizzata alla normalizzazione. Dalla pedagogia emendativa si è passati alla pedagogia speciale che si riferisce, precisa Roberto Zavalloni, a tutti quei soggetti che in qualche modo si discostano dalla norma e trae origine dall’intento di recar loro un aiuto significativo. L’ICIDH (International of impairment, disabilities and handicaps) distingue la situazione intrinseca dovuta malattia, infortunio o malformazione, da altre situazioni, quella esteriorizzata (menomazione), quella oggettivizzata (disabilità) e quella socializzata (handicap). L’handicap è quella condizione di svantaggio che consegue ad una menomazione o ad una disabilità e che, in un certo soggetto, limita o impedisce l’adempimento del ruolo che sarebbe per lui “normale” in relazione all’età, al sesso e a fattori socio-culturali. La naturale conseguenza di quest’impostazione è che bisogna guardare all’handicap (o deficit) come al risultato dell’impatto tra disabilità e struttura sociale. Proprio per questa ragione l’handicap è un problema che riguarda tutta la società. È il sistema sociale e culturale a dover concepire il portatore di handicap all’interno di un insieme di rapporti sociali e a dovergli offrire l’opportunità di vivere in mezzo agli altri con gli altri, in relazione ai propri bisogni e alle proprie capacità. Se si rimuovono gli ostacoli sociali, la persona con deficit può sentirsi meno limitata. Ecco perché la scuola, il lavoro, la vita associativa rappresentano componenti importanti nell’ambito delle mediazioni necessarie per favorire l’inclusione. L’integrazione si concretizza come processo intenzionale mirato al recupero della diversità quale valore. Ciò è avvenuto soprattutto nel mondo della scuola, ma si cerca di attuarlo sempre di più nel mondo del lavoro, dello sport, della cultura e del tempo libero. La tendenza a parlare in positivo di funzioni, obiettivi, attività e diversa partecipazione piuttosto che di impedimenti, disabilità e handicap, rappresenta il segnale più evidente che è stato fatto molto e che si continua a fare tanto in questa direzione. La premessa è che non può esserci integrazione se non si focalizza l’attenzione sulle abilità oltre che sulle disabilità, sulle potenzialità oltre che sugli svantaggi, sia per quanto riguarda la persona sia il suo ambito di vita. Né può esserci integrazione senza una programmazione coordinata che coinvolga i vari settori pubblici e privati (scuola, servizi sanitari, socio-assistenziali) e il nucleo familiare del disabile, che giocano un ruolo essenziale nell’inserimento. La didattica dell’integrazione nasce per rispondere alla duplice esigenza d’individualizzazione e di socializzazione che il soggetto con disabilità presenta. Essa non pone al centro del processo d’insegnamento-apprendimento i contenuti scolastici, ma la funzione di stimolo, percepibile e utilizzabile da tutti gli alunni, che tali contenuti sono in grado di svolgere. L’obiettivo è trasformare lo spazio dell’aula da mero luogo d’istruzione per tutti in contesto d’integrazione per ciascuno, favorendo la creazione di un clima inclusivo, coerente con l’intenzione d’integrare il soggetto “diversamente abile”. La condizione imprescindibile per realizzare progetti d’integrazione è che il disabile si senta accolto in classe; prerequisito per qualsiasi attività volta all’’integrazione è dunque la creazione di un clima di accettazione reciproca nel rispetto delle differenze individuali. La creazione di un clima inclusivo viene ricondotta dagli studiosi Andrich e Miato alla presenza di 5 requisiti: 1) L’alunno disabile deve rimanere in classe il più possibile; 19 lOMoAR cPSD|4605717 2) Deve fare il più possibile le stesse cose che fanno gli altri 3) Deve essere posto il più possibile nelle stesse condizioni formative degli altri studenti 4) I migliori insegnanti di sostegno sono i suoi compagni 5) Gli spazi di un’aula inclusiva devono essere ampi Una volta poste le condizioni ideali, le strategie d’intervento finalizzate all’integrazione consistono nell’adattare gli obiettivi del gruppo alle esigenze del singolo per conseguire individualmente obiettivi di apprendimento comuni al resto della classe, nel semplificare i materiali di studio, nel differenziare la mediazione didattica, perché la presenza di soggetti con disabilità è una situazione che richiede mediazioni speciali sul piano fisico, cognitivo, relazionale, comunicativo e didattico. Dal momento che gli esiti dell’azione intrapresa non sempre coincidono immediatamente con l’obiettivo individuato, il contesto educativo di inserimento dovrebbe essere caratterizzato da flessibilità organizzativa e duttilità degli obiettivi educativi e cognitivi. Il risultato conseguito va valutato rispetto alla pertinenza con l’obiettivo prefissato e alle conseguenze sull’intero sistema. Tale logica impone riflessività e costante riprogettazione in corso d’opera delle azioni, con minima standardizzazione delle procedure, prestando attenzione alle reazioni dei soggetti coinvolti e alle risorse progressivamente disponibili. Inoltre è importante che vengano valorizzati gli obiettivi intermedi raggiunti tra il punto di partenza e quello di arrivo. Nella scuola media la distanza tra gli obiettivi della classe e le effettive potenzialità del disabile tende ad essere abbastanza notevole. Ma si possono individuare obiettivi comuni: in una prima media vengono programmate attività per insegnare ai ragazzi a comunicare verbalmente in modo adeguato. È una buona occasione per lavorare anche con l’allievo disabile individuando obiettivi specifici al suo livello: dire il proprio nome in risposta ad una domanda, esprimere il proprio pensiero, accettare il punto di vista dell’altro. Nell’ambito storico, un obiettivo adatto anche ai disabili che non sanno leggere, può essere:ordinare cronologicamente fatti ed eventi, magari su una tabella per insegnare il concetto del ‘prima’ e del ‘dopo’. In ambito geografico l’obiettivo potrebbe essere quello di leggere mappe e carte. Nell’ottica di una piena integrazione e della realizzazione di una didattica inclusiva risulta molto importante l’adeguamento degli obiettivi curricolari. Tale obiettivo può essere perseguito utilizzando diverse strategie quali ad esempio: - la sostituzione: l’obiettivo curricolare non viene semplificato, ma si cerca di farlo raggiungere attraverso l’impiego di altri codici (per i non vedenti il braille, lettori vocali per DSA, le immagini per l’alunno straniero); - la facilitazione: l’obiettivo non è diversificato, ma si stimola attraverso l’uso di tecnologie motivanti (Lim, software, etc..); - la semplificazione; l’obiettivo viene semplificato, potrebbe essere necessario ridurre la complessità (misure dispensative, per es. uso di calcolatrice); - la scomposizione in nuclei fondanti, l’obiettivo viene semplificato o modificato per renderlo più accessibile; 20 lOMoAR cPSD|4605717 ricostruzione dell’identità personale, dando nuove opportunità di crescita , per modificare il modo di interpretare sé stessi, la realtà e gli altri. L’estrema varietà di situazioni di disadattamento per cause familiari/ambientali rende necessaria la pedagogia della differenza da cui scaturisce una didattica personalizzata con piani di studio e portfolio. Il tutto calato in un’ottica programmatica, che delinei in maniera flessibile e calibrata sulle esigenze del singolo il percorso didattico più opportuno. Comunicazione, empatia ed intelligenza emotiva La comunicazione e i suoi elementi Lo sviluppo e la crescita di un individuo si realizza all’interno di una rete di comunicazione. Chi comunica deve concentrarsi non solo sul messaggio in uscita ma anche sulla reazione di chi riceve il messaggio. Il sistema di comunicazione può subire effetti di distorsione perché a quello che si intende trasmettere a volte si aggiunge ciò che non si voleva comunicare per cui il messaggio percepito è diverso da quello inviato. Il linguaggio è un sistema di segni adoperato per comunicare ed è una delle manifestazioni dell’attività simbolica dell’uomo, della sua attitudine a rappresentare gli oggetti, le idee e gli eventi mediante suoni, gesti, atteggiamenti, comportamenti e segni che ne costituiscono i sostituti. Secondo l’ipotesi evoluzionista, il linguaggio risalirebbe alle origini della storia del genere umano, mentre secondo l’ipotesi emergenti sta questo sistema di comunicazione sarebbe comparso in tempi più recenti, in Homo Sapiens moderno e, come evento originario unico, grazie allo sviluppo del cervello, avvenuto durante i milioni di anni precedenti, che avrebbe creato le condizioni per l’invenzione del codice linguistico. Il linguaggio è fondato sull’associazione di un concetto, il significato detto anche contenuto semantico, e di schemi di suoni, il significante o espressione verbale, connubio che produce il significato linguistico. Benjamin Lee Whorf 1897-1941), uno studioso delle lingue degli indiani d’America, giunse alla conclusione che strutture dissimili di linguaggio generano concezioni del mondo differenti. Questa tesi è nota come ipotesi della relatività linguistica. I suoni del linguaggio possono essere classificati in unità sonore distinte su cui si basano tutte le lingue, i fonemi, raggruppabili in morfemi, unità significative, unità minime dotate di senso, come radici di parole, prefissi, suffissi e parole. L’uso che gli interlocutori fanno del linguaggio, determinando in buona parte, i significati, è oggetto di studio della pragmatica, concentrata appunto sul rapporto tra segni e i soggetti, che si distingue dalla sintassi, focalizzata sulle relazioni tra i segni e , dalla semantica, che studia il rapporto tra segni e oggetti. La comunicazione non verbale e le sue funzioni Si definisce comunicazione verbale la comunicazione parlata e scritta, che assume caratteristiche differenti a seconda di chi parla, del fine perseguito dall’atto comunicativo e del contesto in cui si verifica lo scambio di informazioni. Esistono, però, oltre al linguaggio, altre forme di comunicazione,definite non verbali, che trasmettono informazioni percepibili dal soggetto mediante il coinvolgimento dell’intero apparato sensoriale, comprendendo ciò che 23 lOMoAR cPSD|4605717 attraversa i canali chimico-olfattivo, motorio-tattile, visivo-cinesico e gli aspetti non verbali del parlato, quali la melodia che accompagna i discorsi, i silenzi, i colpi di tosse. I sistemi verbali sono in codice digitale, dato che consistono in combinazioni di segni, mentre quelli non verbali sono in codice analogico, poiché riproducono ciò a cui si riferiscono. La comunicazione non verbale viene utilizzata soprattutto per svolgere: • La funzione espressiva, manifestando emozioni e sentimenti; • La funzione interpersonale, segnalando i vari aspetti della relazione tra gli interlocutori. La prosodia, il complesso di regole che governano la collocazione dell’accento tonico sulle parole, insieme ai gesti che sostengono il linguaggio, rientra nella paralinguistica. Un termine che, con la specializzazione degli studi, è stato usato sempre in senso più limitato, fino a indicare quei segnali non verbali che accompagnano il parlando attraversando il canale