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Tradurre nell'Italia del Risorgimento, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Sintesi del libro in vista dell'esame

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 14/01/2023

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anna_pozzi 🇮🇹

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Scarica Tradurre nell'Italia del Risorgimento e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! TRADURRE NELL’ITALIA NEL RISORGIMENTO di Maria Pia Casalena INTRODUZIONE UN ALTRO CANONE A formare la cultura nazionale non sono stati solo Foscolo-Leopardi-Manzoni, ma bisogna dare attenzione a un altro canone, magari meno raffinato, però fondamentale in questo processo. Gianfranco Contini è stato il primo a pensare di inserire gli autori di romanzi storici e dei teorici della lingua moderna della letteratura italiana. Fu Mario Banti a proporre un nuovo canone che faceva riferimento ai testi efficaci nel diffondere e inculcare i valori della coscienza nazionale italiana, intesa come “comunità di discendenza”. Questo libro presenta un nuovo canone per gli autori del Risorgimento perché vengono considerati gli autori stranierisi tratta del “canone in traduzione”, studiato per la prima volta dai Translation Studies e che fa il paio con i classici della letteratura italiana. Quello che hanno dimostrato è che adottare un testo straniero in un ambiente culturale diverso comportasse sempre manipolazioni, oltre alla semplice traduzione linguistica. Certo, nell’Ottocento c’era l’obbligo della fedeltà alla lettera degli originali, ma questo ha comunque significato interventi sia per quanto riguarda la mediazione culturale che nella curvatura di voci oltreconfine per andare incontro al pubblico italianochi adottava un testo straniero, lo adattava, tutto questo grazie a discorsi che rafforzavano o sminuivano il messaggio originario. Quindi un testo era scelto per mostrare come doveva o non doveva essere l’Italia; ecco perché i libri tradotti parteciparono al processo di creazione della nazione. In particolare per quella italiana, fatta di valori sociali, religiosi, politici ed economici, il tutto farcito da una memoria storica che proveniva dall’estero. Alcuni editori furono fondamentali nell’ampliare l’offerta culturale riguardo la storia e le dottrine politiche; inoltre, grazie alle traduzioni, divennero famosissimi dei romanzi esteri. Ecco perché si inizia a parlare di pubblico “medio”, sia in termini dimensionali (tra élite e semidotti) che di gustoquesta medietà è ciò la letteratura “alta” non riusciva a toccare, che però è fondamentale nella società civile e nella politica (anche così, il massimo dei lettori ammontava a qualche decina di migliaia). Nonostante i “pochi” lettori, questi testi erano presenti da nord a sud: questo pubblico fu fondamentale per superare i confini di saperi prima molto elitari (come quello storico). In poche parole, le traduzioni furono fondamentali per la formazione dell’opinione pubblica e della comunità esistente ed auspicabile. I Translation Studies sono stati spesso esclusi, ma ora sono tornati alla loro diffusione, anche perché grazie alla metodologia comparativista si è dimostrato che la storia della letteratura fa il paio con la storia della mentalità e delle idee. Tutto questo è stato fondamentale all’interno del Risorgimento, le cui elaborazioni teoriche sono state inserite nei libri. Nell’Europa dell’epoca, l’Italia cercava una traccia di sorellanza con le altre nazioni, ma riconosceva la volontà di avere una propria indipendenza e progresso. RISORGIMENTO E TRADUZIONI 1 La fedeltà testuale, valore presentato come fondamentale, aveva iniziato a vacillare nella fase unitaria per rigettare le posizioni di un Settecento troppo libero e infedele. Anche la censura è stata un aspetto fondamentale di questa fase (anche se la perdita di molti archivi rappresenta un problema). In sede di traduzione, vi erano sempre un editore e un traduttore che tagliavano e commentavano per i divieti e precise intenzionalità pedagogiche e ideologiche. Come dimostrano molti studi, il panorama milanese modernizzato era stato fondamentale per l’attività editoriale, nonostante i vincoli al suo interno. In termini relativi, però, non si traduceva tantissimo (anche se la cosa aumenterà a partire dal 1861) e poco dal tedesco e niente dal russo; eppure c’erano non pochi titoli, fondamentali poi nel panorama italiano. In occasione del 150° dell’Unità, sono stati editi molti testi che hanno tentato di dar conto di una coagulazione di idee graduale e che non superò mai effettivamente il particolarismo regionale. Anche il canone traduttivo non surclassò mai i gusti e gli orientamenti formatisi su scala statale o regionale. Tutto questo vale per la storia, la politica, la letteratura e la scienza. Nonostante il 1848 avesse portato con sé molte delusioni, queste non riuscirono mai a creare allineamenti definitivi. Inoltre la biforcazione tra centri liberali e reazionari non fu mai così nitida: si sa che Modena fino al 1860 fu la capitale editoriale degli stranieri controrivoluzionari, come anche la Roma sotto la protezione di Napoleone III. Eppure le offerte nelle librerie erano sempre molto vaste e, infatti, ogni famiglia politica puntò sulla traduzione per influenzare un pubblico non poliglotta e molto vasto. Va tenuto in considerazione che in questo periodo non ci fu davvero un confronto ad armi pari tra culture “moderate” e “democratiche”: le seconde non crearono mai dei discorsi che fossero in grado di fronteggiare le prime. Eppure il mondo reazionario aveva una grande varietà di modelli adottati: abbiamo dei discorsi sulla Costituzione già nel ventennio di inizio secolo. DATI D’INSIEME E PROBLEMI DI METODO I testi letterari sono stati inseriti nelle fonti della ricerca storica e questo ha alimentato diversi dibattiti necessari per dialogare con una tradizione specifica e sui risultati di una certa storia culturale. In particolare la scuola francese si è avvalsa della storia dei libri per indagare a tutto tondo le circolazioni delle traduzioni. I vari testi vanno confrontati con la storia del Risorgimento e della loro collocazione geografica, anche tenendo conto delle tensioni verso un assetto statale nuovo, indipendente e liberale. Come hanno dimostrato gli autori dell’Atlante culturale del Risorgimento, un testo edito per il 150° dell’Unità, le scelte filologiche e linguistiche di quel periodo non sono state casuali, così come anche la selezione degli autori da importare. Questo nuovo percorso filologico ha incorporato le traduzioni nella sua analisi e, a esse, ha riscoperto le voci riviste della Restaurazione, a lungo trascurate ma fondamentali nel creare una letteratura nazionale dal movimento delle letterature regionali. L’affermazione del nazionalismo risorgimentale non mise in secondo piano le voci straniere ma, anzi, queste furono fondamentali per riscoprire radici, tradizioni e patrimoni in vista della libertà e dell’indipendenza. Quello che si mostra qua è come tagli e manipolazioni abbiano avuto più o meno conseguenze, soprattutto per quanto riguarda l’individuazione di patrimoni discorsivi in altre lingue la cui importazione era vantaggiosa rispetto a valori e immagini delle società preunitarie. LE TESSERE DEL MOSAICO 2 per dimostrare che non era una lingua arroccata sulle pretese da trecentisti. Quindi: la fedeltà era un valore irrinunciabile ma questo non significava l’imitazione pedissequa che aveva portato all’“infrancesimento”; inoltre non tutto era adattabile ai lettori italiani: bisognava selezionare e poi italianizzare ammodernando l’italiano. L’Ossian parlava delle origini delle nazioni moderne con le loro cadute e i loro eroi di libertà: questo richiama alcuni dei miti preromantici delle comunità europee che avevano lottato contro gli invasoric’era già l’Europa delle nazioni dove l’Italia doveva rivendicare il proprio posto. Come si vede nell’opera, i figli dei sovrani spodestati e soggiogati ereditava un dovere alla guerra di liberazione che significava sia dovere filiale e chiamata alla vendetta nazionale; nonostante fosse un profondo illuminista, Cesarotti non intendeva sollecitare alla rivolta o alla rivoluzione, fu addirittura criticato per aver indirizzato dei versi di encomio agli Asburgo e a Napoleone. La sua opera però fu fondamentale per edificare una proto-idea nazionale fondata sulla storia del dovere. Questo filologo passò ai posteri sia un’elevata coscienza di sé attraverso l’italiano delle sue traduzioni sia un patrimonio di analogie facilmente maneggiabili: bisogna considerare però che non c’era ancora una precisa idea di pubblico o un legame tra l’importazione all’estero e i fruitori del libro, ma il livello delle pretese si era alzato. Saranno le nuove condizioni delle strutture e del mercato dell’editoria a rendere chiara l’intuizione del nesso tra traduzioni e pubblico “medio”, anche perché Cesarotti era un docente universitario che interloquiva solo coi letterati. La sua importanza sta comunque nell’aver inaugurato il nuovo corso del nazionalismo romantico. UN BESTSELLER TRA OMERO E LA GRECIA MODERNA Vincenzo Monti riveste in questo discorso una grande importanza: intraprese la fatica della traduzione letteraria avendo maturato una precisa idea della lingua italiana per il XIX secolo. Il classicismo fatto proprio dal poeta romagnolo si inseriva nel gusto neoclassico dell’ Empire e del Regno d’Italia e in questo caso non c’erano gli strumenti filologici comparativi. In più Monti non conosceva il greco antico e quindi tradusse per molto dalle versioni latine; quando si arriva all’opera definitiva del 1825 ci si trova di fronte a un progetto letterario solido, maturato negli ultimi anni con le polemiche letterarie della Restaurazione. Monti si fece fautore di un progetto di lingua letteraria italiana contro il trecentismo integralista dei Cruscanti e che ammettesse termini moderni soprattutto di ambito scientifico e tecnico: questo progetto era stato presentato con ironia e si inseriva nel solco delle petizioni avanzate verso il rinnovamento della lingua, nonostante ancora confinato tra le mura delle élite letterarie. Quell’anno si accodò a Monti anche Andrea Mustoxidi, nativo di Corfù e studente a Padova con Cesarotti come Ugo Foscolo: costui fu nominato da Bonaparte lo storiografo ufficiale delle isole Jonie e, vittima delle repressioni dei nuovi governatori inglesi di Corfù, si era trasferito definitivamente a Milano; nei primi anni Venti inizia a tradurre. Costui è un’esponente eccellente di quella transizione continua tra le appartenenze nazionali e statali che rappresentavano le isole ionie dopo il controllo di Venezia: aveva scritto sulla storia e sui monumenti di Corfù in lingua italiana e quindi per Monti si trattò di compiere un itinerario per italianizzare storia e identità elleniche. In più c’era il mito vichiano di Omero come cantore primigenio dell’età dell’oro e come testimone dello spirito di partecipazione del popolo agli albori della civilizzazione. E così costoro decisero di intraprendere un progetto comune che non trascura la fedeltà del testo ma era fatta modernamente e fedelmente italiana, riempiendo un vuoto nella letteratura italiana e gettando un ponte tra Italia e Grecia. In quel periodo parlare di letteratura italiana equivaleva a una professione di fede più o meno esplicita e in particolare nel suggerirla al lettore; in più era chiara la connessione con il 5 filoellenismo, movimento nazionale e transnazionale di riscatto della Grecia moderna, un’altra nazione invasa ma pronta al risveglio: infatti Mustoxidi prese parte al governo di Kapodistrias, il primo della Grecia liberata. Questo discorso era implicitamente nazionalista e bastava a demolire nel lettore “medio”, raggiunto da Monti, ogni immagine di legittimità legata all’assetto del Congresso di Vienna. Non era più tempo di inventarsi un italiano moderno in quanto quest’ultimo non dimenticava le sue radici classiche ma di individuare una via media facilmente comprensibile con un dosaggio di figure retoriche senza mai grecizzato l’italiano; la fedeltà, valore fondamentale, era stata mantenuta da Monti riconoscendo ognuno i suoi meriti. Prima di questa edizione del 1825 continuava a circolare la versione di Cesarotti a cui era stata affiancata quella di Michele Leoni, l’esponente più fedele della “via toscana” delle traduzioni. Dopo l’uscita montiana, la concorrenza si dileguò nel corso di poco tempo e questa versione approdò in tutta Italia. Nel frattempo la Grecia era diventata un Regno indipendente e per la penisola italica non era più tempo di filellenismo, ma era incominciata l’epoca del Risorgimento. La fratellanza, il rispetto delle donne, lo struggimento delle madri la morte degli eroi erano ingredienti facilmente traslabili alle urgenze del momento presente e soprattutto erano resi accessibili allo stesso pubblico dei romanzi e del melodramma e il successo montiano fu tale che nessuno si ostinò a proporre un’altra Iliade e le altre correnti finirono nel dimenticatoio. MANIPOLARE PER NAZIONALIZZARE La versione che Lazzaro Papi pubblico Lucca nel 1811 del Paradise Lost di John Milton era ostica e libera: dedicata alla sorella di Napoleone si inseriva nella corsa alle traduzioni dei letterati italiani e riguardava un classico inglese. Il poema secentesco però era già stato tradotto nel XVIII secolo da diversi autori, quindi che senso aveva quello che aveva fatto Papi? Costui nato nel 1763 avevo imparato l’inglese a Pisa dove si era laureato in medicina: imbarcatosi per l’India come chirurgo militare era stato ufficiale inglese e poi autore di scritti ricchi di critiche sia sulla cultura autoctona indiana che sull’imperialismo britannico. La reggente di Luca lo nominò bibliotecario di Corte e delle sue truppe e la sua versione di Milton lo rese accettato dai critici britannici. Come lui stesso ha dichiarato, si muoveva lontano dall’imperativo della fedeltà affermando che aveva omesso dei passi dove una maggiore aderenza al testo avrebbe