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tra vecchio e il nuovo mondo., Sintesi del corso di Teorie della Democrazia

rissunti capitolo per capitolo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 30/01/2019

geno92
geno92 🇮🇹

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Scarica tra vecchio e il nuovo mondo. e più Sintesi del corso in PDF di Teorie della Democrazia solo su Docsity! CAP 1 il passato che non passa 1.1 Limiti del mutamento sociale -obiettivo analizzare entità del mutamento, le diverse forme che assume, le cause generali e specifiche che lo hanno prodotto. Tocqueville-> analizzato il problema del mutamento, quando ha collegato gli esiti della riv francese con istituzioni, processi che risalivano all ancien regime mostrando che passato che riv voleva distruggere continuasse ad influenzare; sostenendo che accentramento amministrativo perseguito con la forza dopo riv era in verità un’eredità dell’ancien regime. Attenzione sulle eredità valorizza storia e ruolo inerzia storica, nonche la portata dei meccanismi di riproduzione, che prevede la sopravvivenza di norme, regole, istituzioni e prende in considerazione ruolo che la routine svolgono nei processi politici. 1.1.1 continuità e discontinuità -continuità-> volte che precedenti scelte sono state istituzionalizzate nella forma di organizzazioni, norme e accorsi appare difficile modificarle e gli attori tendono ad adeguarsi; ogni istituzione tende a riprodursi. Discontinuità-> passato esercita una sua influenza, ma non necessariamente producendo un movimento; puo provocare una reazione in una direzione totalmente diversa, addirittura opposta per esempio alimentando la determinazione dei nuovi attori democratizzazione a liberarsi in tutti i modi dai vincoli del passato 1.2 eredità, stori e democratizzazioni - eredità del passato si intende aspetti diversi tra loro, come valori, memorie, identità, norme, istituzioni, organizzazioni, elite e comportamenti che sopravvivono alla transizione e che condizionano gli assetti politici successivi, inducendo certi cambiamenti e ostacolandone altri. Memorie piu spinose relative politiche repressive o pulizie etniche; probabile che si sviluppi domanda di giustizia. Scopo nuovo regime democratico è di ampliare sua legittimità. Sulle transizioni il passato esercita influenza in due modi: 1) condizionamento caratteri, percorsi ed esiti 2) lasciando che le stesse democratizzazioni propongono nuove interpretazioni e riconfigurazioni del passato stesso. Nel 1) abbiamo a che fare con confining conditions cioè insieme di influenze e condizionamenti che la transizione non ha cancellato che il nuovo regime deve superare o adattarsi, che determinano sue scelte e decisioni. Lijphart- > dicotomia tra cio che si puo cambiare e io che si puo tenere, marcando confina tra le due diverse transizioni democratiche. Huntington->ri-democratizzazioni piu probabilità di avere successo delle democratizzazioni, perche sostenute da un patrimonio di esperienze e da una memoria del passato trasmessa da istituzioni, attori collettivi. Karl e Schmitter: 2 eredità che democrazie affrontare per consolidarsi -> Gorilla question: identificava la tradizione di interventismo dei militari in politica, che obbliga le nuove democrazie ad i rischi di colpo di stato e il potere di ricatto che le forze armate mantengono dopo aver lasciato potere. Nomenklatura question: identificano n ostacolo al successo della democratizzazione nella persistente presenza della nomenklatura comunista all’interno degli apparati amministrativi delle nuove democrazie est-europee 1.3 eredità storiche -qual eredità siano significative e pesino sul nuovo regime democratico e quali modo lo condizionano. Eredità storiche esercitano influenza sulla democratizzazione e sul regime successivo. Tale influenza operativa in 3 modi diversi: 1) influenza diretta, condizionando fisionomia regime non democratico; 2) riferimento emulativo , si tenta di tornare alla fase precedente con ripristino costituzioni norme e istituzioni simbolo del passato; 3) apprendimento politico, traendo dal passato precedente al regime non democratico una lezione da mettere a frutto nella transizione democratica. Questioni relative identità nazionali e statali, alla formazione, evoluzione e conformazione dello stato, risalgono a epoche lontane ma possono continuare ad incidere sui processi politici di oggi. Insieme regimi comunisti europei ha vissuto una comune esperienza istituzionale, ma ciascun paese ha seguito un suo percorso. Guardare anche fase pre-comunista. 1.4 eredità del vecchio regime -attenzione anche sule eredità che ha assunto il vecchio regime, quello pre-democratico. Sono rivelanti poiché hanno creato vincoli, ostacoli e ritarsi alla democratizzazione, ma anche alcune condizioni favorevoli: non solo eredità derivanti regime non democratico a condizionare la democratizzazione, bensi anche le eredità che ha acquisito il vecchio regime autoritario. Certe eredità d’aiuto alla democrazia. Ma altrettanto esistono frammenti vecchio regime sopravvissuti alla transizione, che frappongono difficoltà al compimento e successo della democratizzazione. Conservazione eredità, frutto di negoziati e patti, favorisce il progredire della transizione, ma si configura inizialmente quasi sempre come un elemento di debolezza della democrazia, ostacolo al conseguimento del consolidamento democratico. 1.4.1 eredità socio-culturali, elitiste e istituzioni-organizzative - possibile distinguere eredità: socio-culturali, elitiste, istituzionali organizzativa. Le prime, decenni di regime autoritario o totalitario hanno plasmato mentalità, valori, orientamenti, comportamenti quotidiani che restano radicati. All’eredità di tipo culturale appartiene anche la memoria collettiva e i processi di apprendimento quanto piu le eredità dipendono dalla elites, quando si verifica continuità elites, le transizioni sono continue e pacifiche e non prevedono sostituzione completa della vecchia classe dirigente; sono proprio le vecchie elites ad avviare e guidare transizione, eredità di tipo strutturale, istituzionale, organizzativo fanno riferimento ad effetti di precedenti politiche e istituzioni sopravvissute alla transizione. Quanto piu il vecchio regime è invasivo, tanto piu sarà difficile la transizione democratica e l’assicurazione della lealtà al nuovo regime. Tab 1.1 1.5 forza e incidenza delle eredità -forza delle eredita del regime non democratico, dipende da alcun fattori oggettivi. È costituito dalla durata del vecchio regime, quanto piu è longevo tanto piu ha modo e tempo di incidere sulla fisionomia della società, politica e stato. Durata è determinata da molte condizioni. Nei regimi in cui il partito unico è un partito forte capace di svolgere con successo le funzioni di legittimazione del sistema politico, di reclutamento della leadership e di aggregazione degli interessi aumentano le probabilità di una stabilizzazione nel lungo periodo del regime. Un secondo fattore è determinato dai caratteri interventivi e innovativi del vecchio regime: quanto più il regime non democratico ha plasmato la realtà politica e quanto più «ha invaso» anche le dimensioni sociale, economica e culturale, tanto più è probabile che restino tracce ed eredità. La capacità innovativa e di penetrazione di un regime tende a essere, dunque, tanto più profonda e incisiva quanto maggiori sono il suo carattere rivoluzionario, la sua intensità e caratterizzazione ideologica, il grado di mobilitazione politica imposto e il consenso popolare che riesce a raccogliere in alcune fasi della sua storia. Terzo fattore costituito dalle modalità di transizione: più la transizione è pacifica e continua, tanto più è facile che vecchie eredità si trasferiscano al nuovo regime; al contrario, quanto più è discontinua e traumatica, tanto più le eredità tenderanno a essere spazzate via e anche le ripercussioni prodotte dagli interventi innovativi e rivoluzionari del vecchio regime potranno essere, in parte, attenuate, anche se la cancellazione di abitudini, valori e comportamenti radicati invece sarà più difficile. Quarto fattore è il contesto internazionale, ossia dalle spinte o influenze provenienti estero, in grado di influire sul peso e sul tipo di influenza di alcune eredità. In generale, quanto più il contesto internazionale è parte attiva nel guidare la democratizzazione, tanto più le eredità del vecchio regime vengono circoscritte e limitate. In questo caso conta molto l’emulazione, aspetto secondo cui si guarda a quanto accaduto negli stati che hanno appena attraversato una transizione di regime. Con tali precedenti, alcune delle eredità più prevedibili sono quindi la debolezza della società civile, assenza di un’opposizione, leggi altamente politicizzate e intrise di ideologia, presenza pervasiva del partito unico, economia largamente controllata dallo stato. 1.5.1 memoria e apprendimento politico - memoria collettiva condizione i nostri comportamenti. Credenze opinioni mutano in funzione di quanto apprendiamo da precedenti esperienze; apprendimento politico è il processo con il quale elite, attori collettivi e opinione pubblica modificano credenze e tattiche politiche a seguito di crisi e mutamenti drammatici. Nei processi di democratizzazione mettere a frutto cio che si è imparato dal passato diviene cruciale nella fasi centrali e quando si devono erigere principali istituzioni del nuovo assetto. Strategie utilizzate e scelte istituzionali compiute sono il frutto del patrimonio di esperienze degli attori politici e insegnamenti trasmessi agli individui. Il concetto di «apprendimento politico» si fonda sulla constatazione che credenze e valori possano mutare sotto l’influenza di eventi particolari: il fallimento di una precedente esperienza democratica, gli anni della dittatura, una guerra civile e così via, possono contribuire a mutare modi di pensare. Tab 1.2 CAP 2 LE EREDITA’ DEL PASSATO AUTORITARIO NELLA DEMOCRATIZZAZIONE ITALIANA. 