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Tra vecchio e nuovo regime, Sintesi del corso di Scienza Politica

riassunto di Tra vecchio e nuovo regime

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 28/11/2016

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Scarica Tra vecchio e nuovo regime e più Sintesi del corso in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! Pietro Grilli di Cortona, Orazio Lanza (a cura di) Tra vecchio e nuovo regime Il peso del passato nella costruzione della democrazia RIASSUNTO Indice Pietro Grilli di Cortona Il passato che non passa: il ruolo delle eredità nelle democratizzazioni Rosalba Chiarini e Luca Germano Le eredità del passato autoritario nella democratizzazione italiana Antonino castaldo e Nicoletta Di Sotto Germania: le eredità del nazismo nella Bundesrepublik Capitolo quarto Eredità autoritarie, modalità della transizione, apprendimento politico e disegno istituzionale: Spagna e Portogallo Barbara Pisciotta L'eredità comunista in Polonia e Ungheria Barbara Pisciotta Il peso del passato nella Repubblica Ceca e in Slovacchia Sorina Soare Bulgaria e Romania vent’anni dopo: il peso del passato, le sfide del presente Mara Morini Gli effetti delle eredità del passato nella tandemocrazia russa Chiara Facello Le eredità del passato autoritario nella democratizzazione italiana Pietro Grilli di Cortona Conclusioni. Eredità e democratizzazioni in prospettiva comparata Riferimenti bibliografici 2. Eredità, storia e democratizzazioni. Anzitutto, quando si parla di eredità del passato si intendono aspetti anche molto diversi tra loro, come valori, memorie, identità, norme, istituzioni, organizzazioni, élite, comportamenti, routine e prassi, che sopravvivono alla transizione [Morlino] e che condizionano anche gli assetti politici successivi, inducendo certi cambiamenti e ostacolandone altri. Tra le memorie più spinose e problematiche vi è sicuramente quella relativa alle politiche repressive o alle «pulizie etniche» che hanno eventualmente preceduto l’avvio della democratizzazione. In questi casi, è molto probabile che si sviluppi una domanda di giustizia da parte di chi è stato perseguitato o ha avuto parenti e amici vittime del vecchio regime. Lo scopo del nuovo regime democratico è, infatti, di ampliare la sua legittimità, condannando gli eventuali crimini commessi da quello precedente. Sulle transizioni democratiche il passato esercita la sua influenza in due modi: da un lato condizionando caratteri, percorsi ed esiti e, dall’altro, lasciando che le stesse democratizzazioni propongano nuove interpretazioni e riconfigurazioni del passato stesso [Pridham]. Nel primo caso abbiamo a che fare con le cosiddette “Confining conditions” di Kirchheimer [1965], ossia con quell’insieme di influenze e condizionamenti che la transizione non ha cancellato, che il nuovo regime deve superare o alle quali deve adattarsi, e che comunque determinano le sue successive scelte e decisioni. Secondo Lijphart, vi è dunque una dicotomia fra “ciò che si può cambiare” e “ciò che si può mantenere”, marcando il confine tra le due diverse transizioni democratiche. Come ha analizzato Huntington, le ridemocratizzazioni hanno più probabilità di avere successo delle democratizzazioni, perché sostenute da un patrimonio di esperienze e da una memoria del passato trasmessa da istituzioni, attori collettivi e spesso anche singoli leader politici. In simili casi, partiti, organizzazioni e istituzioni possono ricostituirsi più agevolmente, usufruendo della passata esperienza. Gorilla question e Nomenklatura question. Agli inizi degli anni Novanta, Karl e Schmitter individuarono le due eredità più rilevanti che le democrazie dovevano affrontare se volevano consolidarsi: - Con la Gorilla question essi identificavano la tradizione di interventismo dei militari in politica presente in molti paesi dell’America latina, che obbliga le nuove democrazie ad affrontare i rischi di colpo di stato e il potere di ricatto che le forze armate mantengono dopo aver lasciato il potere. - Con la Nomenklatura question, invece, identificavano un ostacolo al successo della democratizzazione nella persistente presenza della Nomenklatura comunista all’interno degli apparati amministrativi delle nuove democrazie est-europee: una burocrazia formata in epoca comunista, ideologizzata, non abituata a comportarsi secondo i parametri classici delle burocrazie razionali-legali degli stati occidentali, avrebbe potuto mettere in difficoltà i primi governi democratici. 3. Le eredità storiche. È necessario comprendere quali eredità siano significative e pesino effettivamente sul nuovo regime democratico, e in quale modo lo condizionano. Le eredità storiche, sia pure filtrate, rafforzate o indebolite dal regime Non democratico, esercitano sempre un’influenza sulla democratizzazione e sul regime successivo [Pridham]. Tale influenza diventa operativa in tre modi diversi: 1) come influenza indiretta, condizionando la fisionomia del regime non democratico (che poi, a sua volta, influenzerà transizione e democrazia successive); 2) come riferimento emulativo, quando si tenta di tornare alla fase precedente con il ripristino di costituzioni, norme e istituzioni simbolo del passato preautoritario o pretotalitario; 3) come apprendimento politico, ossia traendo dal passato precedente al regime non democratico una «lezione» da mettere a frutto nella transizione democratica. Tutte le questioni relative alle identità nazionali e statali, alla formazione, evoluzione e conformazione dello stato, risalgono a epoche lontane ma possono continuare a incidere sui processi politici di oggi. Un esempio è rappresentato dai variabili effetti del governo imperiale nell’Europa centro-orientale [Bunce] e dalle diversità nelle tradizioni politiche e istituzionali che ne sono scaturite, in particolare tra quei paesi provenienti dal disfacimento dell’Impero ottomano e quelli usciti, invece, dalla fine dell’Impero asburgico [Grilli di Cortona]. L’insieme dei regimi comunisti europei ha vissuto sì una comune esperienza istituzionale, ma ciascun paese ha seguito un suo percorso le cui differenze hanno finito per pesare sia sulle transizioni sia sugli assetti politici ed economici dei successivi regimi democratici. I precedenti democratici in Europa centro-orientale sono meno frequenti e di portata più limitata, ma le nuove élite degli anni Novanta cercano di ancorarsi a essi in molti modi: la Lettonia ripristina la costituzione del 1922 proprio per sottolineare gli aspetti di continuità con quel periodo; la Romania reinstaura il bicameralismo; la Polonia risuscita il Senato, che era stato abrogato con un referendum nel 1946. Si guarda alla fase precomunista anche perché essa richiama una stagione di indipendenza e di sovranità, poi vulnerata dalle imposizioni dell’era sovietica. 4. Le eredità del vecchio regime. L’attenzione deve focalizzarsi anche sulle eredità che ha assunto il vecchio regime, ovvero quello pre-democratico. Esse sono rilevanti poiché hanno creato vincoli, ostacoli e ritardi alla democratizzazione, ma anche alcune condizioni favorevoli: in altre parole, non solo soltanto le eredità derivanti dal regime non democratico (passato) a condizionare la democratizzazione, bensì anche le eredità che ha acquisito il vecchio regime autoritario (trapassato). In alcuni casi, certe eredità sono state paradossalmente di aiuto alla democrazia: in Spagna e Ungheria, la disponibilità di vecchie élite a traghettare il regime verso la democrazia favorisce un cambiamento moderato ed evidenzia una conversione (verso la democrazia) che ne garantirà una legittimazione più agevole e lineare. O ancora, il fascismo italiano ne ha lasciate alcune che hanno contribuito a caratterizzare tutta la prima fase della Repubblica: infatti, mentre in Germania la politica di massa era stata inaugurata nella fase precedente il regime totalitario (nella Repubblica di Weimar), in Italia le nuove élite democratiche hanno imparato dai fascisti la «lezione» circa l’insostituibilità del partito e della mobilitazione di massa. E i nuovi partiti si sono attenuti alle modalità organizzative e di mobilitazione inaugurate dal Partito Nazionale Fascista. Sempre circa il caso italiano, vediamo come i ruoli attribuiti dalla Costituzione italiana al parlamento e al Primo ministro, con la decisione di costruire un esecutivo debole e un parlamento forte, siano state azioni influenzate dal passato autoritario, tese a contrastare ogni futura eventuale tentazione autoritaria. D’altra parte, però, vi sono anche frammenti del vecchio regime sopravvissuti alla transizione, che frappongono difficoltà al compimento e al successo della democratizzazione: tra queste, l’attivismo politico dei militari in America latina e la conformazione della burocrazia nei paesi postcomunisti, ma anche singole istituzioni come il Consiglio rivoluzionario in Portogallo o strutture come i partiti unici quando, anziché scomparire, entrano a far parte dei sistemi partitici competitivi. La conservazione di queste eredità, frutto di negoziati e patti, favorisce il progredire della transizione, ma si configura inizialmente quasi sempre come un elemento di debolezza della democrazia, un ostacolo al conseguimento del consolidamento democratico. Eredità Socio-culturali, Elitiste e Istituzionali-organizzative. È possibile distinguere le eredità in socioculturali, élitiste e istituzionali-organizzative (tab. 1.1). Quanto alle prime, decenni di regime autoritario o totalitario hanno plasmato mentalità, valori, orientamenti, comportamenti quotidiani che restano radicati anche in seguito: la diffidenza e l’alienazione verso il potere e i suoi rappresentanti, l’apatia politica o, al contrario, l’abitudine a essere mobilitati, l’assuefazione allo stato-padrone, la paura di esporsi e di partecipare, sono sentimenti molto diffusi. Alle eredità di tipo culturale appartengono anche la memoria collettiva e i processi di apprendimento, di cui si parlerà più avanti. TAB. 1.2. Fattori che incidono sulla forza delle eredità Lunga Durata del regime non democratico Breve Alta Capacità innovativa del precedente regime non democratico Bassa Continua Tipo di transizione Discontinua Assente Condizionamento internazionale Presente Influenza delle eredità Forte Debole La memoria e l’apprendimento politico Il ricordo di passate esperienze, ossia la memoria collettiva, condiziona sempre i nostri comportamenti. Credenze e opinioni mutano in funzione di quanto apprendiamo da precedenti esperienze o eventi. In questo senso, in virtù di quanto e come ricordiamo, l’apprendimento politico è il processo attraverso il quale élite, attori collettivi e opinione pubblica modificano credenze e tattiche politiche a seguito di crisi e mutamenti drammatici che hanno caratterizzato l’ambiente in cui hanno vissuto. Nei processi di democratizzazione, mettere a frutto ciò che si è imparato dal passato diviene cruciale nelle fasi centrali del percorso, soprattutto quando si tratta di impostare un negoziato tra gli attori politici protagonisti per stabilire la direzione e la qualità del cambiamento (transizione) e quando si devono erigere le principali istituzioni del nuovo assetto democratico (instaurazione). Le strategie utilizzate e le scelte istituzionali compiute nelle due fasi centrali sono in gran parte il frutto del patrimonio di esperienze degli attori politici e degli insegnamenti trasmessi agli individui e agli attori collettivi da eventi precedenti. Ciò diviene evidente in presenza di una ridemocratizzazione. Il fascismo, ad esempio, ha rappresentato un’esperienza negativa che ha contribuito a formare le generazioni democratiche successive, in Italia e non solo [Linz]. Il concetto di «apprendimento politico» si fonda sulla constatazione che credenze e valori possano mutare sotto l’influenza di eventi particolari [Bermeo 1992]: il fallimento di una precedente esperienza democratica, gli anni della dittatura, una guerra civile e così via, possono contribuire a mutare modi di pensare. CAP. 2. LE EREDITA’ DEL PASSATO AUTORITARIO NELLA DEMOCRATIZZAZIONE ITALIANA. La mobilitazione e la società civile Il fascismo non riuscì mai a realizzare una politica di assimilazione e subordinazione di ogni sfera politica e sociale sotto la forma della completa «fascistizzazione» del paese. Al contrario, istituzioni quali la monarchia, le forze armate, la Chiesa cattolica e la grande borghesia industriale mantennero un ruolo relativamente autonomo, dando luogo a quel pluralismo limitato che è uno degli elementi caratterizzanti i regimi autoritari rispetto a quelli totalitari [Linz]. Il fascismo, attraverso il suo partito unico di stampo totalitario, creò dall’alto un denso reticolo di organizzazioni di mobilitazione volte a inquadrare e controllare ogni cittadino dalla nascita alla morte. Non solo l’appartenenza al Partito nazionale fascista (Pnf) era un requisito obbligatorio per trovare lavoro, ma il partito aveva una serie capillare di articolazioni – giovanile, universitaria, femminile, lavorativa – indirizzate alla socializzazione e al mantenimento della partecipazione entro limiti da esso controllabili. In tal modo il regime riuscì a conseguire una ampia penetrazione nella società civile italiana, la cui mobilitazione ricadde completamente in mano al Pnf e alle sue organizzazioni collaterali. Come esplicato nella figura 2.1, nelle elezioni del 1919, 1921 e 1924 il livello di partecipazione è decisamente inferiore rispetto a quelle del 1929 e 1934: FIG. 2.1. massicciamente applicati e sviluppati dal fascismo. L’attribuzione di un ruolo decisivo ai poteri pubblici in campo economico, nel campo delle funzioni sociali e in quello del governo della società civile fu favorita dalla crisi mondiale successiva al crollo dell’economia statunitense del 1929. Il fascismo si avvalse, in particolare, dello strumento dell’ente pubblico e dell’adozione di moduli organizzativi privatistici per l’agire pubblico. La crescita fu vertiginosa visto che fra il 1922 e il 1940 vennero istituiti non meno di 260 nuovi enti pubblici, prevalentemente operanti in tre settori fondamentali: quello assistenziale e previdenziale, quello di tutela degli interessi partitici e dei settori professionali e produttivi e, in special modo, quello dell’azione imprenditoriale pubblica. Il regime fascista non introdusse radicali trasformazioni nell’assetto istituzionale della magistratura ereditato dal periodo liberale. Il nuovo ordinamento giudiziario emanato nel 1923 rinforzò la gerarchia e i poteri dell’esecutivo, ma il reclutamento continuò a essere effettuato tramite concorso pubblico e fu conservata la separazione tra funzioni politiche e funzioni giurisdizionali. Il cambiamento si consumò nel potenziamento dei poteri della polizia e nella creazione di giurisdizioni speciali, come il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. È alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, che i partiti prefascisti rinacquero e ripresero l’attività politica. Tutti i partiti dell’antifascismo storico ricomparvero: il Partito socialista, la Democrazia cristiana (ex Partito popolare), il Partito liberale, il Partito d’Azione e il Partito comunista. In brevissimo tempo, i partiti conquistarono un ruolo centrale nella transizione democratica sfruttando il collasso delle istituzioni statali post-guerra. Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), formato da sei partiti (Pli, Psi, Pci, Dc, Pda e Partito demolaburista) fu centro di direzione politica e colmò un vuoto di potere affiancando il governo regio. Nel 1946, anno di nascita della Repubblica Italiana, tre aspetti emersero distintamente: la divisione della sinistra e la competizione fra Pci e Psi per stabilire la leadership nell’area politica di riferimento; l’affermazione maggioritaria del partito cattolico, saldamente ancorato al centro dello schieramento; la notevole riduzione del Partito liberale. Nel 1947 De Gasperi, segretario della Dc, formò il nuovo esecutivo con esclusione di socialisti e comunisti. Sin dall’avvio della Guerra Fredda, la politica interna italiana fu dominata dalla contrapposizione tra il Pci e la Dc, quest’ultima fortemente influenzata e sostenuta da una politica strategica statunitense. Le elezioni del 1948 assegnarono una vittoria netta alla Dc e fissarono nuovi equilibri, destinati a durare per tutta la fase del consolidamento. L’esperienza governativa sarà preclusa ai partiti dell’estrema destra, a causa della nostalgia del regime autoritario, e al Pci, a causa dello stretto rapporto con l’Unione Sovietica. Tale sistema partitico, caratterizzato da un ruolo preminente dei due principali partiti (Dc e Pci) e dall’impossibilità di un’alternanza al governo, sarà definito un caso di «bipartitismo imperfetto» [Galli] o, più precisamente, di «pluralismo polarizzato» [Sartori]. Un partito che si giovò della bipolarizzazione della competizione partitica negli anni del consolidamento, e che rappresenta il lascito più chiaro del vecchio regime, fu il Movimento sociale italiano (Msi), fondato a Roma nel dicembre del 1946, il quale raccolse l’eredità del fascismo ma con una nuova impostazione moderata al fine di mantenere il partito nella legalità. Dal 1950, anno di insediamento del nuovo segretario Augusto De Marsanich (in sostituzione di Almirante), il partito abbandonò l’atteggiamento di contrapposizione per adottare la strategia di «inserimento» nel sistema, che proseguirà almeno fino ai primi anni Settanta, proponendosi alla Dc come potenziale alleato contro il pericolo rappresentato dalle sinistre. Tuttavia, le proteste e i disordini che si diffusero nel paese riportarono il Movimento sociale nella marginalità politica fino al 1993, quando il partito rinnoverà natura, immagine e nome (Alleanza nazionale). In definitiva, il sistema partitico emerso alla caduta del fascismo riprodusse, salvo qualche variazione, i partiti già presenti nella fase prefascista. La strutturazione bipolare lungo la linea di frattura comunismo/anticomunismo e la presenza di un partito erede antisistema hanno rappresentato fattori di influenza e continuità. La nuova Costituzione del 1946 escludeva ogni ipotesi di rafforzamento per via istituzionale dell’esecutivo e puntava verso un regime parlamentare di tipo assembleare nel quale il capo del governo è un «primo tra eguali» destinato a cadere con il suo gabinetto, e ha poco controllo sul gruppo dei ministri. Prevedeva un processo decisionale consensuale e un sistema elettorale fortemente proporzionale, capace di rappresentare l’ampio spettro delle forze politiche postfasciste. Inoltre, la propensione verso un sistema istituzionale costellato di contrappesi condusse verso il bicameralismo simmetrico. Per tutta la fase repubblicana fino ai primi anni Novanta, le caratteristiche fondamentali dell’esecutivo sono state: netta prevalenza dei governi coalizionali, che sempre hanno incluso la Dc quale partito maggiore; alternanza molto limitata tra i partiti al governo; breve durata dei governi; debolezza del Presidente del Consiglio. Per contro, il parlamento è stato fortemente coinvolto nelle decisioni salienti, autonomo nella definizione della propria agenda e dunque delle priorità politiche, in possesso di strumenti rilevanti di controllo dell’esecutivo. 4. La complessa eredità statalista . Durante il Regime fascista: Lo statalismo può essere definito come il controllo dell’economia, spesso esteso anche alla proprietà diretta dell’industria, da parte di un governo fortemente centralizzato che interferisce altresì con la vita privata dei cittadini. La creazione dell’enorme settore pubblico italiano non fu il prodotto di un disegno strategico definito a tavolino dal governo fascista, ma il risultato della sua reazione alla Grande depressione degli anni Trenta del Novecento. L’intervento fu obbligato poiché quello italiano era un sistema economico caratterizzato da una simbiosità fra banca e impresa che con la crisi finanziaria rischiava di far precipitare anche il settore industriale. I salvataggi bancari degli anni Trenta furono realizzati attraverso la costituzione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Per via degli intrecci azionari banca-impresa l’IRI si ritrovò a controllare non solo le tre principali banche (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma), ma anche il 100% della siderurgia bellica, delle costruzioni di artiglieria e dell’estrazione di carbone; l’80% delle società di navigazione e produzioni ferroviarie; il 40% della siderurgia; il 30% dell’elettricità; la quasi totalità della telefonia; varie imprese meccaniche. Rimanevano sotto il controllo statale anche il sistema creditizio, protezionistico, daziario e tariffario. Con questo importante lascito i governi del costituendo regime democratico avrebbero dovuto fare i conti. L’élite cresciuta nell’IRI fu sempre compatta e risultò impermeabile ai tentativi di infiltrazione del regime, non consentendo al Ministero delle Corporazioni di gestire l’economia pubblica che rimase saldamente in mano all’Istituto. Perciò, anziché esserci una fascistizzazione dell’economia e dell’IRI, si ebbe l’opposto: quest’ultimo svolse un ruolo molto più ampio dei suoi scopi istituzionali iniziali divenendo il gestore di fatto dell’economia e il motore dell’intervento dello Stato nel sistema industriale-finanziario. Perciò il capitalismo italiano, al di là della facciata di regime, mantenne un importante settore privato e lo stesso settore pubblico fu gestito secondo criteri rigorosamente privatistici. Interventismo e dirigismo, tuttavia, non erano una novità fascista, bensì appartenevano già al passato giolittiano e alle elaborazioni neomercantiliste di Francesco Saverio Nitti. Secondo Nitti l’industrializzazione era il presupposto necessario affinché l’Italia potesse collocarsi nel club delle maggiori potenze europee, per mezzo di un forte sostegno allo sviluppo industriale da parte dello stato, ovvero una politica protezionistica e l’intervento diretto alla formazione del capitale industriale nei settori tecnologicamente avanzati. . Dopo il fascismo: Il dibattito sulle alternative della ricostruzione fu caratterizzato da una molteplicità e diversità di posizioni. I soli in grado di proporre una visione unitaria e ad avere una chiarezza sulle misure necessarie da attuare nella fase dell’emergenza furono gli esponenti della scuola economica liberista italiana: Luigi Einaudi, Epicarmo Corbino e Gustavo Del Vecchio. Nonostante la maggioranza dello schieramento politico (Dc, Pci, Psi, Pda) dissentisse dalla posizione liberista, finì per abdicarvi a causa della incapacità di concordare una linea politica unitaria. Interventismo pubblico, protezionismo, espansione del settore pubblico erano per i liberisti il prodotto diretto del fascismo e pertanto sarebbero dovuti essere sostituiti da un intervento minimale dello Stato, dall’apertura immediata dell’economia e dallo smantellamento del settore pubblico e dell’IRI. Le cose, però, sarebbero radicalmente mutate a partire dai primi anni Cinquanta quando la presenza dello stato in economia e l’interventismo avrebbero assunto caratteri diversi a seguito della crescita di potere della Dc. L’infiltrazione negli enti statali già esistenti e la creazione ex novo di ulteriori enti (l’Ente nazionale idrocarburi – ENI -, e il Ministero delle Partecipazioni Statali) avrebbero permesso alla Dc di estendere la sua penetrazione nella società civile. CAP. 3. GERMANIA: LE EREDITA’ DEL NAZISMO NELLA BUNDESREPUBLIK. 1. Caratteristiche del regime nazista. Tra i paesi che hanno conosciuto un’esperienza non democratica certamente la Germania, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, rappresenta uno dei casi più importanti: il nazismo viene infatti considerato, per le sue modalità operative e per i suoi fini politici, un esempio di regime totalitario [Fisichella]. Con la fine del nazionalsocialismo tedesco negli anni Quaranta, la Germania viene coinvolta (contemporaneamente all’Italia) nella seconda ondata di democratizzazione. Il grado di incidenza delle eredità del passato dipende, in linea generale, dalla durata del regime, dalla sua capacità di influenzare la società e la politica del paese, dalle modalità di transizione alla democrazia e dalla presenza/assenza di un condizionamento internazionale. Analizzando la storia politica della Germania pre-nazismo, la prima esperienza democratica tedesca, durante gli anni della Repubblica di Weimar (15 anni), e il suo crollo rappresentano una vicenda fondamentale che verrà ripresa dalla élite democratica nel secondo dopoguerra. In questa fase, la debolezza del parlamentarismo e il continuo ricorso alle elezioni (in 15 anni vi furono 20 governi) furono tra le cause dell’instabilità politica. Nei primi anni della sua costituzione, i leader politici della Repubblica di Weimar, infatti, erano interessati anzitutto a tenere lontana dalla Germania la rivoluzione bolscevica, piuttosto che a far uscire il paese dalla grave crisi economica e dalle precarietà sociali che ne derivarono. In questa condizione di instabilità politica ed economica, Hitler aveva costituito il Nsdap, partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori con cui vinse le elezioni il 5 marzo 1933. Forte del suo successo elettorale, la politica hitleriana si trasformò in un potere totalitario con il pieno controllo della società, dell’economia e dello Stato tedesco. 2. Sistema partitico e partiti. Alla base della serie di iniziative che hanno contribuito a modellare il nuovo sistema partitico della Repubblica Federale Tedesca (post-seconda guerra mondiale) vi è un’analisi attenta degli errori commessi dalla classe dirigente della Repubblica di Weimar, che hanno favorito la conquista del potere da parte dei nazisti. Gli attori responsabili della rinascita della democrazia in Germania (potenze alleate ed élite democratica tedesca) compresero che per avere successo avrebbero dovuto in primo luogo risolvere i problemi che avevano favorito l’avvento del nazismo: l’eccessiva frammentazione del sistema partitico di Weimar e la presenza di forti partiti antisistema davanti ai quali le istituzioni weimariane restarono inerti. Un primo obiettivo delle potenze alleate era quello di imporre alla vita politica tedesca la più ampia discontinuità rispetto sia all’esperienza del nazismo sia a quella della debole Repubblica di Weimar. Per poter operare, i partiti dovevano ottenere la cosiddetta «licenza», il cui rilascio era subordinato all’osservanza di una serie di norme basate su requisiti democratici. I partiti che ottennero la licenza furono quattro: il Partito socialdemocratico tedesco (Spd); il Partito comunista tedesco (Kdp); l’Unione dei cristiano-democratici e cristiano-sociali (Cdu/Csu); il Partito dei liberi democratici (Fdp). Le politiche adottate dagli Alleati diedero ad almeno tre di questi quattro partiti un vantaggio sugli altri che essi non perderanno più. Tuttavia, anche a causa della sua breve durata (1945-49), l’impatto di questa strategia non fu né l’unico né il più rilevante nella risoluzione di questi problemi. Infatti, alle elezioni del 1949 si presentarono comunque 14 partiti, 11 dei quali ottennero rappresentanza. Inoltre, subito dopo la politica delle licenze, si ebbe la formazione del Partito socialista dell’impero (Srp), un partito erede del nazismo. Alla risoluzione di questi problemi fu chiamata l’élite democratica tedesca, la quale adottò la strategia della «democrazia militante» (Karl Loewenstein), secondo cui le democrazie minacciate da movimenti fascisti dovevano mettere fuorilegge questi partiti (un principio sostenuto anche da Sartori). Nella cornice della democrazia militante il secondo strumento utilizzato fu la legge elettorale che, nella sua forma originaria, consisteva in un sistema elettorale misto (3/5 dei deputati erano eletti con un sistema maggioritario uninominale a un turno; 2/5 attraverso un sistema proporzionale con liste di partito; per evitare la proliferazione dei partiti nessuno di questi otteneva seggi proporzionali se non vinceva in una particolare regione o un seggio maggioritario o il 5% dei voti espressi). Vi furono due riforme di questa legge, una del 1953, l’altra del 1956: - Nella prima, ad a ogni elettore erano conferiti due voti, da esprimere uno per i candidati circoscrizionali, l’altro per le liste di partito; ogni sistema elettorale eleggeva il 50% dei seggi parlamentari; la clausola del 5% passava dal livello regionale a quello federale. - La riforma del 1956 prevedeva che per ottenere seggi proporzionali un partito doveva ricevere più del 5% del voto nazionale o conquistare almeno tre seggi maggioritari. Un’altra eredità potenziale dell’esperienza nazista sui temi di cui si sta trattando è relativa ai modelli di partito adottati nella Rft. Il modello del partito nazista è vicino a una concezione di tipo catch-all (partito pigliatutto). È provato che i partiti di Weimar non raccolsero la sfida competitiva lanciata dal partito pigliatutto nazista [Smith]. Questo aspetto può essere annoverato tra quelli che hanno favorito la conquista del potere da parte del nazismo. FIG. 3.2. Eredità del nazismo sui modelli di partito dell’Rft. 3. Élite politica e funzionale Per valutare l’eredità del nazismo sull’élite della Rft considereremo, da un lato, l’élite politica in senso stretto, dall’altro, le élite funzionali (burocrazie ministeriali, magistratura, esercito, economia). Il processo di denazificazione previde: la registrazione e il temporaneo internamento dell’intera élite politica ed economica dello stato nazista, incluse tutte le SS; processi per ogni figura importante e per ogni organizzazione responsabile dell’inizio di una guerra di aggressione e per crimini contro l’umanità; dissoluzione delle organizzazioni nazionalsocialiste; allontanamento di tutti i nazisti dalla vita pubblica e da tutte le posizioni di potere nella società e nella pubblica amministrazione. Vi furono, tuttavia, alcuni cambiamenti nel corso di tale processo, fra cui l’amnistia per i giovani concessa nel 1946 e l’amnistia di Natale che entrò in vigore intorno alla metà del 1947, le quali portarono a esonerare circa 2.800.000 persone. Infine, la necessità di integrare piuttosto che punire la grande massa di ex sostenitori del nazionalsocialismo portò i partiti politici tedeschi già alla fine del 1947 a rinunciare, ufficiosamente, al processo di denazificazione. I risultati di questa inversione portarono ad avere ex membri del Partito nazista nello staff del Ministero degli Esteri e nella pubblica amministrazione. Il primo degli effetti che tale processo contribuì a produrre fu la chiara discontinuità dell’élite politica dell’Rft rispetto alla classe politica nazista. Per il ceto politico dirigente del Terzo Reich non vi fu alcun futuro politico dopo il 1945. Nelle élite funzionali prevalse, invece, un modello di 6. Statalismo: una nuova strategia di politica economica? Rispetto alla politica economica hitleriana, i primi anni del dopoguerra si caratterizzarono per il contributo determinante del settore pubblico nell’economia tedesca, in quanto a esso si dovevano le infrastrutture del paese. Altro aspetto innovativo, conseguenza dell’assetto federale, fu lo sviluppo di un articolato intreccio inter e infrastrutturale e inter e intraregionale: lo spazio di produzione era suddiviso per ambiti territoriali, regionali, creando una interdipendenza e complementarietà sia a livello regionale che tra livelli di governo diversi. Secondo gli Alleati, era necessaria la ricostruzione industriale tedesca con il controllo americano dei volumi produttivi e delle quote di importazioni ed esportazioni. Il timore che l’insoddisfazione economica fosse la causa della caduta del regime democratico fu la ragione che spinse gli Alleati a sostenere uno sviluppo economico della Germania Occidentale tale da portare una crescita del Pnl tra i più alti dell’Europa. Dal 1945 al 1975 la Repubblica federale visse infatti un momento di crescita che portò, nei primi anni Settanta, alla più alta quota di occupazione nel settore industriale. I Länder, in linea con la volontà degli Alleati di creare una forte discontinuità rispetto al nazismo, svolsero un ruolo importante nella ricostruzione economica della Germania: l’attuazione di un federalismo cooperativo consentì al paese di derogare parte delle competenze e delle decisioni ai diversi livelli di governo, così da renderli promotori e sostenitori del rilancio economico del paese. La ricchezza di ogni regione venne amministrata da un governo locale che svolgeva il ruolo di promotore dello sviluppo economico e, allo stesso tempo, di controllore dell’economia regionale. Con la caduta del regime nazista e l’occupazione militare, anche la politica monetaria tedesca, negli anni successivi al dopoguerra, divenne una responsabilità degli Alleati. Questi ultimi introdussero il Deutsche Mark e, nel 1948, ristrutturarono il sistema bancario tedesco con la creazione della Banca degli stati tedeschi (Bank Deutscher Länder), successivamente rinominata Deutsche Bundesbank. Essa, oltre agli obiettivi generali presentati, fu creata anche per influire sull’occupazione, sullo sviluppo economico, sulle fluttuazioni del ciclo economico e per sostenere la politica economica del governo. Affinché la Bundesbank potesse giocare un ruolo centrale nel processo decisionale le venne riconosciuto un livello di autonomia rispetto al governo centrale tra i più alti in Europa. 