nuociuto l’eleganza e dove l’originale secondo lui questo si abbassava: il suo scopo era tenere una via di mezzo tra l’eccessiva libertà dei traduttori francesi e la scrupolosità degli italiani. Inoltre aveva tolto qualche ripetizione e alcune parole tecniche e corretto qualche passo eterodosso. Costui aveva proseguito la sua carriera anche nel regime borbonico dando alle stampe la sua opera più famosa sulla rivoluzione francese: insieme a Michele Leoni, è stato uno dei campioni della civiltà della traduzione poetica Toscana che non si era interrotta nemmeno nel passaggio di secolo e che aveva l’Inghilterra il suo punto di riferimento. Nel 1919 aveva avviato la sua ricostruzione della Rivoluzione Francese e della sua espansione le cui idee dovevano già essere vitali all’epoca dell’adozione del classico inglese. Quest’opera celebre, connotata sul piano politico, venne rivisitata con traduzione originale per proporre all’Italia napoleonica lo spirito della prima rivoluzione inglese in comparazione intellettuale con l’autore che avrebbe poi individuato come origini della Grande Révolution fino alla pace napoleonica: si è molto lontani dal lo spirito di John Milton ma questo non interessava il traduttore lucchese. Il traduttore parla di un’opera sul cristianesimo quindi potenzialmente universale come doveva essere il compito della poesia: nella Premessa inoltre Milton è paragonato a Omero e anteposto Virgilio. Ma come fece Papi ha intercettare quel gusto “medio” che lo rese un titolo così famoso? Non con il puritanesimo ma nei passaggi eterodossi per la curia romana nei 6 quali Milton venne rimaneggiato: a Papi interessava distinguersi da quell’imperativo della fedeltà anche perché non gli interessava lo spirito di Milton dal momento che Il Paradiso perduto era un’opera squisitamente italiana, in cui abbondavano echi danteschi e che doveva far saggiare al lettore più sprovveduto tutti gli eccessi dannosi delle rivoluzioni moderne; addirittura si mise in discussione la scelta dell’argomento da parte di Milton che secondo lui non sarebbe stata molto felice e condivisibile. Nella biografia del poeta non mancarono stroncature di Cromwell e del regicidio perché secondo il poeta costui aveva usurpato il potere supremo. Questa era la “lezione toscana” sulla prima Rivoluzione inglese e nel 1811 il pacificatore Napoleone si poteva contrapporre all’usurpatore del XVII secolo; nonostante ciò, tutta la grandiosità bastava a far pensare grandi cose e perciò Papi investì molto sull’espressione della resa quando tratto direttamente versi riguardanti Lucifero. Infedeltà e premesse critiche dovevano quindi rendere possibile il miracolo del successo della versione di Lazzaro Papi avanti il Quarantotto: anticipando le tattiche degli editori della Restaurazione, Papi ammise i testi preliminari per ossequio all’ortodossia censoria e per italianizzare Milton. E da qui negare la radicalità del messaggio dell’autore originale si sarebbe dimostrata una scelta vincente anche negli anni dopo: presentare un’opera non più come consona ma come dissonante rispetto al genio italico serviva la causa dell’individuazione e dell’elaborazione di questo. Chi leggeva Papi non ammirava lo spirito dell’originale e deprecava la cattiva via alla libertà e sugli effetti anche sulla religione nazionale. Lazzaro Papi non era un letterato di prim’ordine ma un uomo dall’establishment napoleonico eppure la fortuna dell’opera sorpasso la reputazione dell’autore. Ebbe molto successo a Milano ma poco a Firenze, segno che non era riuscito a entrare in sintonia coi moderati toscani anche perché la città del Giglio avrebbe sempre schierato in prima linea il suo Michele Leoni. DIDIMO CHIERICO: LA MEDIAZIONE SEMISERIA La transizione da Jacopo Ortis a Didimo Chierico sottintese per Ugo Foscolo una travagliata meditazione sull’individuo e la sua libertà di fronte alle resistenze storiche, istituzionali e politiche del suo tempo. Nella biografia si passava dal romanzo epistolare incompiuto ma sottovalutare la portata di questa fatica narrativa sarebbe come lasciare un vuoto nella comprensione di questo itinerario singolare della vicenda del patriottismo intellettuale italiano. La versione del frammento di Lawrence Stern fu data alle stampe con lo pseudonimo semiserio di Didimo Chierico: negli anni Dieci era stata una mossa decisiva per la letteratura italiana e lo stesso lemma semiserio sarebbe stato fatto proprio nella Restaurazione. Ma perché Foscolo decise di tradurre Stern? All’epoca Foscolo si trovava in Francia dove apprese la lingua inglese tramite il contatto con i prigionieri britannici del console Napoleone e si pose all’opera di versione anche se il risultato definitivo si sarebbe fatto attendere quasi dieci anni: il risultato definitivo doveva testimoniare di un profondo ripensamento dell’italiano letterario come risultante dell’opera di mediazione da un inglese colto, ancora molto elaborato e complesso ma reso con chiarezza e scorrevolezza al pari dell’eleganza. Foscolo non volgarizzò, ma tradusse e questo comportò un notevole lavoro sulla resa sintattica. Infine con lo pseudonimo di Didimo Chierico e una prefazione giustificativa, Foscolo diede alle stampe una narrazione piacevole e ironica con la quale giungeva alla riformulazione delle sue basi filosofiche ed esistenziali. All’io ribelle di Jacopo subentrava un individuo tutto senso comune e di sano scetticismo le cui emozioni si fermavano al di qua del pathos. In quelle pagine c’era l’osservazione dei paesi stranieri, il divertimento, il disappunto e anche l’amore ma tutto in modo tale da non increspare la superficie di un atteggiamento 7 Le traduzioni talvolta anticiparono le idee veicolate dai letterati gli storici e dai pensatori politici italiani e i transfer, a dispetto di ogni epoca, furono sempre molto disparati. Le culture straniere contribuirono per un sessantennio a plasmare identità che furono sempre mobili e plurime. Bisogna iniziare dal 1810, caratterizzato dall’uniformità istituzionale della penisola così come il dominio napoleonico che segnava il suo culmine: solo le isole maggiori sfuggivano alla monarchia amministrativa, all’esercito meritocratico e alla codicistica transalpina. In questo mondo ogni capitale giocava una partita originale con le culture straniere nel segno di una gelosia del particolarismo ma anche di un rapporto differente con la recente eredità rivoluzionaria. Milano è stata importante perché nel panorama strutturale, ancora in evoluzione, si potevano cogliere tutti i segni di un prepotente imperialismo culturale: autori del nuovo sistema di potere e della sua selezione degli echi rivoluzionari erano i padroni nell’offerta dell’editoria locale. Uno dei maggiori autori tradotti fu Pothier perché segnava l’era nuova del codice civile napoleonico; per quanto riguarda, invece, l’evasione c’era soprattutto Voltaire. C’era qualcosa che iniziò però a muoversi in senso diverso tanto che nel 1814 venne pubblicata l’edizione definitiva del De Allemagne di Madame Staël; un fil rouge sotterraneo elaborava una differente memoria della Grande Révolution ma pure nuovi miti di sorellanza intraeuropea e di posture etico-politiche che alimentarono sistematicamente il primo sorgere della nuova idea di nazione. Il modello inglese ricompariva nonostante il blocco continentale in una versione critica e più moderna maturata dalle dinamiche transalpine che sfociava nel nuovo modello del liberalismo sui generis di Coppet, corroborato dall’etica kantiana e dal nuovo mito delle Nazioni oppresse. Una fronda sistematica di questa ideologia era il ripudio di tutti i dispotismi antichi e moderni e soprattutto una ben precisa concezione della nuova categoria della politica ovvero la nazione. Per la baronessa figlia di Necker queste erano voci culturali con qualche persistenza delle teorie climatiche, con un profondo ripensamento e una valorizzazione della storia senza che si innestassero motivi razziali etnici o legati alla discendenza secolare degli avi. Questo la Germania lo dimostrava perché le nazioni erano sì identità unitarie ma anche plurali nel senso di una complementarietà rispecchiata dalle scelte istituzionali e dalla vita culturale di ogni regione: nella Germania di Staël rientrava anche la Svizzera germanofona. A livello pratico la linea Hume-Kant si risolveva in una condotta del dovere e in una rivalutazione del sentimento e della simpatia compatibile con la costruzione di metafisiche sistematiche basate sull’individuo. Questa linea non venne meno neanche negli anni più gravi delle repressioni austriache ma tra il 1815 e il 1830, l’età delle cospirazioni liberali e militari coincidente con l’assorgere di Milano a capitale della produzione libraria italiana, a questo ideale si innestarono tasselli utili come Montesquieu, Robertson, Addison e Benjamin Franklin; a costoro si unirono Schiller, Goethe, Byron e addirittura torno il Michaut, storico delle crociate il che significava il ritorno di un cristianesimo cattolico illuminato ma anche nostalgico del Medioevo che si saldava un forte sentire borghese e liberale moderato a un senso pratico molto sviluppato, rifiuto di ogni forma di oppressione politica o di imperialismo culturale. In questo periodo si collocano la “Biblioteca Italiana” e poi il “Conciliatore” che proponevano stimoli esterni rispetto all’Italia. Ma il vero protagonista fu il romanzo di Walter Scott da cui derivò la voga del romanzo storico straniero e la vivace traduzione degli autori italiani fino a capolavoro di Alessandro Manzoni. In questo periodo fu importante anche Sismondi che pubblicò la prima versione completa della storia dei comuni medievali che fu una apologia di un Medioevo progressista e anticlericale che additò periodizzazione nuove ai miti della storia italica. In questo modo la religione nazionale si conciliava 10 con la filosofia, col progresso e con i nuovi riferimenti costituzionali borghesi aristocratici, confessionali e gradualisti. La libertà della Grecia, le Tre Gloriose e la rivoluzione belga furono un potente acceleratore ai valori mutuati all’ombra delle due anime – cattolica e liberale – che fino ad allora avevano vissuto fianco a fianco: non fu una frattura netta ma intorno al 1845 si era fatta visibile concretizzandosi nella fioritura di un’editoria orientata in senso cattolico-conservatore e tradizionalista a cui si contrapponevano stampatori vecchi e nuovi che si affermavano come portavoce nazionali della nuova agenda patriottica e non più esclusivamente su scala regionale. Alcuni titoli come il Balzac erano condivisi da entrambe le parti ma a Milano furono lanciate due linee culturali destinate a procedere parallelamente. Dai Truffi e gli Oliva furono lanciati il canonico Schmid e il devoto Barthélemy Baudrand per approdare sullo scorcio del Vormärz in pieno 1848 e Montalembert per una politica e una dottrina del tradizionalismo papale e del temporalismo universale e antiliberale. La proposta dall’altro campo partiva da Defoe per arrivare a Guizot, Hugo e Dumas, da Schiller, da Goethe e la stessa Madame Staël. Questi autori erano stati abilmente inglobati anche dagli oppositori nel cambiamento ma costoro non riuscirono a isolarli tant’è che finirono nella sconfitta. Ogni libro ebbe una manipolazione linguistica ed extra linguistica ma alcuni nomi furono veramente fondamentali per il Risorgimento italiano. Per comprendere meglio il discorso di Milano bisogna rifarsi anche a Torino: la città di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice non traduceva perché gelosa della sua italianità purista e retorica ed era affezionata a un’editoria di lusso per pochi e per questo motivo la capitale sabauda resistette a lungo all’esterofilia e al boom del romanzo storico o realista; l’unico lampo lo si ebbe nel 1821 quando si tradussero i titoli più tempestivi sul Risorgimento della Grecia altrimenti si poteva arrivare solo ai devotissimi Baudrand o Pichler. All’epoca delle prime riforme di Carlo Alberto si tradussero John Stuart Mill, Jeremy Bentham e addirittura Edgar Quinet ma fu tutto qui: a Torino mancava ancora una proposta programmatica delle culture straniere come quella che a Milano aveva già visto fiorire delle collane e delle case editrici specializzate nelle versioni delle lingue moderne. Torino era molto legata a Ferrara e Modena dove si traducevano molti dei capolavori controrivoluzionari: questa costellazione ideologica religiosa scomparve dalla scena ancora prima del 1859 poiché Modena e Imola uscirono dal circuito delle traduzioni e la Torino di Vittorio Emanuele II e di Cavour incominciò a tradurre Shakespeare, Schiller e Balzac. In questo modo Torino si fece romantica oltre che liberale e riformista anche nelle traduzioni: il ritardo derivò dalle censure a cui era sottoposta all’editoria torinese. Per quanto riguarda, invece, il caso di Milano bisogna sottolineare che molti testi diventarono famosi grazie alle contraffazioni napoletane e perciò ci furono testi stranieri in prima linea nel contribuire a forgiare gli elementi di coagulazione sovrastatale del discorso e dell’ideale nazionale. Questo è noto grazie agli studi della storia dell’editoria meridionale ma quello che meno noto è che Napoli non si limitasse a inglobare passivamente i successi settentrionali: Napoli tesseva e i suoi contatti internazionali e li innestava sul tessuto del razionalismo classicista che giungeva fino al populismo liberale di Puoti che tesseva legami che permisero di far diventare famosi autori come Kant, Voltaire, Montesquieu e Locke. In campo romanzesco Napoli addirittura introdusse di sua sponte il romanzo gotico con Radcliffe e si mantenne affezionata ai pilastri del romanzo settecentesco con Richardson; inoltre vide la biforcazione tra una proposta avanzata e una retrograda all’epoca dell’ascesa di Ferdinando II che portò a diverse traduzioni. A Milano l’editoria confessionale conservatrice finì negli anni Cinquanta per rappresentare una nicchia protetta mentre a Napoli doveva diventare dominante a seguito delle repressioni borboniche: a Napoli si trovavano