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Tracce svolte per la prova scritta del TFA-SOSTEGNO 2023, Prove d'esame di TFA Sostegno

Tracce svolte utili per esercitarsi in vista della prova scritta del TFA-SOSTEGNO per scuola secondaria di secondo grado.

Tipologia: Prove d'esame

2022/2023

In vendita dal 29/05/2022

AntonellaAcq
AntonellaAcq 🇮🇹

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Scarica Tracce svolte per la prova scritta del TFA-SOSTEGNO 2023 e più Prove d'esame in PDF di TFA Sostegno solo su Docsity! TRACCE Competenze socio-psico-pedagogiche STRATEGIE DELL’INSEGNANTE E ATTIVITÀ PROPOSTE ALLA CLASSE PER CONTRASTARE IL FENOMENO DEL BULLISMO . La ricerca attuale nell’ambito del bullismo è orientata prevalentemente verso interventi di prevenzione piuttosto che sull’emergenza. Lavorare sulla prevenzione risulta fondamentale per creare un contesto scolastico che protegga gli alunni dai rischi sia fisici che psicologici che possono influenzare lo sviluppo in una fase delicata di crescita evolutiva. Esistono tuttavia degli interventi possibili da attuare in classe nel caso emergano problematiche evidenti o segnali di rischio legati a questo fenomeno. Un’attività volta a far emergere un problema, qualora l’insegnante avverta una tensione nel gruppo classe, può essere la Scatola delle emozioni, in cui viene chiesto agli alunni di inserire, in modalità anonima, un bigliettino con scritto un problema che desidererebbero affrontare. La consegna può essere anche quella di descrivere come si trovano con i loro compagni, cosa gli piace della loro classe e cosa no. Viene chiesto poi a turno di pescare un biglietto ciascuno e di leggerlo ad alta voce. Ad ogni alunno verrà chiesto di mettersi nei panni di chi ha scritto il biglietto e descrivere come potrebbe sentirsi. Questa attività, oltre alla possibilità di far emergere i conflitti, mira ad allenare l’empatia fra gli alunni. Per contrastare il bullismo risulta fondamentale lavorare sul potenziamento delle abilità empatiche, in quanto la capacità di mettersi nei panni dell’altro rappresenta un fattore di prevenzione contro il manifestarsi di comportamenti aggressivi verso gli altri. Gli interventi volti alla prevenzione del bullismo, infatti, dovrebbero prevedere attività da svolgere in modo costante durante l’anno scolastico proprio sull’allenamento delle competenze emotive. In genere le attività di prevenzione si articolano per obiettivi di competenza: dal riconoscimento delle emozioni proprie e altrui, attraverso esercizi come L’appello delle emozioni in classe (dove si chiede ogni giorno agli alunni quale emozione li rappresenta in quel momento, con lo scopo di allenarli al contatto con il proprio mondo interno), allo sviluppo dell’empatia attraverso attività come la Scatola delle emozioni, riportato in precedenza. Un’attività utile da fare con un alunno bullo in classe è quella di coinvolgerlo in un compito di aiuto nei confronti di un altro alunno che presenta difficoltà di vario genere: aiutarlo ad esempio a svolgere un compito scolastico oppure in un’attività che non riesce a svolgere per via di una disabilità fisica o cognitiva. Questo intervento aiuta a spostare l’attenzione sul supporto e la protezione dell’altro promuovendo comportamenti solidali ed empatici che contrastano il bullismo. IL/LA CANDIDATO/A ARGOMENTI SUL PIANO PEDAGOGICO-DIDATTICO I CONCETTI DI COMPETENZE CULTURALI (PER LO SVILUPPO DEI SAPERI FONDAMENTALI), COMPETENZE PROFESSIONALI (PER L’OCCUPABILITÀ) E COMPETENZE SOCIALI (PER LA CITTADINANZA) QUALI PRINCIPALI FINALITÀ DEI CURRICOLI DELLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO. L’istruzione e la formazione che i giovani incontrano nel secondo ciclo d’istruzione sono finalizzate al processo educativo della crescita e della valorizzazione della persona. Le competenze culturali trasformano il sapere disciplinare in un processo finalizzato alla crescita e valorizzazione di ciascun allievo, rivolto all’interiorizzazione e all’elaborazione critica delle conoscenze fondative di ciascuna disciplina. Il docente ha il compito di favorire la significatività dei saperi, di essere in grado di raccordare il sapere formale e quello non formale, e soprattutto stimolare la metacognizione nei suoi allievi. Per attuare tali finalità e promuovere le abilità degli studenti l’insegnante può avvalersi di svariate metodologie, tra cui le didattiche attive e riflessive. Le competenze professionali sviluppano, a partire dai saperi, le abilità tecniche che conducono ogni allievo verso un fare consapevole e, quindi, verso quelle richieste che ritroverà nel mondo del lavoro al termine del proprio indirizzo di studi. Uno degli obiettivi finali della scuola secondaria, ma non di poca importanza, deve essere quello di far sviluppare la «competenza imprenditoriale» negli studenti, e far raggiungere quindi una delle otto competenze chiave-europee. Per raggiungere tale finalità il docente deve promuovere la capacità degli allievi di tradurre le idee in azione, di assumersi rischi, pianificare obiettivi, sviluppare creatività e innovazione. Tra le metodologie più indicate possiamo far riferimento alla didattica laboratoriale e quella esperienziale. Nelle competenze sociali rientrano tutte le competenze personali, interpersonali e interculturali; le competenze sociali si riferiscono, inoltre, a tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare efficacemente e costruttivamente alla vita sociale e lavorativa. Un altro obiettivo prioritario della scuola è proprio quello di sviluppare alcune abilità quali: saper comunicare, saper distribuire la leadership, saper gestire i conflitti, saper risolvere i problemi, saper prendere decisioni. Le metodologie didattiche più indicate sono quelle simulative: il role playing, l’impresa simulata, il cooperative learning. IL/LA CANDIDATO/A ILLUSTRI COME CONTRIBUIRE A RENDERE LE STUDENTESSE E GLI STUDENTI DI UNA CLASSE DI ISTRUZIONE SECONDARIA DI SECONDO GRADO CONSAPEVOLI DELLE PROPRIE POTENZIALITÀ E DEI PROPRI STILI COGNITIVI, ANCHE FACENDO RIFERIMENTO AGLI ASPETTI CARATTERIZZANTI LA MEDIAZIONE DIDATTICA . Le difficoltà che gli studenti trovano nell’apprendimento delle discipline nella secondaria si incontrano spesso anche nella distanza tra lo stile di apprendimento degli studenti e quello di insegnamento proposto nelle singole discipline dai docenti. Lo stile di apprendimento riguarda la tendenza dello studente a preferire un certo modo di apprendere e interessa la sua modalità di percepire e reagire a compiti con comportamenti e strategie ricorrenti. Ciascun allievo si differenzia per quanto riguarda la modalità preferenziale di percezione, ragionamento e memoria, collocandosi in una delle seguenti polarità opposte: sistematico-intuitivo, globale- analitico, impulsivo-riflessivo, verbale-visuale, autonomo-dipendente dal campo. Migliorare la consapevolezza negli allievi rispetto alle caratteristiche e differenze dei propri stili cognitivi diventa di fondamentale importanza per rendere efficace l’intero processo di insegnamento-apprendimento. Innanzitutto, è necessario che il docente conosca il proprio stile di insegnamento e che promuova l’identificazione degli stili di apprendimento anche negli allievi, per poi rendere flessibili le proprie modalità di condurre la lezione adeguandole agli stili degli alunni. Per raggiungere tale obiettivo il docente deve saper variare gli stimoli, le opportunità e i linguaggi di apprendimento che presenta agli studenti ma anche offrire un ampio repertorio di attività e situazioni di apprendimento in relazione agli obiettivi e alle specificità di quel segmento formativo. Inoltre, deve saper utilizzare una pluralità di mediatori didattici tra quelli attivi, iconici, analogici e simbolici. I mediatori attivi fanno ricorso all’esperienza diretta, al learning by doing; i mediatori iconici utilizzano le rappresentazioni del linguaggio grafico; i mediatori analogici si rifanno all’apprendimento non verbale e per simulazione; i mediatori simbolici utilizzano i codici linguistici convenzionali. La maggior parte dei docenti utilizza più frequentemente i mediatori simbolici, a scapito degli altri mediatori, intercettando in tal modo solo gli studenti con una specifica modalità di apprendimento, come avviene nella lezione trasmissiva in cui è utilizzato prevalentemente il linguaggio verbale. Variare l’utilizzo di differenti mediatori in classe consentirebbe invece agli studenti di apprendere più efficacemente e faciliterebbe anche l’apprendimento degli studenti con disabilità e altri Bisogni Educativi Speciali. IL/LA CANDIDATO/A ILLUSTRI QUALI STRATEGIE SI POSSONO UTILIZZARE PER VALORIZZARE LE CAPACITÀ DEI SINGOLI STUDENTI E STUDENTESSE PER FAVORIRE L’AFFERMAZIONE DI UNA LEADERSHIP DEMOCRATICA. L’affermazione di una leadership democratica a scuola si può attuare attraverso l’utilizzo di strategie generali e l’applicazione di tecniche didattiche strutturate. I docenti, dopo aver individuato le abilità e i talenti degli studenti, possono assegnare a turno il ruolo di aiuto- docente in attività di supporto alla didattica come, ad esempio, organizzare le interrogazioni programmate, supportare nel controllo quotidiano di chi ha svolto o meno i compiti assegnati. Predisporre un registro di pianificazione delle attività può facilitare sia il ruolo assegnato all’allievo sia il controllo che il docente poi esercita per monitorare l’attività. Se in classe sono presenti studenti con Bisogni Educativi Speciali i docenti possono, inoltre, assegnare a turno il ruolo di tutor a un compagno esperto in una disciplina che, a seguito di adeguata formazione del docente, può aiutare gli alunni con maggiore difficoltà. Una delle tecniche più efficaci nell’affermazione di una leadership democratica è il cooperative learning. Tale metodologia si basa sulla formazione di piccoli gruppi in cui gli studenti lavorano assieme per migliorare reciprocamente il loro apprendimento. I principi di questa tecnica, teorizzati da Jhonson e Jhonson, ovvero i pilastri per la sua buona riuscita sono: interdipendenza positiva, interazione costruttiva diretta faccia a faccia, responsabilità individuale e di gruppo, insegnamento e uso di competenze sociali, revisione e controllo dell’attività e valutazione individuale e di gruppo. Il cooperative learning è una modalità di lavoro di gruppo in cui tutti gli studenti diventano protagonisti perché sono coinvolti in attività che li incastra in un gioco di interdipendenza e che non permette di sottrarsi al lavoro comune: i ruoli che gli studenti assumono nel cooperative learning sono infatti complementari. L’affermazione di ciascun studente e di ciascun gruppo riesce solo se il docente struttura l’attività, gli spazi, i materiali, in stretta relazione con i ruoli, che devono essere ben definiti in modo da risultare interdipendenti uno dall’altro. A seconda della specificità, ciascun allievo può diventare leader di un ruolo, di un materiale, di un compito affidato dal docente, per cui è responsabile e su cui verrà valutato. LA SCUOLA DOVREBBE PROMUOVERE NEGLI ALUNNI UN MODO AUTONOMO DI PENSARE STIMOLANDO L’ATTITUDINE AD APPRENDERE LUNGO TUTTO L’ARCO DELLA VITA. IL CANDIDATO ILLUSTRI LE ABILITÀ E COMPETENZE DA SVILUPPARE NEI CONTESTI FORMATIVI PER POTENZIARE E RINFORZARE LA CURIOSITÀ INTELLETTUALE, L’INTERESSE E LA MOTIVAZIONE . La curiosità, l’interesse e la motivazione ad apprendere nella scuola secondaria di secondo grado sono strettamente connessi alla tipologia di curricolo scolastico, al valore che viene dato da ciascuno studente all’apprendimento scolastico, alle competenze didattiche possedute dal docente. A seconda del curricolo scolastico le discipline hanno un maggior peso teorico o pratico, promuovono l’apprendimento convergente o divergente, passivo o esperienziale. Il corretto orientamento tra la scuola secondaria di primo e quella di secondo grado costituisce un punto di partenza importante per potenziare l’interesse ad apprendere. Ciascuno studente possiede inoltre una motivazione intrinseca, legata alla concezione che riuscire a scuola sia una questione di impegno e padronanza dei contenuti, connessa con il portare a termine un compito e al personale successo formativo. Altri studenti possiedono una motivazione estrinseca, per cui lo studio è sollecitato dal desiderio di ottenere giudizi e voti positivi o per distinguersi tra i compagni. I docenti dovrebbero promuovere tipologie didattiche che permettano non solo di acquisire conoscenze ma soprattutto abilità trasversali, come migliorare il proprio metodo di studio, saper fronteggiare e rispondere ai problemi, utilizzare il pensiero strategico, l’autonomia di apprendimento. La secondaria di secondo grado dovrebbe, inoltre, incoraggiare l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita — lifelong learning, definito come ogni istruzione generale, istruzione e formazioni professionale, istruzione non formale e apprendimento informale intrapresi nelle varie fasi della vita, che dia luogo a un miglioramento delle conoscenze, delle capacità e delle competenze in una prospettiva personale, civica, sociale e/o occupazionale. Per risultare maggiormente attrattiva, la scuola dovrebbe guardare al di fuori essa, sapendo integrare e collegare gli apprendimenti formali, con quelli non formali e informali. Per questo la didattica nella scuola secondaria di secondo grado dovrebbe essere centrata sullo sviluppo delle competenze, in particolare quelle rintracciabili nel mondo del lavoro: si tratta delle competenze organizzative, gestionali, relazionali e direzionali, comuni a tutti gli ambiti lavorativi. La significatività e autenticità dei saperi curricolari proposti, in tal modo, riuscirebbero a sviluppare anche la curiosità, l’interesse e la motivazione degli studenti. FLESSIBILITÀ, INNOVAZIONE E RINNOVAMENTO SONO ABILITÀ CHE LA SCUOLA DEVE PROMUOVERE E SOSTENERE. IL CANDIDATO ILLUSTRI COME RENDERE POSSIBILE L’APPRENDIMENTO DI FRONTE A SITUAZIONI NUOVE E DIFFICILI . La società contemporanea è molto complessa e ha bisogno, pertanto, di flessibilità e dinamismo, retroattività, dialogicità. La scuola secondaria di secondo grado, in particolare, deve preparare allo sviluppo di competenze che si ritrovano nel mercato del lavoro, che è in continuo cambiamento e che ricerca profili professionali in grado di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni della società complessa. Per raggiungere tale scopo i docenti dovrebbero discostarsi dalla didattica trasmissiva, poco dialogica e che conduce l’allievo a cercare una risposta unica e pre-determinata. La flessibilità didattica si esplica infatti nell’acquisizione della capacità di transfer, cioè nella capacità di apprendere in contesti nuovi che comportano una rivisitazione critica delle conoscenze già acquisite e che prevede il loro utilizzo in situazioni d’uso differenti da quelli solitamente proposti a scuola. La flessibilità ricchezza e varietà delle differenti culture; – attivare processi di socializzazione e promuovere la capacità di intendere le ragioni degli altri nell’educazione alla convivenza democratica; – promuovere le lingue diffuse fra gli allievi; – sviluppare un pensiero critico sui fenomeni relativi alla globalizzazione. Nel progetto «La storia delle religioni» i docenti di religione, storia e italiano promuovono un laboratorio creativo in una classe prima di una scuola secondaria di secondo grado. I tempi del laboratorio riguardano un quadrimestre e due ore settimanali. La consegna data agli allievi è la seguente: «Individuate le costanti, le somiglianze e le differenze culturali delle religioni proposte dal docente, in particolare soffermatevi sulle caratteristiche storiche, linguistiche, artistiche e simboliche delle religioni proposte». I docenti forniranno a ciascun gruppo i materiali di studio e approfondimento per consentire agli allievi di riportare le informazioni testuali. Per produrre un elaborato creativo potranno ricercare nel web anche disegni, immagini e altre informazioni culturali. Gli allievi saranno suddivisi in piccoli gruppi da due-tre studenti, con lo scopo di individuare al meglio le informazioni richieste, favorire lo scambio culturale e il pensiero critico. Al termine del quadrimestre gli allievi spiegheranno al resto della classe i risultati delle loro ricerche ed esporranno al docente le somiglianze e le differenze culturali riscontrate. I cartelloni potranno essere esposti nei corridoi dell’istituto e saranno oggetto di approfondimento nel sito della scuola. COME AVVIENE L’APPRENDIMENTO PER INTUIZIONE SECONDO LA TEORIA DELLA GESTALT? Köhler, uno dei componenti della scuola della Gestalt, si occupò in particolare dello studio dell’apprendimento per insight (intuizione improvvisa), ossia caratterizzato dalla soluzione a un problema che si presenta improvvisamente al soggetto, creando in lui la sensazione di presa di coscienza di un qualcosa che prima rappresentava un vero e proprio mistero, un problema irrisolvibile dal quale non si vedeva via di uscita. In un linguaggio gestaltico potremmo quindi definire questa situazione come una «ristrutturazione percettiva», una modificazione repentina e unitaria del «campo» che porta a riconsiderare in modo qualitativamente diverso gli elementi in gioco e ci fa vedere le cose da una prospettiva fino ad allora sconosciuta o non considerata. Questo tipo di apprendimento non è una prerogativa del genere umano; sono infatti famosi gli esperimenti con gli scimpanzé, che erano in grado, proprio grazie all’insight, di percepire improvvisamente la possibilità di utilizzare un bastone presente nella gabbia dove si trovavano per avvicinare delle banane che erano all’esterno e quindi fuori dalla loro portata. L’apprendimento nella prospettiva della Gestalt si è quindi basato sulle varie possibilità di soluzione di problemi, o meglio di «pensiero produttivo», in cui è fondamentale riuscire a individuare una nuova struttura cognitiva attraverso un meccanismo di ristrutturazione dei vari elementi in una totalità dotata di significato. QUALI SONO LE CARATTERISTICHE E I PUNTI DI FORZA DELLA TEORIA DELL’APPRENDIMENTO DI AUSUBEL? La teoria dell’apprendimento di Ausubel parte dalla distinzione tra: – apprendimento significativo, ovvero il poter collegare la nuova informazione a concetti rilevanti già posseduti, preesistenti nella struttura cognitiva della persona; – apprendimento meccanico, per cui la nuova conoscenza può essere acquisita attraverso la semplice memorizzazione e venire incorporata arbitrariamente nella struttura cognitiva senza che ci sia interazione con ciò che essa già contiene. Ai poli opposti di un continuum troviamo quindi un tipo di apprendimento ricettivo (ad esempio imparare le tabelline) e un tipo di apprendimento per scoperta (forme creative di ricerca autonoma). Ausubel fa suo il concetto di significatività nell’apprendimento, attraverso la teoria dell’assimilazione: l’apprendimento consiste per la maggior parte nel processo che conduce all’assimilazione, all’ancoraggio delle nuove esperienze nella personale struttura cognitiva già esistente. La quantità delle informazioni ricordate dipenderà quindi principalmente dalla significatività del processo di apprendimento, dal grado in cui queste informazioni si sono «arricchite» e perfezionate. Ausubel ci parla anche di conciliazioni integrative: nuove e vecchie informazioni si integrano e si conciliano, creando una modificazione di natura non solo quantitativa ma anche, e soprattutto, qualitativa (nuove connessioni trasversali). Ne consegue che uno degli aspetti fondamentali di un buon metodo di insegnamento è la capacità di presentare il nuovo materiale da apprendere in modo tale da renderlo il più possibile assimilabile in maniera corretta e agevole da parte dello studente. Tra le strategie utili a questo scopo, Ausubel suggerisce l’uso degli organizzatori anticipati. I principali vantaggi di un apprendimento significativo sono i seguenti: – le conoscenze vengono ricordate più a lungo e si crea un forte collegamento tra le nuove informazioni e quelle acquisite in precedenza, rendendo più facile il successivo apprendimento di argomenti simili; – l’informazione che viene ricordata dopo che è avvenuta la fase di cancellazione lascia comunque un effetto residuale sul concetto classificante e, di fatto, sull’intera struttura relativa dei concetti; – l’informazione appresa in modo significativo può essere applicata a un’ampia varietà di nuovi problemi e contesti (generalizzazione delle conoscenze). CHE COS’È LO STILE DI ATTRIBUZIONE E QUALI DIMENSIONI LO CARATTERIZZANO? Lo stile di attribuzione fa riferimento agli atteggiamenti e alle convinzioni che la persona possiede rispetto all’utilità del suo impegno attivo e dell’uso di strategie e azioni. Le attribuzioni possono quindi essere considerate come valutazioni che l’individuo mette in atto spontaneamente per capire chi o che cosa sia responsabile degli eventi che gli accadono, ovvero gli atteggiamenti e le convinzioni che l’alunno possiede rispetto all’utilità e all’efficacia del suo impegno, del suo sforzo attivo e dell’uso sistematico delle strategie e procedure di soluzione che gli sono state insegnate. Ogni persona possiede un suo schema di attribuzioni composto da un insieme di credenze e cognizioni che viene usato come modello per spiegare la realtà e che costituisce il suo personale stile attributivo. Questo schema ha come antecedenti le prestazioni attuali, quelle passate e quelle degli altri, e influisce su quelle future. Le attribuzioni si classificano in base a tre dimensioni. La prima si basa sul locus of control interno o esterno, e distingue fra eventi attribuiti a cause interne (come l’impegno o l’abilità innata) ed eventi attribuiti a cause esterne (come la difficoltà di un compito o la fortuna). Con questa espressione si indica infatti il «luogo» dove l’alunno ritiene si trovino i «fattori responsabili» di quello che gli accade e, in particolare, dove siano le cause dei suoi successi e insuccessi. L’alunno con un locus of control eccessivamente e globalmente proiettato su fattori esterni, con conseguente deresponsabilizzazione personale, in genere assume un atteggiamento passivo. Egli ritiene infatti di non potercela fare in alcun caso, perché gli eventi e i risultati «non dipendono da lui». Questo alunno ha perso il senso di poter in qualche modo controllare gli eventi, e questo senso di impotenza, se troppo esteso e stabilizzato, può portare alla depressione e all’abbandono di ogni sforzo e tentativo. La seconda è la stabilità, che riguarda la durata nel tempo della causa: essa è maggiore per gli eventi riferiti a cause ritenute immodificabili (ad esempio l’abilità innata, la difficoltà del compito) e minore per quelli riferiti a cause instabili (ad esempio la fortuna e l’impegno). La terza è la controllabilità: esistono attribuzioni caratterizzate da un maggiore senso di controllo da parte del soggetto, come l’impegno, e altre incontrollabili come la fortuna. INTELLIGENZE MULTIPLE DI GARDNER E STRATEGIE/MATERIALI EDUCATIVO-DIDATTICI UTILI AL LORO SVILUPPO. Gardner, nella teoria delle intelligenze multiple, individua nove modi diversi di essere intelligenti in relazione ai diversi sistemi o messaggi culturali in cui le persone sono immerse fin dalla nascita, al loro ambiente di vita, al tipo di relazioni e modalità di comunicazione. Di seguito si riportano le diverse tipologie di intelligenza e alcune strategie didattiche e materiali utili allo sviluppo delle varie intelligenze. 