7. Conclusioni Con i suoi 12 anni di vita, il Terzo Reich può essere associato ai regimi di breve durata [Linz]. Nonostante la capacità di innovazione (prevalentemente di istituzioni e norme) del regime nazista fosse estremamente elevata, è altrettanto vero che queste innovazioni mancarono, in molti casi, di raggiungere quel grado di istituzionalizzazione necessario per avere qualche chance di trasmissione al regime successivo. La transizione dal nazismo alla Rft è di natura discontinua. Emerge chiaramente la presenza di un forte condizionamento internazionale. TAB. 3.9. L’eredità del nazismo sul consolidamento della RFT Eredità Continuità/ discontinuità Influenza sul consolidamento della Rft Sistema partitico Discontinuità Positiva Modelli Continuità Positiva di partito Élite politica Discontinuità Positiva Élite e partiti Élite funzionali Continuità Positiva discontinua Mobilitazio ne Continuità Positiva/assente e discontinuità Statualità Discontinuità Positiva Statalismo Discontinuità Positiva La forte discontinuità presente nell’élite politica della Rft ha contribuito alla legittimazione del sistema nel suo complesso. La continuità discontinua delle élite funzionali ha giocato un ruolo ancora più rilevante nel consolidamento della Rft, fornendo a essa amministratori capaci e tecnici esperti. La discontinuità rappresentata dalla struttura federale della Rft rispetto al centralismo nazista, pur non avendo un ruolo determinante nel consolidamento democratico tedesco, contribuì alla legittimazione complessiva del nuovo sistema istituzionale. Pur trattandosi di una riforma voluta dalle potenze occupanti, questa si poneva in continuità con la tradizione istituzionale tedesca, che aveva visto adottare la soluzione federale da parte di tutti i regimi che si erano succeduti in Germania a partire dalla metà dell’Ottocento. Dunque, sembra che le conclusioni cui si giunge in questo lavoro confermino l’ipotesi di Linz secondo cui i regimi democratici che seguono regimi totalitari altamente ideologici si trovano di fronte a una situazione meno complessa, e in sostanza più propizia, di quelli che seguono regimi di tipo autoritario [Linz]. esso, formalizzando il consensuale patto dell’oblio, che spiana la strada alla transizione evitando rancori e vendette. Restarono al loro posto anche i funzionari delle amministrazioni pubbliche, i giudici che avevano applicato la legislazione franchista, i professori universitari che avevano difeso le dottrine del regime autoritario, gli ufficiali e gli agenti di polizia che avevano represso qualsiasi forma di dissenso. Per quanto riguarda la monarchia, si pensava che essa potesse essere un’eredità negativa del regime franchista, in quanto simboleggiava una scelta di Franco stesso. Tuttavia le scelte illuminate dell’erede designato (da Franco) Juan Carlos, che durante la transizione si è proposto come «pilota del cambiamento», legittimarono l’istituzione monarchica anche presso l’opposizione democratica, rendendo possibile l’instaurazione di una monarchia parlamentare. Già dalle prime elezioni democratiche emerse che nel nuovo sistema politico non c’era spazio per le correnti eredi del franchismo. Quanto alle istituzioni del regime e agli attori che le impersonavano, un discorso a parte meritano le Forze armate: nel loro caso vi fu un’elevata continuità non solo nel personale ma anche nei metodi (ad esempio la tortura) e nella cultura della repressione. Quest’ultima viene considerata una delle più pesanti eredità con le quali ha dovuto fare i conti la nuova democrazia. Spagna: disegno istituzionale, political learning, memoria storica Ci sono alcune eredità di tipo culturale la cui assenza o presenza ha una sicura incidenza nella fase di costruzione delle nuove istituzioni. Si tratta del political learning e della memoria storica. La logica dell’apprendimento politico implica che ciò che ha funzionato in passato tende a essere ripreso e ciò che non ha funzionato tende a essere evitato. La Spagna è considerata un case study esemplare per chi voglia approfondire il ruolo giocato dalla memoria storica e dal political learning in un processo di ridemocratizzazione. Secondo Aguilar, infatti, le condizioni economiche, sociali e politiche esistenti agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, sia a livello interno che internazionale, sono state molto più favorevoli a esiti pro-democrazia. La memoria storica legata al trauma della guerra civile si traduce in quella strategia del consenso manifestatasi con modalità del tutto peculiari nell’elaborazione della nuova carta costituzionale promulgata nel dicembre 1978, mentre quella legata alla Seconda repubblica incide fortemente sul disegno sia delle regole che delle istituzioni della nuova democrazia. La Spagna è un caso di transizione continua o discontinua? A prevalere sono le tesi che propendono per la discontinuità, ma non mancano coloro che vedono tante continuità. I primi sostengono che la costituzione del 1978 introduce una rottura radicale con il passato sia perché interrompe una secolare storia d’instabilità politica e costituzionale, consentendo alla Spagna di vivere stabilmente in democrazia per oltre tre decenni, sia perché concorre a risolvere quattro dei cinque grandi conflitti storici ereditati dal passato: sulla forma di governo, sui rapporti chiesa- stato, sui rapporti civili-militari e sui rapporti stato-società. Non del tutto risolto rimane invece il quinto conflitto storico, quello relativo all’organizzazione del territorio. Tra coloro che, invece, enfatizzano la continuità, si sottolinea come la caratteristica più rilevante della transizione spagnola sia consistita nel sostituire il regime franchista con un sistema costituzionale servendosi della struttura giuridica precedente, facendo della democrazia attuale l’erede legale della dittatura. I vantaggi delle transizioni continue possono trasformarsi in svantaggi in termini di regole, prassi e ordinamenti del passato che permangono e che incidono negativamente sulla qualità della nuova democrazia. Alla fine del processo costituente, l’esito è un assetto istituzionale costituito da una monarchia costituzionale, un sistema elettorale proporzionale, un parlamento bicamerale, un potere esecutivo congegnato per essere forte e stabile, un territorio divisibile in regioni autonome. Si può quindi parlare di eredità che si traducono in scelte fatte «per reazione», ma non al vecchio regime quanto alle precedenti istituzioni democratiche. Per reazione alle politiche repressive franchiste tese a cancellare le forti identità locali spagnole, la domanda di decentramento e quella di democrazia si saldano in un unicum che si esprime sia tramite i partiti nazionalisti sia tramite l’opposizione democratica. Portogallo. Neanche in Portogallo monarchia è sinonimo di democrazia, ma bisogna aggiungere che repubblica non sempre significa democrazia. Il regime salazarista si definisce infatti come «Seconda repubblica», oltre che come «Stato nuovo» (Estado Novo). Il regime autoritario portoghese, come quello spagnolo, trae origine da un levantamiento militare, quello che il 28 maggio 1926 mise fine a un periodo di embrionale democrazia, quello della Prima repubblica che, nonostante la breve durata (1910-26), si è fatta portatrice di importanti eredità storiche. In primo luogo, il sempre più penetrante interventismo diretto dei militari in politica, che diviene un tratto tipico di tale repubblica; in secondo luogo, una serie di eredità negative tra le quali spiccano l’elevata instabilità politica (44 governi in poco più di 15 anni), fenomeni di polarizzazione e violenza politica, la frammentazione del fragile sistema partitico, il radicale conflitto tra clericali e anticlericali. L’eredità più importante che la Prima repubblica portoghese lascia alla democrazia inizierà nel aprile 1974 e si manifesterà come istituzionalizzazione dello sconfinamento dei militari in politica, di presenza di forme di pretorianesimo che faranno fatica a scomparire, e che, paradossalmente, saranno tenute sotto controllo dal regime autoritario di Salazar. La Seconda repubblica portoghese è un regime autoritario da molti etichettato come fascista e che, come quello spagnolo, si ispira nei principi e nei modelli organizzativi al fascismo italiano ed è fortemente caratterizzato dal culto del leader. Nel regime di Salazar il potere, nonostante la costituzione prevedesse competenze notevoli anche per il capo dello stato, finì per concentrarsi nelle mani del Presidente del Consiglio, carica che il dittatore occupò interrottamente fino al 1968. I militari rimasero un potente braccio armato del regime. Lo Stato si avvalse anche di altri organismi appositamente creati e ampiamente utilizzati ai fini della repressione del dissenso politico (la polizia segreta, la Legione portoghese, censura, restrizione della libertà di stampa e di opinione, proibizione dei partiti politici e dei sindacati). Il braccio politico del salazarismo è il partito unico, l’Unione nazionale, fondata nel 1930, e dal 1970 denominata Azione popolare nazionale. Essa, come la Falange, non ha mai svolto un ruolo di mobilitazione e di penetrazione delle strutture dello stato, ma svolgeva un ruolo molto importante ai fini della legittimazione politica al momento della formazione delle liste elettorali per il Parlamento. Dietro il salazarismo, più che un’ideologia coerente c’è un nazionalismo che include l’esaltazione del colonialismo; l’identificazione della storia portoghese con quella del cattolicesimo; l’anticomunismo; Stato ed esecutivo forti; il divieto di sciopero. Si rafforzano cosi, quella cultura della passività e quella forma di alienazione politica presenti anche in Spagna. La transizione portoghese vide come principali protagonisti alcuni ufficiali subalterni con idee politiche di sinistra, contrari alle politiche del regime autoritario, e in particolare alle guerre coloniali. La discontinuità della sua traiettoria fa dire che quella portoghese «non è stata una transizione cosciente verso la democrazia». In effetti la Rivoluzione dei garofani aprì un periodo di grande instabilità e fermento politico che diede il via a una transizione che comprese almeno due fasi distinte: nella prima, iniziata con il golpe del 25 aprile 1974, si provvide all’eliminazione di gran parte delle eredità del regime autoritario di destra e prese il sopravvento la parte radicale del Mfa (Movimento delle forze armate); nella seconda, a partire dal 25 novembre 1975, il successo di un controgolpe della parte moderata degli ufficiali del Mfa rovescia i radicali e avvia un percorso che porta più coscientemente verso la democrazia e una complicata separazione tra potere militare e potere civile. Si può, in effetti, ritenere che il regime democratico nato con la promulgazione della nuova costituzione dell’aprile 1976 fu possibile grazie al controgolpe del novembre 1975, senza però dimenticare che solo a partire dal 1982 (abolizione del Consiglio della rivoluzione) il Portogallo assume i caratteri tipici di una liberaldemocrazia e che solo la revisione costituzionale del 1989 elimina gran parte degli «elementi di socialismo» contenuti nella costituzione del 1976. Quella portoghese fu l’unica transizione degli anni Settanta e Ottanta dell’Europa meridionale e dell’America latina a realizzarsi tramite una rivoluzione sociale, economica e politica. Essa, a differenza di quella spagnola, non ha visto negoziati o patti tra le élite, ma l’intrecciarsi di la riforma, il compromesso governo/opposizione, il crollo, la sconfitta militare, la rivolta interna e l’intervento esterno. In relazione al grado di coercizione, inteso in termini di coesione interna della vecchia classe dirigente e di articolazione del dissenso popolare, Kitschelt ha suddiviso i regimi comunisti in tre differenti categorie: 1) Comunismo patrimoniale: si ispira al modello sultanistico elaborato da Linz e Stepan ed è caratterizzata dalla totale assenza di contestazioni interne al regime e da bassi livelli di istituzionalizzazione di un potere burocratico-razionale. La netta prevalenza di legami clientelari e successione dinastica hanno favorito un esercizio del potere discrezionale e incontrollato che ha ostacolato ogni forma di contestazione. In questi casi, la debolezza dei movimenti di opposizione ha reso possibile un processo di transizione gestito solo dalla vecchia élite dirigente. 2) Comunismo nazional-consensuale: (Polonia e Ungheria) l’esigenza di scongiurare tanto l’egemonia sovietica, quanto le contestazioni interne, ha costretto la vecchia classe dirigente a mobilitare la popolazione attraverso il richiamo al mantenimento dell’indipendenza nazionale. Un atteggiamento di maggiore apertura verso le manifestazioni di dissenso interno ha poi influenzato la fase finale del regime comunista. 3) Comunismo burocratico-autoritario: è il caso della Cecoslovacchia, dove l’élite comunista ha circoscritto sia le modalità di contestazione politica in generale, sia il mantenimento di raggruppamenti fondati sulla rappresentanza di interessi comuni sorti nel periodo precedente al regime. La rigidità e l’ortodossia filosovietica del Partito comunista cecoslovacco rispetto alle omologhe compagini ungherese e polacca hanno impedito al regime di favorire un’azione riformatrice preventiva e l’hanno condotto verso una rapida crisi culminata con il collasso dell’intero apparato istituzionale autoritario. 