uditivo-vocale, non dotati di musicalità, definiti appunto “paralinguistici” e consistenti in interruzioni dell’eloquio, brevi esitazioni o più lunghe pause, e in varie emissioni di suoni, quali vocalizzazioni e sospiri. Il modo in cui gli individui usano lo spazio per comunicare è oggetto di studio della prossemica: la disposizione e i movimenti degli interlocutori nell’ambiente, l’angolo formato dalla direzione del corpo dell’uno e dell’altro, e la distanza interpersonale rientrano nel comportamento prossemico, che presenta importanti differenze culturali, poiché il significato simbolico degli spazi è strettamente legato alle tradizioni. Altro segnale di fondamentale importanza è rappresentato dalla posizione del corpo assunta durante la comunicazione, la postura, che dipende molto dalle convenzioni sociali, segnalando rapporti di status, il grado di formalità dell’incontro, la soglia di attenzione, la partecipazione attiva all’esperienza comunicativa. Mediante la mimica facciale è possibile inviare un gran numero di segnali non verbali, che risentono poco delle differenze culturali, poiché il riso, il sorriso, il pianto, il saluto oculare sono espressioni universali minimamente modellate dalla cultura. Le abilità comunicative del bambino L’acquisizione del linguaggio è uno degli aspetti più significativi dello sviluppo del bambino. Tuttavia, quando tale sviluppo procede nella norma, si può notare, come egli sia, ancora prima di acquisire la capacità di comunicare verbalmente, un buon comunicatore. Nel primo anno di vita il bambino comunica attraverso le risorse non verbali. Nella fase dello sviluppo, in cui non può comunicare attraverso il linguaggio verbale, il neonato utilizza il pianto. L’assenza di attenzione condivisa è stata associata a casi di autismo infantile. L’acquisizione del linguaggio Si devono attendere i tre anni circa perché il bambino padroneggi i codici comunicativi che gli consentono di parlare. Un sistema di comunicazione, per essere definito “linguaggio” deve possedere alcune caratteristiche di base: semanticità, dislocazione, produttività. Vi deve essere pertanto la possibilità di riprodurre simbolicamente tutto ciò che fa riferimento a oggetti, emozioni o concetti (semanticità) e inoltre deve essere possibile tenere in considerazione i diversi parametri temporali, vale a dire presente, passato e futuro (dislocazione). Infine il linguaggio, per potersi considerare tale, deve essere produttivo, cioè consentire la produzione di una serie infinita di 24 lOMoAR cPSD|4605717 messaggi, emessi attraverso la formazione di frasi, ma il ritmo con cui ogni bambino acquisisce le prime parole in termini di comprensione, così come la sua capacità di vocalizzarle, sono differenti tra un bambino e l’altro. Katherine Nelson, per esempio, distingue gli stili individuali di apprendimento del vocabolario e, in particolare, tra lo stile di acquisizione referenziale e lo stile espressivo. I bambini con il primo stile di acquisizione hanno uno sviluppo lessicale più rapido, quelli dell’altro gruppo hanno uno sviluppo sintattico più rapido. Lo sviluppo del linguaggio ha luogo a tre livelli: fonologico (suono), semantico( di significato), pragmatico ( di contesto). Il rapporto tra pensiero, linguaggio e interazione sociale Per Piaget lo sviluppo del linguaggio e quello del pensiero non sono correlati: lo sviluppo cognitivo precede quello del linguaggio. L’acquisizione del linguaggio non è ne necessaria ne sufficiente allo sviluppo cognitivo. Per Vygotskij il linguaggio fornisce un mezzo di riorganizzazione interna. La sua acquisizione,è il principale motore dello sviluppo e svolge una funzione di mediazione tra pensiero e vita sociale. Egli definisce linea sociale di sviluppo l’acquisizione del linguaggio, che entra in relazione con la linea naturale di sviluppo. Piaget riteneva che il rpimo modo con cui il bambino faceva esperienza del mondo fosse quello mediato dall’attivazione di schemi senso motori. Verso i 18 mesi questo stadio viene superato e con la comparsa del linguaggio il bambino apprende a rappresentare. La premessa da cui parte Vygotskij invece, è che linguaggio e pensiero siano in continua interazione e che le interazioni sociali abbiano un ruolo importante nello sviluppo di entrambi. Mentre Piaget ritiene che linguaggio e pensiero siano fondamentalmente indipendenti, per Vygotskij c’è una correlazione decisiva per l’acquisizione di altre competenze. Vygotskij teorizza l’esistenza di un livello potenziale di sviluppo, frutto di quei comportamenti messi in atto dal bambino attraverso l’aiuto o il suggerimento dell’adulto, a cui si contrappone il livello effettivo di sviluppo, riconducibile a quei comportamenti messi in atto per risolvere un problema in modo autonomo. Dal confronto tra livello potenziale e effettivo di sviluppo il bambino apprende gradualmente un’autonomia di azione e di pensiero. La mediazione semiotica ha la funzione di rendere possibile il passaggio dall’una all’altra modalità. Jerome Seymour Bruner riporta l’attenzione sulla funzione sociale del linguaggio riproponendo i presupposti teorici di Vygotskij. Per Bruner il linguaggio va studiato per la sua funzione sociale, nei diversi contesti e rispetto a interlocutori diversi. Altri modelli psicologici dello sviluppo del linguaggio Altri teorici hanno dato il proprio contributo allo studio dell’acquisizione del linguaggio. 1. Skinner e il comportamentismo: secondo i principi del condizionamento, che rimandano alla funzione strutturante del rinforzo, l’apprendimento del linguaggio non è dissimile da altre forme di apprendimento. Non vi è una competenza linguistica innata. 2. Chomsky e la teoria innatista: lo studioso sostiene che alla base dell’acquisizione del linguaggio c’è una competenza innata, la Grammatica Universale, ovvero la conoscenza delle regole sottese all’apprendimento della grammatica propria delle diverse lingue e, il language acquisition device (LAD), dispositivo per l’acquisizione del linguaggio, che 25 lOMoAR cPSD|4605717 • Il comportamento appetitivo o di avvicinamento, attivato dalla comparsa di un incentivo positivo o dalla eliminazione di un incentivo negativo. Ad esempio,, un bambino si reca a casa di un amico per giocare ( incentivo positivo). • Il comportamento avversivo o di allontanamento o di regressione o di elusione, attivato dalla comparsa di un incentivo negativo e dall’eliminazione di un incentivo positivo. Classificare le motivazioni Nel gran numero di motivazioni che inducono l’individuo all’azione si possono annoverare: Le motivazioni primarie, che trovano la loro origine in un bisogno di tipo biologico; Le motivazioni omeostatiche, derivate dal bisogno che esprime la tendenza degli organismi a conservare le proprie condizioni di equilibrio interno: la fame preserva, ad esempio, l’equilibrio nutritivo e la sete quello idrico. Daniel E. Berlyne e la motivazione epistemica I comportamenti, in generale, sono prodotti da una motivazione interna che Daniel E. Berlyne chiama motivazione di curiosità. Tale motivazione è una tendenza connaturata, adeguata ad esplorare il mondo circostante e risolvere i problemi. Esistono per Berlyne due forme di curiosità: 1. La prima è percettiva e viene prodotta dall’ambiente con stimoli incongruenti; 2. La seconda è epistemica e fornisce all’uomo gli schemi della conoscenza. Dopo diversi esperimenti, Berlyne, ha tratto la conclusione che le persone possiedono un’intrinseca esigenza di esplorare campi non familiari. Tale esperimento dimostra, in realtà, che nell’uomo è intrinseca una pulsione esplorativa: ciascuno, spinto dalla curiosità, va sempre alla ricerca di nuovi stimoli percettivi. Il comportamento epistemico che ne segue mette in moto i processi mentali dell’osservazione, della consultazione delle fonti e di un pensiero diretto alla risoluzione del problema. Questo in campo pedagogico e psicologico motiva l’apprendimento e stimola la curiosità. Partendo da tale analisi, il pedagogista e psicologo americano Bruner ha introdotto il concetto dell’apprendimento attraverso la scoperta. Tramite le ricerche e gli studi di Berlyne si passa dalle motivazioni omeostatiche a quelle epistemiche e si percepisce facilmente che i bisogni del bambino non sono solo tesi a ripristinare uno stato di quiete, ma anche a far espandere le conoscenze e a sollecitare nuove esperienze. La motivazione a realizzare competenze Il bisogno che possiede un individuo di esercitare le proprie abilità e le proprie competenze è detto need for competence (letteralmente bisogno di realizzare competenze). Tale bisogno non si attiva nel lavoro, ma nel campo ludico (gioco, divertimento, creatività e così via). Il need for competence è, secondo lo psicologo Robert W Whithe un bisogno addirittura primario. Fin dalla nascita, l’umo sente infatti il bisogno non solo di manipolare e di esplorare, ma anche di sentirsi gratificato quando riesce in una prova. White afferma che l’uomo s’impegna maggiormente quando prova soddisfazione nello svolgere con competenza un’attività. 28 lOMoAR cPSD|4605717 L’intelligenza emotiva, le emozioni e i sentimenti Harold Gardner e il modello delle intelligenze multiple Per Harold Gardner l’attività intellettiva non può essere stabilita e misurata in conformità ad un test e propone nel volume Formae Mentis la teorie delle intelligenze multiple. L’intelligenza non è misurabile attraverso il quoziente intellettivo (QI). Gardner sostiene che gli uomini possiedono più intelligenze: logico-matematica, linguistica, musicale, spaziale, cinestesica, interpersonale, intrapersonale, naturalista e esistenziale. L’intelligenza è abilità. L’intelligenza interpersonale riguarda l’abilità di comprendere le emozioni, le motivazioni e gli stati d’animo degli altri. Quella intrapersonale consiste nella capacità di capire le proprie emozioni e trasformarle in forme socialmente accettabili. Daniel Goleman e l’intelligenza emotiva Goleman, in Intelligenza emotiva, sostiene che la conoscenza di se stessi e l’empatia nascono dall’intelligenza umana; esse sono gli elementi che quasi certamente condizionano la vita di ogni essere umano e vanno a costituire, secondo Goleman, l’intelligenza emozionale che è un aspetto dell’intelligenza legata alla capacità di ognuno di identificare, impiegare, intendere e ragolare in maniera consapevole le proprie e le altrui emozioni. Goleman parte, per costruire il concetto di intelligenza emotiva, dalla teoria di Gardner, prendendo in considerazione l’intelligenza intrapersonale e quella interpersonalee specificando due sottocategorie, vale a dire le competenza personali (capacità di cogliere gli aspetti della propria vita emozionale) e competenze sociali ( capacità di comprendere gli altri e di rapportarsi alla realtà circostante). L’intelligenza emotiva consiste per Goleman: Nella consapevolezza di se, Nell’autovalutazione obiettiva delle proprie capacità e dei propri limiti, Nella fiducia in se stessi e nel riconoscimento delle emozioni negative, Nell’autocontrollo e nella capacità di gestire le emozioni, Nella capacità, quando le cose non vanno bene, di alimentare la propria motivazione, Nella capacità