nelle librerie anche Dumas e Dickens; una 11 voce solitaria per l’opposizione era simboleggiata dalle raccomandazioni della neonata “Civiltà Cattolica”. Si possono comunque vedere dei trend locali che però fanno comunque riferimento a delle connessioni dal momento che le maggiori voci contro rivoluzionarie si trovavano Modena, Imola, Genova e Torino mentre la voce opposta si irradiò anche a Milano e Torino ma arrivo fino a Napoli e Palermo. Firenze invece faceva un gioco proprio dettando legge anche a Lucca e a Livorno. Negli anni del blocco continentale nella capitale Fiorentina si tradussero Chateaubriand e Johnson, mentre durante Leopoldo II facevano da padroni Barthélemy e Benjamin Franklin vale a dire voci molto diverse ma connaturate all’interno dell’élite dominante della vita culturale del Granducato. Questa gelosa autarchia diplomatico-culturale cessò all’alba degli anni Trenta dopo la soppressione dell’“Antologia” e perciò anche a Firenze si stamparono Walter Scott e soprattutto i grandi storici liberali come Prescott; alla fine del 1848 arrivo anche Sismondi. La sintesi di anglofilia e religiosità locale porto negli anni Cinquanta ad adottare anche Bulwer, il tutto testimoniando una ricerca storica politica e costituzionale in divenire ancorata a certe gelosie identitarie ma sempre più proiettata su una dimensione liberal nazionale e unitaria vigile e critica. Oltre alle eterogeneità sono emersi punti di convergenza sovrastatale nel campo della traduzione libera al nazionale prima neoguelfa e poi sabaudista e, tra questi, la ricerca del problema religioso, la forza di talune relazioni culturali e l’esigenza di elaborare la Grande Révolution e i suoi seguiti, con picchi di amore verso la Francia borghese della monarchia di Luglio. A questo si aggiunge anche il successo del cosiddetto liberalismo di Coppet con le sue ricadute costituzionali ma anche economiche estetiche e letterarie. Inoltre c’era l’affermazione di un campo democratico o proto-socialista che faceva capolino ma finiva presto nel genere avventuroso o idillico o viveva di vita editoriale stentata. Importato e adattato i contesti locali e al sentire comune, questo patrimonio che faceva segnalare un boom di vendite restava comunque minoritario nella vita culturale per il mondo della letteratura italiana tra Impero napoleonico e Seconda Restaurazione. Ma non bisogna sottovalutarne le ricadute sulla letteratura saggistica in lingua italiana e le imitazioni formali alle affiliazioni teoriche. Questo fu chiaro ai paladini della restaurazione asburgica dal momento che le traduzioni influenzavano il gusto ma anche le idee e per questo motivo bisognava combattere le cattive ma anche proporre buone: così si spiegava lo stagliarsi di nicchie editoriali in ogni Stato soprattutto dopo il 1848. Non si poteva fare a meno delle traduzioni e perciò per quanto sparute nella libreria italiana dell’età del Risorgimento queste contribuirono a formare o temprare dei sentimenti oltre ai gusti degli italiani e delle italiane mediamente istruiti e alfabetizzati per tutto il periodo dal ritorno in armi di Bonaparte che doveva condurre a Teano e fin dopo il 1880. AUTARCHICI O ESTEROFILI Uno degli aspetti meno approfonditi della celebre querelle tra antichi moderni è rappresentato dai vari discorsi che si intrecciano attorno alle traduzioni della lingua moderne punto era il 1816 quando sul primo fascicolo della “Biblioteca Italiana” fu stampato il famoso testo di Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni nel quale la baronessa non risparmiava alcune implicazioni spronando gli italiani a esercitarsi nelle versioni dai contemporanei europei per rinvigorire la civiltà letteraria che era uscita disseccata e isterilita dal perdurare del gusto neoclassico e dall’attecchire delle teorie più conservatrici sulla lingua nazionale. Il panorama italico era complesso perché erano già comparse la prima edizione dell’Iliade montiana, varie prove sul Paradise Lost di John Milton e il testo sterniano a firma di Didimo Chierico. Costei però, che lodava soprattutto Monti, non muoveva al fine di un’emancipazione delle autorità classiche ma 12 studio della letteratura straniera si deve trarre la costruzione della lingua. Anche in questo gruppo l’attitudine e i discorsi delle traduzioni dei moderni dovevano convergere verso la riaffermazione di quello che era stato un preciso ideale politico e costituzionale economico e sociale che trovava fuori dalla Francia i suoi appigli. A Firenze si privilegiano gli autori della scuola scozzese del XVIII secolo e poi si puntò sulla rielaborazione liberal-moderata dell’Ottantanove grazie agli storici di punta. Non a caso si tradussero sempre più saggi che i romanzi sulla politica, la storia, l’economia e anche sulla pedagogia: in questo modo a Firenze si trovò modo di riflettere sul nuovo pubblico femminile e il rapporto all’importazione delle culture straniere moderne. Questo è stato sottolineato da Samuele Uzielli, uno dei più importanti traduttori di poesia inglese che affermava che la gioventù italiana non deve considerare i classici come una religione. Fino al 1833 i compilatori del periodico continuarono a vigilare sulla produzione libraria con un occhio critico rispetto a quello che si muoveva a Milano e agli effetti sugli stili dei narratori. I moderati governati da Leopoldo II non si arresero mai all’invasione di poesie prosa straniera moderna ma raccomandarono la più scrupolosa censura morale e formale e di tradurre in buona lingua toscana cioè italiano. Le distanze con le voghe lombarde cominciarono a farsi notevoli dal momento che un bestseller come Byron non si confaceva al sano gusto letterario nazionale e quindi non poteva essere tradotto: quindi toscani non disconobbero il moderno, se non nella forma del genere romanzesco e lo ammisero con straordinaria parsimonia come se volessero innestare pensieri nuovi senza compromettere le forme autoctone. Non fu tanto una questione di classici ma di scrittori degni di rispetto verso la traduzione italica oltre che di una schietta francofobia. In questa via moderatissima, l’esterofilia poteva sorgere qualche pregiudiziale: se le cose buone andavano tradotte, sarà il succo di un parere su una biografia collettiva francese e allora editori e traduttori non devono intervenirvi più di tanto (idea diversa dai milanesi). Secondo i toscani il filtro andava posto a monte dal momento che non aveva senso tradurre un’opera per poi presentarla piena di correzioni e di rettifiche. Nei classici nei romantici moderati toscani intrapresero una propria via specifica nella contesa tra chiusura delle frontiere e importazione smodata il che portò a una via minoritaria e perseguita con coerenza ben oltre 1860. Opposta e più concorde alle scelte milanesi appariva la riflessione mazziniana sull’opportunità e sulla qualità delle traduzioni dei moderni stranieri. Negli scritti giovanili dell’“Indicatore livornese”, secondo Mazzini gli italiani dovevano avere traduzioni dei migliori europei che poi sono quelli che parlano al cuore prima che alla ragione, dal momento che secondo lui alle nazioni si educa prima al cuore poi l’intelletto. Ed ecco perché alla luce delle dottrine politiche e dell’idea di popolo mazziniane, questa nuova sensibilità diventa fondamentale: ecco che appare il riferimento a una sorta di Weltliteratur, repubblicana, democratica e soprattutto giovane in un intellettuale che fece della scena europea al suo campo d’azione. Ciò che sembra più originale nella speculazione mazziniana è l’estrema sensibilità alle esigenze di estensione del ceto di lettori popolare, vale a dire il pubblico medio comprensivo dei suoi artigiani e poi degli operai che si pone come svincolato da qualsivoglia tornaconto commerciale. Nonostante alcune coincidenze tra autori e titoli, non siamo nella via milanese né nella strada dell’importazione di soli pensieri fiorentina. Dei toscani però tornano le implicazioni pedagogiche rovesciate di segno: Mazzini precisa che le traduzioni devono riprodurre forme e spirito degli originali sforzando la lingua letterale italiana e non manipolando mai il sentire degli autori. Dalla fedeltà traduttoria doveva discernere la selezione dei titoli che dovevano essere moderni ma non dovevano essere tradotti tutti. Ad esempio non venne tradotto Sand e neppure fu troppo entusiasta di Scott: il popolo quindi andava sempre e comunque istruito e solo in seconda battuta anche divertitoin questa teoria su un genere popolare di istruzione più che di evasione primeggiavano autori alti da riprodurre nella 15 loro esatta statura, senza banalizzare né degradare alcunché. Gli stranieri da tradurre dovevano parlare al cuore e alla fantasia ma non per mera distrazione delle fatiche quotidiane ma si dovevano tradurre le opere che avessero indotto il popolo a vagheggiare e poi comprendere grandi idee. Secondo Mazzini, quindi, al popolo dovevano andare i capolavori tradotti nobilmente: a queste pretese editoriali, Mazzini ne affiancava parecchie sullo stato specifico delle versioni e addirittura Andrea Maffei, il traduttore tedesco più acclamato del Risorgimento, lo lasciava insoddisfatto. Le traduzioni dei moderni partecipavano a tutti gli effetti alla libreria e alla letteratura nazionale e per questo dovevano essere filtrate dalla critica più rigorosa al pari degli iscritti autoctoni. Quello che appare interessante è il fatto che le traduzioni non dovessero imporre mode letterarie nella penisola: l’esaurimento del romanzo storico era ormai una realtà tangibile e, aggiungeva Mazzini, che molte opere più meritorie non erano state ancora tradotte. Probabilmente agognava a più importazioni dello Sturm und Drang al posto della francofilia romanzesca imperante. Fatto sta che un progetto democratico non poteva fare a meno delle traduzioni e che al contempo queste servivano a tessere legami e a manifestare verità che tutti i popoli dovevano condividere. Originario quanto difficilmente realizzabile, il pensiero mazziniano sulle traduzioni era fondato su un’idea di pubblico che ricomprendeva al suo interno ceti medio-bassi e anche i giovani studenti figli di borghesi: era rispecchiamento del progetto sociale sotteso al suo nazionalismo ma il problema si poneva era che se non si guardava agli Stati Uniti né alla Svizzera, dove si sarebbe potuta attingere una letteratura europea repubblicana e democratica? PASSEURS DA TAVOLINO: TRADUTTORI DEL PRIMO OTTOCENTO È noto che le polemiche contro la pirateria libraria e la contraffazione degli originali in altri Stati che danneggiavano autore ed editore, fossero insorte a partire da Milano già a ridosso del ritorno della casa Asburgo. La situazione ambrosiana si presentava particolarmente ambigua perché da un lato gli Asburgo riconobbero meglio le prerogative dei diritti degli autori, pur sottoposti ancora censura preventiva, ma il governo del Lombardo-Veneto si rifiutò di intervenire a difesa dei suoi sudditi quando i libri usciti venivano contraffatti da editori di altri Stati. A seguito di un movimento di opinione progressivamente allargatosi nell’epoca dei congressi degli scienziati e quindi di una fase di grande autorità dell’opinione pubblica, qualcosa cominciò a maturare pure in alcuni stati italiani: con la convenzione austro-sarda del 1840 i due Stati si impegnarono al reciproco riconoscimento dei diritti dei regnicoli nel campo della creazione letteraria e dell’editoria. Questa convenzione è particolarmente importante perché per la prima volta riconosceva integralmente anche di i diritti dei traduttori. Questi ultimi vennero addirittura equiparati agli autori di opere originali e questo è ancora più rilevante dato che i due Stati coinvolti avrebbero portato nel 1850 all’afflusso di traduzioni di origine lombarda nel Regno di Sardegna. Dall’accordo ne rimase escluso il Regno delle Due Sicilie e questo fece sì che a Napoli con molte più difficoltà e molte meno tutele potevano configurarsi una cospicua levati i traduttori professionali nonostante l’invasione di titoli in traduzione. Ecco perché la maggior parte dei traduttori erano quasi tutti originari del Regno Lombardo-Veneto o del Granducato di Toscana: se a Napoli difficilmente si poteva vivere di traduzioni, nello Stato sabaudo un gruppo di firme originali doveva emergere solo dopo l’Unità quando l’editoria locale si sarebbe finalmente emancipata dall’adozione massiccia dei titoli più fortunati sfornati dai milanesi nel presente nel recente passato. Le dinamiche del contesto librario ambrosiano avevano sollecitato la formazione di una prima generazione di traduttori professionali anche prima della Restaurazione: erano quasi tutti definibili come poligrafi dal momento che alternavano versioni dalle lingue moderne e varie partecipazioni 16 alle riviste e alle opere collettive, dedicando tempo ed energie a diverse case editrici nello stesso momento. Restano ancora valide le motivazioni individuate da Marino Berengo nel suo classico sui mestieri delle lettere nella Milano del primo Ottocento: i più importanti erano ex docenti cacciati dalle scuole pubbliche, emigranti intellettuali alla ricerca di compensi e scrittori in odore di cospirazione che si possono contare sulla dita di una manoGaetano Barbieri, Ignazio Cantù, Cesare Cantù e Davide Bertolotti. I loro nomi, associati a opere particolarmente fortunate, divennero le prime garanzie di affidabilità nella storia contemporanea delle traduzioni in Italia. Tutti lavoravano fino dalla prima Restaurazione a Milano e tutti tradussero sia dall’inglese che dal francese: di Gaetano Barbieri si è perduta quasi ogni traccia, si sa solo che era di formazione matematica e divenne importante per aver tradotto la prima edizione italiana dell’Ivanohe e poi quasi tutto Scott. Fu molto attivo come mediatore dei romanzi inglesi e francesi e lavoro per la Casa Stella: ma di costui, originario di Modena e del quale alcune versioni rimasero valide ancora dopo l’Unità, non si sollevarono particolari lodi anche se sembrava meglio di Davide Bertolotti di cui si diceva che non conoscesse