2. L’evoluzione dei partiti comunisti: formazione e trasformazione In tutta l’area est-europea, l’eredità più visibile del vecchio regime è rappresentata dalla persistenza dei partiti ex comunisti. Dopo il 1989 i partiti eredi continuano a svolgere un ruolo di primo piano nell’ambito degli allineamenti partitici guidando le coalizioni di centro-sinistra. La presenza dei partiti eredi all’interno delle nuove compagini postcomuniste può rappresentare un elemento positivo nella misura in cui tali partiti sono stati in grado di strutturare il voto attraverso la formazione di interessi comuni, adottando strategie di trasformazione finalizzate a completare il processo di adattamento democratico, che segna il definitivo passaggio dal comunismo alla socialdemocrazia. Ne consegue che maggiori sono i livelli di organizzazione raggiunti nel periodo comunista, maggiori le probabilità che le formazioni eredi possano sfruttare il vecchio apparato istituzionale raccogliendo consensi su tutto il territorio nazionale, considerando che la base sociale dell’ex regime era prevalentemente operaia. L’eredità dei partiti comunisti è dunque Positiva solo se: questi partiti hanno svolto nella fase precomunista un ruolo cruciale nella mobilitazione e nella direzione della classe operaia, garantendo la maturazione della tradizionale linea di divisione destra/sinistra; e se hanno assunto una posizione moderata in seguito alla transizione democratica, favorendo il consolidamento di allineamenti partitici di tipo occidentale. Bisogna però considerare che i partiti comunisti di Polonia e Ungheria, intorno agli anni Venti, non riescono a generare forte partecipazione e consenso. FIG. 5.1. Percentuali elettorali dei partiti socialisti e comunisti (1922-39). Nel 1945, pertanto, il quadro complessivo che si presenta ai sovietici in Polonia e Ungheria è costituito da un Partito comunista scarsamente radicato sul territorio, con bassi livelli di membership, sostanzialmente privo di un supporto sindacale. In Polonia la situazione cambia radicalmente con la creazione del Partito operaio unificato polacco (Poup), nato nel 1948 dalla fusione del Partito operaio polacco e del Partito socialista polacco in seguito al successo elettorale del Blocco governativo del 1947. Nello stesso anno il Partito comunista ungherese e il Partito socialdemocratico si fondono per dare vita al Partito ungherese dei lavoratori. maggior parte dei paesi postcomunisti (Romania esclusa) è prevalsa la seconda linea di condotta. Nella maggior parte dei casi, come ha sottolineato Huntington, le democratizzazioni che si verificano per trasformazione o transostituzione, proprio perché vengono avviate dalla classe politica del vecchio regime, che provvede all’isolamento dei settori più conservatori del partito con (Polonia) o senza (Ungheria) il supporto dell’opposizione, mostrano una tendenza più favorevole all’amnistia dovuta alla maggiore continuità del processo di cambiamento politico. Nei paesi in cui la classe politica guida la transizione (Ungheria) o in quelli in cui si verifica un compromesso tra le élite al potere e quelle di nuova formazione (Polonia), la continuità con il vecchio regime è maggiore e la classe dirigente riformata mantiene una posizione privilegiata. Parte della classe politica rimane ostaggio del vecchio sistema: la mentalità e le modalità di gestione del potere riflettono, sebbene con sfumature diverse, la persistenza di atteggiamenti maturati nel corso della lunga fase autoritaria, costituendo un forte ostacolo al consolidamento democratico. In Ungheria, ad esempio, la Fidesz (Unione Civica Ungherese) accettava come membri solo i giovani che non avessero superato i venticinque anni, dunque non coinvolti con il vecchio regime. 4. Gli effetti della mobilitazione sulla partecipazione politica La mobilitazione forzata attuata dai regimi comunisti ha rappresentato un’eredità estremamente negativa. Certamente la minore intensità repressiva del regime comunista polacco, che nell’arco della sua durata mantiene sempre un profilo autoritario, e la fase di detotalitarizzazione che si verifica in Ungheria dopo il 1956, hanno contribuito ad attenuare la centralità dell’ideologia antipluralista e, di conseguenza, a diluire l’incisività dei meccanismi di mobilitazione a essa connessi. In entrambi i casi, tuttavia, il fatto stesso di essere regimi ad alta temperatura ideologica ha profondamente inciso sia sui livelli di mobilitazione politica, sia sulle modalità di interazione tra l’èlite e la società civile. La mobilitazione delle masse popolari è massima nei regimi totalitari (corporazioni, tessera di partito, leader ecc.) e minima nei regimi autoritari (le élite mantengono il potere favorendo l’allontanamento delle masse dalla vita politica). In Polonia e in Ungheria, la mobilitazione forzata è stata attuata principalmente attraverso le cosiddette «organizzazioni di base», collocate all’interno di ogni impresa o istituzione, il cui compito consisteva nell’indottrinare le masse verso gli obiettivi ideologici del regime, generando una presenza ideologica che si insinuava in ogni attività pubblica o privata dei cittadini. Diversamente da ciò che si è verificato nel caso italiano, dove la mobilitazione introdotta dal Partito fascista ha favorito lo sviluppo dei partiti di massa, nell’Europa centro-orientale quest’eredità ostacola la formazione di organizzazioni partitiche forti e favorisce un clima di disinteresse e di sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti della politica in generale e della classe politica in particolare.: • Polonia: successivamente alla transizione, si verifica un forte astensionismo in entrambi i paesi. Questo processo di demobilitazione, nel caso polacco, potrebbe essere dovuto alla decisione dell’élite di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal contesto politico ed economico contingente, e alla conseguente concentrazione della vita politica esclusivamente all’interno del parlamento. Il risultato finale è una degenerazione verso una forma di «democrazia elitaria» che, secondo Ágh, caratterizzerebbe gran parte del panorama politico- istituzionale centro-orientale. • Ungheria: qui, al contrario, l’élite emergente gode di un relativo seguito in virtù del proprio orientamento culturale, impresso nello stesso programma elettorale. In un primo momento, l’adesione ai valori nazionali fa passare in secondo piano la scarsa competenza della nuova leadership. L’atteggiamento complessivo della classe politica ungherese non sembra affatto manifestare una’alternanza tra mobilitazione e demobilitazione, come invece avviene nel caso polacco. Anche in Ungheria l’astensionismo era molto forte, causato specialmente dal “political learning”: la lezione appresa dalla precedente esperienza non democratica avrebbe condizionato le scelte dell’opinione pubblica, alimentando il rifiuto verso tutte quelle forme di coinvolgimento nel processo politico che richiamano alla memoria le modalità di coercizione del consenso adottate dalla passata amministrazione. 5. L’eredità della pianificazione forzata sui processi di privatizzazione delle aziende di stato Il passaggio dallo statalismo alle privatizzazioni ha rappresentato senza dubbio uno dei processi più discontinui della transizione democratica. Nell’area est-europea, infatti, l’eredità dei regimi comunisti riguarda l’economia pianificata e la totale abolizione della proprietà privata. Date le diverse condizioni di partenza rispetto al resto dell’Europa, il carattere discontinuo del processo di trasformazione economica dei paesi postcomunisti è dovuto a due ragioni principali: 1) la presenza di un contesto internazionale di economie di mercato interdipendenti e aperte verso l’esterno (emulazione); 2) l’obbligo di uniformarsi ai parametri europei stabiliti al Consiglio di Copenaghen del 1993 per poter entrare nell’Unione europea, tracciando un percorso obbligato di riforme istituzionali finalizzate allo smantellamento delle aziende di stato. • Polonia: il processo di privatizzazione polacco ruota attorno alla cessione dell’impresa o di parte di essa, a società private costituite da manager e lavoratori. Il modello polacco, a differenza di quello ceco e ungherese, è caratterizzato da un forte decentramento e cede ai vari attori interni le politiche aziendali decisionali. Tuttavia, il processo di trasformazione economica subisce un forte rallentamento fino al 1995. Secondo le stime dell’Oecd, fino a quel momento solo il 32% delle imprese statali polacche è stato privatizzato. Le ragioni di questo temporaneo rallentamento sembrano derivare tanto dai conflitti interni alla coalizione di governo, quanto dalla eccessiva autonomia concessa alle stesse imprese di stato dalle autorità centrali. Questo significa che l’eredità del regime comunista ha avuto un impatto solo parziale sulle riforme economiche attuate dai governi polacchi. • Ungheria: in Ungheria la classe politica decide di adottare una strategia di trasformazione graduale e di gestirla centralmente. Da questo punto di vista, l’Ungheria costituisce un caso intermedio e si colloca nella casella della contrattazione relazionale: quando viene diffusa una lista di venti imprese da vendere nel corso del primo round della privatizzazione, l’Aps (Agenzia per la Proprietà Statale) rivolge un invito alle banche di investimento e alle società di consulenza a esprimere le proprie proposte all’Agenzia, specificando i criteri di valutazione della proprietà, di gestione dei crediti e di individuazione dei possibili acquirenti per ogni singola impresa. All’inizio del 1998, almeno l’80% delle 1857 imprese statali affidate alla Aps nel 1990 sono state vendute. In Ungheria, in tal modo, la percentuale del settore privato sul Pil raggiunge l’85% ed è superiore a quella degli altri paesi dell’Est. In conclusione, l’influenza della passata amministrazione sembra aver inciso sulla maggiore centralizzazione del processo di privatizzazione, rispetto a quello polacco, e sulla gradualità delle riforme attuate. Tuttavia, il ruolo preponderante giocato dagli investitori stranieri e il risultato finale dell’intero processo, il più riuscito dell’area est-europea, evidenziano non solo la discontinuità nei confronti della gestione comunista, ma soprattutto l’assenza di una possibile contaminazione del vecchio regime nella selezione e nell’attuazione degli obiettivi di trasformazione dei governi democratici. gennaio del 1968, alla Slovacchia viene per la prima volta riconosciuto il diritto di partecipare ai lavori dell’Assemblea con pari dignità rispetto alla maggioranza ceca. La riforma costituzionale del 1968 prevedeva la trasformazione dello stato in una repubblica federale composta da due componenti nazionali distinte: la Repubblica Socialista Ceca e la Repubblica Socialista Slovacca. 3) Fase postcomunista: con l’avvio della transizione democratica il problema della statualità si ripropone con maggiore forza. Come hanno sottolineato Linz e Stepan, le istituzioni federali ereditate dalla nuova classe politica, se avevano funzionato meccanicamente durante il regime grazie al carattere unitario del partito-stato, con l’avvento del pluralismo democratico mettono in evidenza tutta la loro debolezza strutturale. Trasferito nel contesto democratico, la costituzione del 1968 garantiva a una piccola minoranza di deputati il potere di bloccare le decisioni. Le conseguenze di questa impasse istituzionale, che rappresenta una delle eredità più importanti del regime comunista cecoslovacco, avrebbero potuto essere risolte attraverso un compromesso tra le forze politiche di entrambe le nazionalità che stabilisse, tra le varie opzioni, il ricorso a una maggioranza semplice per ciascuna camera. Linz e Stepan individuano due fattori che hanno dato origine alla separazione della Federazione: la rigidità del modello federale comunista e lo stile antipolitico adottato dall’élite democratica. Una volta appurata l’impossibilità di governare in modo efficiente la Federazione, i leader delle rispettive repubbliche optano per la divisione consensuale dello stato (1993). L’eredità del Partito comunista cecoslovacco. Anche in Cecoslovacchia l’eredità principale del vecchio regime è rappresentata dalla continuità del Partito comunista. Alle elezioni del 1935, quando ancora la Cecoslovacchia era una Repubblica democratica (cadrà nella sfera d’influenza dell’URSS dalla seconda metà degli anni 40) sono quattro le formazioni comuniste e socialiste che, complessivamente, ottengono il 35,7% di voti: Socialisti nazionali cechi (9,2%), Socialdemocratici cecoslovacchi (12,6%), Socialdemocratici tedeschi (3,6%) e Comunisti cecoslovacchi (10,3%). Non va comunque sottovalutato l’impatto della frattura nazionalista nel periodo interbellico, che vede il sistema partitico sezionalizzato in relazione al ceppo etnico o linguistico. Diversamente dai casi ungherese e polacco, dove i partiti marxisti stentano a rafforzare la propria presenza sul territorio, in Cecoslovacchia queste formazioni appaiono ben radicate già prima della guerra, e soprattutto godono di una struttura organizzativa partitica e sindacale decisamente rilevante. Sotto il profilo partitico-organizzativo, pertanto, la Cecoslovacchia si colloca al primo posto rispetto agli altri paesi est-europei. Fino al 1946, dunque, il ruolo svolto dalle formazioni marxiste è indubbiamente positivo: incanalano la protesta operaia e stimolano un confronto unimodale sull’asse destra/sinistra. La discontinuità si avverte qualche anno dopo con il colpo di stato che pone fine alla democrazia e dà avvio alla progressiva comunistizzazione del paese: le forze armate e di polizia vengono drasticamente epurate; il sistema delle purghe porta alla sostituzione di oltre 50.000 dipendenti delle amministrazioni centrali e locali; viene attuato l’impiego sistematico del terrore. Rispetto all’Ungheria e alla Polonia, l’assenza di spinte nazional-indipendentiste favorisce il rafforzamento del legame con l’Urss e il consolidamento del regime più ortodosso dell’area. La continuità dell’ortodossia è confermata dalla struttura organizzativa fondata sul centralismo democratico, dal richiamo alla costruzione di una economia socialista, dall’ideologia marxista- leninista, dal fermo rifiuto verso modelli di integrazione economica e/o militare di tipo occidentale. In merito all’impatto prodotto dal regime comunista, proviamo ad analizzare l’eredità trasmessa dal Pcc nei due nuovi Stati indipendenti: • Repubblica Ceca: negli ultimi anni si può notare come in Repubblica Ceca una parte consistente dell’elettorato ceco continui a manifestare la propria fiducia nel vecchio sistema, come testimoniano i risultati elettorali. Prima dell’instaurazione comunista, la presenza di una formazione politica dotata di un’organizzazione forte e ispirata al principio della lotta di classe, costituisce un elemento indubbiamente positivo. Liberali e socialdemocratici hanno raccolto il lascito «ideologico» dei partiti socialisti nella strutturazione del voto di classe e nella determinazione di strategie programmatiche derivate dalla divisione destra/sinistra. La collocazione della Repubblica Ceca nella categoria delle élite maggiormente aperte al cambiamento e orientate verso il pluralismo occidentale conferma l’intensità del rinnovamento della nuova classe dirigente e sottolinea il livello di discontinuità più alto dell’area postcomunista. Si può pertanto concludere evidenziando il carattere