di motivarsi, costitutiva infine, da una quantità proporzionata di ottimismo e di spirito di iniziativa. Per Goleman, l’intelligenza emotiva si può sviluppare con l’allenamento; questo deve essere, però, rivolto a cogliere i sentimenti e le emozioni e a guidarli in senso costruttivo. Tale tipo di intelligenza secondo lo psicologo clinico Reuven Bar-on può essere trasformata in Quoziente emotivo (QE) e misurata; essa, legata, in qualche modo, al Quoziente Intellettivo (QI)tende a rendersi stabile intorno ai 16 anni. Bisogna, in ogni modo, tener conto che, in conclusione, l’intelligenza emotiva, pur declinando lentamente con il passare del tempo, può essere arricchita durante l’intero arco di vita. 29 lOMoAR cPSD|4605717 L’empatia come dimensione dell’intelligenza emotiva Ogni essere umano, acquisendo una produttiva capacità di relazione centrata sullo scambio e sull’empatia, può stabilire con gli altri rapporti sociali solidi e consolidare il processo di socializzazione. La relazione centrata sullo scambio si pone su tre modalità: verbale, non verbale e paraverbale. La prima rappresenta un patrimonio che appartiene esclusivamente all’uomo. Affinché le relazioni tra gli individui possano svilupparsi sempre correttamente, le tre modalità dovrebbero armonizzarsi in modo congruente. La voce (modalità verbale), l’intonazione (modalità non verbale) e l’espressione (modalità paraverbale) dovrebbero, per creare una relazione efficace centrata sullo scambio, sincronizzarsi. L’impiego dell’empatia inizia a intensificarsi nella fanciullezza perche il bambino è ormai uscito dalla fase egocentrica ed è pronto a affrontare i problemi degli altri e a mettersi nei loro panni. L’empatia è una dimensione dell’intelligenza emotiva. Essa consiste nel riuscire a mettersi nei panni di un altro, ovvero a immedesimarsi negli stati d’animo e nei pensieri di altri soggetti sulla base della capacità di comprendere i loro segnali emozionali, assumere la loro prospettiva soggettiva e a condividere i sentimenti. Tali capacità risultano fondamentali nelle relazioni umane perché regolano la comunicazione. La capacità empatica è un fattore di fondamentale importanza per stabilire una relazione positiva con l’altro. In tal modo, diventa, infatti, facile protendere comportamenti pro sociali ed assumere atteggiamenti di cooperazione per una possibile integrazione sociale. Tuttavia, l’empatia consiste nel “mettersi nei panni dell’altro” pur mantenendo in modo consapevole, i confini tra la propria identità e quella dell’interlocutore. La regola fondamentale per un’attiva e efficace comunicazione empatica è, poi, quella di esprimersi in modo chiaro, con frasi brevi e significative. L’empatia è dunque la capacità di capire gli altri sulla base della propria esperienza. Il rapporto empatico è perciò necessario non solo per comprendere l’esperienza l’altrui, ma soprattutto per liberarsi del proprio punto di vista e per sviluppare pienamente le strategie comunicative. La mancanza di empatia nella comunicazione e relazione sociale rappresenta il cardine di alcuni disturbi del modo di comportarsi per i quali si ricorre spesso all’aggressività verbale e fisica. Il non capire le emozioni degli altri comporta, infatti, stravolgimenti nell’interpretare i pensieri e le intenzioni, ciò dà vita, in maniera sproporzionata, a comportamenti difensivi. L’assenza di empatia caratterizza, ad esempio, anche il profilo di un bullo. Ne consegue l’impiego dell’empatia risulta fondamentale nella relazione educativa e didattica. L’empatia assume nel rapporto educativo il significato di prestare massima attenzione a ciò che l’alunno vuole comunicare e immedesimarsi nella situazione. L’esperienza emotiva Un’ emozione corrisponde a un processo psicologico, articolato in una sequenza di cambiamenti che è promossa da un evento scatenante causato da modificazioni dell’ambiente esterno o interno. Le emozioni sono conseguenza di squilibri che si verificano nell’ appraisal, la valutazione complessiva dell’evento che scatena emozioni. Nonostante la relazione tra tipi di eventi e tipi di relazioni sembri abbastanza prevedibile, tale nesso non è così scontato. La grande variabilità esistente tra le modalità di risposta degli individui è spiegabili se si sottolinea il fatto che si reagisce emotivamente non tanto all’accadimento in sé, ma a come esso viene percepito. Le ricerche transculturali hanno dimostrato che molti schemi evento-emozione, cioè modelli interpretativi che, da un lato, rappresentano la struttura dell’evento, e dall’altro le’mozione da provare, sono universali, indipendenti dalla cultura in cui si manifestano, anche se esistono, però , schemi 30 lOMoAR cPSD|4605717 dispiacere, il primo polo emozionale. Tra il secondo e il primo anno di vita fa la sua comparsa il sorriso sociale non selettivo e quello selettivo. Il primo compare tra la quinta e l’ottava settimana, mentre il secondo è rivolto principalmente verso la madre. Tra i 3 e i 4 mesi diventa chiara la collera, la tristezza, mentre nei mesi successivi la paura e, in particolare, verso l’ottavo mese la paura dell’estraneo. Dopo il primo anno emergono le emozioni complesse quali vergogna, orgoglio, colpa, basate su un processo di autoriflessione. Relazione tra attaccamento alla figura materna e sviluppo delle capacità emotive Nell’interazione adulto-bambino, in particolare in quella madre-bambino, la madre attribuendo un’intenzionalità comunicativa alle espressioni del bambino, sostiene il processo di autoregolazione delle emozioni. Questa funzione dell’adulto è detta scaffolding, termine coniato da Bruner che indica letteralmente l’”impalcatura”, indica cioè quelle strategie di sostegno e quelle di guida ai processi di apprendimento che consentono di svolgere un compito anche se non si hanno ancora le competenze per farlo in autonomia, riuscendovi grazie all’aiuto di un esperto, di un adulto o di un pari più preparato che fornisce indicazioni e suggerimenti, nell’attesa che riesca a maturare una piena autonomia nello svolgimento del compito. Il primo rapporto relazionale dell’essere umano è diadico: nei primi mesi di vita, infatti, un bambino interagisce quasi esclusivamente con la madre. Le interazioni, in tale fase, si strutturano a raggiera: un individuo occupa il centro e tutti gli altri si situano in periferia. Oggi, le relazioni, all’interno di gruppi, si strutturano su modelli di tipo circolare e di tipo radiale. Nel primo caso ogni membro di un gruppo, sia trasmettendo, sia ricevendo informazioni, ha la stessa possibilità di interagire con gli altri. Al contrario, il modello di relazione di tipo radiale permette che al centro del gruppo emerga un leader che funga da coordinatore. Dimensioni emotive nella reazione educativa e didattica Data l’importanza delle emozioni nello sviluppo cognitivo, la relazione educativa non può essere orientata anche alla valorizzazione dell’intelligenza emotiva. Per raggiungere tale obiettivo è necessario che il docente sia in grado di riconoscere ed eliminare quegli elementi che rappresentano un ostacolo alla realizzazione di un buon rapporto con gli alunni. Tali elementi sono: I mutamenti sociali: l’organizzazione della scuola è una macchina che si ripete ogni anno allo stesso modo, la società invece, è soggetta a rapidi e veloci trasformazioni. Lo scarto generazionale, lo studente cambia e matura, il docente invecchia. Il conflitto status-ruolo: lo squilibrio è eccessivo tra il potere formale di cui è investita l’autorità del docente e il potere reale. Il lavoro del docente si svolge in condizioni di isolamento quindi la perdita di identità psicologica è reale. Le interferenze emotive. Il lavoro del docente è opportuno che non subisca interferenze emotive, ovverosia sentimenti di rabbia, di paura e così via. Ogni educatore dovrebbe, perciò, possedere come attitudine fondamentale, la disponibilità pedagogica è, infatti, quest’ultima che permette agli educatori di considerare, gli alunni come persone, contemporaneamente dotate di uguali e di differenti bisogni. 33 lOMoAR cPSD|4605717 Il docente inoltre dovrebbe: Essere in possesso di una solida e rigorosa cultura generale, al fine di affrontare i problemi educativi in modo pluridisciplinare; Padroneggiare, aggiornandosi in maniera permanente, i contenuti della propria disciplina; Saper valutare le potenzialità formative della disciplina che insegna; Saper individuare e cogliere i rapporti della propria disciplina con gli altri saperi; Saper collocare, all’interno delle finalità generali dell’intero sistema scolastico, le finalità e gli obietti vi di apprendimento della propria disciplina; Saper riflettere sulla ricerca delle scelte sia didattiche che metodologiche e verificarne rigorosamente i risultati nel processo tanto di valutazione quanto di autovalutazione; Possedere le conoscenze e le competenze socio-psico-pedagogiche al fine di impostare in maniera corretta i processi sia di insegnamento sia d’apprendimento; essere capace di interagire con una comunicazione efficace sia all’interno della vita scolastica sia nel mondo esterno; Essere aperto a lavorare in èquipe sia per contribuire positivamente prima alla definizione e poi alla realizzazione dell’offerta formativa sia per assolvere funzioni e compiti che gli vengono attribuiti; Essere messo nelle condizioni, di vivere, attraverso un’lata considerazione sociale, il proprio status di docente adeguatamente. L’alunno adolescente vive in maniera conflittuale il rapporto con il proprio corpo e con l’immagine che ha di esso e se da un lato è impegnato nella ricerca della propria identità e nel raggiungimento della sua autonomia dai genitori e dagli adulti, dall’altro le sue insicurezze e ansie rendono più difficile il distacco dal mondo dell’infanzia. La comunicazione diventa, Perciò, determinante nel rapporto educativo. In qualsiasi contesto, la comunicazione può realizzarsi con modalità differenti. Si può avere una comunicazione unidirezionale o monodirezionale che è detta anche autoritaria, gerarchica e verticale oppure una comunicazione interattiva o modulare- circolare, che è detta anche democratica e orizzontale. I sentimenti a differenza delle emozioni non sono determinati da uno stimolo ambientale e sono più duraturi. L’amore è un sentimento più profondo di affetto. Lo studioso e psicologo americano Robert Sternberg ha elaborato quella che viene definita teoria triangolare dell’amore, per la quale tale sentimento risulta costituito da tre componenti fondamentali: 1. Intimità; 2. Passione 3. Impegno. L’amore, inoltre, si sviluppa in alcune fasi: incontro, attrazione, dipendenza, innamoramento e amore. 