proprio la lingua di Londra e che traducesse dalle versioni francesi. Costui tradusse Sismondi, ma neanche l’incontro con Scott riuscì a legarlo a una lingua e a un autore precisi: Gaetano Barbieri lavorò indefessamente sullo scozzese ma nel frattempo usciva anche con versioni da Goethe e dal francese per altri editori. Continuava a lavorare per altre case editrici anche quando si legò più strettamente la ditta Stella e nel frattempo a Napoli alcune case editrici si facevano un vanto di presentare le sue invenzioni romanzesche. Col tempo il suo approccio era mutato: da anonimo mediatore si era raffinato per l’inglese di Scott e cominciò a inserire note linguistiche, dando conto al lettore del suo sforzo di fedeltà: in questo modo anticipò molti di quelli che sarebbero stati gli usi dei primi professionisti riconosciuti ma, benché traducesse moltissimo di lui, si perse la memoria. Non era troppo inusuale per i questi pionieri del nuovo imperativo della fedeltà testuale, ancora privi di specifiche tutele: Ignazio e Cesare Cantù divennero famosi per motivi diversi rispetto al mestiere della traduzione. Cattolici osservanti e legati alla prima stagione del patriottismo lombardo segnarono un’epoca lunga della cultura milanese alla quale appaiono alcuni narratori francesi di breve momento e l’ultimo Sismondi. Cesare era nato nel 1814 mentre Ignazio era più giovane di sei anni e furono presto costretti all’insegnamento solo negli istituti privati: il primo divenne celebre per i suoi romanzi mentre il secondo come cultore di una letteratura educativa per i ceti popolari. Neoguelfi intorno al Quarantotto, ebbero riconosciute le loro benemerenze dopo l’Unità. Il primo morì nel 1895, isolato dal sentire clericale e antiliberale mentre il secondo era scomparso nel 1877 nel pieno di una violenta polemica antisocialista. Costoro non ripresero più il lavoro di traduzione dopo la convenzione austro-sarda. Chi era molto più anziano era Davide Bertolotti che era devoto al nuovo imperatore francese ed era adulatore di della casa degli Asburgo: tradusse Gibbon e fu uno scrittore fecondo che si misurò con tutti i generi in voga ma torno alla storiografia. Al duttile conformismo di gioventù era subentrata una sostanziale estraneità al dibattito politico nazionale e infatti non traduceva più dai tempi di Gibbon; diciamo che tradusse parecchio ma legò il suo nome relativamente a pochi titoli optando per una tattica opposta a quella di Barbieri che sfornava uno Scott all’anno ma non affrontò mai opere troppo ponderose. Pagati a forfait questi passeurs sottoccupati e stanziali dovevano sempre fare dell’altro e la conoscenza delle lingue si rivelò utile per procacciare un impiego e acquistare una certa unitarietà prima dei riconoscimenti letterari, ma l’uno e l’altro rimasero avvinti ai livelli più bassi e denigrati dei mestieri letterari per quanto avessero affrontato in due modi contrapposti la sfida delle nuove versioni. Per il francese la concorrenza era assai più agguerrita e l’esclusiva di un autore diveniva quasi impossibile. 17 Sulla fedeltà degli abati entrati nell’organico dopo Waterloo non sussistevano troppi dubbi perché il giuramento che dovevano prestare parlava chiaro per quanto fosse reso in forma epistolare. Costoro dovevano promettere fedeltà all’imperatore d’Austria, attendere con zero ai doveri del proprio ufficio e la giusta osservanza delle leggi; inoltre dovevano giurare di non appartenere a società segrete oppure di rinunciarvi e non essere più relazione con loro. Come dimostrato, le priorità rispetto alla circolazione di cultura scritta erano chiare e non aliene alle attitudini dei funzionari che operavano sotto la lunga direzione di Giovanni Bertoni. In questa prima fase si dovette agire in due direzioni: la prima era quella preventiva e poi c’era la necessità di eliminare dalla circolazione libri già stampati e nocivi per la tranquillità dei sovrani restaurati e delle disposizioni del Congresso di Vienna. Dal 1815 al 1822 rimase in carica Giovanni Bertoni e il suo rapporto dopo tre mesi non nascondeva il fatto evidente che i libri proibiti circolassero ancora in maniera indisturbata nella capitale e nelle province. Tutto sommato, però, la relazione dava conto di una questione ancora governabile senza incorrere in uno zelo controproducente. Secondo il governo asburgico bisognava procedere senza clamore e soprattutto con prudenza perché si potessero censurare più facilmente i libri. Certo alcuni testi stranieri oltre agli iscritti autoctoni facevano parte del problema e questo venne comunicato all’amministrazione centrale affermando che i libri refrattari si rifornivano all’estero e che i censori si trovavano di fronte a uno smercio tanto proibito quanto endemico anche nelle province. Non è possibile ricostruire le sorti di ogni singolo libro però passata la bufera dei primi anni Venti e Trenta, la documentazione mostrò ragguagli preziosi rispetto all’operato concreto dei censori sui testi. A intervenire sugli originali non erano solo i censori dal momento che il libro in traduzione usciva dalle tipografie già rimaneggiato da una grande quantità di addetti: l’editore che aveva deciso di promuoverne la versione italiana con intendimenti specifici a seconda dei singoli testi e il traduttore con il suo sforzo di fedeltà che comportava annotazioni e confutazioni. Adattato e commentato, un romanzo poteva trasformarsi in un manifesto di ponderata ortodossia politica e religiosa e annotato in un’originale Indice dei libri proibiti poteva passare dalle maglie dei censori facendo risultare l’originale un clamoroso errore da conoscere e da scongiurare. Non tutti gli editori avevano le stesse idee e non tutti erano concordi con le direttive asburgiche ma la questione era più sottile: al netto dei testi sovversivi ciascun titolo attinto dall’estero era destinato a entrare in un campo di tensione in cui operavano tre forze autonome ma correlate dal prodotto delle quali doveva sorgere un libro diverso perché reso italiano e adattato a un progetto di Italia e a un orizzonte di attese. Gli abati censori avevano a che fare con traduzioni linguisticamente fedeli ma pure con avvertimenti e testi di accompagnamento che rientravano la ricezione a partire da quella della censura preventiva. Ed ecco perché costoro si trovavano alle prese con testi già abbondantemente adattati nelle stamperie alle loro esigenze commerciali e ideologiche. Ad esempio il teatro di Eugène Scribe, fortunato in patria e fonte di reddito sicura per molti editori milanesi, passava la maggior parte delle volte senza il minimo problema così anche come il visconte Arlincourt; ma anche autori complessi e impegnati in maniera liberale come Cooper, Scott e Balzac venivano tradotti. Addirittura alcuni titoli del “canone in traduzione”, e quindi ripubblicati a più riprese, avevano invece incontrato parecchi problemi con la censura ambrosiana come ad esempio Hugo: il suo Dernier jour d’un condamné, per quanto breve e non legato a fatti politici, era problematico e quindi fu pieno di tagli. Il tema della pena di morte era affrontato in maniera diretta ed espressionistica senza sconti in una battaglia umanitaria senza confini e bandiere . Traslato nella penisola delle condanne, voleva dire qualcosa di più ma i tagli non deturpano la sostanza del testo, ma anzi, eliminando i nomi del re francesi finivano per far assumere all’opera una valenza ancora più universale in senso tirannico e più diretta in una nazione oppressa quale 20 l’Italia. Questa impresa ricondotta a seconda dei casi alla prudenza delle origini del nuovo ufficio di censura oppure a una certa esigenza di far tornare presto il fronte a una mole di prodotti in attesa di controllo, trasformò il carcerato di Bicêtre in uno dei simboli più potenti dell’immaginario risorgimentale almeno finché lo si poté stampare prima delle Cinque Giornate. È chiaro come i censori solitamente non andavano oltre al taglio e a correzioni strettamente necessarie e molti tagli erano stati fatti per prevenzione direttamente in sede di traduzione: lo stesso avvenne per altri generi e anche per la storiografia impregnata di urgenze politiche. Sismondi era finito all’Indice con le sue tirate antipapali e la sua demolizione della devozione postconciliare. Nel suo caso bastava il nome a rendere più severi i censori e infatti la sua ultima opera storiografica non trattava di quei temi nella misura in cui salutava nella cristianizzazione una nuova epoca della umanità; secondo costui, Costantino e Teodosio avevano fatto degli errori ma lui non era un nostalgico dei culti Pagani né c’era altra materia scottante in un testo senza apparati critici che si chiudeva alle soglie dell’Anno Mille. Quando Cesare Cantù lo tradusse, l’Ufficio dei censori lo fece passare al costo di un trattamento severissimo. A parte gli autori incriminati da tempo non pare emergere una particolare sensibilità o un preciso senso di pericolo di fronte ai libri importati dall’estero: neanche l’origine inglese o francese comportava cautele addizionali ma si trattava di prodotti già rimaneggiati al di là della programmatica fedeltà linguistica. Cesare Rovida, una delle figure più eminenti di questo Ufficio, aveva studiato il tedesco ed era anche lui un traduttore nel campo devozionale. I contenuti realmente pericolosi non furono colti o sottoposti a qualche revisione chirurgica altrimenti avrebbero richiesto una lettura meticolosa dell’insieme con i suoi apparati che raramente sembra essere stata portata avanti con indefessa volontà. Dove si tradussero i testi importanti, questi furono presentati in maniera oculata ma raramente violentati nella sostanza testuale: il Risorgimento fu diverso da altre epoche della storia rispetto ad esempio a quella fascista dal momento che dal 1925 al 1945 i testi stranieri furono importati in quantità massicce ma tagliati se non riscritti e poi lanciati con grande clamore come bestseller alla moda. Qua le censure furono sostanzialmente miopi o disinteressate e tra le forze in campo non fu quella censoria che determinò la parvenza finale dei libri importati. E allora editori e traduttori vanno seguiti nel loro specifico lavoro in cui i calcoli di mercato e direttive pedagogiche non si disgiungeranno mai e concorreranno a fare un testo straniero un testo pienamente italiano. UNA POLITICA INVADENTE Non è difficile farsi un’idea di quali fossero i generi e le materie traducibili nell’Italia del Risorgimento nei vari centri attivi: romanzi, poesia, drammaturgia, catechesi, devozione, storiografia e poca politica. Si dovrà dedurre dalla quantità di traduzioni che all’indomani del Triennio “giacobino” tutte erano squisitamente, anche se non direttamente, politiche. Ad esempio le dissertazioni di Madame de Stäel alle prese con la Germania sono da considerarsi in questo senso e le due Considérations sulla Rivoluzione francese (1818) non vennero tradotte fino al 1860. Lo stesso Chateaubriand ha una portata globalmente politica sia nel trattato sul cristianesimo che nelle opere di finzione dal momento che fu davvero il maestro di un mondo cattolico che non voleva rinunciare al romanticismo prima dell’avvento di Gioberti. Tradurre con avvertenze i Balzac e gli Hugo equivaleva operare precise scelte in campo politico laddove politico era tutto l’ideario e l’immaginario che poteva riferirsi a una nazione in via di affermazione in un mondo di nazioni libere o ugualmente oppresse. Certo, qualcosa non si poteva tradurre oppure, per dirla meglio, non si poteva tradurre sul territorio italiano ma si poteva benissimo tradurre in italiano perché c’era il Canton Ticino con le 21 sue tipografie amiche che hanno avuto la storia editoriale politica e che sono state fondamentali dal punto di vista editoriale e politico. La divisione del lavoro al di qua e al di là del confine lombardo fu quasi perfetta perché nel 1828 uscirono a Lugano la prima versione italiana della vita di Napoleone i versi di Byron e di Manzoni in onore di Bonaparte. Nel 1833 torna al nome di Sismondi e con esso un autore dalla reputazione compromessa che non poté essere tradotto interamente nella penisola ma che fu comunque tradotto nel Canton Ticino: anche Lamennais, contro il quale l’embargo degli Stati italiani era assoluto, poté circolare nel pubblico medio lombardo. Sottoposte ai censori di Milano o fatte passare illegalmente al di qua del confine, non solo le opere di fiction furono messe a disposizione di un nuovo pubblico allargato ma anche quella politica politicante persino democratica che avrebbe dovuto essere bandita. L’artigiano istruito poteva acquistarla prezzo ragionevole su un banco ambulante o da un libraio fattosi più scaltro dopo i controlli. Si affermarono quindi Byron, Balzac e Eugène Sue che furono la politica del Risorgimento e ne facevano parte per un pubblico che andava sempre verso le élite poliglotte. ROMANZI: VISIONI DELL’ALTRO TRA MEMORIE LOCALI E DISCIPLINAMENTO SOCIALE LIBRI, PASSIONI E TRADUZIONI Il grande protagonista delle importazioni librarie dall’estero fu senza dubbio il romanzo in tutte le sue declinazioni seguito a debita distanza dalle traduzioni di testi teatrali; bisogna mettere in luce l’esistenza di varie vocazioni romanzesche all’interno della penisola che riemergono chiaramente al di là dell’indubbia egemonia milanese. La creazione di un gusto nuovo e medio nei diversi Stati della penisola implico la combinazione mutevole di diverse variabili che oggettive condizioni in cui versavano i mercati del libro ma allo stesso tempo ha una precisa volontà di arrivare a costituire dei canoni specifici debitori e creatori di orientamenti preesistenti e di nuove strategie di collocazione regionale nel concetto della cultura europea. I romanzi non furono adottati ovunque e si trattò di romanzi differenti autori e trame selezionate in base a direttive peculiari, di compromessi calibrati con la produzione letteraria locale contemporanea o antecedente. Diversi Stati non ammisero le versioni della narrativa straniera ne coeva ne anteriore mentre quelli che lo fecero intrapresero