2.1 mobilitazione e società civile - Il fascismo non riuscì mai a realizzare una politica di assimilazione e subordinazione di ogni sfera politica e sociale sotto la forma della completa «fascistizzazione» del paese. Al contrario, istituzioni quali la monarchia, le forze armate, la Chiesa cattolica e la grande borghesia industriale mantennero un ruolo relativamente autonomo, dando luogo a quel pluralismo limitato che è uno degli elementi caratterizzanti i regimi autoritari rispetto a quelli totalitari. Fascismo creò denso reticolo di organizzazioni di mobilitazione per inquadrare e controllare ogni cittadino. Appartenenza partito nazionale fascista (pnf) requisito obbligatorio, partito aveva una serie capillare di articolazioni indirizzate alla socializzazione e mantenimento della partecipazione. Regime riuscì in un’ampia penetrazione nella società civile italiana, la cui mobilitazione cadde completamente mani del pnf e sue organizzazioni collaterali. Tab 2.1. Forte capacità mobilitazione del regime fascista. Dati su elezioni democratiche, da’46 in poi conferma persistenza ampia partecipazione che dimostra intensa capacità mobilitativa dei partiti; motivazioni fatte risalire ad un processo di memoria ed apprendimento politico dei partiti democratici. Partito di masso come agente di alimentazione di partecipazione popolare. Tab 2.2 si osserva: pci partito di massa, dc lo divenne dal ’54 con Fanfani; psi mai ricalcare organizzazione cellulare non potendo contare su appoggio di organizzazioni collaterali. Negli anni si svilupparono legami simbiotici dei partiti (soprattutto della DC) nei confronti delle associazioni di interessi presenti nella società civile, nel settore agricolo (Confagricoltura e Coldiretti), nell’industria (espansione del settore pubblico e smobilitazione di Confindustria, penetrazione della Dc negli enti pubblici), dei sindacati. Partito diviene attore centrale scena politica. Società civile incapace di organizzarsi autonomamente si prestava ad essere coordinata dai partiti e nei partiti mantennero «l’egemonia della piazza e del parlamento, e una forma quasi monopolistica di aggregazione e mobilitazione politica e civile, da un lato, di decisione politica, dall’altro». Veniva a riprodursi cosi un modello di società debole. La centralità dei partiti nella fase di consolidamento italiano riflette la loro capacità di occupazione di uno spazio di identificazione lasciato libero dalla scomparsa del pnf. La partecipazione nell’Italia anni’50 evidenzia come i cittadini fossero scarsamente informati, racchiusi su atteggiamenti particolaristici, scarsamente coinvolti in un associazionismo libero; prevaleva la situazione di isolamento culturale, alienazione del sistema politico. Nella fase del consolidamento democratico si riproduce la partecipazione ritualistica, formale, simbolica e fondamentalmente passiva tipica anche del regime non democratico. Come ricorda Morlino, a livello di massa c’è la persistenza di attitudini e abitudini acquisite durante il fascismo come l’idea di una politica fatta dalle élite e imposta dall’alto alle masse e da queste passivamente accettata. 2.2 trapassato liberale, passo fascista e democrazia presente - Dal 1861 a oggi, nella storia politica italiana si sono susseguiti quattro sistemi partitici. Nella fase della prima democratizzazione il suffragio era limitato a meno del 2% della popolazione. Non esistevano partiti stabili, ma federazioni di notabilati locali. La legge elettorale varata nel 1882 portò l’area del suffragio al 7%, ma l’ampliamento non produsse partiti coerenti, né aumentò la partecipazione popolare. Tuttavia, la classe politica liberale porrà le condizioni per il decollo industriale del paese, dal quale derivò l’affermarsi di nuovi ceti e nuove forze politiche (socialisti, cattolici, nazionalisti). L’introduzione del suffragio universale maschile comunque 14 partiti, 11 dei quali ottennero rappresentanza. Inoltre, subito dopo la politica delle licenze, si ebbe la formazione del Partito socialista dell’impero (Srp), un partito erede del nazismo. Alla risoluzione di questi problemi fu chiamata l’élite democratica tedesca, la quale adottò la strategia della «democrazia militante» (Karl Loewenstein), secondo cui le democrazie minacciate da movimenti fascisti dovevano mettere fuorilegge questi partiti (un principio sostenuto anche da Sartori). Nella cornice della democrazia militante il secondo strumento utilizzato fu la legge elettorale che, nella sua forma originaria, consisteva in un sistema elettorale misto (3/5 dei deputati erano eletti con un sistema maggioritario uninominale a un turno; 2/5 attraverso un sistema proporzionale con liste di partito; per evitare la proliferazione dei partiti nessuno di questi otteneva seggi proporzionali se non vinceva in una particolare regione o un seggio maggioritario o il 5% dei voti espressi). Vi furono due riforme di questa legge, una del 1953, l’altra del 1956: -1 Nella prima, ad a ogni elettore erano conferiti due voti, da esprimere uno per i candidati circoscrizionali, l’altro per le liste di partito; ogni sistema elettorale eleggeva il 50% dei seggi parlamentari; la clausola del 5% passava dal livello regionale a quello federale; 2 La riforma del 1956 prevedeva che per ottenere seggi proporzionali un partito doveva ricevere più del 5% del voto nazionale o conquistare almeno tre seggi maggioritari. Un’altra eredità potenziale dell’esperienza nazista sui temi di cui si sta trattando è relativa ai modelli di partito adottati nella Rft. Il modello del partito nazista è vicino a una concezione di tipo catch-all (partito pigliatutto). È provato che i partiti di Weimar non raccolsero la sfida competitiva lanciata dal partito pigliatutto nazista [Smith]. Questo aspetto può essere annoverato tra quelli che hanno favorito la conquista del potere da parte del nazismo. Imma 1 + fig 3.2 3.3 Élite politica e funzionale - Per valutare l’eredità del nazismo sull’élite della Rft considereremo, da un lato, l’élite politica in senso stretto, dall’altro, le élite funzionali (burocrazie ministeriali, magistratura, esercito, economia). Il processo di denazificazione previde: la registrazione e il temporaneo internamento dell’intera élite politica ed economica dello stato nazista, incluse tutte le SS; processi per ogni figura importante e per ogni organizzazione responsabile dell’inizio di una guerra di aggressione e per crimini contro l’umanità; dissoluzione delle organizzazioni nazionalsocialiste; allontanamento di tutti i nazisti dalla vita pubblica e da tutte le posizioni di potere nella società e nella pubblica amministrazione. Vi furono, tuttavia, alcuni cambiamenti nel corso di tale processo, fra cui l’amnistia per i giovani concessa nel 1946 e l’amnistia di Natale che entrò in vigore intorno alla metà del 1947, le quali portarono a esonerare circa 2.800.000 persone. Infine, la necessità di integrare piuttosto che punire la grande massa di ex sostenitori del nazionalsocialismo portò i partiti politici tedeschi già alla fine del 1947 a rinunciare, ufficiosamente, al processo di denazificazione. I risultati di questa inversione portarono ad avere ex membri del Partito nazista nello staff del Ministero degli Esteri e nella pubblica amministrazione. Il primo degli effetti che tale processo contribuì a produrre fu la chiara discontinuità dell’élite politica dell’Rft rispetto alla classe politica nazista. Per il ceto politico dirigente del Terzo Reich non vi fu alcun futuro politico dopo il 1945. Nelle élite funzionali prevalse, invece, un modello di reclutamento caratterizzato da una continuità discontinua: le nuove posizioni in queste élite funzionali furono occupate da coloro che avevano ricoperto posizioni simili nello stato totalitario. Fig 3.3 3.4 mobilitazione -Come per tutti i totalitarismi, l’elevata capacità di mobilitazione delle masse costituisce uno dei tratti caratteristici del nazismo. Il regime fu capace di costruire un ampio network di organizzazioni di mobilitazione che avevano lo scopo di incorporare e controllare ogni cittadino durante l’intero arco della sua esistenza. Da un lato, la durata del regime (12 anni) può non essere stata sufficientemente lunga per condizionare radicalmente quei processi di mobilitazione delle masse che necessitano di un periodo medio-lungo per svilupparsi. Dall’altro, la «politica di massa» risultava in Germania preesistente all’avvento del nazismo: il suffragio universale, infatti, fu concesso nel 1919, all’inizio della Repubblica di Weimar. Il regime nazista produsse perciò un mutamento nella qualità della partecipazione, la quale si caratterizzò per la sua passività e superficialità. Nell’immediato dopoguerra il ricordo dell’esperienza nazista e dell’inefficiente democrazia di Weimar portò a guardare con sospetto ai partiti politici: questa immagine negativa perdurò fino agli anni Settanta e non contribuì allo sviluppo di partiti con un’ampia membership. Anche la partecipazione alla vita interna dei partiti fu relativamente scarsa, probabilmente a causa del ricordo dell’esperienza nazista e di quel ritiro alla vita privata che questa favorì. Il consolidamento del sistema partitico federale portò a una drastica riduzione della volatilità elettorale. Fig 3.4 5. Statualità: le basi del nuovo compromesso democratico -La presenza di un regime totalitario come quello nazista, o non democratico in generale, comporta la repressione di tutte le istanze autonomistiche presenti nel territorio. Molto interessante, da un punto di vista politologico, è il caso della Csu (Unione Cristiano- Sociale), che non è un partito propriamente nazionalista, bensì è un partito regionale che ha un riferimento politico limitato a uno specifico territorio. Di fatto la Csu è il partito gemello della Cdu (Unione Cristiano-Democratica) e in quanto tale è il partito cristiano-sociale deputato a candidarsi alle elezioni del governo regionale della Baviera, in cui detiene, dal 1946, la maggioranza dei voti. Secondo questa alleanza, la Cdu in tutte le elezioni non presenta liste e candidati in Baviera e la Csu non si presenta nel resto della Germania. La Csu si discosta parzialmente dalla Cdu per la sua collocazione politica, trovandosi più a destra rispetto a quest’ultima. La Germania, dopo la seconda guerra mondiale, si presenta unita quindi sotto un profilo culturale: la dinamica della frattura centro/periferia, che ha caratterizzato la maggior parte dei sistemi partitici europei del dopoguerra, non ha prodotto effetti rilevanti in questo paese. Secondo gli Alleati esisteva quindi un’equazione tra il totalitarismo nazista e lo stato unitario, per questa ragione doveva essere promossa la decentralizzazione. La reintroduzione del federalismo nella Germania dell’Ovest ha riscosso un sostegno soddisfacente sia da parte della classe politica sia da parte dei cittadini, come è dimostrato dalla loro partecipazione al voto. Il sostanziale contributo degli Alleati nel riproporre un sistema federale si trova anche nella presenza di due elementi nella Legge fondamentale: 1) la presenza di una Corte suprema a garanzia della costituzione; 2) il procedimento di emendamento costituzionale che prevede una maggioranza qualificata superiore ai due terzi da parte di entrambe le camere, relativamente a qualsiasi mutamento. 