1. Intelligenza logico-matematica (preferenza per sequenze razionali, schemi, ordine, quantità, ecc.): esercizi o problemi logici; classificazioni/categorizzazioni; creare codici/simboli; calcoli e quantificazioni; pensiero scientifico sperimentale; presentazioni logiche e sequenziali; domande socratiche. 2. Intelligenza linguistica o verbale (preferenza per i significati nel linguaggio, la comunicazione orale e/o scritta): letture; discussioni/dibattiti in piccolo/grande gruppo; conferenze/lezioni; giochi di parole; inventare/ raccontare storie; diari di bordo, poesie. 3. Intelligenza spaziale o grafico-pittorica (preferenza per la percezione, rappresentazione e modificazione della realtà): cartine, grafici, diagrammi, schemi; visualizzazione; diapositive, video, film, PowerPoint, fotografie; puzzle visivi, labirinti, costruzioni; pittura, collage; aiuti visivi; immaginazione visiva. 4. Intelligenza corporea/cinestesica (preferenza per l’uso del corpo e di oggetti): manipolazione, costruzioni, trasformazioni; giardinaggio, bricolage; attività sportive; attività di consapevolezza motoria; mimo e linguaggio del corpo; lingua dei segni. 5. Intelligenza interpersonale/relazionale/sociale (preferenza per il comprendere le persone e le relazioni): insegnamento reciproco, tutoring, apprendimento cooperativo; giochi da tavolo; mediazione di conflitti; ruoli sociali nella gestione della classe; relazionare in pubblico. 6. Intelligenza musicale (sensibilità e capacità di creare suoni, melodie, ritmi, ecc.): cantare, suonare; ritmi, rap; brani musicali legati alle emozioni; colonne sonore. 7. Intelligenza intrapersonale (preferenza per il comprendere la propria esistenza per sé e per gli altri, le proprie emozioni, intenzioni, desideri): studio autonomo e autoprogettato; riflessione; diari personali; attività su autostima/identità; attività emozionali. 8. Intelligenza naturalistica (sensibilità alla flora/fauna e alla biologia): osservazione; ricostruzione di habitat; collegare e stabilire relazioni, ecologie; prendersi cura di animali/piante. 9. Intelligenza esistenziale (o filosofica): consapevolezza di sé e degli altri; senso di giustizia; comprendere la realtà in modo olistico; porsi domande sul senso della vita e della morte; insegnare a usare i valori. CHE COSA SI INTENDE PER «STILI COGNITIVI DI APPRENDIMENTO»? La ricerca psicologica ha portato alla definizione di alcuni stili cognitivi fondamentali che contraddistinguono le persone nelle loro diverse modalità di apprendere. Le coppie di polarità opposte di maggiore importanza sono le seguenti. – Sistematico-intuitivo: l’alunno con stile sistematico procede a piccoli passi, considera accuratamente e sequenzialmente tutti gli elementi concreti che ha a disposizione, mentre quello intuitivo formula e lavora su ipotesi di cui ricerca velocemente una conferma. – Globale-analitico: l’alunno globale privilegia in genere le visioni generali di insieme, mentre quello analitico si sofferma sui singoli dettagli, anche se minimi. – Impulsivo-riflessivo: l’alunno impulsivo fornisce immediatamente la risposta, senza una sufficiente elaborazione dell’informazione; al contrario, quello riflessivo valuta attentamente la situazione nei suoi vari aspetti, di conseguenza ne potrà risentire la velocità della risposta. – Verbale-visuale: l’alunno verbalizzatore preferisce e riesce meglio in attività basate su un codice linguistico, mentre quello visualizzatore preferisce l’uso di figure, schemi e altre forme di elaborazione visiva (ad esempio creazione di immagini mentali per ricordare qualcosa). – Autonomo/creativo-dipendente dal campo: nel primo caso l’alunno lavora con modalità divergenti di pensiero, originando da sé e liberamente nuove possibilità o soluzioni, mentre l’alunno maggiormente dipendente dal campo subisce molto di più le pressioni e i condizionamenti del contesto, anche interpersonale, in cui si trova a operare. Uno dei precursori nella definizione degli stili cognitivi fu Bruner, il quale definì la dimensione focalizzazione-scanning. Secondo questo studioso, i «focalizzatori» posti di fronte a un problema tipicamente ritardano la presa di decisione fino a quando non hanno raccolto una quantità di prove ritenuta sufficiente ed esauriente per affrontare il problema in questione; all’opposto chi propende per uno «stile scanner» si limita a dare un’occhiata rapida al tutto, formulando subito un’ipotesi e questo costringe a ricominciare da capo tutto il processo se l’ipotesi elaborata si rivela inadeguata. PROMUOVERE UN ADEGUATO SENSO DI AUTOEFFICACIA RAPPRESENTA UNA PREMESSA ESSENZIALE PER IL BENESSERE SCOLASTICO. IL CANDIDATO ESPONGA IL CONCETTO DI AUTOEFFICACIA E LE SUE RICADUTE SULLA QUALITÀ DELLA VITA DEGLI STUDENTI. L’autoefficacia è un concetto introdotto da Albert Bandura, in base al quale la persona, a seconda delle esperienze avute nel corso della vita, può avere una differente valutazione della propria possibilità di determinare gli eventi. Coincidenze positive o premi imprevisti possono, ad esempio far aumentare la motivazione a percepire e migliorare l’immagine di sé. Al contrario, sperimentare frustrazioni sistematiche può generare nella persona un senso di impotenza nei confronti di se stessa e dell’ambiente che la circonda. L’autovalutazione di efficacia o di impotenza può diventare un meccanismo regolatore della motivazione a intervenire sulla realtà esterna. Alcuni individui diventeranno più tenaci e persistenti nel moltiplicare gli sforzi, altri più arrendevoli poiché convinti di non poter contrastare il destino. Anche se l’ambiente è rilevante per lo sviluppo dell’autoefficacia in età evolutiva, Bandura sostiene che la persona ha un ruolo attivo nelle contingenze e può a sua volta influenzare la qualità delle esperienze con il proprio comportamento che è mosso da pensieri, credenze e valori appresi. Questa visione è legata alla teoria sociale cognitiva di Bandura, e segna un punto di svolta nella teoria dell’apprendimento sociale: diventano fondamentali la promozione e il potenziamento di abilità personali nella persona affinché diventi capace di agire positivamente nelle relazioni. La percezione di autoefficacia ha un ruolo fondamentale nell’apprendimento scolastico, in quanto sostiene e favorisce l’impegno cognitivo e la motivazione utili a sviluppare ogni tipo di competenza. Alunni con un basso senso di autoefficacia potrebbero impegnarsi di meno, scegliere obiettivi limitati ed essere più esposti a stress riguardo le prestazioni. L’abbandono scolastico e il bullismo sono due fenomeni di rischio collegati a una scarsa autoefficacia percepita. Diversi studi dimostrano che il fallimento scolastico può avere conseguenze molto negative in età adulta mentre esperienze di successo scolastico possono contrastare percorsi di sviluppo a rischio di disadattamento. In un’ottica di prevenzione dei rischi e promozione del benessere in termini di autoefficacia percepita, è necessario che la scuola si orienti a strutturare attività di apprendimento che permettano a tutti gli studenti di fare esperienze di successo e di fallimento, di correggere e recuperare gli errori, di non rimanere indietro rispettando i propri tempi, di avere un ruolo attivo e diventare discenti autodiretti. DIDATTICA INDIVIDUALIZZATA E PERSONALIZZATA. Una proposta didattica inclusiva presuppone una molteplicità di opportunità di apprendimento, finalizzate a rispondere ai bisogni individuali di tutti gli alunni e, contemporaneamente, a favorire una buona coesione nella comunità classe. L’obiettivo è quindi duplice: individuale e collettivo. I due presupposti fondamentali alla differenziazione didattica sono: un’attenzione a tutte le differenze individuali, attraverso un approccio evolutivo focalizzato sul potenziale e non sui limiti e una concezione della didattica dinamica, plurale e centrata sullo studente. Tutti gli alunni, compresi quelli con BES, risultati eccellenti o alto potenziale, necessitano di uno sguardo attento all’individualità, essendo essa composta da una miriade di differenze che rappresentano informazioni fondamentali per l’insegnante, da osservare, individuare e descrivere, al fine di comprendere, progettare e agire in maniera coerente ed efficace. Una didattica individualizzata prevede una differenziazione dei percorsi didattici e educativi che rappresenta una strategia per il raggiungimento di traguardi formativi comuni per tutti gli alunni. Consiste nelle attività di recupero individuale che lo studente può svolgere per potenziare determinate abilità o acquisire particolari competenze. Un’offerta didattica individualizzata tenta dunque di adattarsi ai bisogni specifici di una singola persona, modificando le diverse strategie di insegnamento-apprendimento per riuscire a portare quell’alunno il più vicino possibile agli obiettivi comuni al gruppo di appartenenza, alla sua classe o al corso di studi. In questo modo si cerca di far raggiungere all’alunno un traguardo comune anche con mezzi e percorsi molto diversi o particolarmente individualizzati. Una didattica personalizzata invece prevede la diversificazione delle mete formative volte a favorire la promozione delle potenzialità individuali e calibra l’offerta didattica sulle specificità dei bisogni educativi del singolo alunno, al fine di favorire lo sviluppo dei talenti e dei punti di forza di ciascuno. Rappresenta una strategia complementare alla prima e ad essa subordinata: la può proficuamente integrare e completare, ma non la può soppiantare, altrimenti si corre il serio pericolo che le diversità tra gli alunni si trasformino in diseguaglianze. Personalizzare significa anche modificare gli obiettivi dell’offerta formativa, che possono divergere anche nettamente rispetto a quelli del gruppo di appartenenza. L’obiettivo finale della personalizzazione è quello di costruire un proprio percorso rispetto a propri fini, anche del tutto diversi da quelli degli altri. La Legge 170/2010 dispone, ad esempio, che la scuola garantisca agli alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento «l’utilizzo di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari del soggetto, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguata». Ciò al fine di garantire allo studente una serie di metodologie didattiche, di strumenti compensativi e misure dispensative, se necessarie, per il raggiungimento del successo formativo. Anche la Circolare n. 8 del 6 marzo 2013, «Strumenti di intervento per gli alunni con Bisogni Educativi Speciali», ribadisce che «gli studenti in difficoltà hanno diritto alla personalizzazione degli apprendimenti», così come previsto anche dalla Legge 53/2013. È bene ricordare che la Direttiva ministeriale del 27/12/2012 estende a tutti gli alunni in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento e ricorda che «ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali». Come è possibile evincere dalla citata Circolare ministeriale «La Direttiva ridefinisce e completa il tradizionale approccio all’integrazione scolastica, basato sulla certificazione della disabilità, estendendo il campo di intervento e di responsabilità di tutta la comunità educante a tutti i BES». COSA SI INTENDE PER DIDATTICA INCLUSIVA? La didattica inclusiva è una didattica di qualità capace di offrire risposte efficaci ai bisogni educativi di tutti gli alunni, compresi quelli con disabilità e bisogni educativi speciali. Il suo obiettivo principale è dunque quello di creare delle condizioni di apprendimento che consentano a ciascun alunno di scoprire ed esprimere al massimo il proprio potenziale individuale attraverso l’interazione con il gruppo. Una didattica realmente inclusiva valorizza le diversità individuali ed elimina le barriere all’apprendimento e alla piena partecipazione alla vita sociale anche attraverso i principi fondamentali dell’Universal Design for Learning (UDL) e dunque, operativamente, rappresentando l’informazione in diversi formati che consentono la massima adattabilità all’utente, garantendo agli studenti percorsi multipli e diverse possibilità di espressione, fornendo modalità diversificate e molteplici mezzi di coinvolgimento per favorire la motivazione ad apprendere e il collegamento delle nuove informazioni con le conoscenze pregresse. La didattica inclusiva rispetta e valorizza tutte le differenze individuali, attiva primariamente la «risorsa compagni», utilizza strategie di lavoro cooperativo e di tutoring, adattando i contenuti in base ai diversi livelli di abilità degli alunni, potenziando le strategie logico-visive attraverso schemi, video, mappe, organizzatori anticipati, sviluppando strategie di autoregolazione, meta-cognizione e mediazione cognitivo-emotiva, utilizzando le nuove tecnologie ai fini dell’inclusione scolastica e sociale ed offrendo agli alunni continui feedback formativi e motivanti. Secondo l’European Agency for Development in Special Needs Education, il docente inclusivo deve saper gestire una classe e avere delle competenze gestionali che facilitino un’efficace azione multiutente, contribuire alla costituzione di partenariati scolastici con altre scuole, deve essere in grado di favorire negli alunni la cooperazione e il lavoro in rete e deve lavorare lui stesso in team con gli altri docenti, i professionisti del settore psico-educativo, i genitori e tutte le figure che, a vario titolo, si prendono cura degli alunni anche attraverso la codocenza e il lavoro in gruppi aperti. Sarà poi in grado di creare un clima positivo nella classe, grazie al quale nessuno si senta escluso o discriminato, di consentire agli studenti lo sviluppo di competenze cognitivo-emotive, metacognitive, relazionali e sociali che permettano la costruzione di percorsi partecipati, individualizzati e personalizzati sulla base delle specifiche esigenze di ciascun alunno. DIDATTICA COOPERATIVA E DIDATTICA METACOGNITIVA: CARATTERISTICHE E PECULIARITÀ . La didattica metacognitiva è un modo di fare scuola che utilizza deliberatamente e sistematicamente i vari concetti e le metodologie derivati dagli studi sulla metacognizione. L’insegnante che opera in modo metacognitivo interviene a quattro livelli diversi, che rappresentano altrettante dimensioni ben distinte della metacognizione. Il primo livello riguarda le conoscenze sul funzionamento cognitivo in generale. Questo primo livello metacognitivo include una serie di conoscenze, notizie e dati su come funziona la mente umana, per quanto è possibile attualmente saperlo. L’insegnante fornisce all’alunno informazioni generali, organizzate in una sorta di «teoria della mente», rispetto ai vari processi cognitivi e risolutivi (come funziona la memoria, la soluzione di problemi, lo scrivere, ecc.), sui meccanismi che li rendono possibili, sui limiti che necessariamente condizionano le prestazioni mentali e sui fenomeni tipici più frequenti. Il secondo livello riguarda l’autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo. A questo secondo livello si deve parlare di introspezione, autoanalisi e autoconsapevolezza di «cosa e come sto pensando, valutando, ricordando», ecc. Dalle conoscenze teoriche generali si passa a quelle più strettamente individuali, e cioè al conoscere da parte dell’alunno stesso il funzionamento dei propri processi cognitivi e comportamentali, rendendosi conto dei rispettivi punti di forza e deficit. Il terzo livello riguarda l’uso di strategie di autoregolazione cognitiva. A questo livello metacognitivo l’alunno dirige consapevolmente e attivamente sé stesso, in particolare governa lo svolgersi dei propri processi cognitivi. Il quarto livello riguarda le variabili psicologiche di mediazione. L’allievo sviluppa, anche se forse in modo solo parzialmente consapevole, una «immagine di sé come persona in grado (più o meno) di imparare», immagine che entra in rapporto con le caratteristiche più profonde della sua generale immagine e valutazione di sé. L’apprendimento cooperativo (AC) è un metodo di insegnamento/apprendimento sviluppato negli anni Settanta del secolo scorso, di cui si sono in seguito evolute varie forme. Si può definire l’AC come un metodo di insegnamento/ apprendimento che utilizza i piccoli gruppi, grazie ai quali è possibile sia apprendere che migliorare le relazioni sociali. L’idea principale alla base del metodo è che il gruppo è un insieme di risorse, intese sia come conoscenze che come competenze, e gli allievi non sono considerati come «contenitori da riempire» di nozioni o abilità, ma come risorse da attivare, per cui l’insegnamento/apprendimento è un processo non di trasmissione dall’insegnante agli alunni ma di partecipazione e scambio tra tutte le persone coinvolte. IL DOCENTE È CHIAMATO A OTTEMPERARE AL DELICATO ADEMPIMENTO DEL POTENZIAMENTO DELLA METACOGNIZIONE CHE SOPRAGGIUNGE, SECONDO LA TEORIA DI PIAGET, AL IV STADIO DELLA TEORIA DELLO SVILUPPO COGNITIVO. IL CANDIDATO NE ILLUSTRI LE MOTIVAZIONI SOCIO-PSICO-PEDAGOGICHE. Nel IV stadio di sviluppo cognitivo, definito da Piaget stadio delle operazioni formali (dai 12 anni in poi), il pensiero opera su ricordi, immagini mentali, idee e concetti astratti impiegando capacità logiche e critiche, ragionamento per ipotesi e procedimenti deduttivi. In questa fase, compito dell’insegnante è quello di potenziare la capacità dell’alunno di compiere «operazioni su operazioni», promuovendo la dimensione metacognitiva dell’apprendimento, che è fondamentale sia per l’affinamento di competenze trasversali (es. attenzione, memoria, metodo di studio), sia per l’apprendimento di abilità più prettamente curricolari (es. lettura, comprensione del testo, matematica e scrittura). A tal fine, è necessario impostare una didattica capace di offrire agli allievi l’opportunità di ricostruire e riflettere sui propri processi cognitivi per divenire sempre più capaci di gestirli autonomamente anche in situazioni nuove. È possibile delineare quattro livelli caratterizzanti la didattica metacognitiva sui quali gli insegnanti possono operare: 1. conoscenze sul funzionamento cognitivo generale. L’allievo comprende come funzionano la memoria, la percezione, l’attenzione, la soluzione di problemi, la lettura e quali strategie possono essere di aiuto per supportare questi processi cognitivi; 2. autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo (automonitoraggio). L’allievo capisce come funziona la sua mente, riconosce quali sono i suoi punti di forza e debolezza e il suo stile di apprendimento; 3. uso di strategie di autoregolazione cognitiva (autodirezione). L’alunno impara a riconoscere il tipo di compito con le relative richieste in termini di attività cognitive necessarie e dirige consapevolmente e attivamente se stesso, mettendo in atto le strategie adeguate; 4. variabili psicologiche di mediazione. L’alunno comprende che dimensioni psicologiche quali stili di attribuzione, senso di autoefficacia, autostima e motivazione impattano fortemente sull’immagine che egli sviluppa di sé 77 106 TFA – SOSTEGNO – PROVA SCRITTA come persona in grado di apprendere. A questo livello è importante che il docente lavori affinché l’alunno sviluppi una forte motivazione intrinseca, acquisisca una visione incrementale dell’intelligenza, attribuisca i suoi successi all’impegno personale e allo sforzo organizzativo investito nel compito, non abbia paura dell’insuccesso perché consapevole che l’errore è utile all’apprendimento. IL CANDIDATO INDICHI COSA SI INTENDE PER STRUMENTI COMPENSATIVI E NE FORNISCA QUALCHE ESEMPIO. La normativa riguardante i Disturbi Specifici dell’Apprendimento e i Bisogni Educativi Speciali definisce come sia importante prevedere, per questa categoria di studenti, tra le altre cose, l’utilizzo di strumenti compensativi. Con questo termine si intende strumenti che permettano il raggiungimento degli obiettivi didattici della classe attraverso un supporto per quelle abilità che sono rese deficitarie dal disturbo o dalla difficoltà presente. È anche importante ricordare che la normativa vigente identifica una differenza sostanziale tra le due categorie di difficoltà (DSA e BES): diversamente da quanto accade con gli alunni con DSA o con altro disturbo diagnosticato, l’utilizzo di strumenti compensativi e misure dispensative con gli altri alunni con Bisogni Educativi Speciali deve avere carattere temporaneo. Non è sufficiente permettere l’utilizzo di uno strumento compensativo: la scuola deve assicurarsi che questo possa avvenire con efficacia ed efficienza. Il DM 5669/2011 e le Linee guida chiariscono che «le Istituzioni scolastiche devono assicurare l’impiego degli opportuni strumenti compensativi, curando particolarmente l’acquisizione, da parte dell’alunno e dello studente con DSA, delle competenze per un efficiente utilizzo degli stessi». Uno strumento compensativo molto conosciuto e utilizzato dai ragazzi con disturbo specifico della lettura è la sintesi vocale. La sintesi vocale permette la lettura di testi digitali come i libri scolastici e le produzioni personali scritte con i tradizionali editor. I software di gestione hanno in genere anche un loro ambiente di scrittura e delle funzionalità aggiuntive alla gestione della sintesi (traduttore, correttore ortografico, dizionario, calcolatrice parlante, ecc.); il riascolto dei propri scritti con la sintesi vocale torna utile anche per rilevare errori ortografici e di sintassi. Per utilizzare in modo proficuo la sintesi vocale è importate, innanzitutto, che lo studente ne conosca le funzioni e sappia individuare quelle più utili per lui (ad esempio la velocità di lettura). Inoltre, è anche fondamentale che gli insegnanti sostengano lo studente nello sviluppo di un processo di lettura che non è più autonomo, ma è «da ascolto». Ascoltare un testo letto è molto