neutrale dell’eredità del Pcc nel processo di trasformazione istituzionale della Repubblica Ceca. • Slovacchia: in Slovacchia, invece, il Partito comunista (Kss) decide invece di cambiare nome e nell’ottobre del 1990 nasce il Partito della sinistra democratica (Sdl). Il cambiamento non è solo nominale, ma investe anche la membership, privilegiando i giovani che non hanno avuto alcun coinvolgimento con il passato regime. Nel caso slovacco la situazione è opposta a quella ceca. Lo sviluppo dei partiti di matrice operaia è un fenomeno che la Slovacchia vive solo di riflesso: è essenzialmente nelle regioni di Boemia e Moravia che tali partiti nascono e si rafforzano nel corso del periodo interbellico. Qui l’assenza di un apparato organizzativo forte è invece attenuata dal processo di rinnovamento democratico. La Slovacchia, rispetto alla Rep Ceca, evidenzia ancora elementi di continuità con il passato e una minore attitudine al cambiamento, spesso ostacolato dalla presenza di componenti nazionaliste. Il periodo dell’amministrazione Meciar è stato indubbiamente indicativo: l’allontanamento dall’Europa e dalla Nato, le restrizioni nei confronti della minoranza ungherese, le accuse di brogli elettorali, le epurazioni, hanno fatto intravedere una forte connessione con i precedenti metodi di gestione del potere. La continuità con il regime precedente è confermata dalla composizione dei governi slovacchi che si succedono nell’arco del periodo 1994-98, nell’ambito dei quali le posizioni rilevanti vengono tutte ricoperte da ex comunisti. Nel complesso, pertanto, in Slovacchia l’eredità trasmessa dal Partito comunista si rivela essenzialmente negativa. Focalizzando l’attenzione esclusivamente sull’eredità trasmessa dal regime comunista, due aspetti meritano di essere segnalati. Il primo si riferisce alla natura nettamente discontinua del passaggio dalla costituzione federale del 1968 alla nascita di due stati indipendenti. Il carattere fittizio dell’autonomia slovacca, sancito solo sulla carta durante la Primavera di Praga, si contrappone in modo inequivocabile al percorso inaugurato con la separazione, che si conclude con l’indipendenza. Nella Repubblica Ceca la discontinuità viene parzialmente attenuata dal preesistente controllo dell’etnia maggioritaria sulla gestione politica, economica e amministrativa della Federazione; in Slovacchia, al contrario, la separazione consente per la prima volta alla classe politica autoctona la formazione di governi nazionali indipendenti. Il secondo aspetto è legato agli effetti di questa eredità, che hanno finito per alimentare il divario già esistente tra le due repubbliche, riproponendo una situazione simile a quella che aveva caratterizzato il periodo interbellico. Se dunque la modalità di risoluzione del problema della statualità ha prodotto un effetto neutrale nella Repubblica Ceca, se non addirittura positivo, liberandola definitivamente dalla zavorra delle regioni meridionali, sul versante slovacco la separazione ha avuto un effetto decisamente negativo, cristallizzando il divario economico e politico che il regime comunista aveva cercato invano di colmare. La nuova classe politica democratica: una continuità-discontinuità negativa? L’intensità del controllo del Pcc sui meccanismi di reclutamento dei funzionari statali e della stessa leadership comunista, imposta dai sovietici, supera nettamente i livelli raggiunti dai regimi polacco e ungherese. Se prima del 1950 il partito controllava oltre 200.000 dipendenti tra amministrazione e forze armate, il controllo esercitato sulle cariche partitiche appare ancora più rigido. Il sistema della nomenklatura viene attuato già durante la fase di consolidamento del regime. La brutalità della repressione si fa nuovamente sentire in occasione della Primavera di Praga, durante la quale una delle riforme attuate da Dubček, e immediatamente soppressa, è proprio l’abolizione della nomenklatura. 3) industrializzazione forzata. Le prime due direttrici provocano una profonda alterazione del sistema di produzione attraverso l’espropriazione da parte dello stato, nella maggior parte dei casi senza indennizzo, delle industrie e dei terreni agricoli. Alla fine del 1949 il settore privato raggiunge appena il 9,5% della produzione. La terza direttrice, come avviene anche in Polonia e in Ungheria, opera mediante una progressiva espansione dell’industria pesante a scapito degli altri settori produttivi, determinando un drastico mutamento della struttura socioeconomica del paese che favorisce parzialmente le aree meno industrializzate della Slovacchia a danno delle regioni settentrionali più ricche. Il tentativo del regime di mantenere un’economia di piano è interrotto solo con l’avvio della transizione democratica. Nella fase successiva (1993-94), dopo la separazione dei due Stati, il governo ceco è in grado di mettere in pratica un programma che prevede una privatizzazione rapida e di ampio respiro. In definitiva, la netta discontinuità del passaggio dal piano al mercato nella Repubblica Ceca sembra aver «neutralizzato» l’impatto dell’eredità comunista sul processo di trasformazione economica. Nonostante alcuni limiti emersi nella gestione dello smantellamento delle aziende di stato, quali il ruolo ambiguo giocato dalle banche e la natura centralizzata del processo decisionale, il paese è riuscito a cancellare definitivamente l’esperienza della pianificazione forzata e a rispettare i parametri per l’ingresso in Europa mettendo in evidenza gli indici di sviluppo più alti dell’area postcomunista. In Slovacchia, invece, la seconda fase delle privatizzazioni (1993-98) mette in evidenza tutte le debolezze strutturali del paese rispetto alla Repubblica Ceca. Pur avendo beneficiato degli effetti del processo di trasformazione economica avviato durante gli anni della Federazione, la Slovacchia si è trovata a dover affrontare il nodo dello smantellamento delle grandi industrie nel periodo più difficile della democratizzazione. Il sistema della vendita diretta delle imprese si fondava su una politica clientelare che garantiva ai suoi sostenitori l’acquisizione delle aziende a condizioni estremamente favorevoli senza tenere conto dei meccanismi di mercato. A differenza della Repubblica Ceca, la discontinuità della trasformazione economica slovacca risulta parzialmente attenuata dalle modalità di gestione clientelare che hanno contrassegnato il governo Meciar. Date queste premesse, il lascito dell’economia di piano introdotta dal Pcc si è rivelato un elemento negativo, che ha nuovamente accentuato il divario con la Repubblica Ceca, nonostante i tentativi di livellamento sollecitati con l’industrializzazione forzata. TAB. 6.7. Riepilogo Eredità Tipo (continua/discontinua) Esito (Positivo/negativo/ neutrale) Repubblica Ceca Slovacchia Repubblica Ceca Slovacchi a Partito Continua Continua Neutrale Negativo Élite Discontinua Parzialmente continua Parzialmente negativo Negativo Mobilitazio ne Discontinua Discontinua Neutrale Negativo Statualità Discontinua Discontinua Neutrale Negativo Pianificazio ne Discontinua Discontinua Neutrale Negativo CAP. 7. Bulgaria e Romania vent’anni dopo: il peso del passato, le sfide del presente L’analisi congiunta di Bulgaria e Romania in tema di eredità si giustifica non tanto per una vicinanza geografica, quanto piuttosto per una comunanza di destino: la costruzione dello stato nazionale alla fine dell’Ottocento, la scelta di una monarchia costituzionale e di un monarca straniero, l’instaurazione di un comunismo patrimoniale. Ad oggi, Bulgaria e Romania sono accomunate anche dalla condivisione di un percorso di democratizzazione più lungo e tortuoso rispetto ad altri paesi della regione, con momenti di crisi e di ricaduta durante gli anni Novanta. Oltre alle difficoltà del cambiamento intrapreso nell’immediato post-1989, il passato viene spesso veicolato come principale variabile esplicativa dei ritardi registrati dai due paesi a livello sia politico sia economico. L’assenza di una tradizione democratica, le profonde radici del nazionalismo, il passato comunista, sono soltanto alcuni degli elementi presentati come cause principali delle debolezze del presente democratico. Zona di confluenza degli imperi zarista, asburgico e ottomano, i due paesi raggiungono soltanto alla fine dell’Ottocento una propria identità nazionale. Le due costituzioni, ratificate nel 1866 nel caso rumeno e nel 1879 in Bulgaria, confermano l’adozione di alcuni dei principi più liberali per quei tempi. Tuttavia, vi erano discrepanze fra la costituzione e la realtà pratica: nel caso rumeno vi era un sistema di voto censitario che imponeva forti limitazioni alla partecipazione politica. Il governo, inoltre, era influenzato dal monarca. Similmente, la Bulgaria era una monarchia con una verniciatura costituzionale liberale, ma de facto il governo si configurava attorno a partiti personali. I limiti democratici dei due paesi si mantenevano negli anni e l’autorità del monarca si consolidava. La fine della guerra coincideva con l’instaurazione progressiva di regimi di tipo sovietico. Sia in Romania che in Bulgaria le costituzioni del dopoguerra conservavano un’apparenza di pluralismo, anche se i Partiti comunisti (sotto il controllo sovietico) monopolizzavano l’intera vita politica, sociale ed economica. Paura, controllo, accentramento del potere erano i pilastri dei regimi sovietici. Per quanto con intensità diverse, la debolezza dell’opposizione anticomunista spianava così la strada alla conferma al potere di volti dei vecchi regimi: • Romania: nel caso rumeno, l’arrivo delle truppe sovietiche a Bucarest, alla fine della seconda guerra mondiale, coincideva con l’imposizione del Partito comunista, il quale in due anni riusciva a monopolizzare l’arena politica e ad abrogare la monarchia, instaurando la repubblica popolare e cancellando il multipartitismo. l’involuzione ideologica del regime, la promozione del nazionalismo a ideologia di stato, la centralizzazione del potere e la dipendenza dall’autorità personale del leader, la limitazione rigida di ogni tipo di opposizione e la tendenza al entrambi i paesi la condanna ufficiale del regime comunista arriva molto tardivamente, nel 2006, probabilmente perché, dopo la caduta dei regimi comunisti, il potere fu mantenuto da partiti apparentati col vecchio regime, ostacolando un’indagine effettiva sul passato comunista. I partiti ex comunisti rimasti al potere agiscono come filtri limitando ogni seria riflessione sul passato e beneficiando indirettamente delle eredità del vecchio regime. Soltanto negli ultimi anni la condanna del passato comunista emerge con maggiore visibilità, benché gli effetti rimangano spesso limitati. In sintesi, a vent’anni dalla caduta del muro, in entrambi i paesi l’apprendimento politico risulta essere un processo incompiuto: la giustizia transizionale fatica a imporsi e la condanna ufficiale del comunismo avviene soltanto di recente. Élite e istituzioni: innovazione e continuità. All’inizio degli anni Novanta, i modelli da ritrovare o da evitare rendono le scelte costituenti particolarmente difficili. Nel caso bulgaro, nel 1991, si conferma la tradizione del parlamento unicamerale, con una durata del mandato di quattro anni, e un sistema semipresidenziale, un’impostazione che deriva dal ricordo del passato e dalla paura di accordare eccessivi poteri al presidente. Nonostante ciò, de facto l’esecutivo rimane più forte rispetto ad un parlamento indebolito da partiti poco disciplinati e deboli. In Romania, in un parlamento dominato dal Fsn (Fronte di Salvezza Nazionale), lo spazio di dibattito circa la nuova costituzione era assai limitato. Dopo dibattiti animati, il Fsn avrebbe sostenuto la soluzione del bicameralismo, una delle poche concessioni fatte all’opposizione. In queste condizioni, il nuovo regime post-comunista ripropone il bicameralismo, in una forma simmetrica di poteri. L’elezione diretta del presidente, quale difensore della costituzione e mediatore fra le autorità pubbliche, ma anche fra la società e lo stato, complica questo meccanismo istituzionale con una forma parlamentare. Per quanto riguarda le élites, invece, sia nel caso bulgaro sia nel caso rumeno, la nomenklatura ha agevolato la continuità dei membri dei partiti, pur accettando negli anni uno scambio di personale. Malgrado la continuità organizzativa, all’inizio degli anni Novanta, il Bsp procede già a un’operazione di «autoepurazione» che si traduce nell’eliminazione di alcuni dei noti dirigenti dell’epoca Jivkov. Per quanto riguarda il caso rumeno, le eredità in termini di élite comuniste non possono essere così collegabili a un solo partito: molti componenti del primo parlamento post-comunista si sono spostati nel Fsn (il 57%). CAP. 8. Gli effetti delle eredità del passato nella tandemocrazia russa Il processo di democratizzazione nella Federazione russa ha assunto un percorso costellato da cambiamenti politici, economici e sociali che, a distanza di vent’anni dalla dissoluzione dell’Urss, lasciano presupporre un «ritorno al passato». Infatti, la Russia presenta sempre più procedure, comportamenti e decisioni a carattere autoritario. La circolazione delle élite nella Russia post-sovietica. Durante il periodo sovietico l’élite veniva reclutata senza competizione né correnti interne, ed escludendo qualsiasi forma di differenziazione che non fosse quella corrispondente alla suddivisione territoriale-amministrativa. Il processo decisionale era altamente centralizzato, strutturato gerarchicamente dal livello centrale a quello più periferico. Le riforme di «democratizzazione interna» del Pcus, avviate da GorbaČëv nel 1985, hanno dato vita a numerose correnti all’interno del partito, minando la struttura del potere basata sul centralismo democratico e sulla nomenklatura. La dissoluzione dell’Urss non ha determinato una rottura col passato: molte figure che avevano iniziato la loro carriera verso la fine del comunismo hanno visto nuove opportunità nella politica e nel capitalismo economico. Durante gli anni di El’tsin si passa alla forma più estrema di liberalizzazione del sistema economico attraverso un affidamento di risorse produttive dello stato ai privati che ha determinato una concentrazione dei poteri economici nelle mani di poche industrie che hanno gradualmente aumentato il loro potere di pressione, beneficiando della presenza di «propri» funzionari, ministri e deputati all’interno del governo. La maggior parte dell’élite economica della Russia post-comunista non era strettamente legata alla nomenklatura sovietica a causa di un ricambio generazionale che ha testimoniato la nascita di una coorte di giovani ben istruiti che si sono affermati professionalmente nella prima fase della transizione economica. Con l’ascesa al potere di Vladimir Putin, la riorganizzazione dell’amministrazione sia a livello verticale che orizzontale ha rafforzato la presenza di esponenti dell’ex Kgb (attuale Fsb, i servizi segreti della Federazione Russa) per costituire un gruppo di burocrati a servizio del presidente a scapito dell’autonomia politica e decisionale dei leader regionali. Si tratta di un apparato proprio dell’amministrazione presidenziale, che costituisce una sorta di «secondo governo» con una funzione di controllo simile a quella esercitata dal Pcus. Pertanto, la cultura politica post- sovietica si basa ancora sull’eredità del passato a causa principalmente della persistenza della nomenklatura che ha ereditato atteggiamenti e valori del regime comunista. L’attuale élite russa è più favorevole a un maggior intervento dello stato (stato