3.6 Statalismo: una nuova strategia di politica economica? - Rispetto alla politica economica hitleriana, i primi anni del dopoguerra si caratterizzarono per il contributo determinante del settore pubblico nell’economia tedesca, in quanto a esso si dovevano le infrastrutture del paese. Altro aspetto innovativo, conseguenza dell’assetto federale, fu lo sviluppo di un articolato intreccio inter e infrastrutturale e inter e intraregionale: lo spazio di produzione era suddiviso per ambiti territoriali, regionali, creando una interdipendenza e complementarietà sia a livello regionale che tra livelli di governo diversi. Secondo gli Alleati, era necessaria la ricostruzione industriale tedesca con il controllo americano dei volumi produttivi e delle quote di importazioni ed esportazioni. Il timore che l’insoddisfazione economica fosse la causa della caduta del regime democratico fu la ragione che spinse gli Alleati a sostenere uno sviluppo economico della Germania Occidentale tale da portare una crescita del Pnl tra i più alti dell’Europa. Dal 1945 al 1975 la Repubblica federale visse infatti un momento di crescita che portò, nei primi anni Settanta, alla più alta quota di occupazione nel settore industriale. I Länder, in linea con la volontà degli Alleati di creare una forte discontinuità rispetto al nazismo, svolsero un ruolo importante nella ricostruzione economica della Germania: l’attuazione di un federalismo cooperativo consentì al paese di derogare parte delle competenze e delle decisioni ai diversi livelli di governo, così da renderli promotori e sostenitori del rilancio economico del paese. La ricchezza di ogni regione venne amministrata da un governo locale che svolgeva il ruolo di promotore dello sviluppo economico e, allo stesso tempo, di controllore dell’economia regionale. Con la caduta del regime nazista e l’occupazione militare, anche la politica monetaria tedesca, negli anni successivi al dopoguerra, divenne una responsabilità degli Alleati. Questi ultimi introdussero il Deutsche Mark e, nel 1948, ristrutturarono il sistema bancario tedesco con la creazione della Banca degli stati tedeschi (Bank Deutscher Länder), successivamente rinominata Deutsche Bundesbank. Essa, oltre agli obiettivi generali presentati, fu creata anche per influire sull’occupazione, sullo sviluppo economico, sulle fluttuazioni del ciclo economico e per sostenere la politica economica del governo. Affinché la Bundesbank potesse giocare un ruolo centrale nel processo decisionale le venne riconosciuto un livello di autonomia rispetto al governo centrale tra i più alti in Europa. 3.7 conclusioni - Con i suoi 12 anni di vita, il Terzo Reich può essere associato ai regimi di breve durata [Linz]. Nonostante la capacità di innovazione (prevalentemente di istituzioni e norme) del regime nazista fosse estremamente elevata, è altrettanto vero che queste innovazioni mancarono, in molti casi, di raggiungere quel grado di istituzionalizzazione necessario per avere qualche chance di trasmissione al regime successivo. La transizione dal nazismo alla Rft è di natura discontinua. Emerge chiaramente la presenza di un forte condizionamento internazionale. La forte discontinuità presente nell’élite politica della Rft ha contribuito alla legittimazione del sistema nel suo complesso. La continuità discontinua delle élite funzionali ha giocato un ruolo ancora più rilevante nel consolidamento della Rft, fornendo a essa amministratori capaci e tecnici esperti. La discontinuità rappresentata dalla struttura federale della Rft rispetto al centralismo nazista, pur non avendo un ruolo determinante nel consolidamento democratico tedesco, contribuì alla legittimazione complessiva del nuovo sistema istituzionale. Pur trattandosi di una riforma voluta dalle potenze occupanti, questa si poneva in continuità con la tradizione istituzionale tedesca, che aveva visto adottare la soluzione federale da parte di tutti i regimi che si erano succeduti in Germania a partire dalla metà dell’Ottocento. Dunque, sembra che le conclusioni cui si giunge in questo lavoro confermino l’ipotesi di Linz secondo cui i regimi democratici che seguono regimi totalitari altamente ideologici si trovano di fronte a una situazione meno complessa, e in sostanza più propizia, di quelli che seguono regimi di tipo autoritario [Linz]. Tab 3.9 CAP4 Eredità autoritarie: Spagna e Portogallo - Il 25 aprile 1974, in Portogallo, la Rivoluzione dei garofani mette fine in modo traumatico a uno dei regimi autoritari più duraturi della storia contemporanea (48 anni); il 20 novembre 1975, poco più di un anno e mezzo dopo, in Spagna, la morte di Franco segna contemporaneamente la fine di un regime autoritario durato 36 anni e l’inizio di una transizione alla democrazia che assume una modalità fino ad allora inusuale, in quanto pacifica e continua. Nonostante Spagna e Portogallo facciano entrambe parte delle democrazie della prima ondata [Huntington], soprattutto per la prima si può parlare di vera e propria ridemocratizzazione, dopo l’esperienza della Seconda repubblica. Il Portogallo, invece, nonostante una lunga confidenza con elezioni non competitive, semicompetitive, o competitive ma a suffragio limitato, e nonostante il termine «democrazia» venga spesso utilizzato anche per indicare la Prima repubblica, entra a pieno titolo «nel club dei paesi democratici» solo dopo la Rivoluzione dei garofani. Ciò, ovviamente, ha una sua incidenza in termini di memoria storica e di political learning, fondamentali ai fini di una democratizzazione. 4.1 Spagna: eredità e transizione. - Quando si vuole trattare il complicato rapporto tra la Spagna e la democrazia si comincia spesso dalla Costituzione di Cadice – prima costituzione liberale spagnola, introdotta nel 1812, che inaugura un lunghissimo ciclo d’instabilità politica e costituzionale durato fino all’approvazione della costituzione del 1978. Come ci ricorda Blanco Valdés, nel 1978 sono cinque i grandi conflitti storici ereditati dal passato con i quali devono fare i conti i costruttori della democrazia: forma di governo (conflitto monarchia/ repubblica), rapporti chiesa-stato, rapporti civili-militari, rapporti stato-società e forma di stato, ovvero la distribuzione territoriale del potere. Com’è noto, la repubblica finisce con il levantamiento militare del 17 luglio 1936 e una guerra civile durata tre anni che fungerà allo stesso tempo come fonte di legittimazione originaria dei vincitori e come la più importante eredità negativa sulla transizione alla democrazia. Il franchismo non indebolì le tradizionali eredità storiche, ma ne rafforzò alcune e ne aggiunse altre. Una legge del 1946 scelse la monarchia come forma di Stato; il problema religioso fu assorbito istituendo un regime politico di nazional- cattolicesimo; il rapporto tra potere civile e potere militare si risolse a favore di quest’ultimo, con l’esercito divenuto, insieme alla chiesa e alla polizia politica, una delle principali istituzioni del regime. I diritti di associazione, di organizzazione politica, di voto e di espressione vennero aboliti e sostituiti da censura e repressione del dissenso. ll regime franchista pone un forte accento sull’annientamento del separatismo, la centralizzazione politica e l’uniformità territoriale, negando alla radice tutte quelle differenze linguistiche e culturali che avrebbero potuto dare sostegno a pretese autonomiste e regionaliste: sforzi che, tuttavia, sortiscono un risultato opposto. Per quanto riguarda le istituzioni, il franchismo non è stato particolarmente innovativo: esse sono riprese da quelle del fascismo italiano (il partito unico, la dottrina corporativa e il sindacalismo verticale). Le istituzioni forti furono la chiesa (che a un certo punto iniziò a manifestare un certo distacco dal regime), l’esercito e gli apparati repressivi, di cui la polizia politica e il Tribunal de Orden Público furono l’espressione più significativa. Non a caso quando si parla di eredità del franchismo in quest’ambito, più che a singole istituzioni si fa riferimento in primo luogo ai metodi violenti e repressivi utilizzati in modo sistematico nei primi anni del regime. Attore centrale del regime è certamente un militare, il Generalissimo Francisco Franco, uscito vincitore dalla guerra civile, che concentra nelle sue mani il ruolo di capo del governo e capo dello stato dando un’impronta molto personale al regime. Il partito unico (la Falange), tuttavia, non giocò mai un ruolo simile a quello giocato dal Partito fascista in Italia in termini di capacità di mobilitazione e di penetrazione nelle strutture dello stato. Gli obiettivi di controllo sociale – a carico della chiesa, dell’esercito e della polizia politica – prevalsero sempre su quelli dell’indottrinamento e della mobilitazione politica. In pratica i termini più utilizzati per indicare le eredità franchiste sulla cultura politica spagnola sono smobilitazione, spoliticizzazione, apatia e antipartitismo. Anche per questo, in Spagna si è prodotto un atteggiamento di disinteresse e sfiducia nei confronti della politica protrattosi nel tempo. La svolta per l’avvio di una transizione democratica avviene nel 1976 con l’approvazione, da parte delle Cortes franchiste, della Ley para la Reforma Política. Tale legge, oltre a stabilire l’autoscioglimento delle Cortes, disegna le linee essenziali