delle vie fortemente individuali all’importazione della tradizione o della modernità; i centri appartenenti a quest’ultima categoria si ridussero al Lombardo-Veneto e alle Due Sicilie. A Milano non si propone “un” romanzo e a Napoli non ci si limitò solo alla contraffazione degli originali milanesi; le altre capitali non si limitarono a contemplare la circolazione dei volumi lombardi ma mutarono i tempi e infatti il Regno di Sardegna avviò un mercato delle traduzioni proprio solo dopo il 1830, prendendo una direzione propria. Anche a Modena si stamparono romanzi tradotti dalle lingue moderne ma furono particolari rispetto a quelli milanesi. Da Venezia continuarono ad arrivare titoli in un tentativo di tenere presente e passato insieme nell’edificazione di una nuova modernità europea che non cancellasse le gloriose memorie locali dei secoli trascorsi. Firenze si orientò su scelte precise deponendo le versioni della narrativa a favore della trattazione scientifica. La Sicilia non stette a guardare ma diede dimostrazione di adottare delle vie proposte dagli Stati stranieri dando voto a imprese significative. Di fronte a tutte queste vocazioni che farebbero pensare a una complementarietà perseguita oltre che una volontà di distinzione sorretta da una memoria originale, stava il mercato locale e statale. La sfida di 22 Sturm und Drang. Proporre il giovane Goethe accanto a Bernardin de Saint-Pierre voleva dire conciliare due concezioni alternative dell’individualità e dei suoi rapporti col mondo e più in generale delle strutture familiare istituzionali consolidate dell’uso. Il capolavoro di Goethe poneva problemi per il suo finale che fu affrontato diversamente dalle edizioni ottocentesche e che comunque doveva inibirne il conseguimento della statura di classico nell’Italia di formazione; diverso fu il discorso per Bernardin de Saint-Pierre, il cui capolavoro doveva attraversare indisturbato tutte le stagioni del Vormärz per ricomparire nelle vesti di un classico riservato ai lettori più giovani. Milano, capitale politica ma non capitale del libro, appariva poco interessata alle novità come pure alle pregresse eccellenze romanzesche francesi o germaniche o inglesi: dovevano ancora sprigionarsi in campo libraio le energie impiegate negli uffici e nell’esercito. Di fronte a un nuovo apparato istituzionale censorio tutt’altro che amichevole ma neanche proibitivo doveva imporsi per gli stampatori la primazia del mercato come mezzi di sopravvivenza prima e di affermazione poi. Questo non avrebbe significato il declino dell’offerta di trattati scientifici tecnici o giuridici ma dovevano emergere nuove voci perché Milano intraprendesse la via dell’importazione e della mediazione nel senso di una nuova narrativa. Ci fu un mutamento di temperie a seguito del declino dello scientismo che coinvolse la penisola e la stessa patria della Rivoluzione e di Bonaparte. Il 1814 segnò lo sdoganamento repentino di voci soppresse che molto avrebbero segnato la strada dell’avvenire e l’intellettualità della capitale napoleonica avrebbe imboccato una strada che le avrebbe permesso di giovarsi dell’invasione di titoli stranieri. Non tutto però era rimasto immobile perché tra il 1802 e il 1808 era apparso il Genio del Cristianesimo, maggior trattato del visconte di Chateaubriand. Costui propose un proprio canone che giungeva dritto come esplicito modello letterario moderno fino alla sua Atala; questi titoli peculiari dovevano entrare a far parte del canone in traduzione dell’Italia risorgimentale. Si trattava di una presenza ingombrante e problematica per l’evoluzione del liberalismo nostrano e in effetti dopo il 1860 avrebbe conosciuto un peculiare destino editoriale lontano dal cuore pulsante dell’editoria moderna. Queste opere però lasciarono tracce non solo sul versante della cultura reazionaria ma anche con voci disparate, una coesistenza che difficilmente si sarebbe resa possibile con prodotti autoctoni che dovevano dare un potente tocco alla stessa ricezione e allo stesso orizzonte d’attesa con cui un pubblico sempre più ampio avrebbe accolto nei decenni centrali del secolo i libri provenienti dagli altri Paesi europei. In età francese furono lanciati dei capolavori che avrebbero contribuito a forgiare idee e passioni degli italiani nell’età delle rivoluzioni: prendendo invece l’alba della Restaurazione, bisogna notare che l’offerta si intensifica e che Milano diventa la nuova capitale del romanzo tradotto. Venezia decade attardandosi sui classici del Settecento mentre Firenze imbocca la strada della cultura scientifica e medica riducendo le importazioni e continuando a coltivare le versioni poetiche d’autore. Napoli avrebbe importato e contrabbandato decine di libri milanesi ma non si sarebbe limitata alla pedissequa imitazione. Dal 1814 assistiamo a un duplice fenomeno: da una parte le culture della traduzione si regionalizzano e si specializzano dall’altra affiorano elementi sempre più coagulati che superano i confini statali e concorrono a forgiare le menti e le lettere della nuova Italia. Il secondo fenomeno non è ascrivibile solo un repertorio egemone di idee e immagini ma deve molto ha una serie di autori e titoli che fecero comparsa nel corso degli anni fino al 1848 e che contribuirono a dettare legge per quanto riguarda l’immagine dell’altro. Pochi di questi titoli conobbero molte ristampe: ad esempio di Balzac si tradussero molti romanzi ma raramente ebbero una storia editoriale molto luminosa. Tuttavia già l’adozione di quei titoli era carica di implicazioni e contribuiva a ridurre le distanze tra la penisola e la grande letteratura europea dal momento che ognuna di quelle scelte era carica fin dal principio di 25 pregiudizi negativi o positivi circa il Paese di provenienza con una tangibile consapevolezza di editori e traduttori la diedero a leggere al pubblico medio statale o nazionale. Tutto confluiva nell’immagine che ci si faceva di sé dell’Italia e degli italiani, dei loro trascorsi e del loro avvenire. Quindi anche Balzac e Dickens contribuirono a forgiare l’idea di nazione, specificatamente della nazione italiana nel Risorgimento per affinità o più spesso per contrasto polemico e precisa presa di distanze. L’ALEMAGNA O DEL RISORGIMENTO ITALIANO Nel diario letterario di Gioberti sono numerosi i riferimenti ai capolavori di Madame de Stäel e del visconte di Chateaubriand, entrambi disponibili nelle edizioni rivedute grazie agli editori milanesi. Era il 1821 e la letteratura dell’Alemagna, comparsa a ridosso della nuova edizione francese edita da Silvestri, avrebbe impegnato l’abate tra aprile e fine maggio in concomitanza con le traduzioni dall’ebraico biblico e con la scoperta dell’apologia di Chateaubriand. L’accostamento tra la baronessa e il campione della reazione nella Francia della Restaurazione è singolare nel caso in cui si prendano due autori e le due opere ben distinte nelle loro vicende intellettuali. Meno singolare era l’accostamento dei due trattati nell’agenda di lettura di un italiano colto all’indomani del Congresso di Vienna. L’Allemagne rivestì un ruolo poco sottovalutabile nel tracciare le fila del rapporto tra il liberalismo italiano, cominciando da quello lombardo, e le culture straniere quali testimonianze delle rispettive nazioni e rispecchiamento fattivo o contrastivo degli ideali di una nazione priva di libertà e indipendenza ma decisa a occupare un posto nel concerto letterario europeo. Madame de Stäel fu la vera protagonista della vita e dei dibattiti letterari ambrosiani tra il 1814 e il 1816 prima con i tomi proposti da Silvestri e poi con l’articolo nella “Biblioteca Italiana”: cominciò a stampare la versione di Corinne, ou l’Italie uscita Firenze fin dal 1808 e da lì dovevano incominciare l’autorità indiscussa e il legame intellettuale consapevole che continuò a influenzare editori e letterati milanesi sul fronte liberale. Con L’Alemagna le cose si chiarirono ma si complicarono: le traduzioni letterarie ricevevano una legittimazione filosofica ben solida di quanto era accaduto prima e con la baronessa entrava in gioco il sogno goethiano di una Weltliteratur sopra e oltre ogni diversità nazionale; nonostante questo, l’autrice recava con sé un preciso profilo biografico di rapporti nitidi con le varie stagioni della Grande Rivoluzione e col console Bonaparte, nonché un’apertura inopinata verso un territorio culturale che per gli italiani del primo Ottocento era da dissodare dall’inizio e che presentava non poche difficoltà. Entrava in scena il liberalismo di Coppet, un patrimonio di valori anti-dispotici e anti- giacobini che implicava diritti rappresentanti individuati con un occhio per l’eccellenza intellettuale e la coesistenza equilibrata degli interessi sociali. Il testo sul mondo tedesco faceva pochi cenni espliciti costituzionali e quindi bisognava andare oltre la carta del 1795 e la dittatura napoleonica rimodulando sul modello britannico. Questo progetto politico doveva essere il programma delle Nazioni storiche del continente ma anche di quelle nuove vogliose di affermazione; questo liberalismo avrebbe conosciuto parecchi richiami intellettuali nella penisola ma ben poche applicazioni pratiche. Era anche il motivo conduttore della Historie des Républiques italiennes di Sismondi, la cui edizione italiana uscì nel 1818 e che tanto avrebbe contatto per il medialismo del Risorgimento. Era il principio guida del Benjamin Constant, teorico del diritto costituzionale tradotto più tardi e che sarebbe tornato nella furtiva versione italiana di Etudes sur les constitutions des peuples libres di Sismondi, chiamato perpetuarne la lezione fino alla vigilia del 1848. Eppure fino alla fine del Vormärz non vi furono riedizioni o nuove traduzioni neanche all’indomani dell’unificazione. 26 Le riflessioni di Madame de Stäel ebbero quindi una fortuna circoscritta ma per questo la condensazione cronologica deve essere significativa: se il romanzo sull’amore infelice tra la poetessa romana e il gentiluomo britannico avrebbe ancora accompagnato a lungo gli italiani nella costruzione del proprio immaginario storico e identitario, il trattato sull’altra nazione uscita frantumata dal Congresso di Vienna doveva segnare una cesura tra gli intellettuali milanesi e nel resto della penisola. La “Germania” della figlia di Necker ricomprendeva la regione germanofona di casa Asburgo, la Confederazione germanica disegnata nel 1814 e i Cantoni tedeschi della Confederazione elvetica: questo fece sì che i modelli culturali e politici fossero multipli dal momento che l’Austria veniva considerata come una bonomia non scevra da un tot di disprezzo e la simpatia si era risvegliata nello scontro con la Grande Armée era assai palpabile. C’era una particolarità ossia che non era la Prussia gigantesca caserma priva di genio come libertà e in riferimento dello spirito tedesco come non lo era la sonnacchiosa Austriala geografia del genio nazionale si appuntava nel cuore delle capitali minori dell’aristocratica Weimar, della borghese Lipsia e della cattolica Baviera. Quel genio consisteva nella triade Kant-Schiller-Goethe e quindi nell’esaltazione di una libertà non aritmetica ma puramente spirituale intellettuale, né illuminista o romantica, né classica, né moderna. L’esaltazione di un popolo riconosciuto come nazione non solo per ragioni storiche linguistiche, ma per essergli contrapposto, aveva fatto infuriare Bonaparte. Anche questo passava in eredità alla cultura politica del Risorgimento: l’identificazione tra libertà e indipendenza. In questo mondo di libere nazioni, l’etica kantiana sarebbe bastata a dirigere la condotta di uomini e donne, lontani da tirannide e dalla democrazia della populace . La letteratura tedesca più giovane e fresca era già la prefigurazione di un qualcosa non freddo o razionalistico come quella francese ma che aveva trovato la conciliazione tra sentimento e ragione, tra individuo e società, tra bello e buono grazie a una soluzione originale di forme classiche e contenuti romantici presentata da Schiller. Come approdo pratico rimaneva la Gran Bretagna della rappresentanza mista e del pluralismo istituzionale, ma anche questo modello doveva essere tradotto per aderire all’individualità irriducibile della Germania e dei tedeschi: Metternich o Federico il Grande erano due riferimenti impropri poiché nella Europa di nazioni risorta libertà indipendenza ogni Paese avrebbe goduto di un’individualità che dalla vita politica alle soluzioni costituzionali si doveva ripercuotere nella vita intellettuale e in primis nella letteratura. Sopra ogni distinzione quindi una Weltliteratur animata da valori sempre più diffusi di libertà progresso e civiltà. Guardando a questa triade, la baronessa aveva inconsapevolmente percorso un passo più di Foscolo nella ricerca della sintesi tra l’io e il mondo, tra i diritti e i doveri, tra il sentimento e la ragione, ma non era questo il filo rosso che doveva tener legata L’Alemagna alla vita letteraria milanese dal momento che quest’opera riscrisse l’agenda letteraria del mondo liberale dopo le tempeste del Settecento e la soggezione all’Empire. Inoltre, da quel momento, alcuni editori si diedero un programma preciso di messaggi e relative scelte di impostazione, i viventi e i moderni subentrarono alle glorie del secolo passato nelle cure dei traduttori. A Milano per i romanzi si cominciò a trasferire nella lingua nazionale opere di narrativa circostanti che fornissero un preciso ritratto e con ciò servissero al largo pubblico “medio” a farsi un’idea pure della loro storia recente e dei loro retaggi aurorali. La finalità per sottrazione, per contrasto o emulazione doveva essere l’immagine della nazione italiana ben individuata che tenesse conto delle comunanze europee ma che trovasse il suo stato, il suo liberalismo e il suo progresso con soluzioni originali che arrivavano a plasmare la famiglia il rapporto tra uomini e donne. All’alba della liberazione del Nord Italia dal vassallaggio napoleonico, certi princìpi apparivano già chiari scolpiti nelle pagine dell’opera stäeliniana e tornava la lezione autoctona di Vincenzo Cuoco ma piegata in un senso nuovo che superava le urgenze del Triennio “giacobino”. 