diverso da leggerlo in autonomia, per cui lo studente deve familiarizzare con questo nuovo modo di lettura e trovare tutti quegli accorgimenti che gli permettano di utilizzare questa lettura per i diversi fini scolastici e non. IL CANDIDATO INDICHI DUE STRUMENTI COMPENSATIVI UTILIZZABILI NEL CASO DI DISCALCULIA . La Legge 170/2010 prevede che studenti con un Disturbo Specifico di Apprendimento, quale è anche la discalculia, possano usufruire di strumenti compensativi per poter raggiungere gli obiettivi didattici della classe di appartenenza. Quando ci si trova di fronte alla scelta rispetto a quale strumento compensativo possa essere utile a uno studente, è bene tenere in considerazione il suo profilo di punti di forza e di debolezza. Infatti, è noto che c’è molta variabilità nell’espressività della discalculia evolutiva, per cui gli studenti possono avere fragilità anche molto differenti gli uni dagli altri. Partendo da quest’analisi del profilo, è bene capire quali abilità abbiano maggior margine di sviluppo e come poterne sostenere il miglioramento. Parallelamente, però, è importante individuare quali fragilità invece andrebbero a ostacolare il raggiungimento di un obiettivo didattico, se non fossero compensate attraverso uno strumento. È all’interno di questo ragionamento che sarebbe bene avvenisse la scelta degli strumenti compensativi per ogni singolo alunno. Parlando di discalculia evolutiva, si possono prendere ad esempio due strumenti: la calcolatrice e la tavola pitagorica. La calcolatrice è uno strumento che può compensare delle difficoltà nel calcolo, con l’obiettivo di permettere all’alunno di poter eseguire esercizi e acquisire nuove competenze senza essere bloccato dalle difficoltà nell’esecuzione dei calcoli. In queste situazioni l’obiettivo didattico, quindi, non è unicamente il calcolo, ma diventa l’acquisizione di procedure, oppure la risoluzione di un problema, ecc. Questo strumento, come gli altri, andrebbe debitamente accompagnato; infatti, è importante assicurarsi che il bambino sappia digitare correttamente i numeri nella tastiera e sappia anche capire se il risultato che ottiene è verosimile o meno. Un altro strumento compensativo spesso utilizzato è la tavola pitagorica. Questo strumento permette di sostenere l’apprendimento di quegli alunni che faticano ad automatizzare i fatti numerici e le tabelline. Qualora questi studenti non potessero usufruire di questo strumento, si troverebbero in grandi difficoltà nell’eseguire, ad esempio, divisioni e moltiplicazioni, perché sarebbero costretti a utilizzare tutte le loro risorse cognitive per arrivare al risultato corretto della tabellina, non avendo più grandi energie per ricordare la procedura da eseguire e per ricordare i risultati parziali. Gli strumenti compensativi, quindi, dovrebbero sostenere lo studente nel raggiungere gli obiettivi didattici della classe, permettendogli di non essere bloccato o troppo affaticato dal Disturbo Specifico di Apprendimento. SECONDO ALBERT BANDURA, LA MOTIVAZIONE A REALIZZARE LE PROPRIE COMPETENZE PUÒ ESSERE FAVORITA DALL’AMBIENTE. IL CANDIDATO ILLUSTRI SINTETICAMENTE IL CONCETTO DI MOTIVAZIONE, E IN MODO CRITICO-RIFLESSIVO TALE AFFERMAZIONE. La motivazione è una spinta che ci porta a cercare di raggiungere un determinato obiettivo scolastico ed extra-scolastico. È un costrutto molto complesso: sono infatti tanti gli elementi che concorrono a sostenere o a ostacolare la nostra motivazione rispetto a uno scopo. Per citarne alcuni, possiamo considerare l’importanza che ha per noi l’obiettivo, il livello di difficoltà di quello che dovremmo fare, le nostre convinzioni circa la nostra possibilità di riuscita e tanti altri elementi. Un aspetto sicuramente da considerare è la percezione dell’autoefficacia. Il senso di autoefficacia, che è stato ampiamente studiato da Albert Bandura, è una variabile di importanza cruciale nell’influenzare, in senso positivo o negativo, la capacità di autoregolare il proprio apprendimento e la propria motivazione. Gli studenti con alto senso di efficacia personale intraprendono volentieri compiti difficili e sviluppano uno spiccato interesse nei riguardi delle attività scolastiche. Grazie al coinvolgimento e all’investimento personale in ciò che fanno, una volta raggiunti gli obiettivi prefissati, sperimentano una maggiore soddisfazione che rafforza ulteriormente il loro senso di efficacia. A parità di abilità, gli studenti con elevata autoefficacia adottano strategie più adeguate nella risoluzione dei problemi, affrontano le difficoltà con minore esitazione, raggiungono migliori risultati scolastici rispetto ai loro compagni con un grado di efficacia più basso. Il senso personale di autoefficacia è costituito dall’interazione di un’infinità di fattori, ma risente molto dell’atteggiamento dell’insegnante. Un insegnante che trasmette «fiducia» crede profondamente nelle risorse dell’alunno e le valorizza, dando loro credito. Il senso di autoefficacia dipende anche dai vari tentativi di persuasione operati da modelli adulti con vari gradi di credibilità, forza psicologica e capacità di attrazione rispetto alle tendenze di identificazione operanti in quel momento nel bambino, e dalla percezione di altri alunni con alti o bassi livelli di autoefficacia. È essenziale anche una programmazione didattica «basata sul successo», che sia concretamente in grado di garantire all’alunno esperienze vere di efficacia, su cui gli sia possibile rimodellare le proprie percezioni personali. DEFINIZIONE, UTILITÀ E AMBITI DI APPLICAZIONE DEL PROBLEM SOLVING. La capacità di risolvere un problema matematico è un’attività che richiede l’attivazione di diverse componenti cognitive e metacognitive. Uno dei modelli che mette in evidenza quali sono le abilità che permettono lo svolgimento di un compito di questo tipo è quello di Lucangeli, Tressoldi e Cendron. Questi ricercatori teorizzano che siano necessarie queste abilità cognitive per risolvere un problema matematico: – la comprensione del testo del problema sia da un punto di vista linguistico sia da un punto di vista matematico; – la rappresentazione dei dati, delle loro relazioni e della/e domanda/e; – la categorizzazione di un problema matematico rispetto a problemi con una struttura simile; – la pianificazione delle azioni da eseguire per arrivare alla soluzione; – le capacità di calcolo che permettono di risolvere le operazioni pianificate. Sarebbe poi auspicabile fossero attivate almeno due abilità metacognitive: la capacità di monitorare quanto si sta facendo e la capacità di autovalutare la sensatezza del risultato a cui si è giunti. Queste abilità non si susseguono in modo gerarchico, ma vengono utilizzate in un flusso continuo, in cui un’abilità sostiene l’altra. Quest’ambito dell’apprendimento permette anche di allenare il pensiero più divergente, in quanto le strade per risolvere un problema matematico sono solitamente varie. In questo modo il bambino può mettere in campo un pensiero più produttivo, e meno riproduttivo, e dare quindi maggiore spazio alla sua creatività. Perché questo avvenga, il problema matematico dovrebbe venire presentato non come un mero esercizio, ma come un’attività in cui si concede spazio ai diversi modi di ragionare, e in cui si fa riflettere sull’utilità di provare strade diverse per giungere poi a uno stesso risultato. Il dialogo con l’intera classe permette quindi di venire in contatto con modi di ragionare differenti, in cui si può più facilmente ampliare il bagaglio delle proprie strategie. Il problem solving può essere definito come un approccio educativo-didattico volto allo sviluppo di strategie e abilità di soluzione di problemi su tre piani diversi: psicologico, comportamentale e operativo. Nel problem solving la persona si trova di fronte a una situazione che, in molti aspetti e per varie caratteristiche, gli risulta nuova e non gestibile secondo le consuete modalità apprese e conosciute. Ciò che viene richiesto in queste situazioni, quindi, è di mettere in atto un vero e proprio «sforzo creativo» volto a individuare nuove strategie per affrontare al meglio la sfida. Le soluzioni possibili generalmente sono diverse in funzione di colui che risolve il problema. Da un punto di vista operativo, una modalità «tipo» di soluzione di un problema si snoda in varie fasi che seguono una precisa sequenzialità «passo dopo passo»; vediamole di seguito. – Problem finding: ci si accorge che c’è un problema da risolvere che richiede un’immediata soluzione. – Problem setting: si definiscono il problema e l’obiettivo da raggiungere, ci si chiede: «Dove sta l’ostacolo al mio modo di agire consueto e abituale?». – Brainstorming: si definisce un’ampia gamma di possibili ipotesi di soluzione, anche quelle mai tentate in precedenza, cercando di attivare al massimo la creatività e il pensiero divergente. – Decision making: dopo un’attenta valutazione dei punti di forza e di debolezza, della realizzabilità e delle possibilità di successo di ciascuna idea, si sceglie l’ipotesi di soluzione che si ritiene più efficace. – Decision taking: si applica concretamente e in maniera precisa l’ipotesi di soluzione prescelta, verificando poi con attenzione e in maniera obiettiva gli esiti. In caso positivo si continuerà ad applicare questa strategia di soluzione, altrimenti si ricomincerà da capo tutto il processo. Acquisire la capacità di individuare, posizionare e affrontare problemi di varia natura e tipologia permette all’alunno di sviluppare abilità metacognitive di controllo esecutivo del compito, quali l’automonitoraggio e l’autoregolazione. Una variante del problem solving «aperto» è il metodo della scoperta guidata, che pone gli allievi di fronte a una situazione problema che prevede un’unica soluzione. Nella ricerca della soluzione, l’intervento della guida può essere svolto sia dal docente che da compagni esperti, e può essere variamente modulato: si possono selezionare, ad esempio, solo determinati spazi problematici alleggerendo il carico su altri aspetti che vengono invece esplicitati. DEFINIZIONE, UTILITÀ E AMBITI DI APPLICAZIONE DEL BRAINSTORMING. Il brainstorming è un tipo di intervista di gruppo a basso grado di strutturazione, che trae ispirazione dalla pratica di conduzione aziendale di una riunione creativa proposta dal pubblicitario Alex Osborn negli anni Cinquanta. Il termine viene tradotto in italiano sia come «assalto mentale» (dal verbo to storm = assaltare + brain = cervello) che, più comunemente, come «tempesta di cervelli» (dal sostantivo storm = tempesta + brain = cervello). Il brainstorming prevede l’emergere delle idee del gruppo rispetto a un dato argomento attraverso il gioco creativo dell’associazione di idee, al fine di definire diverse possibili alternative per risolvere un problema. Oltre che in campo aziendale, tale metodo può trovare applicazione in diversi ambiti educativi/formativi e può essere utilizzato sia con minori che con adulti. Nel contesto scolastico, in particolare, il brainstorming si caratterizza come attività collaborativa e inclusiva finalizzata ad attivare le conoscenze pregresse degli allievi o a generare nuove idee, stimolando la partecipazione, il coinvolgimento e la co- costruzione del processo di conoscenza attraverso il contributo di tutti. Operativamente il metodo si compone di due fasi: – nella prima fase viene stimolato il pensiero divergente e si privilegia la quantità; tutti i membri del gruppo esprimono liberamente le idee riferite al tema indicato, accogliendo qualsiasi proposta senza avanzare critiche. Anche idee apparentemente bizzarre o improduttive, infatti, possono stimolarne di utili ed efficaci e questo aspetto contribuisce a ridurre l’inibizione e la paura del giudizio dei partecipanti. L’ordine degli interventi non è sequenziale o determinato a priori e ognuno può prendere la parola quando lo ritiene opportuno. Può essere utile designare un segretario (es. l’insegnante stesso o un alunno) che si occupi della raccolta delle proposte, riportandole man mano su supporti quali cartelloni, post-it, lavagne a fogli mobili o LIM. – nella seconda fase si attiva il pensiero convergente e si presta attenzione alla qualità: le idee accumulate vengono analizzate criticamente, valutate e selezionate per individuare quelle più interessanti, adeguate e/o efficaci per rispondere al problema presentato. Durante tutto il processo il conduttore (docente) riveste una funzione fondamentale: egli, infatti, deve conoscere bene il problema da sottoporre, spiegare ai partecipanti le regole inerenti questa tecnica, stimolarne l’interesse e porsi con un atteggiamento incoraggiante di attesa fiduciosa. L’APPRENDIMENTO COOPERATIVO: ORGANIZZAZIONE DEI GRUPPI E DELLE ATTIVITÀ . L’organizzazione dei gruppi cooperativi e delle attività specifiche risulta fondamentale per realizzare dei validi percorsi di cooperative learning che, in primo luogo, riescano a favorire l’interdipendenza positiva tra alunni, la responsabilità individuale e di gruppo, l’interazione costruttiva, lo sviluppo o il consolidamento di abilità necessarie per instaurare rapporti interpersonali e la valutazione di gruppo. Il ruolo del docente risulta fondamentale nell’organizzazione del lavoro dei gruppi cooperativi, nella promozione di positive relazioni sociali e nel favorire l’equità della partecipazione: inizialmente sarà molto presente per pianificare le azioni fondamentali ma progressivamente lascerà sempre più spazio all’azione degli studenti, monitorando costantemente i processi, intervenendo — se necessario — per fornire supporti diversi ai singoli ed al gruppo, verificando le modalità operative e valutando gli obiettivi raggiunti. L’insegnante dovrà dunque essere in grado di prendere delle fondamentali decisioni preliminari per organizzare adeguatamente il lavoro, chiarire le aspettative riguardo al lavoro dei singoli e dei gruppi, insegnare agli alunni come reperire il materiale necessario, come svolgere adeguatamente la consegna, come aiutare i compagni in difficoltà o superare i conflitti quando emergono, evidenziando e valorizzando costantemente i comportamenti positivi o orientando gli studenti verso comportamenti alternativi e più adeguati quando necessario. Favorirà in questo modo un contesto di fiducia, rispetto e sostegno reciproco di interazione promozionale, una leadership distribuita e una valutazione finale sia individuale che di gruppo. Per organizzare adeguatamente i gruppi di lavoro cooperativo (formali, informali e di base), il docente dovrà essere capace di sono: – stimolare l’attenzione per favorire la ricezione dello stimolo; – informare gli studenti degli obiettivi stabiliti, in modo da creare aspettative adeguate; – stimolare la memoria delle conoscenze pregresse; – fornire uno stimolo e assicurare una percezione selettiva; – guidare l’apprendimento attraverso una codifica semantica appropriata; – promuovere la pratica e la generazione di risposte; – fornire feedback; – valutare le prestazioni; – far svolgere attività diversificate in modo da promuovere il transfer e favorire futuri recuperi della conoscenza. IL CANDIDATO DESCRIVA CHE COS’È L’INSTRUCTIONAL DESIGN E QUALI SONO LE SUE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI. L’Instructional Design (ID) si configura come quel campo di indagine che si occupa di definire le regole che presiedono alla scelta dei metodi d’istruzione più adeguati tenendo conto delle condizioni e delle diverse tipologie di apprendimenti. Reigeluth, uno dei maggiori studiosi di ID, ha prodotto un’attenta e articolata riflessione volta a chiarire quale sia l’ambito specifico dell’ID, soffermandosi in particolare sullo statuto epistemologico delle teorie ID. Vediamo alcuni punti di questa riflessione. 1. L’ID si profila come un corpo di teorie accomunate dal tratto caratteristico di offrire indicazioni, più o meno generali, su come facilitare l’apprendimento e lo sviluppo cognitivo, emozionale, sociale e fisico delle persone. 2. Una teoria ID è design-oriented, si focalizza cioè sui modi attraverso i quali raggiungere certi risultati in termini di apprendimento. Ha dunque un carattere eminentemente prescrittivo, in quanto non si occupa di descrivere le relazioni causa-effetto tra eventi, bensì di indicare come conseguire certi risultati. 3. Una teoria ID non è vera o falsa, ma più o meno preferibile, implica cioè una scelta, una decisione tra possibili modalità d’intervento, soddisfacendo così non tanto criteri di validità, quanto criteri di preferibilità. 4. Una teoria ID si occupa però di definire i metodi per facilitare l’apprendimento e indicare quando (ossia, le situazioni in cui) è preferibile usarli o non usarli. I metodi hanno dunque carattere situazionale e non universale, cioè funzionano in certe situazioni e non in altre: la situazione (gli aspetti del contesto) influenza la scelta del metodo e ne condiziona l’applicabilità. 5. I metodi ID hanno carattere probabilistico, ossia non garantiscono che l’applicazione di un adeguato metodo in una certa situazione conduca automaticamente o deterministicamente al risultato auspicato, ma ci indica che con un buon grado di probabilità. data una certa situazione. il metodo funziona. 6. In qualsiasi situazione di istruzione, gli aspetti significativi sono riconducibili a due macrocategorie: le condizioni di istruzione (ad esempio la natura di ciò che deve essere appreso, le caratteristiche dello studente come le sue conoscenze pregresse, i suoi stili, le sue motivazioni e interessi, le caratteristiche dell’ambiente, i vincoli organizzativi, ecc.) e i risultati auspicati (livelli di efficacia, efficienza costi/tempo, attrazione per lo studente). APPRENDIMENTO SITUATO E COMUNITÀ DI PRATICA: CARATTERISTICHE E PRINCIPI FONDAMENTALI. Il concetto di apprendimento situato, i cui studiosi di spicco sono Lave e Wenger, fa parte dell’orientamento proprio del costruttivismo sociale. Esso fa riferimento a un tipo di apprendimento che non si configura come una pratica individuale e svincolata dalle dinamiche e dal contesto di appartenenza, ma piuttosto risulta di fondamentale importanza, nella produzione di significato, il coinvolgimento in attività, il rapporto e il confronto con il contesto e le persone, e, quindi, con la dimensione esperienziale e sociale dell’apprendimento, che viene così a configurarsi come un processo complesso fatto di attori, azioni e situazioni. L’apprendimento autentico è quindi sempre situato e non può esistere apprendimento astratto da una situazione. Lo scopo degli studi di questo filone di ricerca è quindi quello di costruire contesti e ambienti di apprendimento in cui le persone siano messe nelle condizioni migliori per apprendere, secondo le modalità più naturali e vicine quindi alla quotidianità della vita reale. Lave e Wenger individuano alcuni principi fondamentali dell’apprendimento situato: – si verifica in funzione dell’attività, del contesto e della cultura in cui è situato; – richiede interazione sociale, collaborazione e attivazione di contesti autentici; – è facilitato quando sono disponibili opportunità di scaffolding. Per apprendere, quindi, è necessario appartenere a una comunità, essere coinvolti e partecipare attivamente a una comunità di pratica (scuola, lavoro, casa, ambiti degli interessi sociali e personali, ecc.), dove il novizio interagisce con gli altri membri spostandosi dalla «periferia» verso il «centro» di un cerchio che raffigura simbolicamente il suo diventare esperto. Si tratta di quella che gli autori hanno definito come partecipazione periferica legittimata, ossia il novizio che si trova ancora ai «margini» della comunità deve essere progressivamente coinvolto nelle pratiche autentiche di apprendimento svolte dagli esperti; pur mantenendo quindi un ruolo ancora «periferico», è comunque «legittimato» come membro vero di quella comunità. La volontà di imparare e il significato stesso di apprendimento autentico si sviluppano quindi progressivamente attraverso il diventare un partecipante «a tempo pieno» di una pratica socioculturale, di una comunità che è continuamente definita e negoziata da tutti i suoi membri in un mutuo coinvolgimento e condivisione di risorse/scopi comuni. CHE COS’È LA TASK ANALYSIS (ANALISI DEL COMPITO)? La task analysis (analisi del compito) è un insieme di metodi che consente di scomporre in sotto-obiettivi più semplici e accessibili un compito-obiettivo inizialmente troppo complesso per essere proposto nella sua totalità, anche con le opportune facilitazioni. Una metodologia di task analysis, in genere la prima che si utilizza, va sotto il nome di «descrizione del compito», come l’identificazione e la descrizione sistematica di tutti i movimenti e le risposte che compongono le sequenze ottimali dell’esecuzione efficace ed efficiente di un compito. Questa elencazione dei singoli comportamenti motori, verbali o cognitivi, deve rispettare esattamente la sequenza temporale in cui devono essere inseriti. Con questa metodologia descrittiva un compito può essere scomposto in unità di risposta abbastanza ampie oppure in microunità, non ulteriormente riducibili in modo semplice. Tale definizione molto dettagliata si esegue su obiettivi particolarmente difficili, che hanno un grande rischio di errore, e che perciò devono essere analizzati in modo molto accurato, al fine di trarne indicazioni utili per la valutazione iniziale della performance dell’alunno e per la successiva programmazione dell’insegnamento. In questa descrizione vengono individuati i processi decisionali che il soggetto dovrebbe consapevolmente eseguire per scegliere fra l’esecuzione dei diversi comportamenti possibili. In questo modo, una descrizione completa del compito comprenderà le risposte del soggetto, gli indizi percettivi discriminativi e i processi decisionali: tale sequenza può servire come base per una valutazione specifica dei livelli di abilità, come contenuto per una serie di auto-istruzioni o strategie autoregolative metacognitive o per l’impiego di altre tecniche di aiuto (prompting) verbale. A questo punto è possibile introdurre una seconda metodologia di task analysis, ovvero l’individuazione delle abilità componenti e prerequisite al compito che, nel livello precedentemente illustrato, è stata descritta in senso sequenziale. Si cerca cioè di identificare le varie abilità il cui possesso sia un requisito indispensabile per l’esecuzione del compito (abilità componenti) e per il suo apprendimento iniziale (abilità prerequisite). Sia nel caso della descrizione che in quello della scomposizione di un compito complesso nelle sue abilità componenti e prerequisite, l’insegnante sta