del percorso verso la democrazia. Cosicché la Spagna, grazie anche all’apprendimento politico derivante sia dall’esperienza della guerra civile che da quanto stava avvenendo nel vicino Portogallo, introduce una modalità di transizione che non contraddice i principi di legalità del regime autoritario e che in seguito è divenuta un modello da esportare. L’etichetta di reforma pactada sta a indicare il patto tra la parte riformista delle élite franchiste e alcuni leader dell’opposizione democratica. La svolta democratica avviene insieme ad un sentimento comune di voler mettere il passato volontariamente e momentaneamente nel dimenticatoio, senza però dimenticare. Il nuovo regime democratico non avrebbe coltivato intenzioni vendicative verso i responsabili del regime precedente, ponendo fine ulteriormente all’eterno conflitto fra le diverse regioni spagnole: la scelta di un’amnistia pressoché generalizzata, fa della Spagna un caso di nuova democrazia che pur avendo a che fare con un passato difficile e doloroso sceglie di non fare i conti con esso, formalizzando il consensuale patto dell’oblio, che spiana la strada alla transizione evitando rancori e vendette. Restarono al loro posto anche i funzionari delle amministrazioni pubbliche, i giudici che avevano applicato la legislazione franchista, i professori universitari che avevano difeso le dottrine del regime autoritario, gli ufficiali e gli agenti di polizia che avevano represso qualsiasi forma di dissenso. Per quanto riguarda la monarchia, si pensava che essa potesse essere un’eredità negativa del regime franchista, in quanto simboleggiava una scelta di Franco stesso. Tuttavia le scelte illuminate dell’erede designato (da Franco) Juan Carlos, che durante la transizione si è proposto come «pilota del cambiamento», legittimarono l’istituzione monarchica anche presso l’opposizione democratica, rendendo possibile l’instaurazione di una monarchia parlamentare. Già dalle prime elezioni democratiche emerse che nel nuovo sistema politico non c’era spazio per le correnti eredi del franchismo. Quanto alle istituzioni del regime e agli attori che le impersonavano, un discorso a parte meritano le Forze armate: nel loro caso vi fu un’elevata continuità non solo nel personale ma anche nei metodi (ad esempio la tortura) e nella cultura della repressione. Quest’ultima viene considerata una delle più pesanti eredità con le quali ha dovuto fare i conti la nuova democrazia. Spagna: disegno istituzionale, political learning, memoria - Ci sono alcune eredità di tipo culturale la cui assenza o presenza ha una sicura incidenza nella fase di costruzione delle nuove istituzioni. Si tratta del political learning e della memoria storica. La logica dell’apprendimento politico implica che ciò che ha funzionato in passato tende a essere ripreso e ciò che non ha funzionato tende a essere evitato. La Spagna è considerata un case study esemplare per chi voglia approfondire il ruolo giocato dalla memoria storica e dal political learning in un processo di ridemocratizzazione. Secondo Aguilar, infatti, le condizioni economiche, sociali e politiche esistenti agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, sia a livello interno che internazionale, sono state molto più favorevoli a esiti pro-democrazia. La memoria storica legata al trauma della guerra civile si traduce in quella strategia del consenso manifestatasi con modalità del tutto peculiari nell’elaborazione della nuova carta costituzionale promulgata nel dicembre 1978, mentre quella legata alla Seconda repubblica incide fortemente sul disegno sia delle regole che delle istituzioni della nuova democrazia. La Spagna è un caso di transizione continua o discontinua? A prevalere sono le tesi che propendono per la discontinuità, ma non mancano coloro che vedono tante continuità. I primi sostengono che la costituzione del 1978 introduce una rottura radicale con il passato sia perché interrompe una secolare storia d’instabilità politica e costituzionale, consentendo alla Spagna di vivere stabilmente in democrazia per oltre tre decenni, sia perché concorre a risolvere quattro dei cinque grandi conflitti storici ereditati dal passato: sulla forma di governo, sui rapporti chiesa-stato, sui rapporti civili-militari e sui rapporti stato-società. Non del tutto risolto rimane invece il quinto conflitto storico, quello relativo all’organizzazione del territorio. Tra coloro che, invece, enfatizzano la continuità, si sottolinea come la caratteristica più rilevante della transizione spagnola sia consistita nel sostituire il regime franchista con un sistema costituzionale servendosi della struttura giuridica precedente, facendo della democrazia attuale l’erede legale della dittatura. I vantaggi delle transizioni continue possono trasformarsi in svantaggi in termini di regole, prassi e ordinamenti del passato che permangono e che incidono negativamente sulla qualità della nuova democrazia. Alla fine del processo costituente, l’esito è un assetto istituzionale costituito da una monarchia costituzionale, un sistema elettorale proporzionale, un parlamento bicamerale, un potere esecutivo congegnato per essere forte e stabile, un territorio divisibile in regioni autonome. Si può quindi parlare di eredità che si traducono in scelte fatte «per reazione», ma non al vecchio regime quanto alle precedenti istituzioni democratiche. Per reazione alle politiche repressive franchiste tese a cancellare le forti identità locali spagnole, la domanda di decentramento e quella di democrazia si saldano in un unicum che si esprime sia tramite i partiti nazionalisti sia tramite l’opposizione democratica. Portogallo. il milione. Molteplici sono i fattori che possono aver influito sul cambiamento o, viceversa, sul mantenimento dell’ortodossia ideologica. Tra i più efficaci troviamo l’eredità istituzionale del precedente regime. In Polonia e in Ungheria, ad esempio, l’atteggiamento riformista assunto dalla leadership comunista nel decennio che precede la transizione ha sicuramente influenzato, dopo il 1989, le strategie interne ai partiti in due modi: ha favorito la marginalizzazione delle correnti estremiste, accelerando il processo di epurazione interno; ha legittimato i partiti eredi come competitori democratici già durante le prime tornate elettorali, con il risultato di attribuirgli buona parte dei meriti per l’ingresso dei rispettivi paesi nell’Ue. -Polonia Il processo di trasformazione che segna il passaggio dal Partito operaio unificato polacco (Poup) alla Alleanza della sinistra democratica (Sld) nata nel 1991, è indubbiamente uno dei più incisivi dell’area est-europea: la decisione di cambiare denominazione è seguita da una radicale riorganizzazione dell’apparato istituzionale e da una accurata revisione ideologica, che abbandona il marxismo-leninismo, aggiunge il sindacato ufficiale (Opzz), esprime una chiara adesione all’economia di mercato e impegna il partito a completare il processo di ristrutturazione delle aziende di stato. L’atteggiamento modernizzatore e filo-occidentale che la Sld assume per ridefinire la propria identità a livello internazionale è scandito dalle relazioni diplomatiche con l’Internazionale socialista, l’Unione europea e la Nato. Tuttavia, la presenza di una forte organizzazione europeista e socialdemocratica non è stata sufficiente a garantire il consolidamento del sistema partito polacco lungo l’asse destra/sinistra. Gli ostacoli che attualmente minano la stabilizzazione di una competizione unimodale, in Polonia, sono essenzialmente l’assenza di formazioni liberali in grado di controbilanciare la Sld; la divisione e la trasversalità del movimento cattolico, che finora non è riuscito a organizzarsi in un partito coeso; la continua instabilità del sistema partitico. Sulla base di queste premesse si può affermare che l’eredità del Partito comunista nel lungo periodo ha esercitato un effetto positivo nel garantire al successore del Poup il supporto di una struttura organizzativa efficiente e collaudata che invece è mancata alle forze politiche del centro-destra. UNGHERIA Altrettanto profondo è il processo di adattamento democratico del Partito socialista dei lavoratori ungherese (Mszmp), che ha inizio nel 1989 con la creazione del Partito socialista ungherese (Mszp). Anche in questo caso si procede con l’obbligo di reiscrizione, l’abbandono dell’ideologia marxista-leninista e del centralismo democratico e una profonda riconversione degli obiettivi programmatici. Il prezzo pagato in termini di membership è ovviamente altissimo: se nell’ottobre del 1989 gli iscritti al vecchio Mszmp erano 700.000, il mese dopo il nuovo Mszp ne conta solo 30.000. Ritornato al potere nel 1994, il Mszp si confronta con una pesante crisi finanziaria adottando un pacchetto di politiche di austerità e privatizzazioni, la cui propensione europeista ha favorito la stabilizzazione dell’allineamento destra/sinistra. In Ungheria, rispetto alla Polonia, le condizioni in grado di assicurare l’eredità positiva del Partito comunista sono presenti: le due formazioni marxiste del periodo interbellico riescono a incanalare il movimento operaio e a organizzarsi per dare vita a una contrapposizione sociale di tipo classista. Nelle città gli operai votavano per i socialdemocratici; nelle campagne i contadini erano obbligati a palesare la propria preferenza per il partito di governo. Nel lungo periodo gli effetti di questa contrapposizione si sono trasferiti ai nuovi soggetti politici postcomunisti rafforzando la dimensione ideologica del confronto bipolare. Certamente l’apparato organizzativo ereditato dal Mszmp è uno dei fattori che spiega la continuità dei socialdemocratici, soprattutto in termini elettorali, ma non c’è dubbio che la capacità della leadership di adattarsi al nuovo contesto politico democratico, come avviene anche nel caso polacco, abbia giocato un ruolo altrettanto determinante nel favorire il definitivo radicamento dei partiti eredi nei sistemi postcomunisti. 