regolatore) nella soluzione di problemi economici e sociali: una forma di capitalismo guidato dall’intervento statale, corporativo e gerarchicamente organizzato. L’élite russa si trova dinanzi al dilemma di leadership [Roeder]: un forte leader capace di proiettare il paese nella modernizzazione o di accettare le minacce plebiscitarie che una tale leadership può determinare. Nell’era di El’tsin la soluzione aveva previsto un sistema di clientelismo a sfavore dello stato di diritto. Nell’era di Putin il «consenso imposto» ha cercato di restaurare il funzionamento statale al posto dell’affermazione del pluralismo e delle procedure democratiche. I partiti eredi e l’opposizione politica in Russia. Conseguentemente al bando del Pcus e alla dissoluzione dell’Urss, il pluralismo politico prende forma attraverso movimenti politici che intendono portare avanti le riforme democratiche. Tra questi, i partiti che hanno ereditato dal periodo sovietico sono il Partito comunista della Federazione russa e, in parte, il Partito liberaldemocratico di Žirinovski. Hanson sostiene che l’impossibilità di consolidare un potere politico tradizionale nella Russia contemporanea è causata da settant’anni di dominio sovietico. L’eredità precomunista (Impero russo, identità nazionale antioccidentale) spiega la presenza di un radicalismo russo di destra, rappresentato dal partito liberaldemocratico di Žirinovski (nazionalismo imperiale) e dal Partito comunista della Federazione russa di Žuganov (nazionalismo sociale). È in questo contesto politico che le forze più nazionaliste, capeggiate dal partito liberaldemocratico, hanno concentrato la propria azione politica sulla «questione di orgoglio nazionale» al fine di ribadire la supremazia dell’Impero russo e la solidarietà panslava che si sono tradotte nell’organica ostilità verso l’Occidente, acuita ancora di più dall’allargamento dell’Ue ai paesi dell’Europa centro-orientale e dall’espansione della Nato. I partiti ex comunisti si oppongono al processo di instaurazione democratica in corso, poiché si rivendicano i principi, i valori e le procedure del regime precedente conservando la piattaforma programmatica e l’ideologia comunista: è il caso del principale erede del Pcus, il Pcfr, che si è posto sulla scena politica come un partito antiregime nei primi anni della transizione, ma che, conseguentemente al successo elettorale nelle elezioni politiche del 1993, ha assunto un ruolo di governo caratterizzato da una forte opposizione al presidente El’tsin. La forte figura del Presidente della Federazione ha consentito di bypassare gli ostacoli imposti nell’arena parlamentare dal Pcfr e di evitare un reflusso del processo di democratizzazione fra il 1993 e il 1995. Il Partito liberaldemocratico di Žirinovski (Pldr), ulteriormente, costituisce un caso di eredità del passato non solo dal punto di vista dall’appropriazione di alcune strutture organizzative del Pcus nel territorio, ma anche nell’accentuazione del nazionalismo. La vittoria elettorale del Pldr, La tabella 8.6 dimostra che la migliore performance governativa è stata attribuita dall’80% dei rispondenti all’attuale Primo ministro Vladimir Putin, seguito da Brežnev (41%) e da Lenin (33%). Un rating inferiore ha incluso Stalin e lo zar Nicola II (31%), distanziati da Krušev (29%) e dai principali protagonisti della transizione russa Gorbačëv e El’tsin (17%). Proprio quest’ultimi sono oggetto delle principali critiche dei rispondenti, che li ritengono i fautori del percorso che ha condotto il paese in una situazione politicamente ed economicamente caotica (El’tsin al 64%, Gorbačëv al 63%), seguiti da una posizione più intermedia costituita da Stalin (42%) e Krušev (41%), Lenin e Brežnev al 35%, per concludere con lo Zar Nicola II (22% ) e Putin, nominato solamente da circa l’8% dei rispondenti. Il campione esprime un giudizio nettamente positivo nei confronti dell’operato dell’ex presidente della Federazione russa, mentre sembrano attribuire la responsabilità di una «cattiva» gestione del paese a Gorbačëv e El’tsin, i «padri» della democratizzazione. TAB. 8.6. Valutazione della capacità di governo Putin 8 0 Brežnev 41 Lenin 33 Stalin 31 Nicola II 31 Krušev 29 Gorbačëv 17 El’tsin 17 Fonte: VtSiom, www.wciom.ru. Rilevazione del 5 novembre 2008. Nonostante non sia stata espressa direttamente una domanda che consenta di misurare la percezione della nostalgia del passato comunista, i dati sinora emersi consentono di sviluppare qualche prima considerazione. Il giudizio positivo sull’operato di Putin mostra che le sue decisioni politiche, volte a riavvicinare la prassi politica alle procedure e alle norme tipiche dell’Urss sono state apprezzate e percepite come una forte leadership del passato. La presidenza di Putin è stata infatti molto più conservatrice e rivolta ad appropriarsi di accorgimenti istituzionali che potessero ricostituire l’esercizio del potere sulla base di un sistema maggiormente centralizzato, burocratico e «controllato» dal vertice attraverso la forte affermazione di un partito dominante nelle istituzioni e l’uso dei mass media a disposizione presidenziale. Conseguentemente alle elezioni presidenziali del marzo 2008, che hanno investito Dmitrii Medvedev della carica di nuovo Presidente della Federazione russa, e alle elezioni della Duma del dicembre 2007 che hanno consentito di votare la fiducia al governo del Primo ministro Putin, nel linguaggio politico, ormai utilizzato anche in quello scientifico, sono sorti i primi studi sugli effetti della «tandemocrazia russa»[13]. La tabella 8.7 indica la percentuale di coloro che hanno espresso la propria opinione riguardo a chi detiene il potere realmente in Russia. Il 21% dei rispondenti ha citato i due leader, Putin e Medvedev, mentre merita segnalare che il 17% ha individuato negli oligarchi, i benestanti e gli uomini d’affari gli attori rilevanti nella gestione pubblica e il 25% non ha, invece, espresso alcuna opinione. Il rapporto di ricerca, pubblicato dall’istituto VtSiom, fornisce ulteriori indicazioni sui cambiamenti di atteggiamento dei rispondenti fra il 2007 e il 2008 che tendono a essere più moderati nella loro accezione negativa verso la maggior parte dei leader sovietici. Per quanto riguarda i giudizi su El’tsin i rispondenti ritengono che il paese abbia preso una buona direzione durante la transizione (dal 9% del 2007 al 17% del 2008) e, rispetto all’80% (2007) di coloro che gli attribuivano un’errata linea politica che aveva avviato un percorso incerto della Russia post- sovietica, nel 2008 il valore è sceso a 64 punti percentuali[14]. I giudizi sul cambiamento politico che ha avviato il paese lungo una direzione politico-economica sbagliata, introdotto da GorbaČëv, sono negativi per il 63% degli intervistati. TAB. 8.7. Chi detiene realmente il potere in Russia? Putin 21 Medvedev 21 Oligarchi, ricchi, businessmen 17 Governo 6 Banditi, criminali 5 Politici, deputati 5 Russia Unita 4 Popolo 2 Banchieri 1 Corrotti 1 Nessuno 1 Altro 2 Difficile rispondere 25 Fonte: VtSiom, www.wciom.ru. Rilevazione del 29 giugno 2009. passato. Ha, invece, implementato una serie di politiche simboliche che potessero rafforzare il senso della patria, il culto della personalità e la lealtà nei confronti di un potere monocentrico, raffigurato dalla sua presidenza e dal suo attuale ruolo di Primo ministro. 7. Conclusioni L’assetto istituzionale entro il quale la classe politica della transizione ha operato non ha facilitato il multipartitismo sia nel versante dell’offerta, spesso frammentata ed eterogenea, sia in quello della domanda, dove sono emersi livelli di forte disaffezione nei confronti dei partiti politici cui corrispondono alti livelli di fiducia nelle singole personalità politiche. La continuità della classe politica del passato è stata piuttosto rilevante anche durante la presidenza Putin, il quale ha ammesso, durante una conferenza stampa del 24 giugno 2002, che nel paese si stava sviluppando una classe dirigente fondata dal suo predecessore Boris El’tsin. Sebbene Putin abbia preso distanze dalla «famiglia» di El’tsin fin dal 2003, non è mai stato interessato ad avviare un processo di desovietizzazione. Dal 1993 a oggi si è assistito a una circolazione dei «sostenitori presidenziali»: dai clan e oligarchi del periodo di El’tsin ai siloviki [16] di Putin che nel 2005 rappresentavano un quarto della leadership politica, un terzo del governo nazionale e un quinto di ogni Camera dell’Assemblea federale. A questi si aggiungano coloro che hanno avuto una precedente esperienza nell’amministrazione di San Pietroburgo – da cui discende l’appellativo di pitery – e i syroviki, ovvero i giganti dell’energia e dei materiali grezzi. TAB. 8.9. Eredità nella Russia post-sovietica Eredità Tipo Esito Partito Continu a Parzialmente positivo Élite Continu a Parzialmente positivo Mobilitazio ne Disconti nua Negativo Statualità Continu a Parzialmente negativo Pianificaz ione Disconti nua Neutrale L’eredità negativa del passato ha riguardato principalmente la strutturazione dell’arena politica sulla base della personalizzazione e del mito carismatico. La riduzione della frammentazione partitica, avvenuta tra il 1993 e il 2003, può essere intesa come un elemento di stabilità che ha consentito di ridurre la complessità e l’incertezza istituzionale. Tuttavia l’esito di questo processo è parzialmente positivo nella misura in cui verrà scongiurato il ritorno a un partito unico in assenza di una forte opposizione democratica nel paese, che non riesce ad attivare il civismo e forme di partecipazione politica convenzionale dopo settant’anni di mobilitazione forzata. In economia, Putin ha modificato il rapporto «malato» fra stato ed economia che El’tsin aveva avviato con il sistema della privatizzazione e l’egemonia degli oligarchi che avevano acquisito sempre più influenza nei corridoi del potere con effetti negativi sul mercato nazionale e nel sistema di concorrenza economica. La tandemocrazia russa presenta ancora eredità negative, «congelate» negli anni successivi all’instaurazione democratica per riapparire con maggiore incidenza in un piano di restaurazione politico-economica che presenta elementi del passato tali da indurre i democratici russi a parlare di un neosovietismo di Putin, il cui ruolo dimostra con estrema chiarezza quanto i comportamenti e le azioni di una leadership individuale contano nella storia di un paese. [1] Steen e Gel’man [2003] sottolineano che queste interpretazioni della caduta dell’Urss non sono suffragate da evidenza empirica. Al contrario, Lane e Ross [1999] sostengono che la differenziazione dell’élite è avvenuta ben prima degli anni Novanta. [2] Tuttavia gli autori sostengono che il turnover è stato solamente parziale se comparato a quello in Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia. [3] K’eza [1997, 198], citando il «Financial Times», definisce gli oligarchi post-1998 come «il governo reale della Russia». [4] Solo il 15% dell’élite economica del 1993 ha mantenuto la propria posizione nel 2001, dopo la svalutazione della moneta nel 1998 [Steen e Gel’man 2003]. [5] Fsb è l’emanazione del Kgb e ha mantenuto il controllo degli archivi. Oggi c’è una legge in base alla quale i documenti non classificati fino a trent’anni fa possono essere consultati. [6] Attualmente solo il 29% dell’attuale élite appartiene alla nomenklatura sovietica. La maggior fonte di reclutamento sono i governi ministeriali. Prima di far parte di questa élite erano direttori (25%), ufficiali di stato (20%), impiegati di ditte private (27%) [Sakwa 2008]. [7] La legge sui partiti politici è stata introdotta per evitare la proliferazione di partiti flash in favore di una struttura organizzativa consolidata in tutto il territorio che determini una maggiore nazionalizzazione del voto [Ishiyama 2002]. Per essere registrati come partiti politici e, quindi, competere alle elezioni di ogni livello, la legge prevede i seguenti criteri: una maggiore penetrazione territoriale in più della metà dei soggetti della Federazione; almeno 10.000 membri a livello federale e 100 nelle sezioni locali; precise regole per il finanziamento elettorale; chi non supera la soglia del 2% di voti non ottiene finanziamenti. [8] Nel gennaio 1986 esse ammontavano a 440.363 unità: 25,6% cellule nell’industria; 17,4% in uffici; 11,3% nelle fabbriche; 16,7% nei collegi. La composizione era la seguente: 39,8% con un minimo di 3 fino a 15 unità; 7,1% da 101 a 1000 unità. Ogni cellula aveva una propria segreteria, un ufficio e un comitato con una diversa membership a seconda che si trattasse di un raikom (comitato del raion) tra gli 80 e i 100 membri, un gorkom (899 comitati cittadini), un okrug (10 comitati di area), un obkom (151 comitati regionali) e un kraj (6 comitati repubblicani) [Brown 2001]. [9] Le popolazioni non russe, pur costituendo la maggioranza assoluta in almeno dieci entità substatali della Federazione russa, rimangono un’entità numericamente piccola rispetto al 92,95% della popolazione di etnia russa. Il gruppo non russo più numeroso è quello dei tatari (3,8%). [10] Il Nagorno-Karabakh è un’enclave armena in terra azera che ha determinato scontri tra queste popolazioni dal 23 febbraio del 1988, quando l’esercito russo è intervenuto. Nel gennaio 1990 il soviet supremo boccia, considerandolo anticostituzionale, il voto del soviet armeno sull’unità della repubblica comprendente anche il Nagorno-Karabakh e Gorbačëv proclama lo stato d’emergenza, inviando nella regione nuovi reparti dell’esercito e del Kgb. [11] Nell’Europa orientale la questione della repubblica Transdnistria in Moldova costituisce un ulteriore elemento di scontro politico. [12] Dal 1917 al 1991 lo stato ha creato la nazione (patriottismo sovietico), mentre per Lieven [1999] la Russia contemporanea rappresenta una «bomba» nazionalista a orologeria. [13] Tale termine, alternativo a quello di diarchia, è stato utilizzato per la prima volta nel quotidiano «Kommersant-Vlast» in riferimento a una gestione politica del paese nelle mani di due persone. Inoltre si riscontrano altri due termini: Dimacrazia dal vezzeggiativo del nome del presidente Medvedev, Dmitrii (Dima), apparso per la prima volta nel blog di Veronica Khokoklova; Putvedev dall’insieme dei cognomi dei due leader, pubblicato in lingua inglese nel «Guardian», tradotto in russo da «Inosmi» in Tutto il potere a Putin e dalla copertura mediatica occidentale sulle elezioni russe The New Russian Putvedev. [14] Giudizi meno negativi sono espressi nei confronti di Lenin, Brežnev e Nicola II. [15] Si tratta del Manuale di storia di Filippov del 2006, nel quale s’insegna il patriottismo come lealtà verso le autorità e non verso lo stato, mentre nel manuale di Danilov non viene citato il termine totalitarismo. Rispetto alle 10.000/15.000 copie solitamente adottate negli istituti scolastici, sono state stampate 250.000 copie di questi manuali. [16] Nonostante la massiccia presenza di siloviki nell’amministrazione presidenziale, pare inopportuno parlare di militocrazia in quanto non ci sono studi e ricerche che confermino una democratizzazione. Si tratta di ciò che Linz e Stepan [1996] considerano come un’eredità democratica sfruttabile, che rende la ridemocratizzazione più facilmente raggiungibile rispetto alla prima democratizzazione [Huntington 1991, 270]. Appare tuttavia rilevante l’entità dell’esperienza, ovvero se è stata una parentesi breve, come nel caso dell’Ungheria e in quella che allora era la Cecoslovacchia[1], o se è stata più duratura, come nel caso dell’Italia prefascista, in grado di lasciare un segno nella