definendo una serie di sotto-obiettivi sequenziali, per facilitare con un percorso molto graduale in termini di difficoltà l’apprendimento dell’alunno. QUALI SONO LE FASI E LE PRINCIPALI STRATEGIE DI AUTOREGOLAZIONE COGNITIVA? Autoregolare un proprio processo cognitivo significa attivare le seguenti fasi: 1. fissarsi un chiaro obiettivo di funzionalità ottimale del processo stesso, in termini sia di risultati, sia di modalità di svolgimento; 2. darsi delle istruzioni, suggerimenti o aiuti per svolgere concretamente le operazioni tipiche del processo stesso; 3. osservare l’andamento del processo stesso, raccogliere dati sui risultati prodotti e renderli disponibili per una successiva valutazione; 4. confrontare questi dati prodotti con gli obiettivi e gli standard che precedentemente si erano fissati (fase 1); 5. valutare come positivo lo svolgimento delle varie operazioni richieste se il confronto ha dato esiti positivi e, dunque, perseverare nelle operazioni intraprese, oppure, nel caso contrario, valutare come negativo e insoddisfacente il proprio operato e attivare correzioni appropriate e modifiche alle strategie in corso. L’alunno deve gestire attivamente una continua dialettica fra i processi di auto-osservazione, autodirezione e autovalutazione. Questi processi di autocontrollo non sono sempre evidenti e consapevoli all’alunno. È quindi proprio importante cercare di far «uscire allo scoperto» i processi di autoregolazione, rendendoli consapevoli nel loro svolgimento e nella loro funzione rispetto alle prestazioni e nell’insegnare all’alunno modalità sempre più attive ed efficaci di controllo consapevole dei processi cognitivi. L’alunno dovrebbe quindi applicare le sue conoscenze, sia teoriche generali che personali e introspettive, nell’autoregolarsi efficacemente durante lo svolgimento di un compito concreto di apprendimento, memorizzazione, problem solving o altro. Le conoscenze più utili a questo proposito riguardano il riconoscimento del tipo di compito con le relative richieste in termini di attività cognitive necessarie, lo svolgimento tipico delle attività cognitive con i limiti loro propri e le strategie che si possono utilizzare per regolare al meglio queste attività. CHE COSA SI INTENDE CON L’ESPRESSIONE «CLIMA DI CLASSE»? Il clima di una classe può essere definito come l’insieme degli atteggiamenti, dei comportamenti e delle relazioni che si instaurano in quel contesto. Esso rappresenta, in pratica, il terreno di base sul quale si muove e vive il sistema-classe, sia per quanto riguarda le componenti emotive, relazionali e sociali, sia per ciò che concerne gli aspetti cognitivi, didattici e disciplinari. Se ciascun alunno «non è solo in classe», è pur vero che il fatto di trovarsi a stretto contatto e di condividere lo spazio dell’aula con altri coetanei o con gli insegnanti non rappresenta di per sé una garanzia di un clima efficace e funzionale all’inclusione. È necessario che ciascuno studente si senta a proprio agio in classe, che sia consapevole di trovarsi in un percorso condiviso nel quale è messo nella condizione di esprimere al meglio le proprie abilità e di potenziarle insieme ai propri compagni. Tali risultati sono il frutto di un clima positivo e inclusivo che valorizza, piuttosto che mettere in evidenza e rimarcare i punti critici, che concede fiducia a tutti e che rende ciascuno partecipe dei processi progettuali, decisionali e operativi che caratterizzano la vita stessa della classe. Purtroppo, non è sempre così. A volte sopravvivono ancora situazioni in cui il clima di classe è prevalentemente individualistico e competitivo; ciascun alunno è centrato sul proprio lavoro, che deve risultare indipendente e migliore sia per ciò che riguarda i processi che i prodotti, rispetto a quello degli altri. Per attivare in maniera efficace la risorsa-altri, invece, è necessario un clima completamente diverso, in cui si possa scegliere, decidere, comunicare liberamente e collaborare. Un clima nel quale gli studenti non siano isolati in un percorso che li vede lontani dagli altri o, peggio, messi contro di loro, ma che li porti piuttosto a essere parte attiva di un cammino didattico ed emotivo-affettivo comune. Il clima democratico e cooperativo è quello che consente la migliore attivazione della risorsa rappresentata da ciascun attore del contesto scolastico, perché stimola i processi comunicativi, le relazioni e gli aiuti tra compagni di classe. Il lavoro viene progettato e svolto tenendo conto delle proposte degli stessi studenti, che vengono messi nella condizione di collaborare in vista di obiettivi cognitivi, didattici e sociali comuni. In tal modo, il successo di uno studente è legato, in un contesto di interdipendenza positiva, a quello degli stessi criteri di valutazione sono espliciti e molto spesso concordati con gli stessi alunni. FINALITA’, TECNICHE E STRUMENTI PER LA VALUTAZIONE DIAGNOSTICA, DIFFERENTI MOMENTI DELLA VALUTAZIONE SCOLASTICA. La valutazione indica la descrizione qualitativa e quantitativa dei comportamenti degli allievi, su cui si esprimono dei giudizi di valore che tengano conto delle condizioni ambientali in cui il processo educativo si esplica. Diversi sono i tipi di valutazione che si realizzano nella scuola, come pure diversi sono gli effetti sugli allievi: l’attribuzione di un voto può richiamare all’impegno o può rilevare una carenza, ma può anche essere percepito un segno di capacità e come premio che segue una prova positiva. La scuola dell’autonomia si è posta il problema della supervisione sistemica dell’apprendimento e della crescita educativa dell’alunno, sulla base della quale adeguare le opportunità di apprendimento e quelle educative. La valutazione ha una finalità educativa, che non si limita a controllare, misurazione, verificare, classificare gli alunni, ma ad aiutarli nel loro processo di maturazione. Per questo motivo una corretta valutazione deve rispondere a delle finalità chiare ed utilizzare dei mezzi adeguati a ciò che si sta valutando. Occorre che le modalità e lo strumento di “misura” impiegati, cioè le operazioni compiute e il metro di paragone usato per attribuire quel dato valore a quel preciso evento, siano resi espliciti e fondati su criteri autonomi rispetto ai metodi e agli strumenti di cui si serve la misurazione. Tale atto:  si basa sugli obiettivi prefissati e sul loro raggiungimento;  risponde ad una funzione sociale e formativa che fa riferimento ad elementi misurabili, che poi interpreta, collega, elabora, delinea ed esprime in tratti di personalità. Criteri utili per valutare  Criterio assoluto predeterminato e basato sul rendimento atteso di ciascun alunno, indipendentemente da qualsiasi altro fattore;  criterio individuale, che tiene conto dei livelli di partenza dell’alunno e dei progressi conseguiti;  criterio relativo, basato sul confronto tra la prestazione del singolo e quella della classe e delle classi tra loro. Il giudizio che viene emesso non consiste nella sommatoria dei dati scaturiti dalla misurazione, ma dalla loro interpretazione in base a criteri precedentemente stabiliti e agli scopi per i quali si misura e si valuta. Le fasi della valutatazione La valutazione si distingue in diverse fasi:  diagnostica;  formativa;  finale. La valutazione diagnostica è quella che si compie in una fase iniziale, quella formativa è della fase intermedia e la valutazione finale è quella sommativa del processo formativo. La valutazione iniziale delle prove d’ingresso permette di raccogliere informazioni su esigenze, difficoltà, possibilità di utilizzare materiali e strumenti idonei all’apprendimento degli allievi. La valutazione formativa consente di valutare il grado di acquisizione di conoscenze, competenze, capacità, in base alle quali predisporre eventuali strategie di recupero e correzioni in itinere del percorso didattico, sulla base di quanto emerge. La valutazione finale riflette l’efficacia del lavoro e serve anche a dare delle indicazioni per il futuro; la valutazione sommativa, espressa in decimi negli scrutini quadrimestrali e finali, verifica e valuta i risultati raggiunti dallo studente, avanza previsioni per il proseguimento degli studi. In ogni valutazione bisogna distinguere cosa si intende valutare, scegliere lo stimolo che provoca una risposta adeguata da parte dell’allievo, raccogliere tale risposta, confrontare la prestazione fornita e la risposta attesa e, infine, attribuire un valore al risultato raggiunto dall’alunno. Si possono raggruppare queste cinque fasi in tre momenti fondamentali: lo stimolo iniziale, che è costituito dalla domanda, dal compito, dal problema che si sottopone all’attenzione del discente; il secondo momento è costituito dalla risposta a questo stimolo; il terzo è il giudizio espresso dal docente attraverso voti, graduatorie, aggettivi, giudizi o profili, e che va socializzato. Il docente e le forme della valutazione Nel momento in cui valuta l’insegnante comunica il proprio modello di apprendimento all’allievo, che impara a conoscerlo. Egli, dunque, apprende ciò che pensa possa essere considerato più importante dal docente, adeguandosi al modo di studiare e di apprendere più apprezzato, perché è consapevole del fatto che è il docente a valutare. È compito dell’insegnante definire i criteri di verifica, curando che la valutazione sia corrispondente a ciò che è stato insegnato. Nell’ambito della ricerca docimologica bisogna individuare alcuni fattori psicologici ed emotivi che influenzano la valutazione del docente:  l’effetto alone, che è il condizionamento di valutazioni precedenti;  l’effetto contrasto, cioè il condizionamento di standard ideali di prestazioni;  l’effetto stereotipia, che è il condizionamento ad opinione generalizzata originaria;  l’effetto pigmalione, dovuto ad aspettative di prestazione. Per evitare il rischio di cadere in tali forme di valutazione, bisogna ricorrere alla valutazione analitica ed alla valutazione olistica. A ciascun docente, nel valutare, è richiesta:  corresponsabilità (nel team docente)  coerenza (con gli obiettivi e le attività programmate);  trasparenza (intesa come chiarezza, semplicità ed esplicitazione dei percorsi). Per ogni caratteristica tipologica delle abilità da rilevare e/o funzione valutativa o didattica da svolgere, è necessario impiegare uno strumento di accertamento delle competenze la cui struttura sia in un certo senso omologa a quella caratteristica e a quella specifica funzione. PROSPETTIVE INTERCULTURALI IN AMBITO FORMATIVO ED EDUCATIVO Educare alla comprensione dell’altro richiede un agire sui piani:  cognitivo, costituito dalla conoscenza e dalle informazioni sul mondo e sugli altri;  affettivo, centrato sull’attenzione alla relazione, alle interazioni, alla storia di tutti e di ciascuno. Le strategie didattiche da mettere in atto, dunque, dovranno perseguire gli obiettivi di entrambi i piani: o singolarmente o in maniera congiunta. In presenza di alunni stranieri classe (adottati da una famiglia italiana e non), i docenti dovranno dunque coinvolgere tutte le componenti scolastiche a vario titolo chiamate nel processo di inclusione di tali alunni, al fine di attivare prassi mirate a valorizzarne le specificità, a sostenerne l’inclusione e a favorirne il benessere scolastico. Tra l’altro essi:  proporranno attività per sensibilizzare le classi all’accoglienza e alla valorizzazione di ogni individualità;  manterranno in classe un atteggiamento equilibrato, evitando sia di sovraesporre gli studenti adottati sia di dimenticarne le specificità;  nell’ambito della libertà d’insegnamento attribuita alla funzione docente e della conseguente libertà di scelta dei libri di testo e dei contenuti didattici, porranno particolare attenzione ai modelli culturali in essi presentati;  nel trattare argomenti “sensibili” (quali la storia personale dell’alunno, la diversa cultura e religione, ecc.) informano preventivamente i genitori e adattano i contenuti alle specificità degli alunni presenti in classe; Possiamo definire la creatività come la capacità di inventare e scoprire, intuizione e originalità nell’ideare, capacità di sintesi e analisi, di strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze, interpretare in maniera insolita i dati della realtà. I primi studi formali sul pensiero creativo si fanno risalire attorno ai primi anni Venti, ma è evidente che l’interesse risale a moto tempo prima, dove il termine creatività era sostituito da altri concetti affini, che ancora oggi creano dibattito nel tentativo di dare una definizione univoca al costrutto. La creatività emerge dalla combinazione di distinti circuiti neurali, che governano le emozioni da un lato e i processi cognitivi dall’altro. Le prime ricerche sistematiche sulla creatività apparse nello scenario statunitense con non poco scalpore sembrano essere quelle di Guilford. Guilford, in alcuni dei suoi esperimenti, aveva notato una correlazione positiva tra buoni livelli di creatività e alte prestazioni scolastiche, decidendo così di approfondire questo tema inesplorato. Guilford sosteneva che la persona creativa fosse una persona capace di produrre idee nuove che potevano essere testate in termini di frequenza di risposte non comuni, ma accettabili; ha sottolineato l’originalità dei comportamenti non comuni come espressione della creatività. Più tardi Dewey definirà la creatività come l’incontro dialettico tra contrasto e armonia. Fondamentale fu anche il contributo delle idee di Stein alla definizione di creatività, che ancora oggi vengono riprese. Stein sosteneva che il lavoro creativo tendesse ad essere utile per alcuni gruppi, e quindi nella valutazione fosse coinvolto il giudizio sociale; l’idea creativa consisterebbe in una reintegrazione di materiali già esistenti o conoscenze pregresse con nuovi elementi. Quindi la definizione di creatività di Stein contempla l’idea di creatività come abilità che produce qualcosa di nuovo e utile. I primi studi sul pensiero creativo lo hanno definito nella relazione tra pensiero divergente e pensiero convergente. Il pensiero divergente è caratterizzato da una vasta gamma di associazioni o dalla capacità di condurre molte soluzioni di fronte a un problema, andando oltre la situazione di partenza e superando i limiti dei dati oggettivi; il pensiero convergente, al contrario, punta alla soluzione più rapida e sicura di fronte a un problema. Diversamente dagli orientamenti menzionati sopra, l’indagine dei processi creativi ha spesso portato altri indirizzi di ricerca a postulare una specificità del pensiero creativo a confronto con altre forme di attività mentale. A tal proposito, la teoria della Gestalt ha classicamente distinto fra il pensiero riproduttivo, che opera applicando «meccanicamente» procedure e associazioni precedentemente acquisite, e quello produttivo, capace di inventare soluzioni originali e di realizzare nuove strutture mentali grazie alla ricombinazione creativa degli elementi su cui opera. Tale paradigmatica distinzione sembra, in effetti, trovare conferma in alcune ricerche neuroscientifiche, da cui si evince come gli stati cerebrali che accompagnano la produzione di idee notevolmente originali siano diversi da quelli osservati durante la produzione di idee più convenzionali. Da un diverso punto di vista, la creatività è stata ricondotta, più che al pensiero come tale, soprattutto alla personalità e alle differenze individuali, anche se è emerso come non esista un tratto specifico della personalità che definisca la persona creativa, ma piuttosto si evidenziano più aspetti caratterizzanti come l’autonomia, l’anticonformismo, l’introversione, la curiosità e, infine, l’intelligenza globale del soggetto, benché non vi siano ricerche che lo confermino. La creatività in relazione a nuove ricerche può essere identificata, secondo Williams e Tuffanelli, in 8 fattori. In ambito cognitivo-intellettivo: pensiero fluido, pensiero flessibile, pensiero originale, pensiero elaborativo; in ambito emozionale: disponibilità ad assumersi dei rischi, complessità, curiosità, immaginazione. Il pensiero divergente è strettamente connesso all’atto creativo: secondo Guilford consiste nella capacità di produrre soluzioni alternative per una questione o un problema che non prevede un’unica risposta corretta. Il pensiero divergente ha 3 caratteristiche: fluidità (abbondanza di idee prodotte), flessibilità (elasticità nel cambiare strategia passando da un compito all’altro), originalità (trovare soluzioni uniche e personali). Guilford individua però anche un pensiero convergente, cioè quello degli individui che convergono su una sola risposta accettabile ad un problema; è un ragionamento logico e razionale, sequenziale e deduttivo, basato su un’applicazione meccanica delle regole apprese e un’analisi metodica delle informazioni. Queste due forme di pensiero devono essere complementari. De Bono ha differenziato pensiero verticale, logico, selettivo e sequenziale, da quello laterale che consente invece di essere creativi e aiuta a risolvere i problemi usando metodi apparentemente illogici. Ci sono diverse tecniche di utilizzo del pensiero laterale, pensiamo a ricerca di alternative, entrata casuale (generare nuove idee da input casuali), la provocazione (produrre idee folli, assurde, illogiche). De Bono in Sei Cappelli Per Pensare parla di una tecnica metacognitiva che si può applicare anche per sviluppare la creatività, e serve a scorporare il flusso di pensieri ed esaminare la questione sotto diversi aspetti. PARLARE DEI VARI CAPPELLI. L’insegnante ha il compito di incoraggiare il pensiero divergente e può utilizzare diverse tecniche psico-pedagogiche per farlo: per es. problem solving, apprendimento cooperativo, mappe mentali, brainstorming. Risulta importante promuovere questo sviluppo in maniera trasversale agli ambiti di apprendimento, inserendo elementi legati all’empowerment della creatività sia all’interno dei percorsi formali che informali dell’apprendere. È fondamentale individuare temi caldi alla casse per promuovere percorsi volti a stimolare il pensiero creativo, modalità che possono essere poi estese in tutti gli ambiti di apprendimento e relazionali. Un tema centrale per l’alunno alla scuola secondaria di secondo grado è quello relativo al gruppo e le relazioni tra pari. Sentirsi parte di un gruppo o di un altro caratterizza le relazioni in questa fase d’età, ma proprio queste divisioni rendono spesso il clima in classe complesso per quanto riguarda l’accettazione delle diversità. La diversità è motivo di grande conflitto interiore per quanto riguarda l’accettazione di ciò che non è conforme, sia in se stessi che negli altri. Tale considerazione, ciò che è uguale o diverso, è il risultato di valutazioni basate su pregiudizi personali; tentare di scardinare queste assunzioni, spesso inflessibili e drastiche, risulta complesso. È l’implicazione della componente affettiva di questo particolare tipo di atteggiamento che rende l’individuo resistente al cambiamento del suo punto di vista. In aggiunta, la componente cognitiva porta la persona ad essere convinta dell’esattezza di tutte le informazioni che elabora. La creatività sembra fornire buoni spunti operativi per promuovere cambiamento e contatto, opponendosi alle rigidità sia affettive che cognitive che portano alla formazione e al mantenimento degli stereotipi. La maggior parte delle proposte operative ispirate da questo principio fa uso della narrazione e della metafora, le quali riescono ad accostare elementi in maniera inconsueta, per arrivare alla scoperta di nuovi significati e di nuove modalità di approcciare il mondo e la realtà. Un percorso basato su questi principi, che utilizza modalità creative (rappresentazioni grafico/pittoriche, narrazioni ed elaborazioni testuali), è presentato da Carmen Balsamo. Il percorso è composto da diverse attività: le prime — usando il codice visivo, metaforico, narrativo e poetico — verificano e promuovono la conoscenza reciproca e valorizzano le differenze di tutti, a partire dalle proprie caratteristiche e dal proprio percorso all’interno della scuola. Il secondo gruppo di attività permette di avvicinarsi, attraverso rappresentazioni grafiche e manufatti, a conflitti e vissuti complessi. Dopo aver chiesto ai ragazzi, divisi per genere, di rappresentare — con un manufatto, un disegno, un collage — il «proprio rospo» (qualcosa che della propria vita «proprio non è andato giù» e che, al momento attuale, ancora fa sentire a disagio) e spiegarlo con un breve testo, a cui sia l’autore che i compagni cercheranno di attribuire un titolo creativo, si cercherà di arrivare al riconoscimento del «proprio rospo», staccandosi dai sentimenti più forti, con maggiore consapevolezza e leggerezza. L’ultima parte del percorso si pone l’obiettivo di ritrovare e rendere visibili delle parti di sé inaspettate e contraddittorie, utilizzando la creatività anche corporea all’interno dell’interazione diadica tra compagni di classe. Questa esperienza ha lo scopo di aiutare il soggetto a vedere i propri punti di forza e di debolezza, di accettare il punto di vista dell’altro senza giudizio e di trovare nel confronto un’idea comune e nuova rispetto a sé e rispetto alla classe. In molte ricerche è stato messo in evidenza come la promozione della creatività in classe attraverso questi modelli abbia ricadute positive anche sull’apprendimento stimolando la partecipazione, la condivisione di conoscenze e lo scambio di idee. Il brain storming è una tecnica creativa di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un problema. Ogni partecipante propone liberamente soluzioni di ogni tipo (anche strampalate, paradossali o con poco senso apparente), senza che nessuna di esse venga minimamente censurata. La critica ed eventuale selezione interverrà solo in un secondo tempo, terminata la seduta di brainstorming. Per la buona riuscita del brainstorming, sono necessari due passaggi preliminari: 1. Stabilire l’argomento della discussione. Per arrivare alla soluzione, è fondamentale centrare l’obiettivo e immaginare come realizzarlo. la risoluzione del problema.; 2. Individuare e predisporre un soggetto che ricopra la figura del facilitatore. Che aiuti a fare sintesi e garantisca diritto di cittadinanza alle idee di tutti. Trattandosi di una riunione libera e volta a valutare proposte e idee di tutti coloro che ve ne prendono parte, non occorre invece predisporre una scaletta degli interventi a monte o a priori. Niente paletti, libertà di espressione. Purché non si trascenda e ci si dimentichi del vero motivo per cui ci si affida al brainstorming: risolvere un problema o comunque pianificare