3 livelli continuità\discontinuità Nel passaggio dal comunismo alla democrazia, un problema strettamente connesso con la continuità dei partiti eredi è rappresentato dal grado di coinvolgimento della vecchia classe dirigente nella costruzione del nuovo regime. Il sistema della nomenklatura ha rappresentato il metodo operativo più efficace per garantire al partito il controllo totale sulla società e sugli apparati politici, economici e amministrativi dei due paesi. In seguito all’instaurazione, i nuovi governi democratici si sono trovati ad affrontare innanzitutto il classico «dilemma del torturatore», ovvero se perdonare o perseguire i funzionari del vecchio regime: è noto che nella maggior parte dei paesi postcomunisti (Romania esclusa) è prevalsa la seconda linea di condotta. Nella maggior parte dei casi, come ha sottolineato Huntington, le democratizzazioni che si verificano per trasformazione o transostituzione, proprio perché vengono avviate dalla classe politica del vecchio regime, che provvede all’isolamento dei settori più conservatori del partito con (Polonia) o senza (Ungheria) il supporto dell’opposizione, mostrano una tendenza più favorevole all’amnistia dovuta alla maggiore continuità del processo di cambiamento politico. Nei paesi in cui la classe politica guida la transizione (Ungheria) o in quelli in cui si verifica un compromesso tra le élite al potere e quelle di nuova formazione (Polonia), la continuità con il vecchio regime è maggiore e la classe dirigente riformata mantiene una posizione privilegiata. Parte della classe politica rimane ostaggio del vecchio sistema: la mentalità e le modalità di gestione del potere riflettono, sebbene con sfumature diverse, la persistenza di atteggiamenti maturati nel corso della lunga fase autoritaria, costituendo un forte ostacolo al consolidamento democratico. In Ungheria, ad esempio, la Fidesz (Unione Civica Ungherese) accettava come membri solo i giovani che non avessero superato i venticinque anni, dunque non coinvolti con il vecchio regime. 4 effetti mobilitazione partecipazione politica La mobilitazione forzata attuata dai regimi comunisti ha rappresentato un’eredità estremamente negativa. Certamente la minore intensità repressiva del regime comunista polacco, che nell’arco della sua durata mantiene sempre un profilo autoritario, e la fase di detotalitarizzazione che si verifica in Ungheria dopo il 1956, hanno contribuito ad attenuare la centralità dell’ideologia antipluralista e, di conseguenza, a diluire l’incisività dei meccanismi di mobilitazione a essa connessi. In entrambi i casi, tuttavia, il fatto stesso di essere regimi ad alta temperatura ideologica ha profondamente inciso sia sui livelli di mobilitazione politica, sia sulle modalità di interazione tra l’èlite e la società civile. La mobilitazione delle masse popolari è massima nei regimi totalitari (corporazioni, tessera di partito, leader ecc.) e minima nei regimi autoritari (le élite mantengono il potere favorendo l’allontanamento delle masse dalla vita politica). In Polonia e in Ungheria, la mobilitazione forzata è stata attuata principalmente attraverso le cosiddette «organizzazioni di base», collocate all’interno di ogni impresa o istituzione, il cui compito consisteva nell’indottrinare le masse verso gli obiettivi ideologici del regime, generando una presenza ideologica che si insinuava in ogni attività pubblica o privata dei cittadini. Diversamente da ciò che si è verificato nel caso italiano, dove la mobilitazione introdotta dal Partito fascista ha favorito lo sviluppo dei partiti di massa, nell’Europa centro-orientale quest’eredità ostacola la formazione di organizzazioni partitiche forti e favorisce un clima di disinteresse e di sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti della politica in generale e della classe politica in particolare: Polonia: successivamente alla transizione, si verifica un forte astensionismo in entrambi i paesi. Questo processo di demobilitazione, nel caso polacco, potrebbe essere dovuto alla decisione dell’élite di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal contesto politico ed economico contingente, e alla conseguente concentrazione della vita politica esclusivamente all’interno del parlamento. Il risultato finale è una degenerazione verso una forma di «democrazia elitaria» che, secondo Ágh, caratterizzerebbe gran parte del panorama politico-istituzionale centro-orientale; Ungheria: qui, al contrario, l’élite emergente gode di un relativo seguito in virtù del proprio orientamento culturale, impresso nello stesso programma elettorale. In un primo momento, l’adesione ai valori nazionali fa passare in secondo piano la scarsa competenza della nuova leadership. L’atteggiamento complessivo della classe politica ungherese non sembra affatto manifestare un’alternanza tra mobilitazione e demobilitazione, come invece avviene nel caso polacco. Anche in Ungheria l’astensionismo era molto forte, causato specialmente dal “political learning”: la lezione appresa dalla precedente esperienza non democratica avrebbe condizionato le scelte dell’opinione pubblica, alimentando il rifiuto verso tutte quelle forme di coinvolgimento nel processo politico che richiamano alla memoria le modalità di coercizione del consenso adottate dalla passata amministrazione. 5 L’eredità della pianificazione forzata sui processi di privatizzazione delle aziende di stato Il passaggio dallo statalismo alle privatizzazioni ha rappresentato senza dubbio uno dei processi più discontinui della transizione democratica. Nell’area est-europea, infatti, l’eredità dei regimi comunisti riguarda l’economia pianificata e la totale abolizione della proprietà privata. Date le diverse condizioni di partenza rispetto al resto dell’Europa, il carattere discontinuo del processo di trasformazione economica dei paesi postcomunisti è dovuto a due ragioni principali: 1) la presenza di un contesto internazionale di economie di mercato interdipendenti e aperte verso l’esterno (emulazione); 2) l’obbligo di uniformarsi ai parametri europei stabiliti al Consiglio di Copenaghen del 1993 per poter entrare nell’Unione europea, tracciando un percorso obbligato di riforme istituzionali finalizzate allo smantellamento delle aziende di stato. Polonia: il processo di privatizzazione polacco ruota attorno alla cessione dell’impresa o di parte di essa, a società private costituite da manager e lavoratori. Il modello polacco, a differenza di quello ceco e ungherese, è caratterizzato da un forte decentramento e cede ai vari attori interni le politiche aziendali decisionali. Tuttavia, il processo di trasformazione economica subisce un forte rallentamento fino al 1995. Secondo le stime dell’Oecd, fino a quel momento solo il 32% delle imprese statali polacche è stato privatizzato. Le ragioni di questo temporaneo rallentamento sembrano derivare tanto dai conflitti interni alla coalizione di governo, quanto dalla eccessiva autonomia concessa alle stesse imprese di stato dalle autorità centrali. Questo significa che l’eredità del regime comunista ha avuto un impatto solo parziale sulle riforme economiche attuate dai governi polacchi. Ungheria: in Ungheria la classe politica decide di adottare una strategia di trasformazione graduale e di gestirla centralmente. Da questo punto di vista, l’Ungheria costituisce un caso intermedio e si colloca nella casella della contrattazione relazionale: quando viene diffusa una lista di venti imprese da vendere nel corso del primo round della privatizzazione, l’Aps (Agenzia per la Proprietà Statale) rivolge un invito alle banche di investimento e alle società di consulenza a esprimere le proprie proposte all’Agenzia, specificando i criteri di valutazione della proprietà, di gestione dei crediti e di individuazione dei possibili acquirenti per ogni singola impresa. All’inizio del 1998, almeno l’80% delle 1857 imprese statali affidate alla Aps nel 1990 sono state vendute. In Ungheria, in tal modo, la percentuale del settore privato sul Pil raggiunge l’85% ed è superiore a quella degli altri paesi dell’Est In conclusione, l’influenza della passata amministrazione sembra aver inciso sulla maggiore centralizzazione del processo di privatizzazione, rispetto a quello polacco, e sulla gradualità delle riforme attuate. Tuttavia, il ruolo preponderante giocato dagli investitori stranieri e il risultato finale dell’intero processo, il più riuscito dell’area est-europea, evidenziano non solo la discontinuità nei confronti della gestione comunista, ma soprattutto l’assenza di una possibile contaminazione del vecchio regime nella selezione e nell’attuazione degli obiettivi di trasformazione dei governi democratici. Tb 5.10 CAP 6 Il peso del passato nella Repubblica Ceca e in Slovacchia Cecoslovacchia: le differenze etniche e culturali della prima democrazia In Cecoslovacchia il regime comunista si innesta su una compagine nazionale etnicamente eterogenea e culturalmente divisa da livelli di sviluppo economico e politico profondamente diversi. Nel periodo interbellico, le regioni di Boemia e Moravia potevano vantare livelli di industrializzazione e alfabetizzazione superiori a molti paesi dell’Europa occidentale e meridionale. Il dinamismo della società civile, predisposta al rinnovamento politico e sociale proveniente dalla Germania, aveva consentito la formazione di partiti di massa sul modello di organizzazione occidentale. In Slovacchia, al contrario, era presente un’economia ancora agricola, livelli di sviluppo urbano e di alfabetizzazione nettamente inferiori, accentuando il divario socioeconomico con i vicini cechi. A differenza della Polonia e dell’Ungheria, dove la relativa continuità del processo di transizione tende ad avvicinare per molti aspetti l’evoluzione dei due paesi, soprattutto in relazione al ruolo svolto dal partito erede durante la fase di instaurazione democratica, in Cecoslovacchia la discontinuità del passaggio dal comunismo alla democrazia fa esplodere conflitti soprattutto causati dalla presenza sovietica La questione della statualità Fase interbellica (1918-45): con l’atto di nascita della Repubblica Cecoslovacca, sorta dalla dissoluzione dell’Impero austro- ungarico, l’assetto statale assume una forma sostanzialmente unitaria, nonostante convivessero diverse etnie. La maggioranza ceca poteva vantare una popolazione più ricca e più istruita rispetto alle minoranze slovacca e ungherese. In seguito