34 lOMoAR cPSD|4605717 La personalità e i suoi processi La formazione della personalità Il termine “personalità” deriva dalla parola latina persona. La personalità riguarda ciò che vi è di assolutamente irripetibile nel singolo soggetto. Secondo Gordon Allport la personalità è l’insieme delle caratteristiche e delle modalità di comportamento che determina gli speciali adattamenti di un individuo al contesto ambientale nel quale è inserito. La personalità, anche se non va intesa in modo schematico, suggerisce che alcuni tratti fondamentali della persona appaiono persistenti permettendo di riscontrare una certa coerenza transituazionale dei comportamenti. Riguardo al processo di formazione della personalità è probabile che esistano fattori predisponenti di carattere biologico, ma è fuor di dubbio che anche l’ambienta eserciti una grossa influenza. È stata avanzata l’ipotesi che ogni cultura tenda a produrre strutture di personalità caratteristiche: una società può, ad esempio, mostrarsi tipicamente più aggressiva o più mite di un’altra. Le teorie dei tratti Un tratto è una caratteristica interiore duratura, una dimensione persistente. È necessario distinguere tra tratti fondamentali, radicati nell’individuo e costanti, e tratti di superficie, variabili a seconda delle circostanze, e tra tratti comuni, riscontrabili in maniera generalizzata in tutti gli individui e tratti individuali tipici di una dato soggetto. I tratti possono essere considerati come l’indicazione della capacità del soggetto di adottare certe modalità di comportamento in determinati contesti ambientali, di diventare ad esempio aggressivi in alcune circostanze e mite in altre. Le teorie tipologiche Le teorie tipologiche studiano la personalità sulla base di presunte corrispondenze tra caratteristiche fisiche e psicologiche. Esse si basano sull’esistenza di tipi psicologici che posseggono caratteristiche determinate, sia affettive che mentali. Già Ippocrate distingue 4 tipi psicologici. Jung distingue le persone in estroverse e introverse. Una nota tipologia a base somatica è quella del medico americano William Herbert Sheldon che classifica gli individui in base a tre criteri: la prima componente endomorfica è presente negli obesi, la seconda mesomorfica negli atleti e la terza ectomorfica si basa sulla delicatezza dell’epidermide. Una persona paffuta viene definita come socievole, rilassata, di umore stabile, quella magra è invece una persona riservata, solitaria e amante dell’intimità. Eysenck ha elaborato la teoria bidimensionale della personalità. Egli sostiene che sono sufficienti soltanto due fattori di personalità: la dimensione introversione-estroversione e la dimensione stabilità-instabilità emotiva. La combinazione delle due dimensioni genera i temperamenti (sanguigno, flemmatico, malinconico e collerico). Le teorie psicodinamiche Freud ha introdotto i concetti di Es, parte della personalità che riflette impulsi istintuali non organizzati; Io, parte che corrisponde al sé com’è percepito dal soggetto e che esercita funzioni di controllo, frenando l’impulsività dell’Es, il Super Io, parte che corrisponde alla coscienza morale, svolgendo una funzione di controllo attraverso gli scrupoli etici piuttosto che mediante la convenzione sociale. 35 lOMoAR cPSD|4605717 Sigmund Freud La teoria psicoanalitica fa capo al neurologo e psicoanalista Sigmund Freud che muove dal presupposto che la base delle successive relazioni sia il rapporto madre-bambino. Il bambino è, secondo Freud, per un lungo periodo fortemente narcisista e agisce solamente per ottenere la gratificazione degli istinti vitali: il bambino mostra affetto per la madre perché è lei che si occupa del suo benessere e che soddisfa i suoi bisogni primari. La teoria freudiana è una teoria stadiale: lo sviluppo viene suddiviso in diverse fasi, ciascuna delle quali definisce come si evolve l’energia libidica. Gli stadi sono: • Stadio orale: fino ai primi 18 mesi di vita. I primi contatti del bambino con il mondo si sviluppano per il tramite della bocca: pertanto la regione orale diventa il mezzo privilegiato del rapporto con la madre, vissuta come un oggetto che gratifica il bambino tramite l’alimentazione. • Stadio anale: da un anno e mezzo ai 3 anni. Tutta l’energia libidica è concentrata nella dinamica ritenzione-espulsione delle feci. • Stadio fallico: dai 3 ai 5 anni. L’attenzione viene spostata ai genitali e alla scoperta delle differenze legate al possesso del pene. Freud colloca in questo periodo il famoso complesso di Edipo che si manifesta nell’emersione di desideri incestuosi verso il genitore del sesso opposto e rivalità e gelosia verso il genitore dello stesso sesso. • Stadio di latenza: dai 6 agli 11 anni. L’energia libidica viene impiegata nel rapporto con i coetanei. • Stadio genitale: in tale stadio le pressioni sessuali vengono orientate verso un partner e finalizzate a costruire una relazione sessuale. Erik Erikson Egli è l’unico che occupandosi dell’analisi dello sviluppo della personalità, ha fornito un quadro completo dell’intero ciclo vitale dell’uomo: dalla nascita alla vecchiaia. Nell’ambito della psicologia dello sviluppo sono noti i suoi studi sui bambini Sioux e gli Youk, nonché i suoi studi sui giochi di bambini normali e disturbati e sulle crisi adolescenziali. Erikson fu allievo di Freud, ma si distingue da lui. Per Freud lo sviluppo della personalità ha una conclusione nel periodo adolescenziale, per Erikson procede per tutta la vita sino alla morte. Erikson polarizza il proprio interesse sull’interazione tra individuo e ambiente (familiare e sociale) tanto da definire gli stadi di sviluppo come stadi psicosociali, a differenza di Freud che aveva parlato di stadi psicosessuali. Lo scopo fondamentale dell’uomo è la ricerca di una propria identità che, pur variando nel tempo, è caratterizzata da un bisogno di coerenza dell’Io tale da permettergli un rapporto valido e creativo con l’ambiente sociale. Secondo l’autore, nel ciclo vitale l’individuo passa attraverso una serie di tappe evolutive (stadi) che sono caratterizzate da una coppia antinomica:una conquista e un fallimento • I stadio fiducia/sfiducia: la condizione di fiducia nasce da un rapporto affettivo incentrato sulla figura della madre e caratterizzato da ripetitività e costanza. Il mancato sviluppo di fiducia provoca nel bambino sfiducia e impedisce la creazione di un Io solido. • II stadio autonomia/vergogna, dubbio: tale fase corrisponde ad un periodo estremamente delicato per il bambino. L’acquisizione del linguaggio, la capacità di deambulare e di 38 lOMoAR cPSD|4605717 controllare gli sfinteri rende autonomo il bambino ma nel contempo lo espone a dei rischi: la paura di non essere compreso nel parlare, così come la pura nel cadere, espone il bambino al timore di essere giudicato. In questo stadio il bambino deve essere guidato e rassicurato fino a quando non acquisirà la padronanza piena di queste abilità necessarie a integrarsi nell’ambiente che lo circonda. • III stadio iniziativa/senso di colpa: lo spirito di iniziativa è legato alla conquista dell’autonomia e alla consapevolezza della propria capacità di progettare e realizzare i propositi. Tale periodo è contraddistinto da iperattività e manifestazioni talvolta violente che possono essere vissute dai genitori come comportamenti aggressivi, negativi, da correggere, come ad esempio l’atteggiamento di sfida nei confronti dei genitori. • IV stadio industriosità/ senso di inferiorità: il bambino fa il suo ingrasso nella vita sociale mediante l’inserimento nel contesto scolastico: dovrà confrontarsi con nuove realtà, entrare in competizione, misurarsi con la capacità di apprendimento. Il concetto di industriosità di riferisce alle possibilità che il bambino ha di ottenere l’approvazione sociale grazi ala propria produttività (imparando a leggere, scrivere, partecipando alle attività di gruppo) ma può anche suscitargli un senso di inadeguatezza e inferiorità se, nel confronto con i compagni non riesce a integrarsi costruttivamente. In questo periodo l’aggressività e l’irruenza tipiche dello stadio precedente vengono sostituite da diligenza, perseveranza, costanza, che diventato qualità importanti. Si tratta della delicatissima fase in cui l’adolescente sperimenta esperienze nuove in grado di affrancarlo definitivamente dalla famiglia: lo sviluppo delle prime forti passioni, l’emergere delle attitudini innate, la possibilità di ricoprire in prima persona dei ruoli sociali sono solo alcuni esempi. Il rischio, in questa fase, è che il bisogno di trovare una propria identità si trasformi in ricerca di modelli in cui identificarsi per incapacità di definire una propria identità. • V stadio intimità/isolamento: ormai costituita una propria identità, l’individuo tende a conservare sé stesso e a stabilizzare il rapporto con gli altri componenti del suo ambiente, tipicamente il partner e i colleghi di lavoro. • VI stadio generatività/stagnazione: Per Erikson il concetto di generatività non riguarda solo il desiderio di mettere al mondo dei figli e di allevarli, ma anche quello di creare qualcosa di utile con il proprio lavoro, di insegnare agli altri la propria esperienza. • VII stadio integrità dell’Io/disperazione: si tratta dell’ultima fase dello sviluppo sociale degli individui in cui occorre “accettare tutto ciò che si è fatto, ciò che si è e ciò che si potrebbe essere ancora” diversamente chi non è riuscito a costruire un Io forte vivrà questa fase con rimpianto e grande rimorso, sfociando nella disperazione. Il legame di attaccamento Concetti generali L’attaccamento può essere definito come un sistema dinamico di comportamenti che contribuiscono alla formazione di un legame fra due persone. Le teorie etologiche considerano l’attaccamento come una tendenza innata, indipendente dalla soddisfazione dei bisogni primari. Il primo a proporre il concetto di adattamento come cardine per spiegare il comportamento dei bambini fu John Bowlby. Bowlby elaborò la teoria spaziale, secondo la quale il bambino svilupperebbe l’attaccamento per mantenere con quella figura una vicinanza fisica in una situazione di pericolo. 