una strategia vincente. La sinettica indica la connessione tra idee e concetti che a prima vista non hanno niente a che fare tra di loro: potremmo prendere una penna e un mattone ed elaborare una teoria per la quale questi due elementi abbiano qualcosa in comune o un’utilità da svolgere insieme. Mappe mentali: quando una persona è stimolata da una parola o da un concetto, nel suo cervello si verifica una serie di operazioni che la portano a collegare la parola-stimolo con altri concetti e idee già presenti nella sua mente. La parola-stimolo funziona cioè come elemento scatenante per attivare una rete di connessioni. Si forma una vera e propria rete, una mappa di concetti e di idee che insieme rappresentano quello che per la persona significa la parola-stimolo Questo insieme strutturato di significato prende il nome di mappa mentale della persona in relazione alla parola stimolo. La mappa ci mostra subito i rapporti tra l’idea centrale e le altre che le ruotano attorno; i vantaggi delle mappe mentali sono diversi: – l’idea centrale emerge più nettamente fra le altre; – l’importanza relativa di ciascuna idea viene espressa visivamente: quelle essenziali sono più vicine al centro. I rapporti tra le idee sono immediatamente visibili attraverso i collegamenti che le uniscono. Rimane lo spazio per inserirne di nuove. Ogni mappa sarò diversa dalle altre sia nell’aspetto, sia nel contenuto e questo ne favorisce la memorizzazione e facilita la concentrazione. La percezione di un problema espressa in forma di mappa permette una migliore organizzazione dei pensieri e facilita quindi il processo creativo. Le mappe mentali (per le quali è raccomandato l’uso di colori, immagini, simboli) sono utili in tutte le attività riguardanti il pensiero, la memoria, lo sviluppo della creatività, offrono infatti un panorama di tutte le informazioni che ci servono per affrontare un problema. La Tecnica Scamper invece, è indicata per trovare idee innovative attraverso una serie di domande e verbi d’azione che ci permettano di risolvere i problemi in modo creativo. È stata ispirata dalla tecnica più generale del Brainstorming di Alex Osborn. Le azioni (le cui iniziali formano poi appunto l’acronimo Scamper) per designare le domande da rivolgerci, una volta formulata un’idea:  S: Substitute: sostituire (per esempio: che elemento della tua idea sostituiresti con un altro)  C: Combine: Combinare (per esempio; con quale altro elemento combineresti la tua idea)  A: Adapt: Adattare: (Per esempio: Come utilizzerebbero la tua idea in un altro luogo/paese/epoca)  M: Modify: Modificare: (Per esempio: Cosa posso modificare per avere un impatto migliore)  P: Put to other uses: Usi alternativi (per esempio; che utilizzo alternativo potrebbe avere)  E: Eliminate: Eliminare: (per esempio; elimina qualche opzione per renderla più realzzabile)  R: Rearrange: riformulare, trovare nuove ipotesi (per esempio cosa succederebbe se…) Nell’ambito scolastico le caratteristiche del pensiero divergente sono poco considerate, coltivate o anzi scoraggiate, fatta eccezione per poche attività. Le motivazioni sono varie, pensiamo a classi molto ampie, l’indirizzo della scuola (in un indirizzo scientifico, c’è sicuramente molto meno spazio per l’uso del pensiero divergente rispetto ad un indirizzo artistico in cui la creatività viene ricercata e coltivata). L’insegnante dovrebbe comunque incoraggiare il pensiero divergente: come sostiene Bruner, l’insegnante tende a ricompensare le risposte giuste e liquidare quelle sbagliate, e questo rende gli studenti riluttanti ad azzardare soluzioni nuove e originali per paura di cadere in errore. Ma lo sviluppo del pensiero convergente si basa proprio sulla prontezza ad assumersi quei “rischi conoscitivi” inscindibili dallo sforzo creativo. Ovviamente l’insegnante non deve trascurare l’accuratezza e la precisione ma deve anche lodare l’allievo per lo sforzo immaginativo: pensiero convergente e divergente quindi devono essere complementari. IL CANDIDATO ILLUSTRI LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEL PENSIERO CONVERGENTE E DEL PENSIERO DIVERGENTE. Il pensiero divergente è la capacità di produrre una serie di possibili soluzioni alternative a una data questione. Esso è strettamente correlato al pensiero creativo. Guilford ha studiato approfonditamente questo tipo di pensiero. Lo studioso riteneva che il pensiero divergente potesse essere misurato da quattro indici: – fluidità: parametro quantitativo che valuta la numerosità delle idee prodotte; – flessibilità: rappresenta la capacità di adottare strategie diverse e l’elasticità nel passare da un compito a un altro che richieda un approccio differente; – originalità: attitudine a formulare idee uniche e personali, differenti da quelle prodotte dalla maggioranza. – elaborazione: ovvero l’abilità di dare concretezza alle proprie idee. Guilford ha scritto anche di ciò che lui chiamava «pensiero convergente». Nel pensiero convergente si dice che gli individui convergono, invece che discostarsene, sull’unica risposta accettabile a un problema e producono efficacemente la soluzione. Il pensiero convergente è logico-analitico, indispensabile per applicare procedure precise. Quello divergente è creativo e multidirezionale, ci serve per guardare le cose da nuovi punti di vista e trovare nuove soluzioni. Sono molto importanti entrambi. Infatti, se uno, quello convergente, ci aiuta a concatenare logicamente gli elementi per applicare una strategia appresa di soluzione, l’altro ci permette di trovare nuove soluzioni e nuove idee che altrimenti non avremmo neanche preso in considerazione. In ambito educativo, Jerome Bruner ci invita a fare attenzione perché tendiamo a ricompensare solo le risposte «giuste» e a penalizzare quelle «sbagliate». Questo rende i bambini riluttanti ad azzardare soluzioni nuove o originali nella risoluzione di un problema, dato che le probabilità di sbagliare in questo caso diventano inevitabilmente maggiori. L’insegnante dovrebbe privilegiare un clima in cui venga sostenuto anche il pensiero divergente e la creatività piuttosto che uno dove sia valida solamente la risposta corretta. La creatività viene considerata importante in molti ambiti. Il candidato illustri come l’uso del pensiero divergente può configurarsi come attitudine che può essere appresa a scuola. L’approccio costruttivista ritiene che un vero e proprio apprendimento nasca dall’unione consapevole tra nuove informazioni in entrata e concetti già posseduti dal soggetto. La conoscenza è quindi costruita e non semplicemente registrata, per questo è interessante stimolare il pensiero creativo degli studenti che possono esprimersi e diventare protagonisti attivi del processo di apprendimento. Questo significa accettare e saper discutere le proposte creative degli alunni, che non arriveranno solo durante le ore di arte, ma anche durante un esperimento di scienze, di fronte a un quesito di storia o davanti all’elaborazione di un tema di italiano. Il creativo è colui che possiede la capacità di produrre modalità fluide e per sé insolite di affrontare i problemi e di organizzare i materiali. Il pensiero creativo, che ogni soggetto è in grado di elaborare, deve rispettare le tempistiche individuali ed è quindi compito dell’insegnante pensare a una didattica che preveda tali spazi. Le fasi dell’atto creativo, secondo Fontana, sono cinque: 1. la preparazione, nella quale viene identificato il problema o il tema, vengono esplorate le diverse possibilità ad esso collegate, arrivando in molti casi a un punto di arresto; 2. l’incubazione, in cui viene, per un periodo più o meno lungo, accantonato il problema e in cui il processo mentale rispetto alla sua soluzione continua a livello inconscio. In tale fase, la mente vaga liberamente nel bagaglio di esperienze e conoscenze che ciascuno ha accumulato, libera dai vincoli dettati dal pensiero logico e coerente; 3. l’ispirazione, in cui la possibile soluzione oppure un flusso di idee arriva improvvisamente alla coscienza; 4. la verifica, nella quale la soluzione viene messa alla prova e passata al vaglio critico; 5. l’implementazione, in cui l’atto creativo viene eseguito materialmente e praticamente. L’espressione di creatività del soggetto è favorita dai tempi della didattica, dalla predisposizione personale ma, allo stesso tempo, è influenzata dall’apprendimento formale di tale abilità. È fondamentale ricordare che un clima di classe sereno e accogliente favorisce, anche nell’alunno più timido e introverso, la condivisione delle proprie idee divergenti, che saranno poi successivamente valutate più o meno utili. Il materiale didattico, se pensato in modo troppo rigido e univoco, non potrà stimolare la produzione di idee diverse ce osì gli alunni si limiteranno a eseguire le istruzioni. Sarà l’insegnante a dover incoraggiare la produzione di una risposta diversa da quella convenzionale, il salto legato all’immaginazione e anche la disponibilità ad assumersi i rischi insiti in scelte particolari. Tra le fasi fondamentali del processo creativo ci sono la verifica e l’implementazione, grazie alle quali gli stessi studenti, valutando «sul campo» la bontà e l’efficacia delle loro idee, ricevono importanti informazioni di ritorno, utili anche per altre scelte creative future. Non si tratta, quindi, di lasciare semplicemente «briglia sciolta» per stimolare le scelte creative, ma è necessario costruire una organizzazione della classe nella quale gli alunni siano «responsabili» di gran parte del proprio lavoro. Attività come il brainstorming o il «il finale aperto», strategie che incoraggino l’esposizione possono stimolare il pensiero divergente. Sarà fondamentale però condividere in modo esplicito con la classe la modalità di lavoro e l’approccio, così che tutti si sentano sicuri di percorrere strade insolite. In questo modo i percorsi didattici sul pensiero divergente potranno risultare anche molto divertenti. IL PENSIERO DIVERGENTE È UN MODO DI VALUTARE LA REALTÀ CERCANDO DI ADOTTARE DIVERSI PUNTI DI VISTA E DI TROVARE SOLUZIONI ALTERNATIVE AI PROBLEMI. IL CANDIDATO ILLUSTRI QUALI SONO LE POSSIBILITÀ CHE LA SCUOLA HA DI CREARE UN PONTE TRA PENSIERO DIVERGENTE E METODOLOGIE DIDATTICHE. Le possibilità di creare un ponte tra pensiero divergente e metodologie didattiche dipendono in gran parte dalla percezione dei docenti sull’efficacia delle modalità didattiche che abitualmente utilizzano e, conseguentemente, dal grado di cambiamento che potrebbero introdurre nella loro pratica didattica quotidiana. Si tratta pertanto di promuovere la partecipazione degli allievi e dei loro punti di vista all’interno del processo di insegnamento-apprendimento, facendo fare un passo indietro al docente che, abitualmente, utilizza la lezione di tipo frontale ex cathedra. La didattica espositiva può suscitare il pensiero divergente solo se diventa interrogativa, compartecipata e se promuove la metacognizione. Per promuovere il pensiero divergente e la pluralità dei punti di vista a scuola i docenti devono tuttavia aprirsi a didattiche innovative rispetto a quelle tradizionali, che attivino maggiormente le risorse personali di ciascun allievo, i propri modi di pensare e di affrontare i problemi. La didattica laboratoriale e la didattica per competenze sono due modalità attive di apprendimento che perseguono tale scopo. In entrambe il soggetto agisce, inventa, ipotizza nuove strategie risolutive, produce qualcosa ex novo. L’attività laboratoriale consente di ripensare, a esperienze lontane ed eterogenee e contemporaneamente costruire, su quel pensiero, nuove esperienze. Nel laboratorio si costruisce il pensare per connessioni, il pensiero previsionale, il problem solving, il decisional making e, non ultima, la creatività. Nella didattica per competenze, da una situazione-problema iniziale gli studenti sono chiamati a giustificare gli scopi e gli scenari possibili, le motivazioni che li hanno portati a adottare determinate scelte. Nella secondaria di secondo grado, esclusi i laboratori disciplinari, viene utilizzata pochissimo tanto la didattica laboratoriale quanto quella per competenze. Si tratta quindi di prevedere risorse molteplici, organizzare tempi e spazi per poter provare tecniche e procedure, verificare ipotesi, sperimentare materiali e strumenti, ma anche soluzioni innovative. In questo clima ciascun alunno utilizzerebbe il proprio stile e modalità preferenziale di apprendimento, e tutti gli studenti riuscirebbero a esprimere le proprie potenzialità e produrre soluzioni personalizzate ai problemi proposti. IL CANDIDATO ILLUSTRI CON UN ESEMPIO CONCRETO UN’ATTIVITÀ CAPACE DI PROMUOVERE L’UTILIZZO DI MODALITÀ DI PENSIERO DIVERGENTE IN RELAZIONE A UN CONCRETO OBIETTIVO CONOSCITIVO DEL PROPRIO AMBITO DI INSEGNAMENTO (SCEGLIERNE UNO) NELLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO. Intelligenza emotiva ed empatia COS’E’ L’INTELLIGENZA EMOTIVA L’intelligenza emotiva è stata definita per la prima volta da Salovey e Mayer, come “abilità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e degli altri, distinguerle tra di loro e usare tali informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”. Goleman invece l’ha definita come “capacità di motivare sé stessi, di persistere nel perseguire un obbiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare”. Ne individua 5 caratteristiche: consapevolezza di sé (riconoscere le proprie emozioni), dominio di sé (usare le proprie emozioni pe uno scopo), motivazione (conoscere la motivazione che muove all’azione), empatia (saper ascoltare gli altri), abilità sociale (comprendere i movimenti che avvengono tra le persone). parte dal concetto di “competenza emotiva”, cioè “l’insieme di pratiche necessarie per l’autoefficienza dell’individuo nelle transazioni sociali che suscitano emozioni”. Secondo Goleman esistono due facce della competenza emotiva: quella personale (ci consente di controllare noi stessi attraverso la consapevolezza di sé, riconoscere le nostre emozioni, di individuare i nostri punti di forza e debolezza che permette di avere padronanza di sé e delle emozioni) e quella sociale (il modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri attraverso sentimenti ed empatia. L’empatia è la capacità di entrare in sintonia con gli altri, di ascoltare e comprendere i sentimenti altrui). Gardner parla invece di intelligenza interpersonale (relazionarsi positivamente con gli altri) e intrapersonale (rivolta a sé stessi, autovalutarsi, motivarsi, provare amore verso sé stessi). COS’E’ L’EMPATIA. L’empatia è definita come la capacità dell’essere umano di mettersi nei panni dell’altro. Questa metafora, diffusa nel gergo comune, indica la capacità del soggetto di decentrarsi dai propri bisogni e vissuti personali, di abbandonare giudizi e valutazioni, per vivere e condividere le esperienze emotive manifestate dal soggetto con il quale si trova in interazione. L’ascolto attivo e non giudicante è il comportamento necessario per favorire empatia. È importante sottolineare che il soggetto che ha maturato una buona abilità empatica è allo stesso tempo un individuo che ha chiari i confini tra Sé e l’altro; ciò che vive nella condivisione con l’altro, seppur sollecitando emozioni simili, non è confuso con la propria esperienza emotiva interna, è quindi sperimentato in termini di compartecipazione. Studi approfonditi sull’empatia hanno condotto nel panorama scientifico internazionale a sviluppare molteplici visioni di tale fenomeno, mettendo in rilievo numerosi autori e teorie che hanno osservato il fenomeno rilevandone aspetti diversi. Focalizzeremo la nostra attenzione soprattutto sul modello proposto da Hoffmann, che fu tra i primi studiosi sistematici dell’empatia, le cui teorie sono attualmente tra le più condivisibili e riconosciute e i cui studi sottolineano il carattere evolutivo del costrutto. Secondo Hoffmann, l’empatia è un costrutto multidimensionale che favorisce nelle interazioni «una risposta affettiva più consona alla situazione di un altro che non alla propria». L’autore sostiene che l’essere umano ha una predisposizione biologica al riconoscimento dei bisogni emotivi. Tale predisposizione biologica fu ipotizzata da Darwin nei primi studi sul riconoscimento delle espressioni facciali e confermata dalla scoperta e dalle ricerche di Rizzolatti sui neuroni specchio. Il modello di Hoffmann dà peso all’aspetto biologico ed evolutivo, ma non trascura di sottolineare l’influenza dello sviluppo cognitivo del soggetto nei processi di maturazione dei comportamenti empatici e prosociali. L’empatia sembrerebbe essere essenziale per favorire nel soggetto i comportamenti prosociali, i comportamenti di rispetto delle regole e i comportamenti altruistici, in definitiva uno sviluppo adeguato dell’empatia sembrerebbe favorire nei soggetti buone competenze sociali e promuovere la percezione di benessere sperimentata dal soggetto durante l’interazione. È stato messo in evidenza come lo sviluppo dell’empatia non solo riguardi la maturazione cognitiva del soggetto e la sua predisposizione biologica ma possa anche dipendere delle stimolazioni dell’ambiente in cui il soggetto è inserito (un contesto dove sono rinforzati positivamente comportamenti prosociali, dove si pone attenzione alla comunicazione emotiva e al riconoscimento dell’altro). RELAZIONE TRA EMPATIA E INTELLIGENZA EMOTIVA. I costrutti di intelligenza emotiva e di empatia hanno da sempre sollecitato il panorama scientifico al fine di implementare le ricerche per approfondire sul piano empirico la loro rilevanza e provando a elaborare una definizione univoca. Attualmente sono diversi i contributi ritenuti validi, anche se talvolta contrastanti, ma che hanno in comune l’enfasi posta sullo sviluppo e l’educabilità di intelligenza emotiva e dell’empatia. Si è concordi nel definire che buoni livelli di empatia e sufficiente intelligenza emotiva migliorino le relazioni sociali dell’individuo, favoriscano nel soggetto comportamenti adattativi in situazioni di stress e aumentino il benessere psicologico percepito dal soggetto. L’empatia è stata descritta come il processo di comprensione dell’esperienza soggettiva dell’altro caratterizzato da impegno, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. Lo studio dell’empatia ha abbracciato diverse discipline, dalle ricerche di Darwin sulle emozioni e sulla comunicazione mimica delle emozioni agli studi recenti della neurologia sui neuroni specchio di Rizzolatti, che confermano che l’empatia non nasce da uno sforzo intellettuale, ma è parte del corredo genetico della specie. L’intelligenza emotiva, così come definita da Goleman, è la capacità dell’individuo di comprendere i propri sentimenti, ascoltare e comprendere gli altri ed esprimere emozioni in modo produttivo. Comprende diverse abilità, come la capacità di controllare gli impulsi, regolare l’umore e provare empatia. Analizzando le definizioni emerge come empatia e intelligenza emotiva siano alla base di ogni rapporto umano, e siano quindi fondamentali per garantire una vita relazionale adeguata e soddisfacente. L’aspetto in comune di queste due abilità fondamentali è che entrambe, così come evidenziato dai vari studiosi che se ne sono occupati, possono essere educate e sviluppate con progetti mirati in vari ambiti di vita. Se l’empatia è spesso il risultato di apprendimento per modellamento, l’intelligenza emotiva, basandosi su 5 pilastri (consapevolezza di sé, dominio di sé, motivazione, empatia, abilità sociale), può essere soggetta ad apprendimento formale più mirato. Interessante è valutare come l’attenzione allo sviluppo dell’empatia abbia effetti positivi sul potenziamento dell’intelligenza emotiva e viceversa: i due costrutti sono infatti intrinsecamente collegati. UNO DEI PRIMI AD AFFRONTARE STUDI SULL’EMPATIA È STATO LO PSICOLOGO STATUNITENSE CARL ROGERS, SECONDO IL QUALE «UN ALTO GRADO DI EMPATIA IN UNA RELAZIONE È PROBABILMENTE IL FATTORE PIÙ POTENTE NELL’APPORTARE TRASFORMAZIONI E APPRENDIMENTO». IL CANDIDATO COMMENTI BREVEMENTE TALE CITAZIONE. Carl Rogers scrive questa affermazione nella sua opera del 1980 Un modo di essere, dove considera l’empatia una qualità che il terapeuta deve necessariamente avere per entrare in contatto con il proprio cliente, aiutarlo nell’espressione del proprio essere e dei suoi contenuti più profondi. Egli sostiene infatti che in un clima di ascolto e comprensione si costruiscono le basi solide per un legame autentico, dove è possibile l’affidamento necessario per attuare processi di cambiamento. È importante, secondo Rogers, che il processo empatico sia momentaneo, che il terapeuta abbia sempre presente se stesso e si orienti verso il cliente «come se» fosse nei suoi panni, senza perdere di vista la sua dimensione personale. L’empatia è intesa come il sentire l’altro, i suoi piaceri e le sue sofferenze come se fosse lui stesso a provarle, evitando di inserire i propri giudizi o turbamenti ma senza dimenticarsi del proprio vissuto emozionale, altrimenti il processo diventa quello dell’identificazione. All’interno di una dimensione empatica, l’altro ha la possibilità di sentirsi profondamente compreso, in quanto viene validata l’esperienza emotiva da una persona diversa da lui. Sente che il suo sentire è possibile e ha un senso per il suo interlocutore. In questo contesto dove il giudizio è sospeso, non ci si affanna per convincere l’altro e non entrano in gioco processi difensivi. In un clima di comprensione e ascolto sono favoriti attenzione e apprendimento, stessa cosa se ci spostiamo dal campo terapeutico a quello del gruppo classe. È ormai noto in letteratura il ruolo che ha il clima scolastico sui processi di apprendimento, la percezione di benessere nel gruppo influenza l’attenzione, la soddisfazione e il coinvolgimento degli alunni. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inoltre delineato fra le principali life skills da sviluppare in ambito scolastico l’empatia e la gestione delle emozioni, considerandole abilità fondamentali per promuovere benessere e prevenire condotte disfunzionali, fra cui l’abbandono scolastico. L’insegnante ha un ruolo determinante in quanto, attraverso i suoi giudizi e valutazioni, può influenzare i comportamenti dei propri alunni e favorire o meno la sintonia nel gruppo dei pari. L’insegnante che possiede abilità empatiche e le esercita con i suoi alunni lavorando con loro sull’allenamento di tale competenza, è facilitato nel suo compito educativo, offre la possibilità di creare un contesto più ricettivo all’apprendimento e crea fattori di protezione contro il disagio psicologico e sociale. IL CANDIDATO ILLUSTRI I FATTORI CONTESTUALI ALL’INTERNO DEL TESSUTO SCOLASTICO CHE DETERMINANO AUMENTO O DIMINUZIONE DELLA MOTIVAZIONE A EMPATIZZARE. La scuola è considerata la seconda agenzia di apprendimento e socializzazione più importante dopo la famiglia. La figura del docente può dare un contributo determinante nel veicolare i significati e i valori educativi dei propri alunni, riveste un ruolo determinante per lo sviluppo di un ambiente empatico e la sua condotta può favorire o meno questa competenza nel gruppo classe. La motivazione degli alunni a empatizzare fra loro può essere facilitata dall’insegnante attraverso due modalità complementari: 1) attraverso l’utilizzo di attività strutturate in gruppo, dapprima finalizzate al riconoscimento delle proprie e altrui emozioni e, successivamente, all’allenamento delle abilità empatiche; 2) attraverso la propria modalità di relazionarsi con gli alunni. L’utilizzo di tecniche o attività di educazione emotiva in classe acquisisce valore educativo in relazione alla capacità di gestione dell’insegnante rispetto alle attività stesse e, soprattutto, alla sua disponibilità a essere empatico. Un adulto non giudicante, disponibile ad accogliere fragilità emotive e difficoltà relazionali in aula può rappresentare un modello per i propri alunni al quale far riferimento. Al contrario, l’insegnante focalizzato solo sul programma didattico e sull’acquisizione di conoscenze, che non tiene conto del vissuto emotivo dei propri alunni né lavora sul clima relazionale della propria classe, può creare una distanza emotiva e diminuire la motivazione a empatizzare. Possiamo considerare quindi la preparazione professionale e quella personale come due fattori determinanti dell’insegnante nel favorire la motivazione degli alunni ad apprendere abilità empatiche. COMPORTAMENTI E ATTEGGIAMENTI CHE DENOTANO LE CAPACITÀ EMPATICHE DELL’INSEGNANTE. Jerome Bruner sostiene che un buon rapporto di collaborazione tra insegnanti e studenti si dovrebbe basare sulla capacità del docente di mettersi nei panni dei propri alunni, di capire il loro pensiero (capacità di empatia) e di instaurare con loro dei rapporti che siano basati sullo scambio e sull’arricchimento reciproco. In questo modo il docente potrà riuscire a entrare in rapporto stretto con ciascun alunno, per capire i suoi bisogni di socializzazione e personalizzazione, i suoi disagi, le sue paure, i suoi punti di forza e di criticità, i suoi talenti e il senso del suo stare al mondo. L’insegnante diventa quindi non solo un dispensatore di saperi, ma un facilitatore dell’apprendimento. Vista l’importanza dell’empatia in una relazione insegnamento-apprendimento, definiamo innanzitutto cosa significhi empatia. Laura Boella fornisce una visione interessante dell’empatia, dicendo che l’equivoco più facile a proposito dell’empatia è quello di intendere lo scambio di esperienze tra soggetti, in cui essa consiste, come comunicazione sentimentale, sentire la stessa cosa o sentire insieme, assorbire l’emozione altrui o investire l’altro e riempirlo con la propria emozione. L’empatia non coincide con la simpatia o con la compassione, ma con il gioire insieme, soffrire insieme. L’empatia pone in contatto profondo con l’esperienza e i vissuti dell’altro attraverso un’azione conoscitiva, cognitiva, fondata e orientata da un impegno etico nei suoi confronti e operata da un’azione linguistica per trovare le parole giuste e i significati condivisi. Una relazione caratterizzata da empatia favorisce molti aspetti dello sviluppo affettivo del bambino e dello stesso insegnante: l’espressione-produzione di emozioni, la loro interpretazione, il sollievo dal disagio emotivo, il sostegnorafforzamento- legittimazione di alcune emozioni e la loro autoregolazione. Un insegnante empatico riesce a comprendere l’emozione del bambino, gli sta vicino mentre la esprime, gli consente di esprimerla, lo aiuta a nominarla, a classificarla, e forse a «controllarla» un po’ di più, in modo produttivo e non repressivo. Con l’empatia l’insegnante diventa un aiuto nella regolazione degli stati d’animo e delle emozioni. Anche l’errore di un proprio studente viene trattato da un insegnante empatico in modo particolare. Non viene più giudicato come un incidente nel percorso di apprendimento, ma diventa l’occasione per conoscere i processi mentali del proprio studente e accompagnarlo al meglio nel suo percorso di crescita. È IMPORTANTE SVILUPPARE L’INTELLIGENZA EMOTIVA NEGLI ADOLESCENTI PERCHÉ L’intelligenza emotiva viene definita da Goleman come «la capacità di monitorare i propri sentimenti e quelli altrui al fine di raggiungere e sviluppare obiettivi e desideri» ed è costituita dall’insieme di cinque componenti fondamentali, che ogni individuo sviluppa e potenzia nel corso della vita stimolato dall’ambiente in cui è inserito (la scuola, la famiglia gli amici, il lavoro): 1. consapevolezza di sé, la capacità di produrre risultati riconoscendo le proprie emozioni; 2. dominio di sé, la capacità di utilizzare i propri sentimenti per un fine; 3. motivazione, la capacità di scoprire il vero e profondo motivo che spinge all’azione; 4. empatia, la capacità di sentire gli altri entrando in un flusso si contatto; 5. abilità sociale, la capacità di stare insieme agli altri cercando di capire le dinamiche che avvengono tra le persone. Tali aspetti diventano importantissimi in età evolutiva, se nella fanciullezza è necessario porre le basi per il loro sviluppo è durante la pre-adolescenza e l’adolescenza che possono essere stimolati in modo formale in più ambienti. Il compito dell’adolescente, infatti, come sosteneva Erickson, è quello di evolvere negli stadi di sviluppo nella direzione dell’autonomia e dell’iniziativa. È evidente che l’adolescente è in continuo movimento tra bisogno di indipendenza dai genitori e insicurezza rispetto a sé e al mondo che lo circonda. Si osservano allo stesso tempo comportamenti di allontanamento dal nucleo familiare e avvicinamento, che talvolta disorientano il ragazzo. L’adolescenza è inoltre caratterizzata dal bisogno dell’individuo di creare connessioni profonde e relazioni stabili con il gruppo dei pari, per costruire così una base sicura di relazione che consenta loro di separarsi gradualmente dal nucleo familiare e crescere nella direzione dell’età adulta. È risaputo che grande peso per il benessere del soggetto riveste, in questo momento evolutivo, la qualità delle relazioni sociali che egli crea. Dal punto di vista neurale, si assiste inoltre a una precipitosa potatura e contemporanea crescita di cellule cerebrali che determinano la crescita del cervello. Con l’espansione del cervello, l’amigdala è stimolata a produrre alti livelli di ormoni che stimolano l’emotività del soggetto. Questo periodo di fortissimi cambiamenti conduce inevitabilmente l’adolescente a sperimentare difficoltà nella gestione emotiva. È proprio nelle difficoltà di crisi emotiva che la scuola può trovare lo spazio per poter agire in modo educativo. Le componenti dell’intelligenza emotiva sono fondamentali per l’instaurarsi di buoni rapporti sociali; così, se si potenziano le 5 componenti in questa fase d’età attraverso progetti educativi scolastici, è possibile sostenere l’adolescente nella sua crescita equilibrata e sana. Sviluppare in contesti formali quella che Goleman definisce «competenza emotiva», cioè l’insieme delle abilità pratiche necessarie per sviluppare l’autoefficacia dell’individuo, permette di sostenere le transizioni sociali che sollecitano le emozioni. La competenza emotiva riguarda sia l’abilità di identificare le emozioni proprie e altrui ma anche di agire comportamenti adeguati in relazione ai contesti. Secondo Goleman, la competenza emotiva si struttura nell’interazione della competenza personale e della competenza sociale, e quest’ultima si costituisce in relazione a cosa è consentito o meno nell’ambiente in cui il soggetto è inserito. Educare all’intelligenza emotiva significa rendere esplicite abilità necessarie per la costruzione di relazioni sociali appaganti. La motivazione è la causa o il fattore che determina un comportamento o un’azione ed è una delle componenti (insieme allo stimolo e alle emozioni) che concorrono alla determinazione del comportamento. L'emozione è la componente interiore e soggettiva (rabbia, paura, amore, ecc. che spinge ad agire in una determinata maniera), la motivazione determina anche le strategie cognitive usate per realizzare i fini che ci si propone. esistono tre livelli di motivazione, dal più semplice al più complesso: i riflessi, sono risposte automatiche e rapide a stimoli esterni, non derivanti da un apprendimento precedente, l'organismo li usa per controbilanciare alterazioni determinate da stimoli esterni e difendersi dai pericoli; sono diverse le posizioni teoriche emerse sull’IE, che l’hanno inscritta ora all’interno di una certa area della psiche (socio- affettiva o di personalità) ora di un’altra (cognitiva o metacognitiva), attribuendole caratteristiche e proprietà differenti. Anche l’effettiva relazione tra il costrutto di intelligenza classicamente intesa e quello di intelligenza emotiva è molto dibattuto in quanto non esistono ancora strumenti standardizzati per misurare quest’ultima. I diversi modelli concordano, comunque, nel considerare i due costrutti almeno parzialmente indipendenti tra loro e nel ritenere le emozioni mediatrici fondamentali della relazione tra l’individuo e l’ambiente. DESCRIVERE LA RELAZIONE TRA APPRENDIMENTO ED EMOZIONI CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO. Diversi studi condotti nel campo delle neuroscienze e, in particolare, nel nuovo filone di ricerca a cui è stato dato il nome di warm cognition (letteralmente «cognizione calda») hanno evidenziato quanto sia rilevante la dimensione emozionale nel processo di apprendimento. Come spiega Lucangeli, infatti, le evidenze scientifiche ci suggeriscono che non ha senso interpretare le funzioni dell’emisfero sinistro e di quello destro come separate. Nell’intero circuito del nostro cervello le funzioni si attivano in sincronia e diacronia e a ogni attività cognitiva corrisponde un tracciato emozionale. Gli stimoli che arrivano dall’esterno o dall’interno attivano il nostro circuito emozionale provocando cambiamenti a livello fisiologico (es. variazioni della respirazione, della pressione arteriosa, del battito cardiaco o tensione muscolare), comportamentale (es. cambiamenti nella postura, nel tono della voce, reazioni di chiusura, attacco o fuga) e psicologico (es. alterazione del controllo di sé e delle proprie abilità cognitive). Questo implica, ad esempio, che emozioni piacevoli (es. gioia, eccitazione) aiutano a prestare attenzione, ricordare, risolvere i problemi, prendere decisioni, pianificare un compito mentre emozioni spiacevoli (es. paura o ansia) abbassano i livelli di attenzione e memorizzazione, peggiorano le performance e generano situazioni di evitamento e fuga. Le emozioni influenzano l’apprendimento anche in modo qualitativo: quelle positive favoriscono un approccio olistico, l’intuizione, la creatività nella soluzione dei problemi e una disposizione ottimistica verso l’impegno che si deve affrontare. Le emozioni negative, invece come spiega Lucangeli, incoraggiano un apprendimento maggiormente focalizzato sui dettagli e sull’applicazione di algoritmi. Le emozioni direttamente correlate all’apprendimento influenzano e vengono influenzate a loro volta anche da altre dimensioni psicologiche strettamente interconnesse tra loro quali la motivazione, il senso di autostima e di autoefficacia, lo stile di attribuzione e il locus of control. Le emozioni positive provate in contesti di apprendimento motivato, ad esempio, si concretizzano nella soddisfazione o orgoglio per la riuscita, nella maggiore fiducia in sé e nelle proprie abilità, nella percezione di autoefficacia e si estendono ai rapporti con i compagni e gli insegnanti e al maggior interesse per le discipline. Al contrario, le emozioni negative connesse alle esperienze di apprendimento innescano una spirale di demotivazione e insuccessi, riducono l’autostima e il senso di autoefficacia e incrinano i rapporti con gli altri e con il sapere. Ciò che permette lo sviluppo di emozioni piacevoli in ambito scolastico è il senso di competenza, che gli alunni possono provare quando si trovano a svolgere dei compiti che sono alla loro portata e per cui, a seguito di uno sforzo, ottengono buoni risultati. È quindi molto utile tenere in considerazione ciò che Susan Harter definisce «il livello ottimale di sfida». Questo vuol dire individuare il livello di difficoltà corretto rispetto alle capacità dello studente: un livello troppo alto potrebbe portare a paura di sbagliare, mentre un livello troppo basso a noia. Un insegnante che riesca a porsi come alleato dei propri studenti, inoltre, riesce anche a infondere quella giusta dose di coraggio che può sostenere gli studenti ad avventurarsi in una nuova conoscenza. Nell’atto di insegnare sarebbe anche importante cercare sempre di stimolare l’interesse dei propri studenti. Come esseri umani siamo naturalmente portati ad essere curiosi rispetto al mondo circostante, e quindi è fondamentale non spegnare questa naturale motivazione a conoscere. Quelli appena illustrati solamente alcuni elementi da considerare nel rapporto tra cognizione ed emozioni, ma risultano comunque significativi delle dinamiche in atto nel processo di insegnamento/apprendimento. DELINEARE IL RAPPORTO TRA INTELLIGENZA ED EMOZIONE. «Cogito ergo sum», decretò Cartesio nel Discorso sul metodo, provocando un’abissale scissione tra mente (res cogitans) e corpo (res extensa) e, dunque, tra pensiero ed emozione. L’influenza di Cartesio è stata tale che, a distanza di secoli, la prima corrente della psicologia cognitiva ha sostenuto l’analogia tra le operazioni della mente umana e l’elaborazione dei dati eseguita dal computer, negando, di fatto, qualsiasi interferenza del circuito emozionale sul processamento delle informazioni. Il dualismo cartesiano è stato messo in discussione solo negli ultimi decenni grazie alle indagini sul cervello. L’errore di Cartesio, afferma Antonio Damasio, è stato non capire che l’apparato della razionalità non è indipendente da quello della regolazione biologica e che i sentimenti spesso sono in grado di condizionare il nostro comportamento. Come ha dimostrato empiricamente il neurologo, infatti, la convinzione dell’esistenza di una razionalità pura (logica, funzionale, volontaria), immune dal contagio delle emozioni, non solo non ha alcun riscontro nella realtà ma sarebbe addirittura controproducente. Le emozioni, infatti, svolgono un ruolo fondamentale nel processo decisionale, espressione del comportamento intelligente, qualificando automaticamente (attraverso marcatori somatici) le diverse alternative a disposizione. La preselezione operata dai circuiti emozionali (che si basa anche sul bagaglio di esperienze proveniente dal passato) snellisce e velocizza il meccanismo decisionale con notevoli vantaggi adattivi. Come spiega Goleman, la comunicazione tra la nostra intelligenza razionale e quella emotiva è garantita, a livello neurale, dalle connessioni fra l’amigdala (e le strutture limbiche affini) e la neocorteccia. Questi circuiti spiegano come mai l’emozione è tanto importante ai fini del pensiero, sia quando si devono prendere decisioni sagge, sia quando si tratti di pensare lucidamente. Le emozioni intervengono anche in molte altre situazioni e sono alla base, ad esempio, della capacità di motivare se stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; di essere empatici e di sperare. Alla scuola spetta, quindi, l’importante compito di educare gli alunni a riconoscere le proprie emozioni, a esprimerle e, soprattutto, ad ascoltarle prima ancora che a gestirle e modularle. INDICATORI DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA. Il concetto di intelligenza emotiva venne formulato nel 1990 da due psicologi: Peter Salovey e Jonh Mayer. Questi due studiosi definiscono l’intelligenza emotiva come un mix di autocontrollo, empatia e motivazione che consente di sviluppare una grande capacità adattiva e di convogliare opportunamente le proprie emozioni, in modo da valorizzare i lati positivi di ogni situazione. L’intelligenza emotiva viene descritta in una serie di abilità che possono essere raggruppate in 5 indicatori o ambiti principali. 1. Conoscenza delle proprie emozioni. L’autoconsapevolezza, la capacità fondamentale di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta. 2. Controllo delle emozioni. La capacità di controllare e dominare gli stati emotivi in modo da renderli appropriati alla situazione e saperli esprimere in modo costruttivo. 3. Motivazione di se stessi. Capacità emotive che guidano o facilitano il raggiungimento di obiettivi, consentendo di ritardare la gratificazione, aumentare la tolleranza alla frustrazione e reprimere gli impulsi negativi. 4. Riconoscimento delle emozioni altrui. L’empatia, la comprensione e l’interesse nei confronti dei sentimenti, delle esigenze e delle prospettive altrui. 5. Gestione delle relazioni. Capacità di indurre risposte desiderabili negli altri, di negoziare positivamente situazioni di conflitto di gruppo favorendo le possibili sinergie. Il tema dell’intelligenza emotiva è stato successivamente trattato da Daniel Goleman nel libro Intelligenza emotiva: che cos’è e perché può renderci felici. Grazie a questo libro anche in Italia il tema dell’intelligenza emotiva ha iniziato ad essere utilizzato e studiato sia in ambito psicologico, sia in ambito organizzativo/aziendale. Goleman definisce questo costrutto questo come «la capacità di motivare se stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; e, ancora, la capacità di essere empatici e di sperare», riconoscendo i nostri sentimenti e quelli degli altri, gestendo positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali. L’intelligenza emotiva sembra, quindi, un elemento molto importante per l’equilibrio di una persona e il suo successo nella vita. DIFFERENZA TRA MOTIVAZIONE INTRINSECA E MOTIVAZIONE ESTRINSECA IN RELAZIONE ALL’APPRENDIMENTO SCOLASTICO . La motivazione può essere definita come un insieme di fattori che spingono il comportamento di una persona verso una meta. La motivazione, quindi, attiva (componente energetica) e orienta (componente direzionale) comportamenti specifici. La motivazione intrinseca fa riferimento al riconoscimento personale, da parte dello studente, dell’importanza che riveste per lui quel tipo di apprendimento, con conseguente investimento spontaneo di energie e comportamenti diretti alla meta. Molto spesso gli studenti devono però essere accompagnati nel comprendere realmente e immaginare l’utilità di quello che viene proposto. Molte situazioni di difficoltà nell’apprendimento (compresa la comparsa di pensieri autosvalutanti), di dispersione e abbandono scolastico sono in parte proprio legati a deficit di motivazione intrinseca. Per questo è importante utilizzare materiali e contenuti vicini agli interessi presenti negli studenti o che comunque permettano loro di sperimentare facilmente dei successi, allo scopo di rendere l’impegno nell’apprendimento il più gratificante possibile. Notevole importanza riveste anche il dialogo interno motivazionale dell’alunno: le autogratificazioni che spontaneamente si dà, riconoscendo i progressi compiuti. L’ansia eccessiva per l’insuccesso oppure la tendenza a rispondere in modo emotivo, reagendo con scoppi di collera quando qualcosa non va come dovrebbe, sono altri fattori psicologici che influenzano in modo preciso la motivazione e l’orientamento al compito. In questi casi, uno dei primi obiettivi dell’insegnante diventa lo sviluppo di forme di autocontrollo dell’eccessiva reattività emozionale. La motivazione estrinseca si differenzia da quella intrinseca per il fatto che viene sostenuta dall’esterno, attraverso l’uso sistematico di rinforzatori positivi. Normalmente, l’insegnante cerca di motivare l’alunno rinforzando le sue risposte che si orientano nella direzione voluta (prestare attenzione, portare il materiale, tentare di risolvere i problemi, usare le strategie proposte, persistere attivamente nello sforzo/impegno su un compito o attività, ecc.) attraverso vari tipi di stimoli positivi gratificanti (rinforzi positivi) come la lode, l’approvazione pubblica, varie forme di riconoscimento anche concrete, come piccoli premi o sistemi complessi di gratificazioni simboliche (task analysis). Mastery learning e tassonomia degli obiettivi educativi (area cognitiva) di Bloom. Il nome di Bloom è particolarmente noto in ambito educativo e psicopedagogico soprattutto per i suoi studi legati alla tassonomia degli obiettivi educativi e alla metodologia di insegnamento mastery learning (apprendimento della padronanza). Le sue riflessioni partono dalla convinzione che il sistema tradizionale di insegnamento è errorfull, cioè del tutto errato e inefficace, in quanto basato su una didattica indifferenziata che non promuove i talenti. L’insegnamento efficace e adeguato, invece, deve essere in grado di promuovere questi talenti attraverso l’acquisizione della mastery (padronanza), che avviene grazie alla perseveranza (strettamente legata alla motivazione), all’attitudine, alla capacità di apprendere da parte dell’alunno, ma anche alla qualità dell’istruzione (programmazione e metodi di insegnamento adeguati, individualizzazione degli interventi didattici, ecc.) e alle opportunità di apprendimento offerte dal contesto scolastico. Anche le differenze nell’apprendimento sono infatti considerate un qualcosa che è possibile prevedere, spiegare e modificare, se ricondotte alle condizioni «ambientali», cioè al sistema di istruzione scolastica e alle sue variabili. Nella strutturazione di percorsi di apprendimento e nella formulazione delle singole unità didattiche, gli obiettivi devono essere definiti in modo chiaro, esplicito e condiviso, facendo riferimento a precisi indicatori che esprimono ciò che ci si attende che l’alunno sappia fare al termine del percorso di apprendimento. In questo ci può aiutare la tassonomia degli obiettivi educativi messa a punto da Bloom. Le categorie dell’area cognitiva sono: 1. conoscenza, ovvero la capacità di rievocare materiale memorizzato (fatti, metodi, processi, modelli, strutture, ecc.); 2. comprensione, ovvero la capacità di afferrare il senso di un’informazione e di saperla trasformare, interpretare, riorganizzare, ecc.; 3. applicazione, ovvero la capacità di far uso di materiale conosciuto per risolvere problemi nuovi e di utilizzare quindi