all’occupazione nazista il paese viene suddiviso in Boemia, Moravia e Slovacchia. La fine della guerra ripristina la configurazione istituzionale precedente. Fase comunista (1945-89): il regime comunista, in linea con le pressioni sovietiche, mantiene l’assetto centralizzato dello stato. In questa fase si assiste innanzitutto a una progressiva omogeneizzazione del paese, che conta due etnie: i cechi, che costituiscono il 70% della popolazione, e gli slovacchi, che raggiungono il 30%. Di fatto, il consolidamento del regime comunista decreta la fine delle aspirazioni autonomiste slovacche. La costituzione emanata nel 1960 assicurava alla parte ceca una composizione dell’Assemblea nazionale in grado di bypassare l’opposizione slovacca Fase postcomunista: con l’avvio della transizione democratica il problema della statualità si ripropone con maggiore forza. Come hanno sottolineato Linz e Stepan, le istituzioni federali ereditate dalla nuova classe politica, se avevano funzionato meccanicamente durante il regime grazie al carattere unitario del partito-stato, con l’avvento del pluralismo democratico mettono in evidenza tutta la loro debolezza strutturale. Trasferito nel contesto democratico, la costituzione del 1968 garantiva a una piccola minoranza di deputati il potere di bloccare le decisioni. Le conseguenze di questa impasse istituzionale, che rappresenta una delle eredità più importanti del regime comunista cecoslovacco, avrebbero potuto essere risolte attraverso un compromesso tra le forze politiche di entrambe le nazionalità che stabilisse, tra le varie opzioni, il ricorso a una maggioranza semplice per ciascuna camera. Linz e Stepan individuano due fattori che hanno dato origine alla separazione della Federazione: la rigidità del modello federale comunista e lo stile antipolitico adottato dall’élite democratica. Una volta appurata l’impossibilità di governare in modo efficiente la Federazione, i leader delle rispettive repubbliche optano per la divisione consensuale dello stato (1993). L’eredità del Partito comunista cecoslovacco. Anche in Cecoslovacchia l’eredità principale del vecchio regime è rappresentata dalla continuità del Partito comunista. Alle elezioni del 1935, quando ancora la Cecoslovacchia era una Repubblica democratica (cadrà nella sfera d’influenza dell’URSS dalla seconda metà degli anni 40) sono quattro le formazioni comuniste e socialiste che, complessivamente, ottengono il 35,7% di voti: Socialisti nazionali cechi (9,2%), Socialdemocratici cecoslovacchi (12,6%), Socialdemocratici tedeschi (3,6%) e Comunisti cecoslovacchi (10,3%). Non va comunque sottovalutato l’impatto della frattura nazionalista nel periodo interbellico, che vede il sistema partitico sezionalizzato in relazione al ceppo etnico o linguistico. Diversamente dai casi ungherese e polacco, dove i partiti marxisti stentano a rafforzare la propria presenza sul territorio, in Cecoslovacchia queste formazioni appaiono ben radicate già prima della guerra, e soprattutto godono di una struttura organizzativa partitica e sindacale decisamente rilevante. Sotto il profilo partitico-organizzativo, pertanto, la Cecoslovacchia si colloca al primo posto rispetto agli altri paesi est-europei. Fino al 1946, dunque, il ruolo svolto dalle formazioni marxiste è indubbiamente positivo: incanalano la protesta operaia e stimolano un confronto unimodale sull’asse destra/ sinistra. La discontinuità si avverte qualche anno dopo con il colpo di stato che pone fine alla democrazia e dà avvio alla progressiva comunistizzazione del paese: le forze armate e di polizia vengono drasticamente epurate; il sistema delle purghe porta alla sostituzione di oltre 50.000 dipendenti delle amministrazioni centrali e locali; viene attuato l’impiego sistematico del terrore. Rispetto all’Ungheria e alla Polonia, l’assenza di spinte nazional-indipendentiste favorisce il rafforzamento del legame con l’Urss e il consolidamento del regime più ortodosso dell’area. La continuità dell’ortodossia è confermata dalla struttura organizzativa fondata sul centralismo democratico, dal richiamo alla costruzione di una economia socialista, dall’ideologia marxista-leninista, dal fermo rifiuto verso modelli di integrazione economica e/o militare di tipo occidentale. In merito all’impatto prodotto dal regime comunista, proviamo ad analizzare l’eredità trasmessa dal Pcc nei due nuovi Stati indipendenti:1 Repubblica Ceca: negli ultimi anni si può notare come in Repubblica Ceca una parte consistente dell’elettorato ceco continui a manifestare la propria fiducia nel vecchio sistema, come testimoniano i risultati elettorali. Prima dell’instaurazione comunista, la presenza di una formazione politica dotata di un’organizzazione forte e ispirata al principio della lotta di classe, costituisce un elemento indubbiamente positivo. Liberali e socialdemocratici hanno raccolto il lascito «ideologico» dei partiti socialisti nella strutturazione del voto di classe e nella determinazione di strategie programmatiche derivate dalla divisione destra/sinistra. La collocazione della Repubblica Ceca nella categoria delle élite maggiormente aperte al cambiamento e orientate verso il pluralismo occidentale conferma l’intensità del rinnovamento della nuova classe dirigente e sottolinea il livello di discontinuità più alto dell’area postcomunista. Si può pertanto concludere evidenziando il carattere neutrale dell’eredità del Pcc nel processo di trasformazione istituzionale della Repubblica Ceca.2 Slovacchia: in Slovacchia, invece, il Partito comunista (Kss) decide invece di cambiare nome e nell’ottobre del 1990 nasce il Partito della sinistra democratica (Sdl). Il cambiamento non è solo nominale, ma investe anche la membership, privilegiando i giovani che non hanno avuto alcun coinvolgimento con il passato regime. Nel caso slovacco la situazione è opposta a quella ceca. Lo sviluppo dei partiti di matrice operaia è un fenomeno che la Slovacchia vive solo di riflesso: è essenzialmente nelle regioni di Boemia e Moravia che tali partiti nascono e si rafforzano nel corso del periodo interbellico. Qui l’assenza di un apparato organizzativo forte è invece attenuata dal processo di rinnovamento democratico. La Slovacchia, rispetto alla Rep Ceca, evidenzia ancora elementi di continuità con il passato e una minore attitudine al cambiamento, spesso ostacolato dalla presenza di componenti nazionaliste. Il periodo dell’amministrazione Meciar è stato indubbiamente indicativo: l’allontanamento dall’Europa e dalla Nato, le restrizioni nei confronti della minoranza ungherese, le accuse di brogli elettorali, le epurazioni, hanno fatto intravedere una forte connessione con i precedenti metodi di gestione del potere. La continuità con il regime precedente è confermata dalla composizione dei governi slovacchi che si succedono nell’arco del periodo 1994-98, nell’ambito dei quali le posizioni rilevanti vengono tutte ricoperte da ex comunisti. Nel complesso, pertanto, in Slovacchia l’eredità trasmessa dal Partito comunista si rivela essenzialmente negativa. Focalizzando l’attenzione esclusivamente sull’eredità trasmessa dal regime comunista, due aspetti meritano di essere segnalati. Il primo si riferisce alla natura nettamente discontinua del passaggio dalla costituzione federale del 1968 alla nascita di due stati indipendenti. Il carattere fittizio dell’autonomia slovacca, sancito solo sulla carta durante la Primavera di Praga, si contrappone in modo inequivocabile al percorso inaugurato con la separazione, che si conclude con l’indipendenza. Nella Repubblica Ceca la Dal comunismo al post-comunismo: la transizione Quando si parla delle eredità del regime comunista bisogna considerare che tale regime non resta immutato dal 1947 fino al 1989. Variabili quali il monopolio della politica, lo sforzo di plasmare la nuova società, il livello di repressione o, al contrario, i momenti di liberalizzazione, le manifestazioni di opposizione all’interno e all’esterno del partito, mutano lungo i quattro decenni di comunismo. Alcuni tratti generali possono essere rintracciati e sono quegli stessi tratti che garantiscono una certa continuità nel presente postcomunista: il dominio del partito e la persistenza degli orientamenti nazionalisti. Nel caso bulgaro, l’apertura del sistema permise la presenza di un’opposizione all’interno e all’esterno del partito, e per quanto la posizione del Bsp fosse rimasta centrale, l’opposizione anticomunista si legittimò rapidamente come un’alternativa concreta. Nel caso rumeno, invece, il partito mantenne le sue tendenze monopolistiche negando ogni alternativa. Nel contesto post-comunista, la ricostruzione dello Stato è preceduta da quella dei partiti, il che piazza questi ultimi in una posizione di predominanza nei confronti dello Stato stesso, plasmandolo a loro immagine e somiglianza. Il concetto di cattura dello stato si impone progressivamente in un paesaggio politico nel quale i primi partiti post-comunisti si ritrovano in posizione di vantaggio nell’influenzare i meccanismi delle nuove democrazie. Sfruttando il doppio vantaggio, ovvero sia la loro esperienza politica collegata alle ramificate reti di interessi e organizzazioni territoriali, sia il loro mantenimento al potere al momento dello smembramento degli imponenti averi dello stato comunista, i nuovi socialdemocratici si ritrovano in una posizione privilegiata nella competizione politica. Inoltre, la debolezza dell’opposizione spiana ancora di più la strada verso il successo dei partiti ex comunisti. Linz e Stepan osservano che più totalitario era stato il regime, più permeabile sarebbe risultato lo stato post-comunista alle influenze clientelari dei nuovi democratici, in quanto privo di resistenze e tradizionalmente debole. Il processo di decomunistizzazione diventa parte integrante del processo di democratizzazione, e si dimostra come uno dei compiti più difficili delle nuove democrazie. A livello dell’élite tecnocratica in Bulgaria i primi governi Bsp si erano limitati a una decomunistizzazione di facciata, eliminando alcune figure compromesse della gerarchia dell’esercito e della polizia segreta. In seguito si eliminò circa la metà dei funzionari del Consiglio dei