società, un bagaglio di tradizioni, base di partenza per la seconda democratizzazione, seppur i regimi autoritari, soprattutto quelli più longevi, interrompono la trasmissione di pratiche e valori democratici. Nel raggiungimento di questo risultato assume un’importanza decisiva il giudizio del passato regime presso l’opinione pubblica. La legittimità è un processo che richiede tempi lunghi e inizialmente, al fine di facilitare il processo di consolidamento, convogliare valutazioni negative verso il passato può aiutare allo scopo, creando una sorta di legittimità inversa o negativa. Lavori precedenti [Montero e Morlino 1995] hanno sottolineato come l’opinione negativa della fase non democratica possa fungere da catalizzatore della legittimità del nuovo regime, concepito come l’unico sistema fattibile di organizzazione politica del paese. Linz e Stepan tuttavia sostengono che il rifiuto del passato non è un elemento necessario ai fini della legittimità, la quale si deve invece basare unicamente su atteggiamenti positivi verso il presente, ovvero verso la democrazia. Una sorta di nostalgia verso ilpassato non è in contrapposizione con la legittimità democratica, ma mostra al contrario una maturità della cittadinanza in grado di metabolizzare quel periodo e darne una valutazione oggettiva, anche se questa operazione di ricostruzione si realizza nel lungo periodo, prevedibilmente. Sicuramente la democrazia, ove necessario, deve fare i conti con il passato appena trascorso, e in questo senso decidere come porsi rispetto a settori della società che lo apprezzano e ne sottolineano gli aspetti positivi[2] [Morlino 2011]: se non è possibile demonizzare, come comportarsi di fronte a un ricordo positivo del regime non democratico? Da una parte le élite risponderanno attraverso scelte che possono assumere la forma di continuità o, al contrario, di discontinuità rispetto al regime precedente, ma bisogna anche superare i condizionamenti del passato che influiscono sui modelli culturali e i comportamenti, consentendo di proseguire nel percorso verso il buon esito della democratizzazione. Nelle prossime pagine, dopo aver osservato in dettaglio il legame teorico tra eredità e qualità della democrazia, approfondiremo nei casi presi in considerazione come le eredità autoritarie abbiano condizionato il nuovo regime democratico nella costruzione di atteggiamenti e comportamenti. Si analizzerà separatamente un gruppo di indicatori che fanno riferimento a entrambe le dimensioni: le valutazioni dei cittadini verso la democrazia e le sue istituzioni così come la loro partecipazione. Infine, riconoscendo al passato un ruolo non solo evidente negli atteggiamenti dell’opinione pubblica, ma anche nel discorso pubblico veicolato dall’élite – dall’alto verso il basso –, verrà dedicata una particolare attenzione alle politiche simboliche messe in atto per rivitalizzare l’importanza della memoria storica, in particolare nel caso italiano. 2. Quale spazio alle eredità nello studio della qualità della democrazia? Il nostro obiettivo è dunque quello di capire come la memoria del passato permea la società. Secondo Morlino [ibidem] un’eredità è costituita al suo interno innanzitutto da una dimensione culturale fatta di atteggiamenti, valori e credenze. Questo tipo di eredità è la più penetrante [Hite e Morlino 2004], perché radicata nella mentalità e nella cultura politica e per questo esercita un’influenza che è probabile sopravviva anche dopo l’instaurazione della democrazia e che pesa sulla fiducia verso le istituzioni e sulle identità collettive [Misztal 2003]. TAB. 9.1. Dimensioni e indicatori Dimensioni Indicatori Ambito spazio- temporale * Sostegno alla democrazia Seconda ondata Atteggiamen ti * Sfiducia verso le istituzioni e i partiti politici Italia * Insoddisfazione verso la democrazia Germania Terza ondata Europa meridionale Portogallo Spagna * Interesse per la politica Terza ondata * Astensionismo elettorale Europa orientale Comporta menti * Partecipazione associativa Ungheria * Membership partitica Polonia * Identificazione partitica Bulgaria Romania Russia Slovacchia Rep. Ceca Le eredità sono da questo punto di vista l’esito del processo di socializzazione e di coinvolgimento politico del regime precedente, per quanto talora già presenti nella cultura politica della fase preautoritaria: i regimi non democratici hanno bisogno di una qualche forma di legittimità o acquiescenza attraverso una mobilitazione simbolica [Forest, Johnson e Till 2004] che nel tempo modella comportamenti, crea risorse civiche, inaugura forme di socializzazione attraverso il partito unico, la propaganda ideologica del regime, la scuola e la famiglia[3]. Quanto più il regime non democratico rimane in piedi, tanto più ha modo e tempo di incidere sulla fisionomia della società, della politica e dello stato e quindi tanto più le eredità rischiano di radicarsi e di condizionare lo sviluppo democratico successivo: come si vede dalla tabella 9.2, in Spagna, Portogallo, Italia, Germania e nei paesi dell’Europa orientale, i regimi non democratici hanno avuto tutto il tempo di plasmare le nuove generazioni e, in alcuni casi, di veder esaurire le vecchie. La letteratura ha segnalato le potenzialità della memoria di riprodursi attraverso le generazioni per adattarsi al contesto sociale e politico di riferimento [Schwartz 1991]. In Germania occidentale c’è stata una difficoltà a fare i conti con il proprio passato, superata ricorrendo dapprima a una sorta di amnesia rispetto al nazismo [Herz 1982, 32], e poi con ciò che indica il termine tedesco Vergangenheitsbewältigung, che significa insieme «elaborazione del passato» e «suo superamento» non solo attraverso un cambiamento di regime strutturale, ma anche nella mente dei cittadini[4]. Così in Spagna la ripresa di questioni riguardanti il passato da parte del governo spagnolo non è stata accompagnata da un sostegno della società: le recenti iniziative parlamentari di condannare pubblicamente la dittatura erano solo in parte sostenute da pressioni esercitate dalla società[5], anzi il desiderio della Spagna di lasciarsi il passato alle spalle si scontra con la volontà, espressa frequentemente dall’élite, di introdurre il tema nel dibattito pubblico. TAB. 9.2. Dai regimi autoritari ai regimi democratici Paese Regime non Anni di Adozione della Elezioni Assemblea Prime elezioni democratico durata costituzione costituente post-aut. Italia 1922-43 21 1948 1946 1948 Germani a 1933-45 12 1949 1949 Portogall o 1926-74 48 1976 1975 1976 Spagna 1939-76 37 1978 1977 estrinseca nel lungo periodo attraverso la legittimazione e l’istituzionalizzazione del gioco democratico, espresso nel consenso sulla democrazia come the only game in town, manifesto nei comportamenti (routinizzazione) e negli orientamenti normativi (interiorizzazione), attraverso il passaggio da un sostegno strumentale, favorito da una buona performance, a un sostegno intrinseco alle qualità della democrazia rispetto ad altri tipi di regimi politici. Per questo sono importanti quei processi che portano gli individui «sudditi» a identificarsi come cittadini e ad avere fiducia nel governo [Varas 1998]. Nel contesto della democratizzazione la cittadinanza, nel senso ampio del termine, deve essere ricreata, cercando di riempire il vuoto lasciato dalla caduta delle precedenti identità collettive per far sì che la democrazia non sia solo un contenitore vuoto e rimanga una realtà formale. Mentalità del regime autoritario potrebbero condizionare le percezioni della democrazia inibendo la capacità di tollerare il conflitto politico, centrale all’idea del pluralismo e della competizione in una democrazia. L’estensione della legittimità popolare in questa fase è centrale per le probabilità di successo del consolidamento [Pridham 1995; Zielonka e Pravda 2001; Schedler 2001], per quanto vi siano diversi modi di concettualizzarlo [Pasquino 2002], questo indicatore è fondamentale sulla base dell’assunto che il sostegno popolare per un regime politico è l’essenza del consolidamento (democratico). In questa sezione presentiamo i dati che riguardano gli atteggiamenti verso la democrazia[6], tenendo presente che l’ideologia partitica può condizionare la percezione e l’interpretazione del passato[7]. In Italia i dati a disposizione mostrano come il fascismo non avesse ottenuto da parte dei cittadini un atteggiamento di rifiuto, ma al contrario fosse considerato in modo positivo [LaPalombara e Waters 1961; Morlino e Mattei 1992; Morlino 2011]. Gli italiani rifiutano alternative al regime democratico, tuttavia non presentano atteggiamenti negativi rispetto al regime precedente, il che porta a concludere che il fascismo non ha condizionato lo sviluppo di atteggiamenti pro-democratici [Barnes 1972]. Alla fine degli anni Cinquanta, secondo i dati a disposizione, un 59,8% di giovani intervistati mostrava un giudizio positivo sul passato fascista, ma più della metà di essi aveva anche orientamenti pro-democratici [LaPalombara e Waters 1961]. Siamo in presenza di una situazione di convivenza tra opinioni positive verso il regime precedente e opinioni favorevoli alla democrazia, considerata come l’unica possibilità praticabile per superare la crisi del secondo dopoguerra, per accompagnare il paese verso uno sviluppo economico [ibidem]. TAB. 9.3. Gli atteggiamenti verso la democrazia (percentuali) Atteggiamenti Paese Sostegno alla Sfiducia nel Sfiducia nei Insoddisfazione verso la partiti democrazia governo politici democraziaa Italia 40,0 – – 21,0 Germani a 35,8 – – 42,0 Portogall o 61,0 – 61,0 66,0 Spagna 70,0 59,0 37,0 49,0 Ungheria 54,0 57,0 66,0 45,0 Polonia 49,0 47,0 71,0 53,0 Bulgaria 56,0 69,0 74,0 45,0 Romania 81,0 52,0 64,0 41,0 Russia 49,0 76,0 93,0 48,8c Slovacc hia 66,0 56,7b 77,5b 72,2 Rep. Ceca 68,0 69,4b 85,1b 67,6 a Le percentuali cumulano i rispondenti che sostengono di essere «poco» o «per nulla» soddisfatti della democrazia. b 199 5c 1998. Fonti: Per il sostegno alla democrazia: Linz, Stepan e Gunther [1995] (Spagna: la percentuale cumula l’accordo all’affermazione «la democrazia è il sistema politico preferibile»); Boynton e Loewemberg [1974] (Germania: la percentuale cumula la risposta negativa alla domanda se si preferiva ristabilire la monarchia); Plasser, Ulram e Waldrauch [1998]; Pollack et al. [2003] (Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria, Polonia: la democrazia è preferibile in ogni circostanza); Morlino e Montero [1995] (Portogallo per l’anno 1985) e Linz e Stepan [1996] (Portogallo per l’anno 1992: la percentuale rappresenta la dichiarazione a favore della democrazia come sistema politico favorito); LaPalombara e Waters [1965] (Italia: la percentuale rappresenta l’accordo sulla democrazia come migliore sistema politico). Per l’insoddisfazione verso la democrazia: Central and Eastern Eurobarometer, Plasser, Ulram e Waldrauch [1998]; Pollack et al. [2003] (paesi Europa centro-orientale); Morlino e Montero [1995] (Spagna e Portogallo); Edinger [1986] (Repubblica federale tedesca); Luzzatto Fegiz [1966; 1965]; Bollettino Doxa, n. 4-5, 1966; 1966; Bollettino Doxa, n. 3-4, 1967; 1968; Bollettino Doxa, n. 7-8, 1968; 1972; Bollettino Doxa, n. 4, 1972 (Italia). procedurali e sostanziali. Nonostante mostrassero una generale preferenza per la democrazia, tale orientamento non era accompagnato da uno stesso sostegno verso i valori e gli attributi di essa e su come questi debbano essere implementati. Al contrario, le concezioni della democrazia da parte dei cittadini sono spesso in contraddizione tra loro mostrando uno sbilanciamento tra i principi democratici e i risultati sostanziali quali ordine pubblico, sicurezza e giustizia, sui quali il modello del regime precedente ottiene tra la popolazione una crescente nostalgia [Sil e Chen 2004]. Durante la transizione gli attori politici potrebbero scegliere la democrazia come il male minore e non per i suoi meriti e benefici. Pertanto l’orizzonte temporale per valutare il nuovo regime è ancora sufficientemente limitato e le dinamiche alla base del sostegno sono le stesse se si tratta di una transizione verso la democrazia o di un’altra forma di regime autoritario. Alcuni sondaggi sono stati condotti non solo al fine di misurare il sostegno per principi e pratiche democratiche, ma anche di comprendere quanto questo eventuale sostegno sia di tipo strumentale – e dunque condizionato dalla (buona) performance di un determinato governo in un particolare momento storico. I dati dell’insoddisfazione verso la democrazia ci consegnano una mappa dei paesi a geometria variabile. Questo indicatore è quello più strumentalmente orientato, diretto a sondare le opinioni verso la democrazia sostanziale. Come era ragionevole aspettarsi, le percentuali per i paesi dell’Europa orientale sono molto alte, rispecchiando la grave crisi economica di quegli anni di inizio della democrazia con cambiamenti strutturali notevoli nella transizione verso un libero sistema di mercato. L’Europa meridionale ha dei pattern diversi in cui la Spagna, nonostante gli alti livelli di efficacia raggiunti dal regime franchista, dà fiducia alla democrazia come sistema di governo, ma esprime insoddisfazione su un piano di politiche economiche: la disoccupazione era cresciuta e la crescita economica si era fermata. Di conseguenza questo dato va letto alla luce delle fluttuazioni nell’opinione pubblica determinate dalla politica del governo eletto. Questa situazione è più esacerbata in Portogallo, ma valgono le stesse valutazioni fatte per il caso spagnolo. Invece, nei casi delle due democrazie posteriori al secondo conflitto mondiale, il giudizio sull’operato del governo è più positivo perché si tratta di governi che nascono all’indomani della guerra e le aspettative da parte della popolazione erano soprattutto di ordine e stabilità, e in questo erano coadiuvati dall’intervento americano[9]. Pertanto in generale l’opinione pubblica esprimeva ottimismo verso la capacità del governo di riuscire a svolgere i propri compiti. Infine, gli atteggiamenti di sfiducia verso i partiti offrono due scenari diversi. Quasi tutti i paesi presentano percentuali alte di sfiducia verso i partiti, penalizzati nella loro immagine dalle situazioni di conflitto e instabilità politica. In Spagna, invece, i partiti ottengono una valutazione molto positiva, data la loro centralità durante la transizione. Sicuramente per spiegare l’antipartitismo non si può non considerare, da una parte, il ruolo giocato dai partiti di tipo polarizzante e conflittuale (Italia, Portogallo) e dall’altra la propaganda realizzata durante il regime contro i partiti. Nonostante ciò i partiti, come evidenziato dalla letteratura, sono percepiti come necessari e a essi viene riconosciuto un ruolo insostituibile per la democrazia [Morlino 1998b]. 