39 lOMoAR cPSD|4605717 Affinché il legame di attaccamento possa costituirsi come “base sicura” è determinante non solo la capacità di ricerca e di protezione da parte del bambino, ma anche le modalità con cui la madre risponde a queste richieste. Dopo il primo anno di vita il bambino ha identificato, tra le figure che ruotano nel suo universo relazionale, quella con la quale ha costituito questo legame. Mentre Freud riteneva l’attaccamento frutto della soddisfazione dei bisogni primari, per Bowlby esso è determinato da una motivazione primaria, espressa attraverso una ricerca di contatto e vicinanza fisica. Per Bowlby la figura di attaccamento è una sola e di solito è la madre biologica. Secondo Bowlby lo sviluppo della personalità è considerato dall’avere o meno sperimentato da bambino una solida base sicura. La teoria si è arricchita con gli studi sui modelli operativi interni (MOI) ovvero sui modelli di rappresentazioni di sé e degli altri che il bambino costruisce a partire dalle interazioni con gli altri e che ne orientano l’azione. Il bambino che ha sperimentato una madre accudente e rispondente si percepirà a sua volta degno di amore e di rispetto. Se, viceversa, ha avuto una madre poco rispondente non sarà in grado di percepirsi come degno di amore e di affetto, né apprendere a esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni. I bambini che hanno sperimentato un buon legame di attaccamento sono anche più capaci di avere relazioni sociali orientate allo scambio e alla ricerca attiva di un’interazione significativa. Bowlby sviluppa il concetto di Modelli Operativi Interni(MOI) partendo dalla teoria di Piaget e dai concetti di assimilazione e accomodamento. È attraverso tali modelli, infatti, che l’individuo valuta e analizza le diverse alternative della realtà e sceglie quella che ritiene essere la migliore. I MOI sono derivazioni mnestiche che nascono dall’immagine che il bambino si è fatto di sé e dei suoi genitori. Altre importanti teorie dello sviluppo emotivo sono quelle di Freud, Erikson, Spitz,Klein e Winnicott. La teoria della pulsione secondaria L’approccio freudiano allo sviluppo emotivo parte dalle riflessioni sulla sessualità infantile. Freud si sforzò di comprendere la causa dell’insorgenza di disturbi psichici negli adulti ed arrivò ad attribuire la causa di tali insorgenze alle esperienze infantili. Nell’ottica freudiana il bambino che va incontro ad un’eccitazione, per esempio, la fame, cerca solo di scaricare tale eccitazione senza un reale desiderio di legame con la madre. L’attaccamento inteso come legame con l’oggetto risulta dunque una pulsione secondaria. La teoria della suzione primaria dell’oggetto Un apporto significativo allo studio dello sviluppo del bambino proviene dal contributo di Melanie Klein secondo la quale, la relazione con la madre riveste un ruolo centrale e determinante per lo sviluppo psichico del bambino, e quindi dell’adulto. Secondo la studiosa la relazione tra bambino e madre si stabilisce attraverso il seno. Nella misura in cui vengono soddisfatti i suoi bisogni il bambino stabilisce un buon rapporto con la madre che viene vissuta come oggetto parziale in seno buono (che soddisfa i suoi bisogni) e seno cattivo (tutto ciò che c’è di odioso e non gratificante). La teoria della relazione d’oggetto La teoria di Donald Winnicott come quella di Klein, è centrata sulla relazione tra madre e bambino, che per lo psicoanalista inglese inizia già nel periodo della gravidanza. Soprattutto durante le due 40 lOMoAR cPSD|4605717 I vari tipi di psicoterapia La psicoterapia centrata sul cliente è un metodo sviluppato dallo psicologo americano Carl Rogers, il quale sostiene che la relazione assistenziale risulta efficace soprattutto grazie agli atteggiamenti assunti dal terapeuta, che deve, quindi, mostrarsi comprensivo, sicuro di sé, capace di suscitare fiducia nel paziente, di intuire i suoi sentimenti riposti e di non esprimere giudizi. Chi si rivolge allo psicologo può, in condizioni favorevoli, ritrovare da solo la strada per una più profonda comprensione dei propri problemi. Il metodo dell’ascolto attivo, fatto cioè con attenzione, si contrappone all’intervento diretto, che può assumere vari aspetti, a seconda dell’orientamento teorico e della personalità del terapeuta, e che è anche il criterio distintivo delle differenti possibilità terapeutiche. La terapia psicoanalitica è fondata sulle teorie freudiane. Un elemento fondamentale del metodo psicoanalitico è costituito dalle associazioni libere, finalizzate all’espressione verbale di pensieri e sentimenti profondamente rimossi di cui il paziente non ha consapevolezza. La tendenza del paziente a fare dell’analista l’oggetto di risposte emotive viene definito transfer: sullo psicoterapeuta vengono proiettati atteggiamenti simili a quelli di figure significative del proprio ambiente, come i genitori o i fratelli. Durante il corso di una terapia psicoanalitica si delineano tre esperienze fondamentali: l’abreazione o la catarsi, una sorta di purificazione emozionale, che si riferisce all’intenso rivivere un’esperienza affettiva, l’insight, la comprensione dell’origine della condizione conflittuale, che deriva da un progressivo perfezionamento della conoscenza di sé, anche se talvolta si verifica mediante il recupero di un ricordo rimosso, e il working through, processo rieducativo in cui, nel clima del contesto terapeutico, si riesaminano gli stessi conflitti e il paziente impara ad affrontare il mondo reale. Anche i sogni sono eventi psichici che contengono materiale emotivo rimosso, come impulsi e desideri respinti nel profondo della psiche perché vietati dalla coscienza. La terapia del comportamento, basandosi sull’affermazione che un comportamento disadattato risulta modificabile grazie ai principi dell’apprendimento, ha dischiuso più ampie prospettive per l’impiego di criteri scientifici nella pratica psicoterapeutica. La terapia di gruppo, approccio durante il quale il paziente esprime i propri problemi agli altri membri del gruppo, discutendone. Dopo una fase iniziale segnata da diffidenza, di solito si riesce a instaurare tra i partecipanti un rapporto empatico. Temi e prospettive della psicologia dello sviluppo Concetti generali Il concetto di sviluppo può essere definito come il processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, di funzione e di organizzazione. Tale processo può avvenire per tre ordini di cause: maturazione intrinseca (ovvero sviluppo di capacità innate) , influenza dell’ambiente e apprendimento. Il campo di indagine Nell’ambito della psicologia della sviluppo, una prima distinzione da operare è quella tra psicologia dell’età evolutiva e psicologia del ciclo di vita, due branche della psicologia con precise differenze in merito all’oggetto di indagine. La psicologia dell’età evolutiva si occupa di osservare e studiare 43 lOMoAR cPSD|4605717 ciò che avviene nella fase dell’infanzia e dell’adolescenza. Il periodo dell’infanzia comprende la fase della vita che va dal momento della nascita al 12 anno. La fase dell’adolescenza, invece, abbraccia tutto ciò che va dal dodicesimo al diciottesimo anno. Il campo della psicologia del ciclo di vita, al quale ha dato forte impulso il lavoro di Erik Erikson, studia come le persone si adattano alle diverse tappe dell’esistenza e come gradualmente acquisiscano consapevolezza del calendario bisociale, ovvero di quell’insieme di scadenze che scandiscono i passaggi evolutivi, come il matrimonio e l’arrivo dei figli. Per Erikson l’uomo ha come scopo quello di costruire un senso di identità, per cui ogni tappa della vita rappresenta una svolta. La vita pone l’individuo nella condizione di dover affrontare dei dilemmi sempre nuovi, in cui le esigenze personali si scontrano con le componenti e i vincoli sociali. L’uomo apprende attraverso la gestione di questi dilemmi nuove competenze e consapevolezze che lo conducono a sviluppare la propria identità. A queste due impostazioni teoriche si aggiunge la prospettiva della psicologia dell’arco della vita, sviluppatasi a partire dai contributi teorici di Lev Vygotskij e della scuola russa, secondo cui per comprendere lo sviluppo psicologico dell’individuo è necessario tenere in considerazione i fattori sociali e culturali in cui la persona è inserita. Qual è la natura del cambiamento che caratterizza lo sviluppo? Secondo alcuni teorici, il cambiamento ha natura quantitativa: lo sviluppo, cioè è considerato sotto forma di accrescimento, ovvero come somma e accumulazione progressiva di piccoli cambiamenti nel tempo. Secondo altri, invece, il cambiamento avrebbe una natura prettamente qualitativa, sarebbe cioè una trasformazione conseguente a specifici cambiamenti evolutivi. La tesi quantitativa è sostenuta dai comportamentisti. Le teorie “stimolo-risposta” (S-R) considerano il bambino un essere infinitamente plasmabile il cui sviluppo è interamente condizionato da fattori ambientali esterni. La tesi qualitativa, invece, è sostenuta dalle teorie organismiche, proposte da Piaget e Vygotskij, secondo cui l’individuo è attivo costruttore delle proprie conoscenze e competenze e lo sviluppo appare determinato da principi intrinseci piuttosto che da fattori ambientali esterni. Concezioni scientifiche dello sviluppo nel corso del tempo Per comprendere la psicologia dello sviluppo contemporanea è necessario tenere presente le sue origini e l’evoluzione dei suoi modelli esplicativi nel tempo. Tale evoluzione è da attribuire proprio alle diverse concezioni del bambino e del suo sviluppo. • La visione ambientalista: John Locke riteneva che il bambino nascesse come una tabula rasa e che ogni sua caratteristica fosse poi plasmata dall’esperienza. Secondo questa prospettiva, il neonato era privo di strutture psicologiche ed estremamente influenzabile dall’ambiente circostante. La visione ambientalista di Locke tendeva dunque a negare ogni contributo dei fattori innati allo sviluppo psicologico. In tale ottica, l’acquisizione della conoscenza avveniva esclusivamente mediante l’apprendimento esterno. • La visione naturalista: contrapposta alla visione ambientalista è la prospettiva di Jean Jacques Rousseau. Secondo il quale, i bambini sono per natura “buoni” per cui non hanno bisogno di una particolare guida morale né di imposizioni per uno sviluppo normale. I bambini crescono dunque secondo il “disegno della natura”. 44 lOMoAR cPSD|4605717 • La teoria evoluzionistica: fa capo a Darwin,che era un convinto assertore dell’esistenza di profonde analogie tra gli animali vertebrati e gli uomini. Le differenze individuali erano frutto di un processo di adattamento dell’individuo all’ambiente. • L’approccio sociologico: l’approccio evoluzionistico viene contrastato dal filone sociologico e culturale, ovvero da coloro che, come Durkheim, sostengono il primato della società nello sviluppo individuale. Secondo questo filone di pensiero, è la società che condiziona obiettivi e bisogni, fornisce i mezzi di sussistenza e orienta le azioni individuali. La nascita della psicologia della sviluppo, come disciplina autonoma, avvenne ufficialmente nel 1882, anno in cui Preyer pubblicò La mente del fanciullo, che si basava sull’osservazione della figlia. Preyer propose una teoria interessante che rappresentava una sintesi tra il primato biologico e quello sociale. Egli dava la medesima importanza all’eredità individuale e all’esperienza. Le principali teorie dello sviluppo In maniera esemplificativa, possiamo dire che sono tre i grandi filoni teorici della moderna psicologia dello sviluppo: quello comportamentista, quello organistico e quello psicoanalitico, differenti l’uno dall’altro per gli assunti di base, per i metodi di indagine e per il focus di indagine. Il comportamentismo Secondo i comportamentisti, il cambiamento dipende dagli stimoli proposti dall’ambiente per cui il bambino tenderà a ripetere quelle sequenze comportamentali rinforzate dall’esterno e a eliminare quelle che ottengono rinforzi negativi. L’approccio comportamentista si propone sin dalla sua origine in maniera estremamente scientifica, utilizzando come metodologia, di indagine la sperimentazione di laboratorio. il focus di indagine è rappresentato dai processi di apprendimento. La corrente più radicale si esprime con in concetti di condizionamento classico e operante, sintetizzabili con l’espressione “apprendimento associativo”, ovvero per stimolo-risposta. Il condizionamento classico di Pavlov Pavlov dimostrò, attraverso l’osservazione sistematica di cani sottoposti a particolari stimolazioni, il legame tra stimoli e risposte, confermando l’avvenuto apprendimento della risposta incondizionata per via associativa. Il condizionamento operante (Skinner) Secondo Skinner, l’apprendimento avviene mediante rinforzo di una delle tante risposte presenti nel contesto. Dagli studi sul condizionamento operante deriva l’assunto secondo cui i comportamenti rinforzati positivamente tendono a ripetersi, quelli rinforzati negativamente o non rinforzati, tendono a estinguersi. Si distinguono, inoltre, i rinforzi primari, che soddisfano i bisogni fondamentali, come fame e sete, dai rinforzi secondari. Nella moderna psicologia dello sviluppo. I ricercatori hanno spostato l’attenzione dagli animali ai bambini e ci si è domandati se il condizionamento classico è applicabile ai bambini. A tale scopo sono state fatte osservazioni precise sul riflesso di suzione nel lattante. 