Ministri in virtù della loro collaborazione col vecchio regime. In Romania la situazione è simile: nel 2010 vi fu una forma di compromesso in base al quale le persone che hanno fatto parte del Pcr, o dell’apparato di repressione dello stesso, non potranno occupare funzioni pubbliche nominate o elette. In entrambi i paesi la condanna ufficiale del regime comunista arriva molto tardivamente, nel 2006, probabilmente perché, dopo la caduta dei regimi comunisti, il potere fu mantenuto da partiti apparentati col vecchio regime, ostacolando un’indagine effettiva sul passato comunista. I partiti ex comunisti rimasti al potere agiscono come filtri limitando ogni seria riflessione sul passato e beneficiando indirettamente delle eredità del vecchio regime. Soltanto negli ultimi anni la condanna del passato comunista emerge con maggiore visibilità, benché gli effetti rimangano spesso limitati. In sintesi, a vent’anni dalla caduta del muro, in entrambi i paesi l’apprendimento politico risulta essere un processo incompiuto: la giustizia transizionale fatica a imporsi e la condanna ufficiale del comunismo avviene soltanto di recente. Élite e istituzioni: innovazione e continuità. All’inizio degli anni Novanta, i modelli da ritrovare o da evitare rendono le scelte costituenti particolarmente difficili. Nel caso bulgaro, nel 1991, si conferma la tradizione del parlamento unicamerale, con una durata del mandato di quattro anni, e un sistema semipresidenziale, un’impostazione che deriva dal ricordo del passato e dalla paura di accordare eccessivi poteri al presidente. Nonostante ciò, de facto l’esecutivo rimane più forte rispetto ad un parlamento indebolito da partiti poco disciplinati e deboli. In Romania, in un parlamento dominato dal Fsn (Fronte di Salvezza Nazionale), lo spazio di dibattito circa la nuova costituzione era assai limitato. Dopo dibattiti animati, il Fsn avrebbe sostenuto la soluzione del bicameralismo, una delle poche concessioni fatte all’opposizione. In queste condizioni, il nuovo regime post-comunista ripropone il bicameralismo, in una forma simmetrica di poteri. L’elezione diretta del presidente, quale difensore della costituzione e mediatore fra le autorità pubbliche, ma anche fra la società e lo stato, complica questo meccanismo istituzionale con una forma parlamentare. Per quanto riguarda le élites, invece, sia nel caso bulgaro sia nel caso rumeno, la nomenklatura ha agevolato la continuità dei membri dei partiti, pur accettando negli anni uno scambio di personale. Malgrado la continuità organizzativa, all’inizio degli anni Novanta, il Bsp procede già a un’operazione di «autoepurazione» che si traduce nell’eliminazione di alcuni dei noti dirigenti dell’epoca Jivkov. Per quanto riguarda il caso rumeno, le eredità in termini di élite comuniste non possono essere così collegabili a un solo partito: molti componenti del primo parlamento post-comunista si sono spostati nel Fsn (il 57%). CAP 8 Gli effetti delle eredità del passato nella tendmocrazia russa Il processo di democratizzazione nella Federazione russa ha assunto un percorso costellato da cambiamenti politici, economici e sociali che, a distanza di vent’anni dalla dissoluzione dell’Urss, lasciano presupporre un «ritorno al passato». Infatti, la Russia presenta sempre più procedure, comportamenti e decisioni a carattere autoritario. Circolazione elite nella russia post-sovietica Durante il periodo sovietico l’élite veniva reclutata senza competizione né correnti interne, ed escludendo qualsiasi forma di differenziazione che non fosse quella corrispondente alla suddivisione territoriale-amministrativa. Il processo decisionale era altamente centralizzato, strutturato gerarchicamente dal livello centrale a quello più periferico. Le riforme di «democratizzazione interna» del Pcus, avviate da GorbaČëv nel 1985, hanno dato vita a numerose correnti all’interno del partito, minando la struttura del potere basata sul centralismo democratico e sulla nomenklatura. La dissoluzione dell’Urss non ha determinato una rottura col passato: molte figure che avevano iniziato la loro carriera verso la fine del comunismo hanno visto nuove opportunità nella politica e nel capitalismo economico. Durante gli anni di El’tsin si passa alla forma più estrema di liberalizzazione del sistema economico attraverso un affidamento di risorse produttive dello stato ai privati che ha determinato una concentrazione dei poteri economici nelle mani di poche industrie che hanno gradualmente aumentato il loro potere di pressione, beneficiando della presenza di «propri» funzionari, ministri e deputati all’interno del governo. La maggior parte dell’élite economica della Russia post-comunista non era strettamente legata alla nomenklatura sovietica a causa di un ricambio generazionale che ha testimoniato la nascita di una coorte di giovani ben istruiti che si sono affermati professionalmente nella prima fase della transizione economica. Con l’ascesa al potere di Vladimir Putin, la riorganizzazione dell’amministrazione sia a livello verticale che orizzontale ha rafforzato la presenza di esponenti dell’ex Kgb (attuale Fsb, i servizi segreti della Federazione Russa) per costituire un gruppo di burocrati a servizio del presidente a scapito dell’autonomia politica e decisionale dei leader regionali. Si tratta di un apparato proprio dell’amministrazione presidenziale, che costituisce una sorta di «secondo governo» con una funzione di controllo simile a quella esercitata dal Pcus. Pertanto, la cultura politica post-sovietica si basa ancora sull’eredità del passato a causa principalmente della persistenza della nomenklatura che ha ereditato atteggiamenti e valori del regime comunista. L’attuale élite russa è più favorevole a un maggior intervento dello stato (stato regolatore) nella soluzione di problemi economici e sociali: una forma di capitalismo guidato dall’intervento statale, corporativo e gerarchicamente organizzato. L’élite russa si trova dinanzi al dilemma di leadership [Roeder]: un forte leader capace di proiettare il paese nella modernizzazione o di accettare le minacce plebiscitarie che una tale leadership può determinare. Nell’era di El’tsin la soluzione aveva previsto un sistema di clientelismo a sfavore dello stato di diritto. Nell’era di Putin il «consenso imposto» ha cercato di restaurare il funzionamento statale al posto dell’affermazione del pluralismo e delle procedure democratiche. I partiti e l’opposizione politica in russia Conseguentemente al bando del Pcus e alla dissoluzione dell’Urss, il pluralismo politico prende forma attraverso movimenti politici che intendono portare avanti le riforme democratiche. Tra questi, i partiti che hanno ereditato dal periodo sovietico sono il Partito comunista della Federazione russa e, in parte, il Partito liberaldemocratico di Žirinovski. Hanson sostiene che l’impossibilità di consolidare un potere politico tradizionale nella Russia contemporanea è causata da settant’anni di dominio sovietico. L’eredità precomunista (Impero russo, identità nazionale antioccidentale) spiega la presenza di un radicalismo russo di destra, rappresentato dal partito liberaldemocratico di Žirinovski (nazionalismo imperiale) e dal Partito comunista della Federazione russa di Žuganov (nazionalismo sociale). È in questo contesto politico che le forze più nazionaliste, capeggiate dal partito liberaldemocratico, hanno concentrato la propria azione politica sulla «questione di orgoglio nazionale» al fine di ribadire la supremazia dell’Impero russo e la solidarietà panslava che si sono tradotte nell’organica ostilità verso l’Occidente, acuita ancora di più dall’allargamento dell’Ue ai paesi dell’Europa centro-orientale e dall’espansione della Nato. I partiti ex comunisti si oppongono al processo di instaurazione democratica in corso, poiché si rivendicano i principi, i valori e le procedure del regime precedente conservando la piattaforma programmatica e l’ideologia comunista: è il caso del principale erede del Pcus, il Pcfr, che si è posto sulla scena politica come un partito antiregime nei primi anni della transizione, ma che, conseguentemente al successo elettorale nelle elezioni politiche del 1993, ha assunto un ruolo di governo caratterizzato da una forte opposizione al presidente El’tsin. La forte figura del Presidente della Federazione ha consentito di bypassare gli ostacoli imposti nell’arena parlamentare dal Pcfr e di evitare un reflusso del processo di democratizzazione fra il 1993 e il 1995. Il Partito liberaldemocratico di Žirinovski (Pldr), ulteriormente, costituisce un caso di eredità del passato non solo dal punto di vista dall’appropriazione di alcune strutture organizzative del Pcus nel territorio, ma anche nell’accentuazione del nazionalismo. La vittoria elettorale del Pldr, riportata alle elezioni del 1995, ha accelerato il percorso di integrazione democratica, pur rivendicando fortemente il ritorno ai confini geopolitici dell’Impero zarista e la questione della preservazione dell’identità slava contro i tentativi di occidentalizzazione della Russia post-sovietica. Alcuni imprenditori politici hanno creato un partito ex novo, in contrapposizione ai partiti eredi, che possiede meno risorse organizzative e finanziarie rispetto a Pcfr e Pldr ma che, gradualmente, ha ottenuto consenso elettorale permettendogli di accedere all’arena parlamentare. I due principali partiti che hanno costituito l’opposizione democratica contro i partiti eredi sino alle elezioni del 2003 sono Jabloko e l’Unione delle forze di destra. In seguito, il partito Russia unita, nato del 2001 per sostenere l’elezione di Putin a presidente della Federazione Russia riuscirà nel suo intento, prendendosi l’appellativo di “partito del potere”. Il processo di istituzionalizzazione dei partiti e il consolidamento del sistema partitico russo tra il 1993 e il 2007 ha delineato una stabilità dell’offerta politica: tuttavia, ancora oggi i partiti sono percepiti negativamente dalla società. La presenza sulla scena politica di un unico partito dominante – il partito del presidente, Russia unita – si discosta da questa tendenza negativa poiché gli elettori russi restano ancorati all’immagine di un singolo leader, la cui