27 ruoli anagrafici e che in genere che si manifestava in modo assai chiaro. Altrimenti si aprivano gli scenari di Parigi e della provincia francese coi loro individui e le loro relazioni indesiderabili. Questo Balzac rappresenta un esempio lampante di quante e quali potessero essere le motivazioni di un editore e di un traduttore: si traduceva per offrire modelli nuovi o per scongiurare le strade sbagliate intraprese da altri Paesi. Nella Milano pre-quarantottesca, la Francia avrebbe rappresentato un problema urgente da esaminare e da risolvere se non altro per i comuni trascorsi prima di volgere verso altri panorami uno sguardo più realista e più positivo dagli incidenti propri e da quelli altrui. Per quanto tendesse al recupero sistematico dei valori del passato, la proposta editoriale si manteneva ancora su un piano di “laicità fedele” che non investiva direttamente la questione della secolarizzazione e osservava debite distanze dai richiami più scopertamente reazionari. Da questo richiamo a un buon senso moderato per sfuggire le peggiori insidie del nuovo era già distante Truffi concorrente, sul mercato milanese e stampatore del Viaggio sentimentale di Foscolo; costui, come Stella, era attento alle letterature straniere tanto che nel 1828 aveva lanciato la prima versione italiana di Cooper. Costui era diventato un editore più confessionale e il suo marchio sarebbe sopravvissuto all’indomani dell’annessione della Lombardia al Regno di Vittorio Emanuele II. Costui era il proprietario di una “Biblioteca di religione” e una di “Novelle morali” ed era già dedito alla stampa dell’ultra romantico Arlincourt: Truffi, che stampava anche manuali di medicina e ingegneria, pescava dal repertorio narrativo contemporaneo o settecentesco ben prima di accaparrarsi Balzac. Nel 1834 cominciò con Il medico di provincia e poi pubblicò Scene della vita parigina e Storia dei tredici. Ma nel 1835 vi era un altro Balzac nella libreria ambrosiana ossia Papà Goriot, una delle sanzioni più struggenti del disfacimento dell’istituzione familiare, della corruzione dei costumi e della particolare perversione in cui possono ricadere le giovani donne ambiziose; questo titolo era presentato per una casa editrice particolarmente ambiziosa, vale a dire Casa Pirotta e C. Questa stamperia aveva superato le traversie della politica istituzionale lombarda dando luogo a un’offerta sotto un’unica etichetta contando tra i suoi soci anche Melchiorre Gioia; tra il 1815 e il 1816 però aveva stampato una grande quantità di titoli anti rivoluzionari compresa la difesa processuale di Luigi XVI. Questa casa si manteneva soprattutto con volgarizzamenti più o meno originali dai classici antichi e dalla Bibbia e questo editore aveva da poco scoperto i romanzi di Pichler quando iniziò a tradurre Balzac. Le affinità con le considerazioni morali dell’editore della “Piccola Biblioteca di Gabinetto” sono più apparenti che reali laddove Stella usava Balzac per stigmatizzare l’Ottantanove e l’Anno II, mentre il prefatore di Papà Goriot deplora qualsiasi forma di razionalismo e quindi anche l’idea di progresso nel nome di un ritorno ai dogmi tridentini: non è solo la Francia a dare il tremendo spettacolo della corruzione morale ma lo è la società borghese tutta con le sue ambizioni e il suo arrivismo per non parlare delle sue eresie politiche . Balzac poteva essere facilmente piegato a questa lettura apocalittica facendone fustigatore di uno scetticismo epocale partorito dai cattivi maestri del XVIII secolo: quello che per Stella era un moralismo preventivo, per i responsabili della Pirotta e C. diventava diagnosi di un male universale; se Ignazio Cantù voleva preservare una via italiana alla modernità, i concorrenti intendono demolire la modernità in tutte le sue declinazioni. Dove i libri lanciati da Stella volevano richiamare alla sanità del focolare domestico e alla costumatezza credente, Papà Goriot appariva un monito al pentimento e un ritorno alla dottrina del XVII secolo. Tutto questo nei testi di Balzac in questione viene piegato in senso restauratore molto più di quanto intendesse fare Ignazio Cantù: se i lettori dei romanzi di Stella erano preparati a salutare il “papa liberale” e il sovrano riformatore Carlo Alberto, quelli di Pirotta si sarebbero ritrovati dalla parte dei gesuiti contro Gioberti. 30 Come modello di italiano, la tipografia Pirotta eresse Melchiorre Gioia, l’antico socio, con una riedizione dei suoi scritti filosofici a uso dei giovanetti lanciata a un decennio dalla sua scomparsa; le asserzioni selezionate per il pubblico non rimandavano all’abate spreparato e al giornalista d’assalto del Triennio “giacobino”, ma dall’opportunistico collaboratore della “Biblioteca Italiana”. La ditta Pirotta presentava una teoria della conoscenza attinta specialmente nei suoi punti più distanti dal materialismo e poco più dopo sarebbe stato Schmid il suo autore di riferimento per fanciulli e giovani compiendo quel salto di qualità che dal relativo eclettismo tra generi e temi avrebbe condotto Pirotta alla specializzazione confessionali. I romanzi moderni non rientrarono più nel suo catalogo fino alla fine del Vormärz. MONTECRISTO O DEL DESTINO MANIFESTO Furono anni di intenso lavoro di traduzione soprattutto grazie alle aperture riformiste di alcuni sovrani nella penisola che dovevano condurre al “lungo Quarantotto” degli italiani; furono anche gli ultimi anni in cui l’offerta romanzesca della penisola tenne il passo con le novità internazionali e, nella moda dell’importazione dall’estero, erano entrate pure le voci avverse al liberalismo persino come portabandiera dell’ortodossia cattolica. D’altra parte c’erano romanzi per tutti i modi di sentire pensare in merito come dimostra l’esempio di Milano. Questo ultimo campo si articolò anche nel terreno delle traduzioni narrative ma mai in maniera definita: furono complici anche gli exploit nostrani a partire da all’Ortis per arrivare ai Promessi Sposi e poi per le tipografie si poneva il problema di impostare il discorso sulla religione in accordo con un progetto nazionale del quale i cattolico-liberali erano diventati una grande parte. Arlincourt era stato spodestato da Victor Hugo e da altri autori più vicini al popolo: allo stesso tempo si erano levate le voci critiche rispetto al romanzo storico, ancora fortunatissimo però sul versante estero. Vi era un’area di rinnovamento nella critica italiana, sgravata dall’astio antimoderno della “Biblioteca Italiana” ma ancora la ricerca di una via autoctona e della libertà che con l’avvento di papa Pio IX nel 1849 sembravano così vicine. E così dal 1846 al 1847 fece la sua comparsa a Milano la prima versione del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas: fu la Casa Borroni e Scotti che ne intuì la tenuta narrativa e quella cadenza che gli garantiva un alto livello di aspettative; questo romanzo di avventure era anche un po’ un romanzo storico e sociale e sarebbe uscito a Milano in dieci tomi segnando l’apice della ricerca di modernità via letteratura che aveva reso Milano capitale delle traduzioni. In questo romanzo c’era un po’ di tutto, ma questa volta, oltre ai modelli positivi e negativi di vite domestiche e pubbliche e di condotte politiche, si aggiungeva la rivalutazione dell’età di Napoleone I le cui ceneri erano rientrate a Parigi da qualche anno. C’erano anche le due Italie: l’Italia contemporanea e l’Italia a venire, con i pieni diritti di cittadinanza nel novero delle Nazioni libere e riunificate. Ma non c’era solo politica poiché si contano gli esempi di amore coniugale, più o meno buoni, esempi positivi o negativi del modo di intendere ricchezze e potere, un’idea della giustizia umana e della provvidenza divina. Inoltre il Conte di Montecristo aveva il pregio di fustigare la restaurazione borbonica tanto quanto la Monarchia di luglio come esempi negativi di sviluppo sociale; il 1846, quando comparvero i primi volumi, era l’anno in cui dall’ultimo tomo delle Repubbliche di Sismondi non si erano più visti a Milano apologie estere così avanzate del ruolo avuto da Bonaparte nel risveglio della coscienza nazionale italiana. Come presentare questa a un sempre più largo pubblico di lettori? I pochi tagli subiti da questo romanzo colossale sembrano indicare quanto gli intellettuali italiani arrivarono a dire tramite la traduzione che fu fedele fino alla parafrasi con una inserzione di note linguistiche che nascondeva degli interventi 31 miratissimi. L’abate Faria a colloquio con Eìdmond Dantès nella fortezza viene tacciato solo un paio di volte nell’edizione italiana ma con grandi mutamenti di senso: per prima cosa scompare ogni riferimento esplicito alle premesse indipendentistiche dell’avvento del re di Roma e poi vi è una lunga digressione sul posto occupato da Cesare Borgia nella riunificazione italiana che però viene omesso e sostituito da un discorso più vago. La stagione dell’unità istituzionale sotto l’Empire viene ricondotta a una delle tante dimostrazioni che l’Italia e gli italiani godevano di pieni diritti al riscatto nazionale, anche perché il Primato morale e civile degli Italiani era un’opera di Balbo che circolava da tempo. Faria faceva l’apologia di Cesare Borgia, eccelso principe machiavellico, e non mancava di una digressione sul nepotismo e su altri mali del Papato: ecco perché qualche pagina del XVIII capitolo imperniato sui crimini e sul malcostume del XVI secolo fu eliminata per intero. Il problema si ripresentò nel capitolo XXXV quando Roma era lo sfondo di una giustizia Pontificia crudele e ottusa: per il traduttore era inutile tacere del tutto ma anche replicare la vistosa accusa di crudeltà e barbarie che Dumas descrive nell’esecuzione di un prigioniero – per ovviare questo una lunga pagina è risolta in pochi scambi. L’edizione italiana era arrivata al secondo volume e nessun taglio sarebbe intervenuto negli altri otto tomi: non conveniva all’editore proporre un ritratto negativo dell’Urbe all’altezza del 1846 a papa appena eletto come anche non era convenuto soffermarsi sul ruolo salvifico di Napoleone e neppure accennare al progetto di Borgia; nessun taglio avrebbe eliminato l’entusiasmo patente dell’autore per le bande di fuorilegge che infestavano la Città Eterna: ecco come Roma con tutte le sue vergogne ne usciva meglio di una Parigi corrotta da tutti i punti di vista. Il sogno nazionale veniva solo accennato ma non mancavano i punti di riferimento per capire di che cosa si stesse parlando: si poteva dipanare la giusta vendetta della nazione italiana contro i suoi oppressori interni come era scritto nel libro. Dopo questo debutto, il Conte di Montecristo non avrebbe più visto la luce prima dell’Unità se non in una ridotta edizione napoletana del 1854 e altrove Dumas passava solo come scrittore di romanzi storici o fantastici: in queste vesti sarebbe arrivato nelle stamperie napoletane mentre a Torino si proponevano i suoi scritti su casa Savoia, sulla Monarchia di luglio e sulla recente politica francese. Dumas fu l’ultimo bestseller nazionale in traduzione prima della Seconda guerra d’indipendenza ma in realtà si trattava di un autore eterogeneo dal momento che erano I tre moschettieri a edificarlo come l’ultimo grande del romanzo storico . Questo processo di banalizzazione mise a tacere il mordente critico dell’autore francese insieme alla sua biografia politica che andò perdendo senso prima della fine degli anni Sessanta eccezion fatta per una memoria democratica minoritaria. CLASSICI DI RITORNO: ARLINCOURT E GOLDSMITH NEL DECENNIO DI PREPARAZIONE Se non fosse stato per Dumas la parabola del romanzo tradotto avrebbe segnato una caduta più accentuata nel decennio della Seconda Restaurazione: per motivi di adeguamento allo stile reazionario, la scelta degli autori stranieri si fece anche presso i più progressisti più cauta fino a sfiorare quel conformismo che determinava la proliferazione di stamperie più o meno vicina alle gerarchie laiche e ecclesiastiche. Questa vicenda, nitida e lineare, fa da controparte alle dinamiche di riflusso verificatesi nella produzione italiana durante il secondo romanticismo: il declino del romanzo come portatore principale di valori ed entusiasmi popolari viene meno ovunque ma, cambiando prospettiva la geografia, tornò ad avere un peso notevole dopo i tre decenni della preponderanza ambrosiana. A Milano si optò per Koch, un romanziere inesauribile ma innocuo, mentre a Firenze si andò Le Monnier; la capitale sabauda invece tradusse Quinet, Michelet e poi Gladstone e veniva fondata la “Biblioteca dell’Economista” che avrebbe contato 32 donne istruite ma destinate al matrimonio, di uomini responsabili e di giovani generosi. All’esterno doveva esserci un tessuto di rapporti sociali economici che salvaguardasse le gerarchie naturali ma che evitasse di gettare le plebi in pasto alle eresie socialiste: eliminata la società di corte e il democratismo giacobino, l’Italia moderna doveva essere unita, libera e indipendente (come affermava l’abate Faria) ma anche credente e costumata, non come la Francia di Balzac. Nazione oppressa tra nazioni oppresse –Madame de Stäel – aborriva i tiranni e gli invasori ma anche i cospiratori e i rivoluzionari; cattolica ma non bigotta, attendeva fiduciosamente tempi migliori nello Stato Pontificio. Di sicuro le letterature straniere influirono molto sulle letterature regionali a partire dal romanzo storico alla moda del romanzo sociale fino a segnare le origini della Scapigliatura post-unitaria. FUORI DAL CORO L’attitudine pedagogica e gli interventi diretti sui testi fecero dei libri dei successi di varia durata e di varia scala tra il 1814 e il 1859; per quanto rappresentativi dell’Italia risorgimentale, però, questi titoli e i loro autori non esaurirono i cataloghi assieme ai titoli del “canone”. Non solo perché l’opera di traduzione della storiografia e della politica fu altrettanto intensa e né esclusivamente perché funzionava un po’ ovunque