45 lOMoAR cPSD|4605717 fiducia di fondo , corredata da un discreto controllo, esercitato dai genitori attraverso domande rivolte direttamente ai figli e, sull’offerta di aiuto costante ma moderato, per evitare il pericolo di diminuire il loro senso di autoefficacia. I comportamentisti hanno sottolineato la complessità del gioco dei rinforzi che se, somministrati a intermittenza, si rivelano più efficaci di quelli caratterizzati da continuità. Le punizioni inflitte con aggressività sortiscono effetti negativi, provocando l’imitazione di atteggiamenti violenti, mentre più utili risultano quelle simboliche e inflitte con tempestività: togliere di mano un oggetto a un bambino che lo utilizza pericolosamente appena inizia a farlo può essere una modalità funzionale a reprimere quel comportamento. La nascita delle relazioni familiari Dai 18 mesi il bambino amplia anche le relazioni all’esterno della sfera familiare propriamente detta. La relazione tra fratelli potrebbe costituire una sorta di fase preparatoria alla socialità con i coetanei, perché consentirebbe di sperimentare diversi livelli di interazione, cooperazione, conflitto, confronto. Questo è anche il periodo in cui maggiore si presenta la pressione dei genitori sui meccanismi di controllo finalizzati all’acquisizione di regole di comportamento e di condotta. Il bambino oscilla tra autocontrollo e controllo esterno, nel tentativo di padroneggiare situazioni diverse e comprendere il senso delle regole. Importanti, in questo senso, sono le routine, ovvero le attività ricorrenti, soprattutto quelle domestiche che consentono al piccolo di abituarsi alla regolarità dello schema. La routine pone al bambino sia la prevedibilità delle fasi sia l’attesa che ognuno dei passaggi che compongono l’intero schema. L’importanza della routine è riferibile non solo al contesto familiare ma anche a quello scolastico. Dai due anni, infatti, i bambini vengono inseriti nel nido ed è importante che all’interno della scuola materna vi sia una corretta organizzazione e predisposizione delle routine. La collaborazione con la famiglia Per garantire lo sviluppo del bambino in un ambiente ricco di stimoli e di esperienze produttive, una stretta collaborazione degli asili nido e delle scuole dell’infanzia con le famiglie e le agenzie sociali costituisce un presupposto indispensabile. Qualsiasi progetto educativo proposto negli asili e nelle scuole dell’infanzia implica il coinvolgimento diretto sia delle famiglie, sia delle istituzioni sociali. In particolare, la partecipazione attiva dei genitori è un presupposto imprescindibile. La continuità educativa tra famiglie e il nido, o la scuola materna, deve essere considerata come una collaborazione attiva che ha lo scopo fondamentale di far vivere al bambino un’esperienza positiva in un ambiente accogliente e tranquillo per un normale sviluppo emotivo e intellettivo. I gruppi L’individuo generalmente persegue lo scopo delle attività quotidiane stando insieme agli altri. Un gruppo, parte vitale della struttura sociale, è composto da soggetti interagenti, aventi status e ruoli interrelati, sulla base delle aspettative condivise riguardanti il rispettivo comportamento. L’identificazione con il gruppo, (il gruppo di appartenenza è detto esclusivo), se da un lato sortisce l’effetto positivo di far sorgere relazioni gratificanti tra gli individui, dall’altro lato può indurre alcuni partecipanti a respingere gli estranei. 48 lOMoAR cPSD|4605717 Differente dal gruppo è l’aggregato, un insieme di persone, come per esempio, quello composto dai passeggeri di un autobus, che si trova casualmente nello stesso istante in uno stesso luogo, che non interagisce in maniera significativa e che non sperimenta alcun senso di partecipazione. Approcci teorici: Jean Piaget L’analisi dello sviluppo sociale in Piaget si basa su numerose osservazioni tese a evidenziare le capacità di riconoscimento dell’oggetto da parte di un bambino anche quando tale oggetto è fuori dal campo visivo. La permanenza dell’oggetto che implica un’analoga individuazione nella ricerca di oggetti non presenti nel campo visivo, come ha evidenziato Piaget, si sviluppa durante il periodo senso motorio a partire dai 12 mesi e si esprime compiutamente al termine di tale fase intorno ai 18 mesi. La teoria della mente In contrapposizione alla teoria piagetiana, secondo la quale è in interazione prevalente o esclusiva con gli oggetti, alcuni studiosi cominciano a interessarsi, alla fine degli anni ’80, a come il bambino strutturi la propria conoscenza di sé e degli altri e delle variabili psicologiche che intervengono a sostenere e sviluppare questo processo. Punti cardine della teoria della mente sono le emozioni di base e gli stati fisiologici come fame o sete, le percezioni e le sensazioni ad esse collegate. Uno degli aspetti importanti alla base della teoria è la distinzione tra desiderio e credenza. La credenza, infatti, porta con sé l’idea che la persona abbia incamerato un’immagine mentale dell’oggetto desiderato. Nel desiderio vi è una rappresentazione dell’oggetto, nella credenza una metarappresentazione. L’apprendimento osservativo Un insieme do ricerche che fanno capo al lavoro di Albert Bandura e Richard Walters procede dall’ipotesi che i termini “identificazione” e “imitazione” si riferiscano allo stesso insieme di fenomeni del comportamento e allo stesso processo di apprendimento e che non sia utile distinguerli. Entrambi i termini, secondo gli autori, si riferiscono al modo in cui vengono acquisiti i modelli del comportamento sociale, per il tramite di un processo che può essere definito apprendimento osservativo. Gli studiosi, infatti, hanno dimostrato che attraverso la sola esposizione ad un modello e alla possibilità di osservarlo compiere determinate attività i bambini acquisiscono nuove risposte che eguagliano quelle del modello e che possono essere riprodotte non solo in quel preciso momento, ma anche essere replicate in un momento successivo. Albert Bandura La teoria dell’apprendimento sociale fa capo allo psicologo canadese Bandura. Lo studioso ritiene che le aspettative di genere vengano rafforzate e trasmesse attraverso le pratiche educative. Una tale impostazione si stacca dal “comportamentismo” che legge i comportamenti come reazioni agli stimoli, e si avvicina al “cognitivismo”. Bandura è interessato ai processi cognitivi che emergono dall’interazione con l’ambiente. La teoria del modeling sottolinea l’importanza dell’apprendimento per imitazione. 49 lOMoAR cPSD|4605717 Lawrence Kohlberg Una teoria che spiega in modo diverso lo sviluppo dell’identità di genere e l’acquisizione della consapevolezza di genere è quella di Kohlberg, secondo cui il bambino attraversa tre livelli di consapevolezza: l’identità di genere, la stabilità di genere, la congruenza di genere. Verso i tre anni, il bambino differenzia le due categorie di appartenenza sociale, i maschi e le femmine, stabilendo così la propria identità di genere. Il meccanismo di identificazione con il genitore del proprio sesso servirebbe invece a generare l’assunzione di ruolo. Intorno ai quattro anni, il bambino si rende conto che le differenze di genere sono anche stabili, ovvero che l’appartenenza a un genere sessuale determina anche il diventare uomo o domma. Solo dopo i sei anni si acquisisce la congruenza di genere, ovvero il bambino comprende che alle differenze di natura fisica si associano anche quelle di natura psicologica e comportamentale e che tali differenze sono stabili nel tempo. Kurt Lewin Il tedesco Lewin ha utilizzato nell’ambito della psicologia sociale la teoria della Gestalt. Lo studioso ha messo in luce, nella formulazione della teoria del campo, che tutti i fattori psicologici in grado di influenzare il comportamento individuale in un determinato tempo sono raccolti in uno spazio vitale, costituito dalla persona e dalla realtà esterna in cui influisce l’energia psichica e da cui affiorano forze capaci di condizionarsi vicendevolmente. Gordon Allport L’americano Allport ha definito la psicologia sociale come la scienza che studia la vita del singolo nella società, con particolare riferimento all’influsso esercitato dalla presenza degli altri sul pensiero, sui sentimenti e sul comportamento individuali. Ha adottato un punto di vista interdisciplinare. Allport ha attribuito grande importanza alla teoria di Mead, il quale ha affermato la costituzione dell’Io in Io multiplo, grazie all’assunzione da parte di ognuno degli atteggiamenti dell’altro. Solomon Asch Il polacco Asch ha collaborato con gli psicologi sperimentali comportamentisti e ha poi basato i suoi studi sulla teoria della Gestalt, nonché sul ruolo di percezione come valida premessa per la comprensione del comportamento sociale. Serge Moscovici Negli anni Cinquanta, Moscovici elabora la teoria delle rappresentazioni sociali, secondo cui la rappresentazione della realtà è costruita e condivisa socialmente. La teoria ecologica Bronfenbrenner è il principale esponente della teoria ecologica dello sviluppo, secondo cui l’individuo affronta una serie di sfide nel proprio sviluppo, alle quali risponde con progressivi adattamenti. Il modello ecologico, così come la teoria da cui trae origine, ovvero quella di Lewin, adottano una prospettiva interazionista-sistemica. Rispetto ai modelli costruttivisti, come quello di Piaget, Werner o di Vvgotskij, che centrano l’importanza sul ruolo strutturante della mente 50 lOMoAR cPSD|4605717 - Uno stile permissivo - Assenza di regole - Clima educativo incoerente - Mancanza di empatia nei confronti del bambino - Uso eccessivo di punizioni L’aggressività è energia. Perciò se presente in eccesso e mal gestita, ha buone probabilità di assumere contorni “patologici” in età evolutiva, favorendo la strutturazione di particolari disturbi come, ad esempio, l’iperattività o i comportamenti oppositivo-provocatori. L’iperattività coinvolge un gran numero di bambini. Essa è caratterizzata dall’aumento dell’attività motori, irrequietezza e difficoltà di concentrazione. I comportamenti oppositivo-provocatori, invece, sono caratterizzati da un atteggiamento aggressivo distruttivo, nonché da disubbidienza e ostilità verso tutte le figura autoritarie. Alcuni di questi comportamenti rientrano nella normale emancipazione dei bambini e possono ritenersi normali se manifestati con moderazione entro i primi sei anni di via. La