rappresentazioni astratte (idee, regole di procedimento, metodi, principi, teorie, ecc.) applicandole a casi concreti; 4. analisi, ovvero la capacità di separare degli elementi di un complesso evidenziandone i rapporti, rendendo così esplicita la gerarchia delle idee e delle relazioni esistenti; 5. sintesi, ovvero la capacità di riunire i vari elementi al fine di formare una nuova struttura organizzata e coerente (ad esempio elaborazione di un piano d’azione, deduzione autonoma di regole, ecc.); 6. valutazione, ovvero la capacità di formulare autonomamente giudizi critici di valore e di merito in base all’evidenza interna e a criteri prestabiliti. IL CANDIDATO DESCRIVA LE PRINCIPALI TEORIE DELLO SVILUPPO EMOTIVO EVIDENZIANDO SOMIGLIANZE E DIFFERENZE . Durante i primi anni di vita avvengono numerosi cambiamenti in tutta la sfera emotiva, in interazione con lo sviluppo cognitivo, percettivo, motorio, le relazioni sociali. Si amplia il repertorio di emozioni che i bambini possiedono, migliorano le capacità di autoregolazione delle emozioni, matura la capacità di comprendere le emozioni manifestate da altre persone e la capacità di agire su di esse. Ci sono molto teorie sulle emozioni e il loro sviluppo, che hanno alcuni aspetti comuni e alcune differenze. Alcuni elementi comuni sono i seguenti: – le emozioni sono dei processi che hanno inizio con degli eventi che facilitano o ostacolano la realizzazione dei nostri obiettivi; – le emozioni comprendono degli stati di attivazione fisiologica; – le emozioni ci spingono a comportarci in un certo modo; – le emozioni sono in relazione con i nostri processi cognitivi. Rispetto allo sviluppo delle emozioni, invece, ci sono punti di vista diversi. La teoria della differenziazione sostiene che i neonati provino solamente una generica eccitazione. Successivamente c’è una progressiva differenziazione dei diversi stati emotivi, man mano che lo sviluppo cognitivo e sociale del bambino gli permette di valutare quello che sta succedendo. Lo sviluppo emotivo è quindi subordinato a quello cognitivo. La teoria differenziale, invece, ritiene che ci siano delle emozioni fondamentali e delle emozioni complesse. Le emozioni fondamentali sono presenti anche negli animali più vicini a noi, esistono anche in noi già dalla nascita o, comunque, emergono molto precocemente. Le emozioni complesse, che possediamo solo noi esseri umani, compaiono successivamente. Questa teoria dà alle emozioni un ruolo molto rilevante. L’approccio funzionale o organizzazionale potrebbe rappresentare una sintesi dei precedenti. Questo approccio sostiene che l’organizzazione generale delle emozioni è presente in forma rudimentale poco dopo la nascita o nelle prime settimane di vita, ma le diverse componenti si sviluppano, si differenziano, diventano più complesse grazie a dei processi simili a quelli che presiedono allo sviluppo cognitivo. MUOVENDO DALL’ANALISI DEI SUOI PRINCIPALI ELEMENTI COSTITUTIVI, IL CANDIDATO ILLUSTRI IL MODO IN CUI L’INTELLIGENZA EMOTIVA GIOCA UN RUOLO NEL PROCESSO DI INSEGNAMENTO-APPRENDIMENTO DELLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO, ELABORANDO ANCHE PROPOSTE SUL PIANO DIDATTICO. Secondo Goleman, l’intelligenza emotiva è la capacità di esprimere correttamente il proprio vissuto, riconoscere le proprie e altrui emozioni, gestirle e indirizzarle in condotte funzionali, assumere condotte sociali adeguate e un atteggiamento empatico. L’intelligenza emotiva si articola in consapevolezza, autocontrollo, motivazione, empatia e abilità sociali. L’allievo che è consapevole delle proprie potenzialità e dei propri limiti sarà portato a utilizzare le sue risorse migliori sia dal punto di vista comunicativo relazionale che da quello apprenditivo. L’autocontrollo è la capacità di gestire le proprie emozioni, la sofferenza che deriva da un possibile fallimento scolastico, la paura nell’affrontare un compito complesso, l’impulsività. La motivazione è il motore dell’apprendimento, assicura la concentrazione e l’impegno di fronte alle richieste scolastiche. Lo sviluppo della capacità empatica favorisce l’inclusione di tutti gli allievi, previene il bullismo, evita l’autoisolamento e promuove la possibilità di apprendere. Favorire le abilità sociali a scuola vuol dire favorire la comunicazione e i comportamenti corretti da adottare nei diversi contesti, dentro e fuori di essa. In classe, nella secondaria di secondo grado, è comune trovare allievi che fanno fatica a gestire lo stress generato dalle richieste scolastiche, l’ansia in preparazione di un compito o di un’interrogazione, l’emotività per una relazione affettiva, l’insuccesso per un risultato personale. Per fare fronte a queste emozioni e riuscire ad autocontrollarle, il docente può lavorare con l’intero gruppo classe o con ogni singolo studente. In classe può utilizzare tecniche di tipo simulativo, quali il role playing e la simulazione su copione. La proposta didattica potrebbe basarsi sull’interpretazione di un vissuto in cui l’intelligenza emotiva non è stata gestita in maniera efficace e su come le emozioni modificano il nostro agire. In concreto, il docente sottopone gli studenti a un’analisi e discussione di gruppo sui comportamenti più ricorrenti nel vissuto quotidiano e sulle emozioni scaturite in determinati contesti e situazioni. Il fine è quello di promuovere una riflessione e un possibile corretto utilizzo delle emozioni. Al termine possono essere proposte individualmente domande aperte e questionari e assegnate delle letture da leggere a casa che approfondiscono tematiche esperienziali ed emotive tipiche dell’adolescenza. NELLA FASE ADOLESCENZIALE È FONDAMENTALE IL RICONOSCIMENTO DI DIVERSI STILI DI APPRENDIMENTO, OVVERO QUELLE CARATTERISTICHE UNICHE CHE OGNI ALUNNO PRIVILEGIA IN MANIERA PERSONALE QUANDO SI IMPEGNA NELLO STUDIO E NELLA SOLUZIONE DI PROBLEMI COGNITIVI. IL CANDIDATO ILLUSTRI QUANTO LA CONNESSIONE EMOTIVITÀ/COGNIZIONE DIVENTI DETERMINANTE PER LA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO. Gli apprendimenti che la scuola secondaria di secondo grado propone agli studenti sono spesso caratterizzati dalla novità e complessità rispetto agli apprendimenti della secondaria di primo grado. Alcune discipline, infatti, sono totalmente nuove, altre presentano un grado di complessità e articolazione che richiedono allo studente un salto qualitativo e un impegno scolastico costante e importante. Per questo nel processo di insegnamento-apprendimento tanto gli studenti quanto i docenti devono affrontare il tema del riconoscimento e dell’utilizzo strategico degli stili di apprendimento. Il docente può servirsi di domande metacognitive per far riflettere lo studente se appartiene maggiormente a una delle due polarità opposte fra gli stili: sistematico-intuitivo, globale-analitico, impulsivo-riflessivo, verbale-visuale, autonomo-dipendente dal campo. L’autoconsapevolezza teorica generale sugli stili di apprendimento e sul proprio stile di apprendimento produce spesso un primo risultato positivo sul rapporto emotività/cognizione, perché permette allo studente di essere maggiormente strategico e funzionale rispetto alle differenti richieste scolastiche e, quindi, di ottenere risultati positivi. Il docente, inoltre, deve conoscere gli stili di apprendimento dei suoi allievi, perché, ove possibile, possa rendere la propria didattica flessibile e maggiormente efficace per quel gruppo classe. È piuttosto diffuso che, ad esempio, il docente di lettere sia un verbalizzatore e trasmetta strategie quali riassunti e l’esposizione orale, che prevedono quindi quasi esclusivamente l’utilizzo del canale orale. Al contrario, il docente di scienze utilizza maggiormente il canale visivo, tendendo a soffermarsi molto meno su quello verbale. Nei due casi i docenti cattureranno più IL CANDIDATO INDICHI CHE COS’È IL GLO E QUALI COMPITI SVOLGE. La Legge quadro 104/1992, all’art. 15, definiva la composizione del gruppo responsabile della redazione del PEI, rubricato come «gruppo di studio e di lavoro», composto da insegnanti, operatori dei servizi, genitori, studenti. Nel corso degli anni questo gruppo ha assunto informalmente vari nomi, come GLH e GLHO, indicati in Direttive e circolari ministeriali e recentemente ridefiniti nell’art. 9 del Decreto legislativo 66/2017, a sua volta integrato dal Dlgs 96/2019, art. 8. Nel «vecchio» Decreto del Presidente della Repubblica del 24 febbraio 1994 (Atto di indirizzo relativo ai compiti delle ASL in materia di alunni portatori di handicap), si affermava che il PEI doveva essere redatto congiuntamente dagli operatori sanitari individuati dalla USL e/o USSL e dal personale insegnante curricolare e di sostegno della scuola, in collaborazione con i genitori. Con il Dlgs 66/2017, artt. 7 e 9, rimangono confermati i tradizionali compiti di questo gruppo e si prevede presso ciascuna istituzione scolastica l’istituzione del Gruppo di Lavoro per l’inclusione (GLI), con il compito di supportare il collegio dei docenti nella predisposizione del Piano per l’inclusione di istituto. Il principio cardine che deve orientare le attività del Gruppi di lavoro delle singole istituzioni scolastiche è quello di autodeterminazione della persona con disabilità. Nella Convenzione dell’ONU del 2006, esso viene definito come l’insieme dei diritti di ogni individuo di decidere del proprio futuro, facendo le scelte ritenute coerenti con il proprio progetto di vita. Il Gruppo di lavoro operativo (GLO) (art. 8 del Dlgs 96/2019) svolge il precipuo compito di definire la struttura dei PEI dei singoli alunni con disabilità. Ogni GLO è composto dal team dei docenti della scuola dell’infanzia e primaria e dal Consiglio di classe della secondaria di primo e di secondo grado. Fanno inoltre parte del Gruppo operativo i genitori dell’alunna/o con disabilità, specifiche figure professionali, interne ed esterne all’istituzione scolastica, che interagiscono con la classe. Nella scuola secondaria di secondo grado è prevista la partecipazione anche della studentessa e dello studente con disabilità, nel rispetto del principio di autodeterminazione. Infine, il GLO è supportato dall’unità di valutazione multidisciplinare, che ha il compito di redigere il Profilo di funzionamento, il quale sostituisce la diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale. Nella redazione del PEI sono, pertanto, coinvolti tutti gli insegnanti della classe, senza nessuna differenza tra quelli assegnati alle attività di sostegno e quelli curricolari. Una delle novità più rilevanti nel funzionamento del GLO riguarda il nuovo ruolo dell’ASL; in particolare, l’Unità di Valutazione Multidisciplinare (UVM) è chiamata a fornire un supporto al Gruppo, anche se formalmente non ne fa parte. IL CANDIDATO INDICHI CHE COS’È IL GLI E QUALI COMPITI SVOLGE. Nella Legge quadro 104/1992, all’art. 15 si prevedeva l’istituzione, presso ogni scuola, di un gruppo con il compito di contribuire alla redazione del PEI, rubricato come «gruppo di studio e di lavoro» (denominato successivamente GLH d’istituto), composto da insegnanti, operatori dei servizi, genitori, studenti. La Circolare ministeriale n. 8 del 2013 ha assegnato al GLH il nome di GLI, Gruppo di Lavoro per l’Inclusività, dichiarando che le sue competenze non riguardavano solo la disabilità, ma che si dovevano estendere anche alle problematiche relative a tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES). Con il Dlgs 66/2017 (articoli 2, 9 e 10, integrato nel Dlgs 96/2019), anche se viene conservata la stessa denominazione (GLI), cambiano profondamente i compiti, la composizione e l’ambito di applicazione del gruppo stesso e il PAI diventa Piano per l’inclusione, con valenza triennale, rientrando nella definizione del PTOF. Durante la predisposizione del Piano per l’inclusione, presieduti dal dirigente scolastico, oltre ai docenti curricolari e di sostegno, agli specialisti dell’ASL, al personale ATA, partecipano anche gli studenti, i genitori e i rappresentanti delle associazioni delle persone con disabilità. Quando si rapporta al Collegio dei Docenti o ai Consigli di Classe, il GLI è composto solo da personale della scuola che è tenuto alla riservatezza professionale. Di fatto, il «nuovo» GLI ha sostanzialmente il compito di definire e attuare il Piano per l’Inclusione, supportando il Collegio dei Docenti nella sua definizione e realizzazione. Rientra nel PAI anche la definizione delle modalità per l’utilizzo complessivo delle misure di sostegno sulla base dei singoli PEI, per cui il GLI ha un ruolo anche nella richiesta e assegnazione delle risorse di sostegno e di assistenza, attraverso il supporto dei docenti contitolari (scuola dell’infanzia e primaria) e dei consigli di classe (scuola secondaria di primo e di secondo grado). Può essere questa una novità molto importante sulla strada della condivisione all’interno di un istituto che, se applicata bene, dovrebbe portare a valorizzare le competenze professionali proprie per sostenere tutti gli insegnanti che per vari motivi possono incontrare difficoltà di particolare rilievo. Per effetto dell’art. 2, comma 1 del Dlgs 66/2017, il GLI, come tutti gli organismi e gli atti previsti dal decreto, si occupa esclusivamente degli alunni con disabilità certificata, capovolgendo completamente l’impostazione della CM 8 del 2013, nella quale a questo Gruppo veniva assegnato il compito di rilevare gli alunni con bisogni educativi speciali, non soltanto degli studenti con disabilità. IL CANDIDATO INDICHI CHE COS’È IL GIT E QUALI COMPITI SVOLGE. Il tema delle reti di scuole è strettamente collegato all’attribuzione dell’autonomia. Infatti, nell’art. 7 del DPR 275/1999 si auspica che le istituzioni scolastiche promuovano «accordi di rete» per svolgere attività didattiche o di ricerca in comune, anche mediante «lo scambio temporaneo di docenti». La DM del 27 dicembre 2012 riservava un ruolo di particolare importanza ai Centri Territoriali di Supporto (CTS), di ambito prevalentemente provinciale, ma dava riconoscimento formale anche ai Centri Territoriali per l’Integrazione (CTI) che già funzionavano, seppure con nomi diversi, in alcune Regioni d’Italia. Mentre i CTS sono stati supportati dal MIUR con la destinazione di risorse mirate, i CTI, pur formalmente riconosciuti, hanno continuato a funzionare a seconda delle specifiche realtà regionali. I Gruppi per l’Inclusione Territoriale (GIT) sono stati introdotti dal Decreto legislativo 66/2017 (art. 9) in ciascuno dei 319 ambiti territoriali, istituiti nel nostro Paese a seguito dell’art. 1, comma 66 della Legge 107/2015, con lo scopo di sostenere nel territorio l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Il Decreto legislativo 96/2019 ha però modificato sensibilmente quanto previsto del precedente Decreto 66. Il GIT è composto da personale esperto nell’ambito dell’inclusione; è nominato dal direttore generale dell’USR e coordinato da un dirigente tecnico o da un dirigente scolastico che lo presiede. Il GIT raccoglie le richieste di sostegno delle singole istituzioni scolastiche dell’ambito e provvede ad inviarle al Direttore Generale dell’USR. Può esprimere sulle richieste delle scuole anche un parere difforme. I compiti dei GIT rientrano generalmente nei seguenti ambiti: – definizione dei PEI secondo la prospettiva bio-psico-sociale alla base della classificazione ICF; – uso ottimale dei molteplici sostegni disponibili; – potenziamento della corresponsabilità educativa e delle attività di didattica inclusiva. Come già sottolineato, il GIT svolge anche un ruolo consultivo nelle assegnazioni delle risorse di sostegno a ciascuna scuola. Le modalità di funzionamento del GIT, la sua composizione, le modalità per la selezione nazionale dei componenti, le forme di monitoraggio, la durata, e la definizione di ulteriori compiti sono demandate a un apposito Decreto del Ministero dell’istruzione di prossima approvazione. Per il momento la norma risulta ancora inapplicabile. IL CANDIDATO INDICHI, SULLA BASE DELLA NORMATIVA VIGENTE (DM DEL 27 DICEMBRE 2012, STRUMENTI D’INTERVENTO PER ALUNNI CON BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E ORGANIZZAZIONE TERRITORIALE PER L’INCLUSIONE SCOLASTICA; CM N. 8 DEL 6 MARZO 2013, PROT. N. 561, INDICAZIONI OPERATIVE; NOTA DEL 27 GIUGNO 2013, PROT. N. 1551), QUALI SONO LE PROPOSTE OPERATIVE CHE, NEL RISPETTO DELL’ESERCIZIO DELL’AUTONOMIA SCOLASTICA, PROMUOVONO UNA SCUOLA INCLUSIVA DI QUALITÀ. Dopo la divulgazione della Direttiva del 27 dicembre 2012 e la successiva Circolare del 6 marzo, n. 8 e, in parallelo, le note del 27 giugno, n. 1551 e del 22 novembre 2013, n. 2563, si possono avanzare alcune considerazioni su quali siano le aree strategiche per avvicinare la scuola italiana a un modello realmente inclusivo. Il primo elemento riguarda la maggiore equità nella lettura dei bisogni degli alunni. Gli alunni con BES sono una macro-categoria che comprende gli allievi con disabilità, con DSA e altre forme di difficoltà di vario genere, legate anche a condizioni di deprivazioni culturali, familiari e socioeconomiche. Dopo la Legge 104 del 1992, e, nel 2010, la Legge 170, relativa agli alunni con DSA, solo con le più recenti disposizioni sui BES, si amplia la gamma di alunni che hanno diritto a forme di personalizzazione, comprendendo anche situazioni non diagnosticate o certificate. La lettura del bisogno diventa quindi meno clinicamente orientata e più equa, con specifici strumenti compensativi o misure dispensative. In secondo luogo, al Consiglio di classe e agli insegnanti viene attribuito un compito pedagogico-didattico fondamentale: individuare i soggetti con situazioni di BES non clinicamente rilevate. Tale responsabilità, con il consenso dei genitori, può costituire il requisito per la formulazione di un apposito PDP. Infatti, le disposizioni ministeriali sostengono che, anche in assenza di documenti specifici, il Consiglio di classe o team docenti si esprime in merito al funzionamento problematico dell’alunno e alla personalizzazione necessaria per il suo percorso formativo, basandosi sul modello ICF-CY. Il terzo punto riguarda una maggiore corresponsabilizzazione degli insegnanti curricolari e di sostegno nel progettare e realizzare una didattica generalmente più inclusiva e forme specifiche di personalizzazione (PDP). Le disposizioni ministeriali sottolineano l’importanza di una didattica inclusiva e ordinaria per tutta la classe, che sia, quindi, «strutturalmente» inclusiva. La Direttiva del 27 dicembre 2012 ha inteso fornire tutela a tutte le situazioni che ostacolano l’apprendimento degli alunni, non ricadenti né nella Legge 104/1992 né nella Legge 170/2010. Gli alunni con BES in senso stretto non sono tutelati da una norma di fonte primaria e questo rappresenta un’evidente difficoltà per le scuole. Lo stesso Piano per l’inclusione si occupa solo delle persone con disabilità. Da un lato, si afferma che l’inclusione riguarda tutti, dall’altro però la norma sembra andare in tutt’altra direzione. Tratto e adattato da Insegnare domani - Sostegno nella scuola secondaria, 2018, pp 116-120 Obiettivi, organizzazione e criteri elaborativi del RAV (Rapporto di Autovalutazione). Il tema della valutazione degli apprendimenti (Legge 170/2015) è strettamente correlato all’offerta formativa delle istituzioni scolastiche, esplicitata nel PTOF. Il successo formativo di ogni alunno dipende in parte dalla qualità del servizio educativo erogato dalle singole scuole: questa è la finalità del Sistema Nazionale di Valutazione (SNV), istituito dal DPR 80/2013, dove la valutazione è finalizzata a migliorare «la qualità dell’offerta formativa e degli apprendimenti» (art. 2). Nel DPR si prevede che ogni scuola approvi il Rapporto di Autovalutazione (RAV) articolato in quattro priorità: 1. l’autovalutazione delle istituzioni scolastiche; 2. la valutazione esterna; 3. le azioni di miglioramento da parte delle istituzioni; 4. la rendicontazione sociale. L’elaborazione del Rapporto di autovalutazione (RAV) è stato il primo impegno richiesto nell’a.s. 2014-2015 a tutte le istituzioni scolastiche da parte del MIUR e, nello specifico, dall’INVALSI, che coordina tutte le azioni di tale processo. Il RAV è riconducibile a quattro passaggi di natura: – descrittiva, relativa alla raccolta dei dati e delle informazioni ritenuti più pertinenti all’elaborazione del piano di miglioramento; – valutativa, relativa all’esame e a ipotesi interpretative sugli esiti conseguiti dagli alunni; – metodologica, relativa all’attivazione del processo di miglioramento, attraverso gruppi di lavoro, commissioni di studio (chi fa che cosa); – proattiva, relativa all’individuazione di alcune priorità sulle quali le scuole decidono di innestare il processo di miglioramento. Le priorità di intervento esplicitate da ogni istituzione scolastica nel proprio Rapporto sono confluite nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF). Il modello del RAV, predisposto dall’INVALSI, si compone di cinque sezioni: contesto, esiti, processi, processo di autovalutazione e individuazione delle priorità. Ognuna delle cinque sezioni è descritta in apposite aree. Gli aspetti definiti in ogni ambito sono ulteriormente articolati in indicatori, domande guida, opportunità e vincoli, rubriche di valutazione. L’analisi degli aspetti contenuti nelle varie aree ha permesso a ogni realtà scolastica di passare dal «check-up» d’istituto all’individuazione delle priorità sulle quali elaborare il progetto di miglioramento, condizione determinante di un’efficace progettualità. L’azione valutativa e le attività ad essa collegate costituiscono una componente strategica del processo decisionale che le singole scuole mettono in atto. In tale progettualità sono coinvolti tutti gli attori che si prendono cura della qualità educativa dell’istituto in cui operano il dirigente, gli insegnanti, lo staff di gestione, il nucleo interno di valutazione, gli studenti e, indirettamente, anche i genitori. IL CANDIDATO DESCRIVA IL PIANO ANNUALE PER L’INCLUSIONE E NE ILLUSTRI SCOPI E FINALITÀ, INDICANDO LA PRINCIPALE NORMATIVA DI RIFERIMENTO. Tra le «azioni strategiche» per realizzare una «politica dell’inclusione» nelle singole scuole vi è l’introduzione del Piano Annuale per l’Inclusione, delineato nella Direttiva del 27 dicembre 2012, riguardante gli alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES). Con riferimento al modello ICF (OMS, 2001), l’accento viene posto non tanto su un approccio di tipo clinico, quanto su un modello educativo centrato sul «funzionamento» del soggetto in condizione di fragilità nei diversi contesti di vita, di studio e di lavoro. Il 6 marzo 2013 il Ministero dell’Istruzione ha emanato la Circolare n. 8, che illustra le indicazioni operative per l’attuazione della DM del 27 dicembre 2012, nel quale si afferma la necessità di attivare percorsi individualizzati e personalizzati anche per gli alunni con BES, individuati autonomamente dal Consiglio di classe, in collaborazione con i genitori. Nel Decreto legislativo 66/2017 si modifica la dizione «annuale» in «triennale», sottolineando che: «ciascuna istituzione scolastica, nell’ambito della definizione del Piano triennale dell’offerta formativa, predispone il Piano per l’inclusione» (art.8). Nel Dlgs 96/2019 che corregge e integra il 66/2017, si sottolinea l’utilizzo delle misure di sostegno deve avvenire «nel rispetto del principio dell’accomodamento ragionevole», espressione ripetuta più volte nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità (2007) e che indica gli adattamenti necessari finalizzati a non ostacolare l’esercizio dei diritti fondamentali delle persone con disabilità, compreso quello dell’istruzione. Il PAI è il dichiarato, nel quale ogni scuola esplicita le condizioni irrinunciabili del miglioramento continuo della qualità formativa dell’istituto. Il documento è elaborato, dopo un’attenta lettura dei bisogni della scuola, dal Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI), con l’intento di evidenziare i punti di forza e di criticità che hanno accompagnato le azioni di inclusione realizzate nel corso dell’anno scolastico. L’attenzione è posta sui bisogni educativi dei singoli alunni, sugli interventi pedagogico-didattici effettuati nelle classi nell’anno scolastico corrente e sugli obiettivi programmati per l’anno successivo. Al dichiarato deve seguire l’agito, cioè i concreti interventi dei docenti coerenti con gli obiettivi esplicitati nel piano per l’inclusione, espressione delle scelte delle scuole sul piano istituzionale ed è strettamente collegato al livello didattico, finalizzati a promuovere una classe realmente inclusiva. LE RACCOMANDAZIONI DEL CONSIGLIO EUROPEO DEL SETTEMBRE 2006 E IL QUADRO EUROPEO DELLE QUALIFICHE PROPONGONO LA DEFINIZIONE DI CONOSCENZE E COMPETENZE. IL CANDIDATO ILLUSTRI LA DIFFERENZA TRA I DUE CONCETTI. Il 18 dicembre 2006 viene diffusa la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea relativa all’individuazione di otto competenze chiave per l’apprendimento permanente, finalizzate a garantire ai giovani dell’Unione le padronanze irrinunciabili in vista del loro ingresso nel mondo del lavoro e il diritto all’apprendimento lungo tutto l’arco della loro vita. Nella Raccomandazione, alla base dell’acquisizione delle competenze, viene posto il possesso di solide conoscenze, senza le quali non è immaginabile maturare abilità e padronanze sia disciplinari che trasversali. Secondo il Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF, 2008), le conoscenze sono il «risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento». Possono essere ricondotte a un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di lavoro o di studio. Le abilità indicano la capacità di applicare conoscenze sia a livello cognitivo che pratico. Le competenze invece sono la «comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio». Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità (prevedere e valutare le conseguenze delle proprie azioni) e autonomia (prendere decisioni e agire in modo indipendente). Il Quadro di Riferimento Europeo viene ripreso nel DM 139/2007, dove vengono declinate otto competenze chiave di cittadinanza che sono alla base del modello di certificazione nazionale delle competenze al termine dell’obbligo formativo. Lo stretto rapporto tra conoscenze e competenze viene richiamato nelle Indicazioni nazionali della scuola dell’infanzia e del I ciclo d’istruzione, ma anche nelle Indicazioni nazionali dei Licei (DPR 89/2010), nelle Linee guida degli Istituti tecnici (DPR 88/2010) e nel Regolamento di revisione dell’istruzione professionale (DM 92/2018). La Raccomandazione del 2006 è stata aggiornata dal Consiglio europeo il 22 maggio 2018, modificando sensibilmente le otto competenze chiave. L’aggiornamento è stato necessario in seguito a vari concretizzavano in scambi di personale docente, nella creazione di laboratori, in attività di ricerca didattica e di sperimentazione, di documentazione, formazione, orientamento. La Legge 107/2015 ha definitivamente istituzionalizzato tale opportunità che va realizzata attraverso la sottoscrizione di accordi di rete con altre scuole, con università statali e private, enti associazioni, agenzie del territorio, consorzi pubblici e privati, utili al raggiungimento degli obiettivi definiti all’interno del PTOF. Tali accordi, finalizzati alla valorizzazione del personale della scuola, possono riguardare: – la gestione di funzioni e attività amministrative; – la realizzazione di progetti o iniziative didattiche, educative, sportive o culturali di interesse territoriale; – l’assistenza e l’integrazione sociale delle persone con disabilità; – la realizzazione di insegnamenti opzionali e specialistici; – il coordinamento nella progettazione funzionale di Piani Triennali dell’Offerta Formativa; – i piani di formazione del personale scolastico; – l’utilizzo delle risorse da destinare alla rete per il perseguimento delle proprie finalità; – i processi di trasferibilità delle buone pratiche. Negli accordi vanno stabiliti con chiarezza i criteri e le modalità di utilizzo delle risorse economiche e professionali e le forme di trasparenza e rendicontazione delle attività. IL CANDIDATO ESPLICITI IN CHE COSA CONSISTE L’AUTONOMIA DI RICERCA, SPERIMENTAZIONE E SVILUPPO DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE SECONDO I DETTAMI DEL DPR DELL’8 MARZO N. 275/99. L’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, definita nell’art. 6, riguarda vari aspetti delle attività delle istituzioni scolastiche, dalla progettazione alla valutazione, dalla formazione e aggiornamento culturale e professionale del personale scolastico all’innovazione metodologica e disciplinare. La ricerca spazia anche in ambito didattico, soprattutto in riferimento alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e sulla loro integrazione nei processi formativi. Essa può riguardare anche la documentazione educativa, la diffusione di buone prassi nella scuola, lo scambio e il confronto di informazioni, esperienze, utilizzo di materiali didattici. Infine, può riguardare l’interazione fra le varie componenti del sistema scolastico con soggetti istituzionali competenti ed enti di ricerca. Gli strumenti di formazione, osservazione e valutazione che accompagnano gli insegnanti nella loro attività educativo-didattica presuppongono la capacità di lasciare tracce e produrre memoria delle buone cose fatte. In questa prospettiva la documentazione viene strettamente correlata alla competenza riflessiva da parte degli insegnanti, con la valorizzazione della loro azione di riflessione sulle pratiche professionali che quotidianamente realizzano e sulla possibilità di diffondere e condividere con i colleghi, con le famiglie, con altre strutture educative e con la società i risultati raggiunti. Quando si parla di ricerca a scuola, il rigore deve riguardare la definizione esatta dell’oggetto della ricerca, con delimitazione del campo, ipotesi di studio, utilizzo di un metodo efficace, declinato in parametri chiari e precisi di osservazione e di valutazione, avendo cura e precisione nell’analisi dei dati raccolti. Anche se il vero lavoro di ricerca va riportato alla quotidianità dell’insegnamento, a volte le proposte di sperimentazione e ricerca giungono agli insegnanti durante i corsi di formazione, attraverso specifici decreti, oppure viene stimolato dalla loro stessa partecipazione a convegni o seminari inerenti ai temi che inducono interesse e spingono a mettere in pratica le cose ascoltate/viste in quell’occasione, ad esempio con ricerche proposte direttamente da università o enti di ricerca con i quali la scuola collabora. Nascono cosi progetti di ricerca che coinvolgono gli insegnanti facendoli uscire dalla routine del loro ruolo e compito quotidiano, ricavando un tempo speciale da dedicare alla formazione, alla formulazione e discussione dei contenuti del progetto e delle metodologie da utilizzare nell’attività e nella valutazione, senza mai perdere di vista che tutto il lavoro deve riguardare finalità formative per quel determinato gruppo di bambini ad essi affidati. LA LEGGE SULL’AUTONOMIA SCOLASTICA PREVEDE LA COSTITUZIONE DI UN ORGANICO DELL’AUTONOMIA PER L’ATTUAZIONE E GESTIONE DI PROGETTI EDUCATIVI DI QUALITÀ. IL CANDIDATO ESPONGA LE LINEE E I PRINCIPI DI TALE PROVVEDIMENTO. Il Piano Triennale dell’Offerta Formativa, all’interno delle innovazioni apportate dalla Legge 107/2015, afferma con convinzione la scelta del principio della flessibilità, intesa come strategia di approccio per qualificare l’azione formativa della scuola e ribadisce l’importanza di promuovere forme di flessibilità didattica e organizzativa. A confermare tale orientamento è la nota del MIUR dell’11 dicembre 2015. Si vuole così sottolineare e ribadire come la piena realizzazione del curricolo di scuola e il raggiungimento degli obiettivi della legge non possano prescindere da forme organizzative flessibili. La legge, pur non intervenendo sugli ordinamenti attuali della scuola né modificando alcun elemento di tipo strutturale, introduce, per garantire il principio della flessibilità, un’ulteriore innovazione che cambia profondamente l’organizzazione della didattica: l’organico dell’autonomia. Essa riprende l’idea di assegnare alle scuole un organico più ampio rispetto a quello destinato a coprire cattedre, insegnamenti e orari di lezione, idea che era stata formulata già alla metà degli anni Novanta, quando era stato introdotto nella scuola elementare l’organico funzionale di circolo e ripresa nei commi 5-7 dell’art. 1 della Legge 107/2015. Tale organico, determinato con cadenza triennale e su base regionale, comprenderà l’organico di diritto, quello per il potenziamento e quello per il sostegno, comprensivo anche dei posti in deroga per i casi più gravi di alunni con disabilità. Esso consente realmente alle scuole di realizzare forme di flessibilità che, semplificando, potrebbero riguardare gli studenti (per esempio con diverse modalità operative) e le attività (per esempio con articolazione del monte ore). Nel PTOF le scuole potranno prevedere il potenziamento dell’organico indicando, oltre al tipo di attività, il contingente di risorse professionali che occorreranno per tale realizzazione. Novità sono sopraggiunte con la sottoscrizione, il 31 dicembre 2018, del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sulla mobilità del personale docente, educativo e ATA, per gli anni scolastici del triennio 2019/20, 2020/21, 2021/22: è stata reintrodotta la possibilità di esprimere preferenze per la scuola, il comune, il distretto, la provincia e sono stati riconfermati i meccanismi tradizionali delle fasi comunale, provinciale, interprovinciale, in pratica superando l’organico degli ambiti territoriali e reintroducendo, di fatto, una dimensione provinciale ai ruoli dei docenti. Inoltre, i docenti che otterranno il trasferimento saranno titolari su scuola, sia coloro già hanno una sede di scuola, sia coloro che hanno per questo anno scolastico un incarico triennale e la titolarità su ambito, che avranno anche automaticamente la sede su scuola. DEFINIZIONE E ATTRIBUZIONI DEL CONSIGLIO DI ISTITUTO PREVISTE DAL DECRETO LEGISLATIVO 297 DEL 16 APRILE 1994. Il Consiglio di istituto è un organo collegiale presente in istituti scolastici di ogni ordine e grado. Ne fanno parte il personale docente, il personale ATA, i genitori e, nella scuola secondaria di secondo grado, gli studenti. Collegio docenti, personale ATA in servizio e non, gruppo genitori e, quando necessario, gli studenti dell’istituto, eleggono i loro rappresentanti. Ne fa parte di diritto il capo di istituto. Il Consiglio di istituto ha una composizione variabile in base alle dimensioni di ciascun istituto scolastico: nelle scuole fino a 500 alunni è composto da 14 membri, con 6 docenti, 6 genitori (nelle scuole secondarie di secondo grado questi posti sono divisi equamente tra rappresentanti degli studenti e dei genitori), 1 rappresentante del personale ATA e il dirigente della scuola. Nelle scuole con più di 500 alunni, i componenti diventano 19: 8 insegnanti, 8 genitori (nelle scuole secondarie di secondo grado questi posti sono divisi equamente tra rappresentanti degli studenti e dei genitori), 2 rappresentanti del personale non docente e il capo d’istituto. Alle riunioni del Consiglio di istituto possono partecipare, semplicemente a titolo consultivo, gli specialisti che sono impegnati in modo continuativo nella scuola con compiti medico, psico-pedagogici e di orientamento (Dlgs del 16 aprile 1994, n. 297, art. 8, comma 5). Il Consiglio è presieduto da un rappresentante dei genitori, eletto a maggioranza assoluta. Viene inoltre eletta tra i componenti dell’organo collegiale la giunta esecutiva che, sotto la presidenza del capo d’istituto e il coordinamento del direttore SGA che ne è membro di diritto, predispone i lavori del consiglio. Il Consiglio ha potere deliberante su una molteplicità di ambiti, come definito nell’art. 10 del Dlgs 297/94, tra cui: – elabora indirizzi generali e determina le forme di autofinanziamento; – adotta il regolamento d’istituto e il Piano Triennale dell’Offerta Formativa; – indica i criteri generali circa la formazione delle classi; – definisce le modalità di svolgimento dell’orario delle attività didattiche (per il tempo scuola settimanale, da articolare in orario antimeridiano e pomeridiano in 6 o 5 giorni settimanali); – delibera il programma annuale delle attività di recupero, extrascolastiche e dei viaggi di istruzione; – esprime un parere circa l’indicazione della lingua straniera che dovrebbe essere introdotta nelle classi; – la giunta esecutiva predispone il bilancio preventivo e il conto consuntivo. Dopo che il Regolamento DPR 233/1998 ha definitivamente confermato la legittimità istituzionale degli istituti comprensivi, sono state diffuse ulteriori indicazioni dal Ministero per il funzionamento amministrativo e didattico per gli istituti scolastici. GLI ORGANI COLLEGIALI SONO ORGANI DI AUTOGOVERNO AI QUALI SPETTA IL COMPITO DI GARANTIRE «L’EFFICACIA DELL’AUTONOMIA DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE» (ART. 16, COMMA L, DPR N. 275/1999). IL CANDIDATO INDICHI LA COMPOSIZIONE E LE FUNZIONI DEL COLLEGIO DEI DOCENTI E DEL COMITATO PER LA VALUTAZIONE DEL SERVIZIO DEI DOCENTI. Il Collegio dei docenti è composto dal personale docente e presieduto dal dirigente scolastico. Esso delibera sul funzionamento didattico; cura la programmazione dell’azione educativa; adegua i programmi di insegnamento alle specifiche esigenze ambientali e favorisce il coordinamento interdisciplinare; rispetta la libertà di insegnamento, per ciascun docente; formula proposte per la formazione, composizione delle classi e assegnazione dei docenti, per l’orario delle lezioni e per lo svolgimento delle altre attività; valuta periodicamente l’andamento dell’azione didattica per verificarne l’efficacia in rapporto agli orientamenti e agli obiettivi programmati, proponendo opportune misure per il miglioramento dell’attività scolastica; provvede all’adozione dei libri di testo; adotta o promuove iniziative di sperimentazione; promuove iniziative di aggiornamento; elegge i docenti incaricati di collaborare col dirigente scolastico; elegge i suoi rappresentanti nel Consiglio di circolo o di istituto; elegge i docenti che fanno parte del Comitato per la valutazione del servizio del personale docente; programma e attua le iniziative per il sostegno degli alunni con disabilità; esamina, per ogni possibile recupero, i casi di scarso profitto o di irregolare comportamento degli alunni; esprime parere in ordine alla sospensione dal servizio e alla sospensione cautelare del personale docente. Dopo che il Regolamento DPR 233/1998 ha definitivamente confermato la legittimità istituzionale degli istituti comprensivi, sono state diffuse ulteriori indicazioni dal Ministero per il funzionamento amministrativo e didattico per gli istituti scolastici. Con la Legge 107/2015, il Comitato per la valutazione dei docenti è cambiato nella sua durata, composizione, funzione. La durata della nomina dei componenti è triennale, in relazione al PTOF. Pur conservando la presidenza al dirigente scolastico, il Comitato è costituito da tre docenti, due scelti dal Collegio dei docenti e uno da Consiglio istituto; due rappresentanti dei genitori, rispettivamente espressi per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, mentre nel secondo ciclo vi sono un rappresentante degli studenti e uno dei genitori, tutti designati dal Consiglio di istituto; vi è infine un componente esterno designato dall’Ufficio scolastico regionale, individuato tra docenti, dirigenti scolastici e dirigenti tecnici. Anche le funzioni del Comitato sono state ampliate. Un primo compito riguarda il parere sul superamento del periodo di formazione e prova del personale docente e educativo; in questo caso, la sua composizione prevede il dirigente che lo presiede, i tre docenti insieme al docente che ha seguito l’insegnante in prova con funzioni di tutor. Il Comitato può valutare, su richiesta del docente interessato, anche il servizio dell’ultimo triennio, previa relazione del dirigente scolastico, anche riabilitandolo da una sanzione disciplinare. Un secondo compito, con il Comitato in assetto completo, riguarda l’individuazione dei criteri per la valorizzazione e la premialità dei docenti in base alla qualità dell’insegnamento, al contributo al miglioramento dell’istituzione scolastica e a risultati conseguiti, alle responsabilità assunte. IL CANDIDATO DEFINISCA CHE COS’È IL PEI E QUALI SONO LE SUE FINALITÀ. È il documento mediante il quale viene descritto e organizzato l’intervento didattico educativo-didattico multidimensionale sulla base del funzionamento dell’alunno con disabilità certificata, per la realizzazione del suo diritto di istruzione e apprendimento, previsto dalla Legge 104/92. In esso vengono definite le modalità di intervento finalizzate a sostenere e a rendere concreto il diritto all’educazione e all’istruzione, avendo ben presente che, al centro della programmazione educativa e didattica, c’è l’alunno con la sua situazione peculiare e le sue esigenze di sviluppo. Nel Dlgs 66/17 si afferma che l’inclusione scolastica è attuata attraverso la definizione e la condivisione del PEI come parte integrante del progetto individuale. Il modello bio-psico-sociale ICF-CY dell’OMS può esserci in questo caso utile proprio per osservare il funzionamento della persona da una prospettiva a 360°, nelle sue diverse componenti di funzioni e strutture corporee, attività e partecipazione, fattori contestuali. Il Dlgs 66/2017 e il successivo Decreto correttivo 96/2019 sottolineano infatti questa nuova prospettiva nella definizione del Profilo di funzionamento dello studente, documento propedeutico e necessario alla successiva stesura del PEI. Il PEI è elaborato e approvato dal Gruppo di Lavoro Operativo per l’inclusione, sulla base del Profilo di funzionamento, avendo particolare riguardo all’indicazione dei facilitatori e alla riduzione delle barriere, secondo la prospettiva bio-psico-sociale alla base della classificazione ICF. Nel PEI si individuano inoltre obiettivi educativi e didattici, strumenti, strategie e modalità per realizzare un ambiente di apprendimento nelle dimensioni della relazione, della socializzazione, della comunicazione, dell’interazione, dell’orientamento e delle autonomie. Vengono inoltre esplicitate le modalità di sostegno didattico (compresa la proposta del numero di ore), le modalità di verifica, i criteri di valutazione in relazione alla programmazione individualizzata, gli interventi di inclusione. Va inoltre ricordato che la verifica dell’adeguatezza del PEI va svolta in itinere, per permettere eventuali aggiustamenti necessari negli obiettivi definiti e nelle attività individuate, apportando quindi le eventuali modifiche e integrazioni. Nel PEI si definiscono inoltre gli strumenti per l’effettivo svolgimento dei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, assicurando la piena partecipazione dei soggetti coinvolti nel progetto di inclusione, guardando nell’ottica del Progetto di vita dell’alunno. IL COLLEGIO DEI DOCENTI DEVE ASSICURARE L’ELABORAZIONE DEL PTOF IN ORDINE ALL’INTEGRAZIONE/INCLUSIONE SCOLASTICA. IL CANDIDATO INDICHI LE PRIORITÀ CONTESTUALIZZATE RISPETTO AGLI INDICATORI DI QUALITÀ RIFERITI ALLA NUOVA NORMATIVA. LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA PREVEDE LA POSSIBILITÀ DI GESTIRE E ORGANIZZARE AL MEGLIO IL PROCESSO DI INSEGNAMENTO-APPRENDIMENTO. IL CANDIDATO ILLUSTRI IN CHE MODO LA SCUOLA PUÒ USUFRUIRE DI OPPORTUNE RISORSE ED OFFERTE PER TALE COMPITO NELL’ESERCIZIO DELL’AUTONOMIA ORGANIZZATIVA E DIDATTICA LA SCUOLA PUÒ SVOLGERE MODALITÀ ANCHE IN FORMA ASSOCIATA/CONSORZIATA NELLA PROPOSTA DELL’OFFERTA FORMATIVA. IL CANDIDATO/LA CANDIDATA ANALIZZI ALCUNE DELLE SUDDETTE MODALITÀ. Le reti di scuole: le scuole possono stipulare convenzioni con università statali o private, con istituzioni, enti o associazioni per realizzare determinati obiettivi. le istituzioni scolastiche possono quindi promuovere accordi di rete per attività di potenziamento della didattica, di ricerca sperimentazione e sviluppo, formazione o aggiornamento, amministrazione contabilità, acquisto di beni servizi. L'organo competente per deliberare sul tardi accordi è il consiglio d'istituto ma qualora si tratti di attività didattica o di ricerca sperimentazione e sviluppo o formazione e aggiornamento deve essere approvato anche dal collegio docenti. IL CANDIDATO ESPLICITI GLI ASPETTI SALIENTI DELLA LEGGE SULLA «BUONA SCUOLA» (LEGGE 13/07/2015 N. 107), ANCHE FACENDO RIFERIMENTO A TEORIE E MODELLI SOCIO-PSICO-PEDAGOGICI. LA LEGGE 107/2015: NODI PROBLEMATICI L’AUTONOMIA SCOLASTICA, ESALTANDO LA FLESSIBILITÀ DIDATTICO-ORGANIZZATIVA, LA RESPONSABILITÀ E L’INTEGRAZIONE DEI SISTEMI, SI PROPONE CAPACE DI OFFRIRE A «TUTTI GLI ALUNNI» LE MIGLIORI OPPORTUNITÀ PER LA PIENA SODDISFAZIONE DEI BISOGNI FORMATIVI. IL CANDIDATO ESPONGA SINTETICAMENTE, NELL’OTTICA DELL’INCLUSIONE E DEL MIGLIORAMENTO DELLA QUALITÀ, I COMPITI DEI DIVERSI ORGANI COLLEGIALI E LE POSSIBILI MODALITÀ DI AUTOANALISI
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