un’intensa lavorazione su testi giuridici, tecnici, e medici fino alla trattatistica devozionale. Anche per la letteratura ci fu dell’altro: insieme alle proposte di grande successo, ci fu una pletora di titoli sfortunati o localizzati che furono fondamentali per le ragioni di mercato e vanno analizzati per capire se autori e contenuti fossero troppo dissonanti o isolati rispetto al mainstream del loro tempo. Non sempre le storie delle letterature corrispondono alla fortuna contemporanea goduta dagli autori che canonizzati a posteriori e non sempre tendono contro delle grandissime fortune godute in vita da scrittori altrimenti dimenticati: Victor Hugo e Eugène Sue furono tradotti alla vigilia del Quarantotto, il primo con Notre Dame de Paris e il secondo con Les Mystères de Paris. Hugo era già noto e fu fondamentale per le stagioni del patriottismo, mentre Sue aveva pubblicato il suo romanzo a puntate che venne subito tradotto in Toscana, a Napoli e a Milano. Nessuno dei due titoli avrebbe goduto di ristampe dopo il Quarantotto e avrebbero dovuto entrambi attendere nell’età liberale per assurgere al ruolo di classici. La vicenda editoriale di Sue è interessante perché dopo la fine della pubblicazione puntate, tipografi e traduttori fiorentini si misero all’opera; la stessa Livorno poteva accogliere più serenamente la verve democratica di questo autore. Queste iniziative eterodosse che non ressero la prova degli investimenti restando incompiute e l’opera finì di essere ristampata poco dopo il 1846. I problemi riguardavano la trama che poggiava sui idee sociali e politiche e anche economiche difficili da digerire e da proporre: certo, c’era il lieto fine ma il contorno di personaggi e di valori e molti discorsi del protagonista maschile Geroldstein avrebbero potuto avvelenare il lettore “medio” con false idee e pericolose utopie, molto distanti dagli ideali prossimi a realizzarsi nel pieno rispetto delle distanze e dei ruoli. Bisogna chiedersi perché L’ebreo errante e I misteri del popolo avrebbero avuto una sorte migliore dopo la Seconda Restaurazione quando, tra l’altro, l’autore vantava trascorsi da politico socialista: la risposta è data dai tempi e dei luoghi perché il secondo libro uscì a Torino negli anni Cinquanta con massicci interventi correttivi e in patria addirittura libera finito nell’Indice. L’ebreo errante sarebbe diventato un classico solo dopo molti anni l’Unità e Eugène Sue dal 1845 al 1859 fu un autore di moda nella penisola e avrebbe fornito nuove ispirazioni ai romanzieri italiani ma a costo di una dolorosa amputazione artistica e ideologica. La sua critica sociale non andava bene perché non era nel senso di quella di Balzac, ma virava contro la lotta al capitalismo 35 agrario-industriale verso un utopico repubblicanesimo dei poveri e una mobilitazione della populace, indesiderate quanto stranianti per il fronte liberale più avanzato. Sue morì nel 1857 appena in tempo per non disturbare troppo la nuova alleanza tra il Piemonte liberale e l’odiata dittatura borghese di Napoleone III. TRADURRE LA STORIA STORIA DI TRE CITTÀ Nel Risorgimento si tradusse anche molto di storia e per la storiografia nacquero, anche se più lentamente, collane di testi stranieri rivolte a un pubblico non poliglotta ma più selezionato di quello che divorava la narrativa; rispetto a quel pubblico “medio” era difficile attecchire poiché molte delle opere in questione erano composte di molti volumi e richiedevano costi sostenuti come anche un livello di conoscenze più pronunciato. Molte traduzioni di narrativa e teatro funsero da complemento per gli autori nostrani mentre il posto occupato dall’offerta straniera nella libreria storica ha un posto più peculiare. Si tradusse molto di storia sono in alcuni centri e ogni capitale manifestò inclinazioni sue proprie; anche in un discorso di insieme ci furono delle differenze. È vero, la versione delle Repubbliche di Sismondi funse da miniera di miti e poi da pungolo interpretativo della vicenda nazionale e più avanti nel tempo ci si trasferì lontano da quel Medioevo che appassionava gli storici dell’età della Restaurazione ed è del Risorgimento. Tutto questo per dire che, mentre la cultura e l’immaginario italiani si concentravano sui secoli di mezzo fondando un discorso mainstream che sarebbe crollato dopo il Quarantotto, prima che sorgesse la storiografia contemporanea si attinse da oltre confine per tutto il resto. In questo caso, però, non a mani basse ma con un occhio di riguardo per le tematiche e gli autori da importare. Se il Medioevo degli italiani aveva acquisito una rappresentazione egemonica nel segno della scuola cattolico-liberale, molto altro mancava nel panorama degli studi interni, in particolare le nuove storie nazionali romantiche e o liberali, le narrazioni dell’antichità imperiale e gli affreschi interpretativi sulle rivoluzioni di fine Settecento e sull’età napoleonica. Tutti questi erano elementi indispensabili per elaborare, per imitazione o per contrasto, un’idea moderna della vicenda plurisecolare e recente della penisola e la sua via alla libertà e all’indipendenza; non ci sono opere di storia nel “canone in traduzione” – poiché comprendeva narrativa – soprattutto perché erano testi impegnativi. Questi testi non risultano però meno importanti nel dar conto dei riferimenti del secolo della storia negli Stati dei restaurati, nel pieno delle rivoluzioni e ancora negli anni prima dell’opzione neoguelfa e poi sabauda. In più certi autori furono fondamentali perché l’Italia liberata individuasse il proprio posto e le proprie relazioni nell’organo europeo. I Comuni e il Papato fornivano all’Italia un primato nella storia della civiltà ma c’erano poi da spiegare, la decadenza, i ritardi e le accelerazioni conciliandoli con quei miti e quell’opera di disciplinamento sociale in corso d’opera. Le tre capitali in cui si tradusse la storia furono Milano, Firenze e Napoli, tutte e tre con scelte molto diverse le une dalle altre. Tutto questo era considerato un discorso unitario coerente con quello portato avanti dagli storici di maggior rilevanza e perciò andò prendendo forma anche per il lungo periodo. Certi autori furono adottati senza polemiche e altri invece furono d’accordo con i censori rispetto a una lezione italiana osservante di storia antica o moderna. Ciò che risultava era una conoscenza localizzata a livello regionale ma pur sempre tangibile in tutte le sue declinazioni ideologiche e politiche. Tutto questo perché c’era una grande attenzione di editori e traduttori rispetto a quello che si muoveva all’estero; allo stesso tempo bisognava offrire qualcosa di nuovo e ulteriore rispetto al medioevo di neoguelfi e neoghibellini e infine si doveva 36 parlare di epoche più recenti e delle grandi rivoluzioni. Fino al 1815 non ci furono grandi iniziative e semplicemente si riproposero alcuni autori del Settecento, ma il tutto in un’ottica di storia universale che nonostante fosse interessante era suddivisa tra apologeti e avversari della Grande Révolution . Le cose cambiarono dopo il Concilio di Vienna anche grazie al fatto che i romanzi di Stäel e di Chateaubriand contenevano considerazioni di argomento storico; fu però la versione di Stefano Ticozzi del capolavoro Sismondi a innescare quell’offerta di motivi polemici: dalla teoria del mélange tra italiani e germani fino alle tirate antipapiste per planare sui capitoli in cui c’era in gioco la parabola della penisola italica post-imperiale e il bilancio di quattro secoli di politica internazionale di potenze europee. Questi volumi fecero parlare molto di sé, anche al di là dei fulmini della censura papale tanto che in Toscana nel 1816 si iniziò a tradurre Roscoe, avversario di Sismondi e apologeta della Firenze medicea e del secolo di Leone X. In questo botta e risposta tra Milano e la Toscana si inserì anche a Napoli ma imboccando un’altra via; Agnello Nobile, l’editore partenopeo più abile a contraffare i successi milanesi, era anche un esperto di libri stranieri che fossero appetibili per il proprio pubblico e inaugurò la collezione “Bellezze della storia universale antica e moderna”, aperta dai volumi su Inghilterra e Francia, che fin dal titolo si prometteva di espungere qualsiasi aperta interpretazione suscettibile di dibattito o censura ma allo stesso tempo rappresentava la prima vera collana di storie nazionali disponibili sul mercato della penisola. Queste opere, tanto estensive nelle periodizzazioni quanto brevi nelle dimensioni, uscirono negli anni Venti senza imbattersi in incidenti. Queste curavano le curiosità di tutti gli Stati europei, compresa l’Italia alla quale era dedicata una serie di monografie che ricoprivano i perimetri e i confini degli Stati restaurati a cominciare da Napoli e Sicilia. In seguito, però, nessun altro si imbarcò in versioni da libri di storia perché a Napoli era iniziata la grande contraffazione dei successi milanesi e allora Scott approdò nel Mezzogiorno: per apprezzare un’opera moderna di animo liberale bisognava procurarsi i tomi che uscivano a Milano e a Firenze. Questa collana di Nobile rappresentava un’iniziativa pionieristica avviata mentre anche a Milano attecchiva il gusto della storia e di fatto forniva un’interpretazione rassicurante e innocua degli Stati europei: se l’Italia era spezzettata in tanti Stati, la storia della Polonia non andava oltre l’ultimo monarca legittimo. Era un tipo di storia aneddotica dove c’era spazio anche per usi e consumi che legittimavano lo status quo facendolo retrocedere anche a età antichissime. Ai lettori borghesi di Napoli si offrirono questi volumi per mole e dimensioni che provarono andare incontro a una domanda senza andare a creare spunti critici o progetti. Questa collezione doveva testimoniare un allineamento del mondo partenopeo dei lettori alle voghe dominanti e delle enormi asperità che la saggistica morale doveva incontrare di fronte alla censura borbonica. Questa collana non ebbe prosecutori e spesso i tomi uscivano senza indicazione del traduttore: per la cultura storica straniera i lettori più avvisati del sud dovettero mutuare quanto si proponeva nelle altre due capitali. Dagli anni Trenta in poi rimanevano Milano e Firenze a contendersi il primato storiografico di importazione a rispecchiamento delle condizioni rispettive e comuni nella ricerca e dell’interpretazione che dominavano nelle due regioni. C’era però una grande differenza: mentre a Milano c’era la politica editoriale del sapere storico che andò verso la letteratura – creando una coesistenza di motivi economici e stimoli ideologici – a Firenze prevalevano iniziative isolate e non sempre in linea con le fondamentali componenti della cultura politica dell’élite; nella capitale del regno Lombardo-Veneto alcuni editori giunsero a plasmare un discorso mainstream mentre nella capitale del Granducato si segnalarono discorsi innovatori o eterodossi. 37 squisitamente italiana che i cattolici liberali avrebbero fornito. Le ragioni commerciali si manifestavano nella chiusura dei 13 volumi dell’edizione Bettoni: una confutazione della seconda parte era necessaria ma i tempi erano cambiati e non si potevano moltiplicare i tomi e in questo modo l’idea era di rendere innocue le parole anticlericali spese da questo storico in modo tale da ammonire il lettore qualora non fosse stato istruito nella storia della Chiesa cattolica. UNA STORIA NAZIONALE IN ASSENZA Ferraio diventò un editore di punta della scena milanese con le versioni di Walter Scott ma fu anche uno dei pochi leader del mercato libraio a non pur puntare su una collana di opere di storia: eppure tra il 1820 e il 1824 comparve tra i suoi torchi una versione di un capolavoro che premiava le storie nazionali e la storia italiana ma sicuramente fecondo a indirizzare il pubblico laico verso periodizzazioni e interpretazioni durevoli della storia italiana. L’opera di William Robertson sull’età di Carlo V risultava già una delle fonti forti della seconda metà delle Républiques di Sismondi. La fatica dello scozzese ripropose con forza temi come la degenerazione del cattolicesimo dopo il Concilio di Trento e i danni dell’egemonia della Spagna asburgica sulla penisola. In più nel primo volume, dedicato a tre lunghe prefazioni sul tema della storia europea dall’antichità al Rinascimento, Robertson aveva fornito una delle ispirazioni dirette di Sismondi nell’esaltazione progressista dei comuni commercianti dei democratici dei secoli di mezzo. Si trattava quindi di un déjà-vu per molti lettori milanesi e questa volta il traduttore non interveniva sul testo ma lo lasciava scorrere senza la minima rettifica. Il cuore di questo capolavoro, cioè l’età dell’impero di Carlo V, toccava più la storia del mondo tedesco che quello della penisola che spesso affiorava per analogie e per brevi cenni ma è anche vero che la strada del lettore si incrociava spesso con la tentazione dell’analogia tanto più che quattro volumi uscirono nel periodo più delicato del Risorgimento lombardo. Mai più editi prima dell’Unità, dovettero superare il varco censorio in virtù della finezza delle argomentazioni di Robertson, meno concentrato sulla questione della perdita dell’indipendenza degli italiani di età moderna. La traduzione non era dichiarata ma si ipotizzò che fosse per mano di un Barbieri; gli acquirenti di Vincenzo Ferraio potevano imbattersi in argomentazioni non meno compromettenti di quelle di Gibbon sui secoli successivi acquisendole senza alcuna mediazione o distorsione. L’autore non era un ammiccante di Martin Lutero né delle declinazioni della riforma luterana, e non si era lanciato con argomentazioni drastiche contro il Papato o contro l’ortodossia romana con atteggiamento protestante o con lo scetticismo di Gibbon ma aveva inteso riscoprire le radici della suddivisione del continente tra due modelli di civiltà e non aveva taciuto né le cadute della storia inglese né le ragioni degli antagonisti della Riforma. I brani sulla storia italiana erano tra i più netti per quanto concerne i bilanci di politica ecclesiastica o di tutela della libertà