loro persistenza oltre i sei anni, invece, può far pensare ad una manifestazione patologica. Comportamenti del genere, qualora mancasse un intervento adeguato, potrebbero diventare comportamenti asociali (vandalismo, bullismo, abuso di sostanze,etc..). Per gestire l’aggressività, più che le parole, è importante ciò che il bambino vede in famiglia, ovvero come i genitori si comportano. Un elemento fondamentale per contenere l’aggressività è la capacità di accettare e gestire le frustrazioni. Per favorire lo sviluppo di questa capacità nei bambini è importante che il genitore sappia e dimostri di saper accettare la propria aggressività come impulso naturale, che si può esprimere in modo assertivo e non distruttivo. Far assistere i bambini a manifestazioni di aggressività tra genitori è molto sbagliato perché mostra l’incapacità di contenere gli impulsi. L’ADOLESCENZA L’adolescente non è più un bambino ma non è ancora un adulto. Attraversa una fase delicata di transizione durante la quale è chiamato a fronteggiare una serie importante di compiti evolutivi. Tra questi i più importanti sono le trasformazioni corporee, il confronto con il gruppo dei pari e con le figure genitoriali, le fasi dell’innamoramento e delle relazioni di coppia, la costruzione dell’identità, la gestione dell’autostima. In ambito psicologico i diversi orientamenti hanno focalizzato l’attenzione sui turbamenti emotivi propri dell’adolescente. Le emozioni sono intense e spesso drammaticamente esasperate. Tra i compiti più importanti da affrontare nel periodo adolescenziale vi è la formazione di un’identità personale. L’identità personale coincide con due dimensioni: l’idea che un individuo ha di sé e ciò che l’individuo è realmente. L’immagine di sé non è altro che la descrizione che l’individuo fa di sè: essa è l’aspetto cosciente dell’identità e perciò regola l’autostima, l’autoefficacia, la soddisfazione di sé, i sentimenti di inadeguatezza, le aspettative di essere accolti e apprezzati dalla società. Le principali teorie sull’adolescenza sono quella psicoanalitica e quella psicosociale. 53 lOMoAR cPSD|4605717 LA TEORIA PSICOANALITICA La teoria psicoanalitica, incentrata sulle pulsioni, si basa su una concezione conflittuale dell’adolescenza il cui superamento porta all’acquisizione di una sessualità più matura che si manifesta con il controllo delle pulsioni istintuali e la subordinazione delle pulsioni all’affettività. L’APPROCCIO PSICOSOCIALE Una delle teorie più interessanti sull’identità e il suo sviluppo ci proviene dalla corrente neo- freudiana con il contributo di Erik Erikson. Dalle sue osservazioni nasce la suddivisione del ciclo di vita in otto età dell’uomo, otto periodi critici. Ogni stadio è giocato sulla bipolarità ed è caratterizzato da un dilemma che nasce dalla relazione individuo/ambiente e che deve essere superato affinchè avvenga la maturazione. Il processo di costruzione dell’identità si snoda attraverso tutto l’arco della vita, ma attraversa una mappa cruciale durante l’adolescenza, perché è questo il momento in cui si manifesta maggiormente il bisogno d’identità. Egli parla di identità dell’IO, indicando la funzione organizzatrice dell’io che serve a mantenere l’unitarietà della persona. In adolescenza i ragazzi manifestano una conflittualità tra identità e confusione (o dispersione) d’identità. Si tratta di un periodo in cui l’individuo esplora se stesso e cerca una sua collocazione nel contesto sociale di appartenenza. Il modello di Erikson è stato poi rielaborato dallo psicologo canadese James Marcia che, distinguendo quatro stadi di identità (diffusione, esclusione, moratoria e raggiungimento dell’identità), affermò che l’adolescente incontra nella vita la possibilità di fare delle esperienze più o meno importanti, ma che richiedono da parte sua un certo impegno. L’impegno è visto in termini di risorse emotive impiegate in una certa esperienza dall’adolescente. Se le esperienze vengono affrontate con impegno, l’individuo acquisisce un’identità realizzata. Se invece l’adolescente non affronta le esperienze con impegno si ha un blocco d’identità. Nel periodo dell’adolescenza si verifica anche un cambiamento delle funzioni cognitive. Richiamando gli studi di Jean Piaget, il ragazzo matura il pensiero operatorio formale che gli consente un’elaborazione delle informazioni in cui si possa tener conto di più variabili e anche un’attività d’analisi e sintesi che sia effettivamente matura e creativa. Copes individua tre stili genitoriale partendo dal presupposto che lo sviluppo dell’identità sia fortemente influenzato dallo stile educativo usato dai genitori: - Genitore relazionato: agevola la crescita dei figli e l’acquisizione di diversi gradi di autonomia. I figli maturano una relazione con i genitori basata sulla capacità di ascolto e di comprensione di questi ultimi. - Genitore autocentrato: non muta la propria posizione convinto di sapere quale sia il bene del figlio e ciò che è giusto fare. - Genitore evasivo: viene descritto come psicologicamente assente e spesso deluso e arrabbiato. 54 lOMoAR cPSD|4605717 MODELLI EDUCATIVI CONTEMPORANEI Il pedagogista Jean Jacques Rousseau, alla fine del XVIII sec. Ha riconosciuto, per la prima volta, che l’educazione è fondamentale per il genere umano. Il problema educativo si va gradualmente chiarendo durante l’800 fino a diventare oggetto di studio sistematico e razionale, quando nasce la pedagogia come scienza. La pedagogia o scienza dell’educazione, secondo alcuni studiosi, coincide con la pubblicazione, nel 1909 dell’opera Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale di Claparede. Nel mondo contemporaneo è un’impresa definire il significato e il contenuto dell’educazione. Le società, soggette a continue e veloci trasformazioni, non facilitano l’approccio ad una scienza dell’educazione chiara perché tali cambiamenti producono, negli individui, ansie e insicurezze. La scienza della formazione o pedagogia non dovrebbe, quindi, farsi guidare dalla prospettiva di costruire un solo modello o di avere un punto di riferimento statico per tutti i componenti di una società. Qui di seguito alcuni studiosi che hanno contribuito a rendere la pedagogia una scienza: Adolphe Ferrière: fonda nel 1899 l’Ufficio internazionale delle scuole nuove. Secondo questo studioso la scuola è impostata in modo da permettere al bambino di sviluppare la propria personalità, tramite lo svolgimento di attività pratiche e spontanee ed esperienze attive in modo che l’apprendimento scaturisca dal fare, dall’agire e dall’interazione con l’ambiente esterno. (attivismo pedagogico). Roger Cousinet: insegnante e ispettore scolastico critica i metodi didattici tradizionali, elaborando l’ipotesi di una formazione libera di alunni divisi in gruppi, continuamente ricomponibili, per favorire l’autonomia del singolo, la collaborazione tra i gruppi e l’acquisizione delle norme che regolano la vita comunitaria. Il maestro funge da guida per l’illustrazione dei compiti da svolgere e da supporto per lo svolgimento delle attività. Lo scopo dell’educazione è di lasciare ai bambini la massima libertà possibile per la scelta e la realizzazione del lavoro da svolgere. John Dewey: cerca di fornire alla pedagogia lo status di scienza autonoma e sperimentale. Egli propone un modello di educazione progressiva, necessario per migliorare la società e per incoraggiare lo spirito democratico, evidenziando l’importanza del lavoro fin dalla scuola primaria, in particolar modo di gruppo, e dell’apprendimento tramite il fare, il learning by doing. La società industriale è colpevole di aver privato il bambino della partecipazione alle esperienze lavorative che un tempo si svolgevano in casa: è dovere della scuola supplire a questa mancanza, tramite i laboratori, al cui interno i bambini possono compiere semplici attività, come il cucire, impastare il pane, tagliare e incidere il legno o altri materiali. In questo senso si parla di educazione democratica, destinata a tutti superando il divario tra cultura classica e pratica. Al centro dell’interesse pedagogico c’è l’alunno con i propri interessi e le proprie necessità: per questo motivo si cerca di favorire la collaborazione tra famiglia, scuola e ambiente sociale. Edouard Claparède evidenzia la necessità di un atteggiamento di ricerca e sperimentazione continue da parte di insegnanti e scuole, attraverso il metodo sperimentale, volto alla misurazione e all’interpretazione dei fenomeni. Il suo approccio è improntato al funzionalismo poiché egli ritiene che gli andamenti psichici dell’individuo siano il frutto del processo d’adattamento dell’organismo 55 lOMoAR cPSD|4605717 l’evoluzione della psicopedagogia poichè focalizza l’attenzione sull’apprendimento e sulle dinamiche psicologiche del bambino. Jerome Bruner: parte dall’idea che il concetto di educazione, legato all’adattamento sociale, alla cultura e alla socializzazione, sia ristretto e limitativo, poiché i continui cambiamenti a livello economico e tecnologico creano la necessità di andare oltre la semplice trasmissione di conoscenze per favorire l’acquisizione di competenze (imparare a imparare) e l’autostima. Il compito della scuola è il potenziamento dell’intelligenza e il potenziamento di nuove abilità e capacità. Il sistema educativo dovrà essere improntato in un’ottica di mediazione e costruzione comune dei significati da attribuire alla realtà di cui fanno parte. In questo senso si parla di co-costruzione di significati. Il metodo adottato da Bruner consente ad ogni bambino di migliorare le conoscenze e le competenze, poiché potenzia la capacità di problem solving (soluzione dei problemi) e velocizza l’apprendimento tramite l’insegnamento a spirale. L’insegnante assume un ruolo centrale: per questo motivo oltre a possedere competenze disciplinari e psicologiche, deve essere in grado di preparare e gestire, insieme agli altri colleghi, un curricolo di studi adatto alle esigenze dell’allievo. La scuola assume una dimensione sociale poiché l’educazione deve insegnare a confrontarsi con opinioni diverse, stimolare la conoscenza di nuovi mondi, attraverso una negoziazione continua dei significati, e trasmettere i linguaggi necessari alla conquista del sapere. La percezione della realtà non è mai un atto passivo ma è condizionata da fattori sociali, come dimostrato dall’esperimento della moneta, condotto dallo stesso Bruner che evidenzia come i bambini della classe sociale più svantaggiata percepiscano la stessa moneta più grande rispetto ai coetanei più fortunati. Burrhus Skinner: elabora la teoria dell’apprendimento nota come condizionamento operante. lo scopo dell’insegnamento è incoraggiare nell’allievo il comportamento desiderato per favorire l’apprendimento, per cui il maestro oltre ad essere profondo conoscitore del comportamento dell’uomo, deve adottare programmi idonei alle esigenze di ciascuno. Per questo motivo, individuando la difficoltà di realizzare un insegnamento adatto a tutti, Skinner suggerisce di approntare sequenze di apprendimento, identiche per tutti, ma nello stesso momento plasmabili sulle necessità di ciascuno. Skinner elabora l’istruzione