organizzazione partitica di sostegno è ritenuta uno strumento di attuazione delle politiche pubbliche, volte a migliorare la qualità del rendimento istituzionale della Russia. Effetti della mobilitazione sulla partecipazione politica La mobilitazione forzata che ha caratterizzato il periodo sovietico sembra aver lasciato pesanti eredità negative che si sono tradotte in una configurazione istituzionale che non ha facilitato, durante la transizione, la formazione di strutture di partito nel territorio della Federazione, capaci di colmare la distanza tra eletti ed elettori e ridurre la percezione negativa verso le funzioni svolte dai partiti politici nelle democrazie rappresentative. Il coinvolgimento politico delle masse nell’Urss ha costituito uno dei principali compiti del monopolio politico detenuto dal Pcus. Durante e dopo il crollo dell’Urss, la società civile è rimasta passivamente a osservare le conseguenze delle decisioni politiche che hanno introdotto le prime forme di liberalizzazione politica ed economica nel paese. La trasformazione dall’alto del regime non ha consentito di avviare un processo di apprendimento politico capace di cancellare decenni di socializzazione politica, volta a rendere «sottomessa» e inattiva la popolazione. Risulta pertanto evidente l’assenza di una volontà della classe politica di favorire il coinvolgimento della società civile, che ha come conseguenza alti livelli di astensionismo elettorale, causati da una disaffezione degli elettori verso le tradizionali forme di rappresentanza. I problemi economici, inoltre, avevano costituito la questione predominante durante le elezioni: i cittadini auspicavano un miglioramento delle condizioni di vita, ma avevano, al contempo, accentuato la disaffezione nei confronti dei partiti politici ritenuti responsabili della situazione Statualità e democratizzazione Il cambiamento di un regime politico attraverso l’introduzione di nuove norme, produce una reazione positiva o negativa nella popolazione. Ne è prova il ruolo della memoria «pubblica» nella legittimazione del nuovo corso politico e nel processo di costruzione dell’identità nazionale Conseguentemente alla dissoluzione dell’Urss, la questione dell’identità nazionale è, infatti, riemersa nell’agenda politica, determinando profondi scontri tra le élite e raffigurando tre orientamenti di pensiero: l’occidentalismo, l’approccio euroasiatico e quello antioccidentale. Agli inizi degli anni Novanta, la questione dell’identità nazionale ha riacceso il dibattito politico sia a livello di élite, sia a livello di opinione pubblica, storicamente divisa fra una vocazione europea e una forte connotazione culturale asiatica. Considerando anche la volontà di Putin di rendere la Russia più forte e stabile al fine di dar vita a una nuova «era russa», caratterizzata da un ruolo egemonico nel mondo, la questione dei confini territoriali costituisce un elemento di accesa lotta politica nell’Asia centrale, nel Caucaso e nell’Europa orientale, aree in cui vi sono conflitti per l’indipendenza. Si tratta di una questione ereditata dal periodo sovietico, che ha lasciato una profonda incertezza giurisdizionale e ha complicato i processi di state e nation-building. Le eredità socioculturali nella Russia di Medvedev Nel maggio 2007 l’istituto di ricerca di Mosca, VtSiom, ha condotto una ricerca per conoscere qual è il paese o l’unione di paesi dove i russi vorrebbero vivere e quale percezione hanno i cittadini russi della sicurezza nazionale del proprio paese. In riferimento alla prima questione, il campione è sostanzialmente soddisfatto del paese in cui attualmente vive (36%), mentre il 17% dei rispondenti vorrebbe tornare a vivere nell’Urss, il 9% nella Comunità degli stati indipendenti, il 18% in un’unione politica con l’Ucraina, la Bielorussia e il Kazakistan.Estendendo il giudizio sull’attività di governo di alcuni leader, in un sondaggio commissionato dal VtSiom nel maggio 2008 dal titolo «Da Nicola II a Vladimir Putin», è stata compiuta una prima valutazione dell’efficienza e capacità di governo dei principali leader sovietici e postcomunisti da parte di un campione rappresentativo dei cittadini russi. La tabella 8.6 dimostra che la migliore performance governativa è stata attribuita dall’80% dei rispondenti all’attuale Primo ministro Vladimir Putin, seguito da Brežnev (41%) e da Lenin (33%). Un rating inferiore ha incluso Stalin e lo zar Nicola II (31%), distanziati da Krušev (29%) e dai principali protagonisti della transizione russa Gorbačëv e El’tsin (17%). Proprio quest’ultimi sono oggetto delle principali critiche dei rispondenti, che li ritengono i fautori del percorso che ha condotto il paese in una situazione politicamente ed economicamente caotica (El’tsin al 64%, Gorbačëv al 63%), seguiti da una posizione più intermedia costituita da Stalin (42%) e Krušev (41%), Lenin e Brežnev al 35%, per concludere con lo Zar Nicola II (22%) e Putin, nominato solamente da circa l’8% dei rispondenti. Il campione esprime un giudizio nettamente positivo nei confronti dell’operato dell’ex presidente della Federazione russa, mentre sembrano attribuire la responsabilità di una «cattiva» gestione del paese a Gorbačëv e El’tsin, i «padri» della democratizzazione. Nonostante non sia stata espressa direttamente una domanda che consenta di misurare la percezione della nostalgia del passato comunista, i dati sinora emersi consentono di sviluppare qualche prima considerazione. Il giudizio positivo sull’operato di Putin mostra che le sue decisioni politiche, volte a riavvicinare la prassi politica alle procedure e alle norme tipiche dell’Urss sono state apprezzate e percepite come una forte leadership del passato. La presidenza di Putin è stata infatti molto più conservatrice e rivolta ad appropriarsi di accorgimenti istituzionali che potessero ricostituire l’esercizio del potere sulla base di un sistema maggiormente centralizzato, burocratico e «controllato» dal vertice attraverso la forte affermazione di un partito dominante nelle istituzioni e l’uso dei mass media a disposizione presidenziale. Conseguentemente alle elezioni presidenziali del marzo 2008, che hanno investito Dmitrii Medvedev della carica di nuovo Presidente della Federazione russa, e alle elezioni della Duma del dicembre 2007 che hanno consentito di votare la fiducia al governo del Primo ministro Putin, nel linguaggio politico, ormai utilizzato anche in quello scientifico, sono sorti i primi studi sugli effetti della «tandemocrazia russa» [. La tabella 8.7 indica la percentuale di coloro che hanno espresso la propria opinione riguardo a chi detiene il potere realmente in Russia. Il 21% dei rispondenti ha citato i due leader, Putin e Medvedev, mentre merita segnalare che il 17% ha individuato negli oligarchi, i benestanti e gli uomini d’affari gli attori rilevanti nella gestione pubblica e il 25% non ha, invece, espresso alcuna opinione. Il rapporto di ricerca, pubblicato dall’istituto VtSiom, fornisce ulteriori indicazioni sui cambiamenti di atteggiamento dei rispondenti fra il 2007 e il 2008 che tendono a essere più moderati nella loro accezione negativa verso la maggior parte dei leader sovietici. Per quanto riguarda i giudizi su El’tsin i rispondenti ritengono che il paese abbia preso una buona direzione durante la transizione (dal 9% del 2007 al 17% del 2008) e, rispetto all’80% (2007) di coloro che gli attribuivano un’errata linea politica che aveva avviato un percorso incerto della Russia post-sovietica, nel 2008 il valore è sceso a 64 punti percentuali [14]. I giudizi sul cambiamento politico che ha avviato il paese lungo una direzione politico-economica sbagliata, introdotto da GorbaČëv, sono negativi per il 63% degli intervistati. Al contrario, il cambiamento positivo nel paese a opera della gestione politico-economica di Putin che era stato manifestato nel 2007 dal 67% degli intervistati è addirittura aumentato all’80% nel 2008 e solamente il 12% esprime la propria contrarietà verso l’attuale Primo ministro. Non solo. Tra i leader più autorevoli il 69% dei rispondenti indica Putin, seguito da Medvedev al 21% così come le risposte all’item «Non so». Nel 2008 il giudizio su Stalin è positivo per il 31% degli intervistati rispetto al 42% di coloro che valutano negativamente la linea politica staliniana. Secondo i rispondenti il segreto del successo della tandemocrazia risiede nell’animo del comando (17%), mentre il 48% ritiene che Putin e Medvedev lavorano con parità di diritti. Tuttavia il 35% degli intervistati è convinto che Medvedev sia dipendente da Putin, mentre il 63% pensa che la tandemocrazia durerà nel futuro (tra questi il 74% fa parte dell’elettorato di Russia unita); più incerti gli elettori del Pldr (20%) per i quali il Presidente e il Primo ministro sono attualmente antagonisti (54%). In generale, i dati dei sondaggi descrivono un’opinione pubblica che esprime fiducia prevalentemente nei confronti di un unico leader politico che individuano nella persona di Putin. Ciò confermerebbe la capacità dell’attuale Primo ministro di aver trasmesso efficacemente il messaggio sulla necessità di implementare politiche di rigore per raggiungere la stabilità e l’ordine politico che la Russia contemporanea può vantare nell’ultimo decennio. Tale processo è stato costellato da interventi specifici, volti a rassicurare i propri cittadini anche attraverso politiche simboliche che hanno consentito in maniera più o meno manifesta di «riprendere» miti, azioni politiche, valori e credenze che nei primi anni della transizione erano stati cancellati. Basti pensare all’intervento nella «politica della memoria» e nella sfera storica che è cominciato non più tardi del 2006 attraverso tentativi di introdurre un manuale unico di storia[15] da adottare negli istituti scolastici, la creazione di strutture politiche che uniscano l’organizzazione della ricerca storica e il controllo delle attività degli archivi e degli editori, ovvero tentativi di «aggiustare» le interpretazioni storiche. Nella convinzione che la storia e la memoria pubblica siano un’arena di lotta politica contro gli oppositori esterni e interni, il Ministro -
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