4. Da sudditi a cittadini: la partecipazione Finora abbiamo visto come le eredità autoritarie pesino non solo in termini istituzionali, per le ricadute che hanno ai diversi livelli[10], ma anche su un piano attitudinale, nella visione che i cittadini hanno della democrazia. Ora si cercherà di esaminare come le eredità autoritarie abbiano modellato il ruolo del cittadino nella nuova democrazia e il suo grado di coinvolgimento politico, con l’avvertenza che l’istituzionalizzazione, la pratica e il significato della cittadinanza sono lontane dall’essere omogenee entro i differenti settori della società [Holston e Caldeira 1998]. Le visioni della politica dopo un’esperienza dittatoriale cambiano in sentimenti di avversione, delusione e allontanamento, che complicano l’avvio delle procedure democratiche durante la transizione. La mancanza di esperienza con la vita democratica e le abitudini sviluppate in un contesto non democratico in cui il cittadino-suddito è riluttante a esprimere la propria opinione sono elementi da tenere presenti nell’analisi dei condizionamenti che le eredità esercitano sull’espressione della cittadinanza. Tuttavia ci sono sicuramente differenze nazionali che dipendono dal tipo e dalla durata del regime autoritario precedente, dal tipo di transizione e, da ultimo, dalle caratteristiche della cultura politica nazionale che di seguito emergeranno. Sul piano empirico, il ricorso agli indicatori di partecipazione, sia visibile che invisibile, contribuisce a far luce sulle modalità attraverso le quali la passata esperienza incide sui comportamenti elettorali[11]. TAB. 9.4. L’astensionismo elettorale (in percentuale) Paese Prime Seconde Terze Quarte Quinte Media elezioni elezioni elezioni elezioni elezioni elezioni parlamentari Italia 1948: 7,8 1953: 6,2 1958: 6,2 1963: 1968: 7,2 6,9 7,1 Germani a 1949: 21,5 1953: 14,0 1957: 12,2 1961: 12,3 1965: 13,2 14,6 Portogall o 1976: 16,7 1979: 12,5 1980: 14,6 1983: 21,4 1985: 24,6 18,0 Spagna 1977: 21,2 1979: 31,7 1982: 20,0 1986: 29,5 1989: 30,3 26,5 come istituzioni sociali su cui incidere» [ibidem, 403]. In Italia la cultura politica è caratterizzata da un’idea di politica come esperienza per pochi, una politica imposta dall’alto e passivamente accettata [Hite e Morlino 2004]. Di conseguenza gli italiani negli anni Cinquanta appaiono indifferenti alla politica. È probabile che i dati utilizzati in questi studi non fossero in grado di captare l’attivismo presente nella società italiana durante i momenti elettorali, ma visibile anche nei dati di membership partitica. Per quanto riguarda l’interesse per la politica, è chiara l’influenza del fascismo come movimento e della sua opera di socializzazione che non poteva non aver lasciato tracce nella mentalità degli italiani. Forse in quegli studi, dove il quadro dell’Italia non era certo lusinghiero, agisce un modello di riferimento angloamericano nei confronti del quale l’Italia sfigurava. FIG. 9.1. Media di astensionismo nelle tornate elettorali per paese (%). Questa stessa letteratura [Almond e Verba 1963] aveva trovato in Germania una cultura «sottomessa» ovvero passiva che si limitava all’esercizio del voto. Alla fine degli anni Cinquanta vi era una generale reticenza a una partecipazione attiva e generalizzata sia da parte della popolazione, per gli effetti che la turbolenta esperienza nazista aveva provocato, sia da parte dell’élite che, per paura di promuovere tentativi eversivi verso la democrazia, incoraggiava una partecipazione controllata attraverso i canali tradizionali dei partiti e dei gruppi di interesse. I paesi dell’Europa orientale e la Russia sono quelli che presentano il più alto livello di astensionismo, se non si considerano le prime elezioni nelle quali si raggiungono livelli di partecipazione molto elevati. Tuttavia, esaurito l’effetto traino suscitato dalla democratizzazione, nel lungo periodo prevalgono bassi livelli di partecipazione e di interesse: si tratta di un pubblico apatico non avvezzo a forme di partecipazione non istituzionalizzata, quali proteste, scioperi, manifestazioni per esprimere il proprio dissenso o a quelle istituzionalizzate come far parte di associazioni o gruppi politici e culturali. Il regime precedente in questo senso ha di molto condizionato il normale procedere della democrazia, dove i cittadini hanno la possibilità di selezionare la classe di governo sulla base delle loro valutazioni [Jackman e Miller 1996]. L’unica forma di «partecipazione» indotta che i cittadini conoscevano durante il regime comunista era l’iscrizione al partito[12]. Questa forma ha fornito le risorse e le capacità, seppur apprese all’interno di un regime non democratico, utilizzabili in democrazia: attraverso la partecipazione i cittadini imparano a socializzarsi alla politica e a interessarsi. TAB. 9.5. Grado di interesse per la politica e di partecipazione politica Comportamenti Interesse per la politica Membership partitica Identificazione partitica Italia 37,0 13,9 76,0 Germania 27,0 3,75 – Portogallo 31,0 1,9 48,9 Spagna 29,0 1,4 47,5 Ungheria 49,7 1,6 45,8 Polonia 42,1 2,2 24,0 Bulgaria 43,1 7,9 45,8 Romania 39,5 3,3 43,7 Russia 39,3 1,1 12,5 Slovacchia 58,0 5,2 27,3 Rep. Ceca 55,9 5,5 28,5 Fonti: Per l’interesse per la politica Wvs (1981-2000) (paesi della terza ondata); Almond e Verba [1963] (Italia); Conradt [1980] (Germania); per la membership partitica Letki [2004] (paesi dell’Europa centro- orientale); Hartenstein e Liepelt [1962] (Germania); Bosco e Morlino [2006] (Spagna e Portogallo); Raniolo [2008] (Italia); per l’identificazione partitica Letki [2004] (paesi dell’Europa centro-orientale); Four Nation Study (Spagna, Portogallo, Italia). La Spagna presenta elevati livelli di indifferenza, alienazione dalla politica, sfiducia verso i politici [Morlino e Montero 1995], accompagnati però da un quasi 30% di individui che si dichiara interessato alla politica. Analogamente, il Portogallo ha una buona percentuale di cittadini che non si sentono coinvolti dalla politica. Qui la durata del regime autoritario è la più lunga di tutti i paesi europei ed è priva di un’esperienza democratica precedente. La cultura politica portoghese è caratterizzata negli anni Ottanta da cinismo e ignoranza, alimentati anche dal periodo di forte instabilità politica e di difficoltà economica. Questo stesso quadro si allinea a quello della cultura politica uscito da studi precedenti: Maravall [1981] ha parlato di «cinismo democratico» per descrivere un mix di atteggiamenti composto da mancanza di interesse politico, scetticismo e bassa fiducia nelle élite, conseguenza di una lunga esperienza di politica come abuso di potere. Nei paesi presi in considerazione atteggiamenti di passività, paura della politica e autoemarginazione dalla politica rappresentano una serie di comportamenti sicuramente collegati alle esperienze autoritarie precedenti [Hite e Morlino 2004; Morlino e Montero 1995]. Tuttavia ciò non condiziona il sostegno alla democrazia, che appare alto a sottolineare il compimento del processo di consolidamento. Ciò ha portato, seppur a diversi livelli, verso atteggiamenti antipartito, di sfiducia verso lo stato e di astensionismo elettorale. Talvolta le eredità possono trasferirsi attraverso un atteggiamento positivo dell’opinione pubblica verso il vecchio regime, senza tuttavia mettere a repentaglio la stabilità della democrazia, come è avvenuto in Spagna e in Portogallo [Linz e Stepan 1996], o addirittura uscire rafforzate dalla transizione. TAB. 9.6. Le politiche simboliche in Italia Provvedimen to Argomento Legge 5/05/1861 n. 7 R.D.L. 23/10/1922 n. 1354 Istituisce la Festa dell’Unità Nazionale e si ricorda l’anniversario della fine della prima guerraLegge 5/3/1977 mondiale per l’Italia il 4 novembre. n. 54 (abolizione) Legge 20/11/2000 n. 336 (ripristino) D.L. Istituisce la Festa della Liberazione: «A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano,luogotenenzial e il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale». Si ricorda la fine della seconda guerra mondiale in 22/04/1946 n. Italia e la liberazione dal nazifascismo. 185 Legge 27/05/1949 n. 260 Regola la disciplina delle ricorrenze festive. Legge 5/03/1977 Istituisce la Festa della Repubblica il 2 giugno: si ricorda l’esito del referendum istituzionale del n. 54 (abolizione) 1948 nel quale gli italiani erano stati chiamati a votare sulla forma di governo: monarchia o Legge repubblica. 20/11/2000 n. 336 (ripristino) Legge 31/12/1996 n. Istituisce la Festa del Tricolore, ufficialmente Giornata Nazionale della Bandiera, il 7 gennaio. 671 Istituisce il Giorno della Memoria il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, Legge «al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione 20/07/2000 n. italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, 211 nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». D.P.R. 7/04/2000 Regola la disciplina delle bandiere. n. 121 Istituisce il Giorno del Ricordo il 10 febbraio come solennità civile. Conserva e rinnova la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli Legge istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine 30/03/2004 n. 92 orientale. Istituisce un riconoscimento ai congiunti degli infoibati. Crea il Museo della civiltà istriano- fiumano-dalmata con sede a Trieste e l’Archivio museo storico di Fiume con sede a Roma. Il quadro che emerge crea una distinzione molto netta tra le democrazie di terza ondata e le altre per quanto riguarda il sostegno alla democrazia. Nei casi italiano e tedesco il sostegno alla democrazia ha un andamento graduale rispetto agli altri paesi, dove ci sono percentuali molto alte di sostegno, a significare come la democrazia rappresenti by default l’opzione che ottiene maggior consenso, anche per l’attività di promozione svolta dall’Unione europea. In questo senso Italia e Germania presentano un modello simile di influenza dell’esperienza autoritaria sulla cultura politica della nuova democrazia: il regime precedente consegna un pubblico critico [5] Seppur neanche durante la transizione ci siano state richieste, da parte della società spagnola, di una giustizia verso i crimini del regime precedente, oggi alcuni partiti e gruppi inseriscono queste richieste nei loro programmi politici [Aguilar 2009]. All’inizio della vita della democrazia il passato dittatoriale era del tutto assente, come testimoniato dall’assenza di richieste di recriminazione, ma cominciò a riemergere quando il Partito popolare arrivò al governo e l’opposizione chiese di esplicitare la loro posizione di rifiuto verso il passato autoritario. Questo mostra come differenti generazioni sono in grado di concepire gli stessi eventi del passato in modo differente. [6] Per una panoramica degli indicatori usati si rimanda alla tabella 9.1. [7] Nel lavoro di Almond e Verba [1963], per esempio, emergeva come i militanti del partito comunista, allora percepito come partito antisistema, presentassero orientamenti antidemocratici, di rifiuto e di poca accettazione del nuovo sistema democratico in presenza, tuttavia, di atteggiamenti tipici di una cultura «partecipante» dove i cittadini non si sentono parte, ma prendono parte interessandosi alla vita pubblica. [8] Dati Eurobarometro degli anni Novanta sostengono questa conclusione: tra il 1985 e il 1992 il sostegno alla democrazia in Spagna è aumentato dal 70% al 78% (in Portogallo dal 61% al 83% ), nonostante lo scontento economico e il pessimismo politico degli anni Ottanta in seguito a tentativi di colpo di stato ed episodi di violenza da parte del terrorismo basco. [9] Il dato relativo al caso italiano è meno positivo di quanto appare poiché la maggior parte del campione (33%) non ha espresso un’opinione, il 27% ha un’opinione positiva sull’operato del governo, il 19% lo considera mediocre senza sconfessarlo del tutto e il 21% lo disapprova [Luzzatto Fegiz 1965]. [10] Si rimanda ai capitoli precedenti per approfondimenti sui singoli casi trattati. [11] Si rimanda alla tabella 9.1 per il gruppo di indicatori presi in considerazione. [12] Si rimanda per i dati ai capitoli di Pisciotta in questo volume. [13] Come abbiamo già esplicitato, la legittimità dei regimi autoritari si fonda soprattutto su mentalità [Linz 1964] ben radicate nella società attorno a concetti guida quali la nazione, la patria, l’identità creando una retorica civile. Al contrario, nel passaggio a un regime democratico la legittimità si crea attorno a un sostegno strumentale al regime, ma non sempre sufficiente a fare da collante. Da qui l’importanza di miti fondativi nel costituire e rinsaldare l’identità nazionale. [14] Due casi eclatanti sono, da una parte, il recupero della memoria effettuato da Zapatero con la legge di riparazione del 2007, conosciuta come la «legge della memoria storica», che, oltre a prevedere la condanna degli atti ingiusti del franchismo e il risarcimento materiale e simbolico, stabilisce l’impegno a stabilire una «cornice istituzionale che sviluppi politiche pubbliche relative alla conservazione e promozione della memoria democratica» [Aguilar 2009]; dall’altra, il tentativo di creare una memoria storica comune italiana da parte del presidente Ciampi attraverso il ricorso a eventi che ne richiamassero il patriottismo costituzionale. [15] Lo stesso schema potrebbe essere applicato agli altri paesi oggetto della ricerca. Per esempio, come già accennato, la Spagna ha promulgato nel 2007 una «legge della memoria storica», la Russia ha messo a punto un programma per riabilitare i temi del patriottismo grazie allo State Program on Patriotic Upbringing of Russia citizens 2001-2005 [Nikolayenko 2008]. [16] La letteratura si è soprattutto soffermata sulle questioni legate alle riparazioni, alla «lustrazione» ovvero l’esclusione o rimozione da ruoli di potere dei funzionari coinvolti nel partito comunista o nelle istituzioni a esso collegate [Welsh 1990; Williams, Fowler e Szczerbiak 2005]. Pietro Grilli di Cortona Conclusioni. Eredità e democratizzazioni in prospettiva comparata 1. Un riepilogo e una comparazione Nei vari capitoli è emerso che le arene nelle quali la trasmissione delle eredità è più frequente e rilevante, e sulle quali è possibile effettuare il confronto tra i casi, sono quelle relative alle istituzioni, al sistema dei partiti, alle questioni riguardanti la statualità, alle élite, al ruolo dello stato nella società e nell’economia e all’ambito della cultura politica e della società civile. La tabella 10.1 tenta un riepilogo e un confronto sommario, in una prospettiva di maggiore dettaglio comparativo rispetto alla tabella 1.1 del primo capitolo (p. 25), che aveva unicamente un obiettivo di impostazione teorica preliminare: in particolare, l’arena «Istituzioni, strutture politiche e modelli organizzativi» è stata scomposta in a) «Istituzioni», b) «Partiti e sistema partitico», c) «Élite» e d) «Problemi relativi alla statualità»; mentre l’arena socioculturale è stata scomposta in e) «Statalismo» e f) «Mobilitazione, cultura politica e società civile». L’indagine compiuta nei capitoli precedenti conferma come il ruolo delle eredità storiche, della memoria e dell’apprendimento politico sia pertinente e meriti quindi di essere valutato, anche se l’incidenza e la manifestazione di questi aspetti subisce variazioni da caso a caso. La tabella 10.2 illustra infine, sulla base di quanto già visto nel capitolo 1, come l’entità, l’incidenza e la natura delle eredità siano spiegabili con alcuni fattori causali, quali la durata, le capacità innovative del vecchio regime, le modalità della transizione e il ruolo delle spinte internazionali. In quest’ultimo capitolo mi propongo dunque di fare un riepilogo dei dieci casi considerati e di svolgere alcune considerazioni comparative muovendo dai dati e dalle argomentazioni incluse nei capitoli del volume. TAB. 10.1. Le eredità di alcuni regimi non democratici Istituzioni e Partiti e sistema Problemi Élite relativi alla Statalismo norme partitico statualità Partito socialista Discontinuità con come partito Malgrado una certa erede, anche sela fase comunista «autoepurazione», vi è Problemi iniziali Decollettivizza zione proclama una sua e tentativo di un trasferimento di con la dell’economia e continuità con i rifarsi a quella parte della vecchia minoranza turca, restaurazione Bulgaria socialisti dell’era
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