programmata ossia un percorso didattico diviso in piccole unità di apprendimento: la successione degli argomenti, organizzati in semplici domande ed esercizi di verifica, è tale da permettere all’alunno di procedere secondo i propri tempi. Edgar Morin propone una riforma dell’insegnamento suggerendo, per la formazione del soggetto nell’attuale contesto socio-culturale, il recupero della complessità della cultura, a partire dalla scuola, che si presenta coma la prima istituzione, dopo la famiglia, deputata all’educazione, apprendimento e alla formazione, che deve diventare protagonista di questa rifondazione. Il compito della scuola è educare le molte dimensioni della personalità considerando che ciascuno è protagonista del proprio processo educativo. L’educazione non può esistere al di fuori della struttura sociale; educare in una società aperta e democratica vuol dire aiutare il soggetto ad essere autonomoe consapevolmente critico, e motivarlo alla formazione della propria identità personale, così che possa assumersi delle responsabilità ed essere collaborativo per il bene comune. Nella società della conoscenza la priorità da perseguire in campo educativo è quindi “apprendere ad apprendere”. L’obiettivo di ogni percorso formativo si sostanzia nel facilitare la costruzione e lo 58 lOMoAR cPSD|4605717 sviluppo di strutture cognitive e affettivo relazionali che permettono di poter apprendere ancora e meglio e gradualmente, proiettando l’individuo verso il futuro. Non a caso gli studi sull’apprendimento hanno condotto ad una ridefinizione di questo concetto con riferimento all’importanza delle differenza individuali; al ruolo essenziale dei contesti socio-culturali; alla centralità del soggetto, inteso come soggetto attivo e autonomo dei processi di apprendimento. Bisogna, dunque, soffermarsi sull’evoluzione di alcuni importanti termini: educazione, formazione, istruzione, accoglienza, sviluppo, integrazione, socializzazione, apprendimento. L’educazione deve rendere capace il soggetto di affrontare le sfide dell’esistenza con pensiero e azione esercitati criticamente e responsabilmente nei riguardi di se stessi e del mondo circotante. I DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO Circa il 10% della popolazione scolastica presenta problemi d’apprendimento. Le difficoltà ad apprendere possono dipendere da fattori ambientali e/o esterni, o da fattori individuali. I disturbi vengono diagnosticati quando i risultati ottenuti in test psicometrici, somministrati individualmente su lettura, calcolo, o espressione scritta si collocano significativamente al di sotto degli standard previsti n base all’età, all’istruzione e al livello d’intelligenza. La psicologia li suddivide in disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e disturbi non specifici dell’apprendimento (DNSA). Il ritardo mentale, il livello cognitivo borderline, l’ADHD, l’autismo ad alto funzionamento, i disturbi d’ansia, sono alcune categorie che possono causare DNSA. I DSA: Tali disturbi sono sottesi da specifiche disfunzioni neuropsicologiche, isolate o combinate. Nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentale (DSMIV) i dsa sono inquadrati nell’Asse 1 come disturbi della lettura, dell’espressione scritta e del calcolo. Nella classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati (ICD 10) proposta dall’O.M.S. vengono collocati sull’asse 2 come disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche. Nel nostro paese al riconoscimento ufficiale della dislessia, disortografia e discalculia come DSA si è giunti soltanto nel 2010, con il varo della legge n.170. Le finalità di questa legge sono le seguenti: - Garantire il diritto all’istruzione - Favorire il successo scolastico - Ridurre i disagi relazionali ed emozionali - Adottare forme di verifica e valutazione adeguate alle necessità formative degli studenti - Sensibilizzare gli insegnanti ed i genitori nei confronti delle problematiche legate ai DSA - Favorire la diagnosi precoce e percorsi didattici riabilitativi - Incrementare la comunicazione tra scuola, famiglia e servizi sanitari - Assicurare eguali opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale La diagnosi è di pertinenza del Servizio Sanitario Nazionale. Perciò nel caso di persistente difficoltà la scuola trasmette apposita documentazione alla famiglia alla quale spetta la decisione di rivolgersi ai servizi sanitari per ottenere un inquadramento diagnostico e comunicare l’esito all’istituzione scolastica, la quale, a fronte di una diagnosi di DSA, deve garantire l’uso di strumenti compensativi 59 lOMoAR cPSD|4605717 e dispensativi e di flessibilità didattica. Le linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con DSA all’interno del decreto del 12 luglio 2011, contengono le indicazioni per realizzare degli interventi personalizzati che puntino sulla centralità delle metodologie didattiche. Si parla di percorsi di didattica individualizzata e personalizzata. La didattica individualizzata consiste nelle attività di recupero individuale che può svolgere l’alunno per potenziare determinate abilità o per acquisire specifiche competenze anche nell’ambito delle strategie compensative e del metodo di studio. La didattica personalizzata invece, anche sulla base di quanto indicato nella L. 53/2003 e nel D. Lgs 59/2004 calibra l’offerta didattica e le modalità relazionali, sulla specificità e unicità a livello personale dei bisogni educativi che caratterizzano gli alunni della classe, considerando le differenze individuali soprattutto sotto il profilo qualitativo; si può favorire così l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno, lo sviluppo consapevole delle sue preferenze e del suo talento. La sinergia fra didattica individualizzata e personalizzata determina per l’alunno con DSA le condizioni più favorevoli per il raggiungimento del successo nell’apprendimento. Gli strumenti compensativi sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria. Fra i più noti vi sono: la sintesi vocale, il registratore, i programmi di video scrittura con correttore ortografico la calcolatrice, le mappe concettuali, etc.. Le misure dispensative sono invece interventi che consentono all’alunno di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento. Le attività di recupero individualizzato, le modalità didattiche personalizzate, gli strumenti compensativi e le misure dispensative dovranno essere formalizzati dalle istituzioni scolastiche al fine di assicurare uno strumento utile alla continuità didattica e alla condivisione con la famiglia delle iniziative intraprese. A tal proposito la scuola predispone entro il primo trimestre, un documento (il Piano Didattico Personalizzato) che dovrà contenere almeno le seguenti voci, articolate per le discipline coinvolte dal disturbo: - Dati anagrafici dell’alunno - Tipologia di disturbo - Attività didattiche individualizzate - Attività didattiche personalizzate - Strumenti compensativi utilizzati - Misure dispensative adottate - Forme di verifica e valutazione personalizzate Il PDP viene redatto dal team dei docenti o dal consiglio di classe una volta acquisita la diagnosi di DSA. La redazione del documento prevede una fase preparatoria e d’incontro tra docenti, famiglia e specialisti. Il PDP deve essere verificato due o più volte l’anno. Sono previste idonee strategie per l’insegnamento delle lingue straniere (salvo l’esonero nei casi di particolare gravità risultante dal certificato diagnostico). Viene privilegiata l’espressione orale. 60 lOMoAR cPSD|4605717 adeguate, realizza incontri di continuità con i colleghi del precedente o successivo ordine o grado di scuola. La famiglia che si rende conto per prima delle difficoltà del proprio figlio/a, informa la scuola, sollecitandola ad un periodo di osservazione. Se invece è la scuola che la informa essa: - Provvede a far valutare l’alunno - Consegna alla scuola la diagnosi - Condivide i percorsi individualizzati e personalizzati - Sostiene la motivazione e l’impegno dell’alunno - Verifica lo svolgimento dei compiti e che vengano portati a scuola i materiali richiesti - Incoraggia l’acquisizione di autonomia La formazione degli insegnanti e dei dirigenti scolastici è un elemento fondamentale per la corretta applicazione della L.170/2010. Un principio generale è che il corpo docente di ogni classe deve essere competente in materia di DSA. A questo scopo gli Uffici Scolastici Regionali attivano degli interventi di formazione realizzando sinergie con i servizi sanitari territoriali, le università, gli enti, gli istituti di ricerca e le agenzie di formazione individuando le esigenze formative specifiche, differenziate per ordini e gradi di scuola. L’insegnante referente per i DSA può svolgere un ruolo importante di raccordo. Il Ministero, in accordo con la Conferenza nazionale permanente dei presidi di scienze della formazione (CNPSF) promuove percorsi di alta formazione attraverso l’attivazione presso le facoltà di scienze della formazione, i corsi di perfezionamento e master universitari in didattica e psicopedagogia per i DSA rivolti a dirigenti e docenti a partire dall’anno 2011/12. Fino ad un massimo di 100 posti per ogni università. Il costo è coperto in parte dal MIUR. I PRINCIPALI MANUALI DIAGNOSTICI Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) è lo strumento diagnostico per i disturbi mentali maggiormente impiegato dai medici e dagli psichiatri di tutto il mondo. È utilizzato, inoltre, dagli assicuratori sulla salute per determinare la copertura dell’assicurazione. Il DSM raccoglie oggi più di 370 disturbi mentali. La prima edizione del manuale (DSM-I) risale al 1952. L’ultima edizione al 1994 (DSM-IV). È uno strumento di diagnosi descrittiva dei disturbi mentali e la sua struttura segue un sistema multi assiale, dividendo i disturbi in cinque assi: - Asse I: disturbi clinici - Asse II: disturbi di personalità - Asse III: condizioni mediche generali - Asse IV: problemi psicosociali e ambientali - Asse V: valutazione globale del funzionamento Tale strumento è usato per realizzare una diagnosi. 63 lOMoAR cPSD|4605717 La classificazione internazionale delle malattie, incidenti e cause di morte (ICD) è uno standard di classificazione delle malattie e dei problemi ad esse connessi che è stilata dall’organizzazione mondiale della sanità (OMS). L’ICD è alla decima edizione. Il Manuale diagnostico Psicodinamico (PDM), pubblicato negli Stati Uniti nel 2006, è il risultato della collaborazione tra diverse associazioni psicoanalitiche americane. È diverso sia dal DSM che dall’ICD perché propone un approccio diverso di diagnosi: che non è concepita in maniera categoriale ma in senso dimensionale. Tale prospettiva produce una visione maggiormente ampia della singolarità del paziente. Nel 1977, in base al modello bio-psico-sociale di George Engel, nel PDM la salute mentale viene descritta non come assenza soltanto di sintomi psicopatologici, ma come presenza in un soggetto di capacità cognitive, comportamentali ed emotive, favorite dalla condizione di benessere e dal contesto di appartenenza. 64
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