nella penisola; per esempio il giudizio sull’età di Leone X non era senza pesanti ombre perché secondo Robertson era piegato tra due sistemi opposti nel terrore di perdere il suo potere temporale ma nella volontà di essere forte nella Controriforma. Robertson non lesinava sul discredito in cui da tempo era caduto il Papato in particolare rispetto agli scandali di Borgia ma anche il clero veniva colpito senza pietà: stanti i meriti di Lutero, Robertson giustificava lo scisma moderno con le degenerazioni di una chiesa più attaccata ai beni temporali che alla missione spirituale della quale l’espressione nuova doveva essere il gesuitismo. A Carlo V non venivano riconosciute grandi colpe ma il giudizio si faceva molto più feroce rispetto al suo erede Filippo II, principe consorte d’Inghilterra. Le lotte di religione descritte con tutti i particolari agevolavano l’emergere di una proto-coscienza 40 nazionale in Gran Bretagna e nel mondo germanofono. La prima a risentirne era stata la Spagna poiché Carlo V le aveva imposto la sua pessima élite fiamminga soffocando i sentimenti autoctoni rendendola a casa madre della Controriforma: non era una questione antropologica, la piaga dell’arretratezza del mondo era ma la conseguenza di una prepotente occupazione straniera subentrante ha un ottimo governo come quello di Isabella di Castiglia. L’Italia era stata toccata di sfuggita nel primo volume e ricompariva nel quarto e nell’ultimo: il giudizio sulla Controriforma era particolarmente negativo sia sul piano politico che su quello dottrinale e morale; qualche anno prima Manzoni aveva pubblicato Osservazioni sulla morale cattolica in risposta Sismondi e nel 1824 si riproponeva un’ennesima stroncatura della politica Pontificia. Questo perché, con i suoi pochi delegati, il Concilio non era neanche legittimato a decidere del futuro del mondo cattolico e perché oramai la risposta della curia e di Carlo V all’avanzata della Riforma si era fatta del tutto improvvida e miope. La chiesa romana che avrebbe dovuto eliminare le fondamenta dello scisma ma al contrario, complice il gesuitismo, si arroccò su posizioni dottrinali e dogmatiche irricevibili nella civiltà moderna. Rispetto alle conseguenze della risposta del Papato alla marea protestante, il giudizio in corso d’opera era netto in quanto costoro erano guardati come arbitri degli affari della cristianità e la Corte di Roma era al centro dei negoziati politici, ma dopo il XVI secolo le più importanti operazioni furono condotte senza l’intervento dei Papi ridotti a livello degli altri principi d’Italia; nonostante tutto costoro continuano ad arrogarsi la medesima estensione di giurisdizione spirituale. La questione del XVI secolo delle guerre franco-imperiali che Robertson aveva narrato rispetto a Carlo V e la disamina di Cateau-Cambrésis come atto di fondazione di un’Italia spagnola e schiava si accompagnavano a un’interpretazione che aveva attribuito alla politica pontificia la gran parte delle responsabilità fino alla degenerazione del mondo cattolico. Rispetto alla fine dell’imperatore, la sua parabola si risolveva nell’incomprensione delle esigenze delle popolazioni a lui sottomesse nel mondo germanico e nel mondo latino: una consapevolezza passiva che con Filippo sarebbe rivenduta consapevole persecuzione di tutti i modelli sociali e culturali diversi dal suo modello egemonico. Fin dal primo volume, quest’opera aveva il pregio di ricollocare la vicenda della penisola in un ampio quadro europeo e quindi di sottrarla dalle visioni stereotipate del secolo del Grand Tour o dalle teorie climatiche che si ostinavano a screditare gli italiani come un gregge cieco di fronte agli abusi del clero e dei regnanti. E, con la parziale eccezione dei Medici, l’Italia aveva patito la mancanza di un sovrano in grado di subentrare ai papi come leader dell’intera penisola. Se i costumi andavano riformati con i Lumi e la modernità, l’economia andava ricondotta ai tempi aurei delle civiltà commerciali e medievali e il gioco straniero rimosso perché abusivo: in tutto questo restava da affrontare l’attesa di un re italiano armato come gli stranieri, riformista e riformatore nei costumi e nelle leggi e alternativo al principio unitario di cui la chiesa romana era ancora detentrice. Questo era il problema che presentava la lunga storia di Robertson anche ai lettori meno avveduti che faticavano perlopiù da un grado di engagement interiore. In questo modo il mondo inglese penetrò Milano attraverso una cultura illuminata, antirivoluzionaria e progressista che vedeva nel liberalismo e nel capitalismo le chiavi d’accesso al primato europeo e mondiale. I gusti del lettore di storia non erano diversi da quelli dei numerosi lettori di romanzi storici del vate scozzese (Scott). Su questo retroterra andò innestarsi il romanzo di Alessandro Manzoni che già nel 1827 spostava il focus su Milano e non taceva i mali del cattolicesimo spagnoleggiante e controriformista. A differenza di Robertson, Manzoni sarebbe penetrato soprattutto con la contraffazione in ogni punto d’Italia offrendo la versione cattolico 41 liberale di molte di quelle che erano già state interpretazioni storiografiche delle proprie delle culture protestanti europee. Dopo la fortuna milanese, cominciò la fortuna fiorentina per l’opera di ferraio e un decennio dopo a Venezia per poi approdare a Napoli e a Torino. Questo era un Robertson meno invasivo di quello milanese ma molto più fecondo rispetto ai discorsi sull’individualità e sui diritti delle Nazioni. Sismondi si era interrotto al 1530 con la caduta della nuova Repubblica Fiorentina e aveva proseguito fino al Settecento in maniera veloce mentre Robertson faceva incursione fin nel XV secolo ma indovinava già quello che doveva venire dopo grazie alla storia delle colonie inglesi d’oltreoceano; senza troppo parlare dell’Italia, Robertson parlava molto all’Italia e qui terminò il suo successo preunitario finché non comparve un discorso storico e nazionale autoctono alla soglia degli anni Quaranta del XIX secolo alternativo e persuasivo al tempo stesso. Di questa storiografia ha ben nota Benedetto Croce che avrebbe sempre additato Sismondi come un pungolo polemico e anche Robertson non è stato da meno. NAPOLEONE, WALTER SCOTT E UN EBREO ITALIANO Sansone Coen fondò a Firenze la tipografia Coen e Co. nonostante fosse di origine reggiana: a questo ebreo dobbiamo alcune delle più formidabili incursioni fiorentine nella traduzione di importanti lavori storiografici oltreconfine e anche un’interpretazione peculiare del lavoro sulla storiografia di importazione, diversa sia dalla strategia dei correttori dell’editoria Bettoni che dall’offerta integrale di casa Ferraio. Coen fu il primo a importare nella penisola certi titoli destinati a una notevole fortuna e si trattava di opere impegnative da un punto di vista economico e tipografico; pur in sintonia con gli assunti portanti del senso storico locale, e quindi con il rigetto della Grande Révolution e dello strapotere napoleonico sulla penisola, costui manteneva uno spazio di originalità per altre interpretazioni della storia nazionale. Sebbene fossero orientati in senso commerciale, la sua identità, il suo retaggio e la sua visione della vicenda italiana europea non combaciavano del tutto con quella del moderatismo cattolico egemone a livello ducale. Non si fece mai promotore di idee sovversive ma lasciava trasparire nelle sue opere motivi e convinzioni e quindi un’identità originale. Fu il primo a intuire la potenziale fortuna della Life of Napoleon Buonaparte di Walter Scott: un’opera in 20 volumi e anche noiosa ma che l’autore vedeva come una iattura per i liberali autentici e per i migliori regnanti d’Europa. Quello che aveva scritto Scott si poteva ricollegare alla corrente dei Pitt e di altri tories irriducibili: la censura non avrebbe trovato molto da dire e infatti approdò a Milano già nel 1829; inoltre si trattava di un prestito da quel mondo anglofono che in Toscana era piuttosto apprezzato contro la francomania degli importatori di romanzi in area padana. Il Napoleone di Scott, valente condottiero, era un irriducibile despota e soggiogatore di popoli con un’ambizione irrefrenabile e una grande insensibilità verso i diritti della gente ; la versione Fiorentina accorpava a piè di pagina note dell’originale inglese e dell’originale versione francese e il risultato era bizzarro tanto che i glossatori transalpini avevano smentito quasi ogni punto dell’orgoglio insulare dell’autore sia della presunta unicità della storia francese come culla del Terrore rivoluzionario e non mancavano le sferzate contro la patria del romanziere. Poco dopo, inoltre, c’era l’ennesima condanna dei sanguinari rivoluzionari francesi che per Scott erano già tutti repubblicani incalliti nel 1789 mentre rispetto alle guerre di Bonaparte da un certo punto poi ne era stata responsabile soprattutto la patria. Non era un’operazione analoga a Bettoni sulle affermazioni di Gibbon ma qui si sceglieva di riportare le note della versione francese al dietro le quali conservare l’irresponsabilità della mera traduzione in lingua italiana per 42 contribuirono a preparare gli animi della nazione media illuminata verso quell’esito costituzionale politico e sociale e a far volgere gli sguardi italiani non più solo verso la lezione storica britannica ma a favore di ammissioni misurate della primogenitura dell’Ottantanove le aspirazioni locali che non sarebbe rincorse negli eccessi istituzionali e criminali dei vecchi rivoluzionari d’oltralpe. Uno degli assunti socio-politici che si faceva strada nei volumi man mano che ci si approssimava al Terrore era la pregiudiziale antidemocratica che voleva una rivoluzione senza popolo per arrivare alla modernità politica. In questo modo l’autore risolveva un grosso problema nella visione che l’Italia aveva di sé come nazione in via di legittima affermazione ma gliene creava uno non meno drammatico: se la via costituzionale gaditiana sperimentata Napoli ne usciva liquidata era chiaro che la monarchia organista si poneva come modello di saggia sovranità nazionale. In questo modo il primato sociale e politico della proprietà medio-grande veniva consolidato e questo autore idealizzava una larga fascia mediana della società chi in terra toscana non poteva ancora darsi. Si poneva poi il problema dell’esercito di massa come elemento ineluttabile di ogni sana tensione nazionale verso l’affermazione dei propri diritti: non era un argomento caro ai nostalgici di Pietro Leopoldo ma neanche troppo accettato in tutta la penisola, ma sarebbe stato un grosso quesito irrisolto del Quarantotto. In altri punti la versione di Thiers sembrava destinata a pubblici minoritari nella capitale lorenese poiché costui aveva liquidato la grande parte della nobiltà di sangue di atteggiamenti ostili alla libertà e si salvavano pochissimi rispetto a La Fayette; questo non andava bene in una penisola dove si preferiva la tattica di una graduale amalgama. Un altro problema era la stretta adesione di Thiers al trattamento del 1791 affidato riservato al clero cattolico: si trattava per molti aspetti di un’iniziativa destinata a parlare alle minoranze operose che non costituivano il nerbo dell’élite e del liberalismo locale. Non si trattava della Francia da demonizzare ma non era neanche una lezione integralmente assumibile a livello politico e costituzionale; a livello storico però l’opera di Potenti va riconosciuto come il primo pilone dell’integrazione di una memoria buona della Rivoluzione francese in una penisola dove per tutto Risorgimento si sarebbe dichiarata protagonista di un modello alternativo a quello francese. La Francia quindi era tornata a essere un possibile punto di riferimento dopo essere stata l’indesiderato assoluto per molti anni gli stessi in cui si traduceva anche il corso della storia europea di Guizot con la rilettura dell’Ottantanove che fondava la riscoperta di un Medioevo comunale. Rispetto al Terrore, Thiers non era meno chiaro: il giacobinismo era uno degli idoli polemici di questa grande narrazione ma le sue vere vittime non erano state i preti ma il cuore pulsante della nazione, di quella classe media virtuosa che aveva abbracciato la costituente ma che aveva patito il grosso dei danni della Rivoluzione. A Firenze nello spazio di 10 anni circolarono due Rivoluzioni coerenti per punti fondamentali: il primato dell’Ottantanove e il giudizio positivo della Costituente, arrivate però proporsi in maniera diversa. Da questa stamperia fiorentina era arrivata la narrativa liberale per eccellenza che apriva pochi meno problemi di quanti meno intendesse chiuderne al cospetto degli altri paesi europei. Quello dell’Ottantanove era uno degli ultimi problemi da risolvere per l’edificazione di memorie condivise e funzionali del passato prossimo regionale o nazionale: né Scott ne Thiers poterono risolvere del tutto ma furono pungoli efficienti per i letterati e i politici nostrani. Questa stagione fu tanto intensa quanto circoscritta e fu destinata a chiudersi con il successo dei discorsi italiani della fine del Vormärz , ma per poi ricomparire molto oltre la proclamazione del Regno d’Italia: quello di Thiers sarà un longseller che a stagioni alterne sarebbe ricomparso a rinverdire lo spirito della monarchia borghese davanti agli ultra democratici o ai socialisti. 45 TRADUZIONI E SENSO STORICO ALLA VIGILIA DELL’UNITÀ Le traduzioni di storia ebbero alcune stagioni di intenso interesse alternate ad altre che per congiuntura politico censoria o per saturazione del mercato non furono così intense . La prima stagione aurea iniziò nel 1816 con il Roscoe dei toscani e passò per Sismondi, Robertson e Hume e si concluse insieme alla prima fiammata rivoluzionaria della Restaurazione con l’uscita nel 1822 di Coxe sugli Asburgo. Fino alla fine del decennio, la fame di storia degli italiani fu straziata dai romanzi di Walter Scott ma anche dai drammi di Schiller, Hugo, Cooper e Dumas: dal 1829 cominciò una seconda stagione storiografica di traduttori che culminò con Thiers ma alla vigilia del Quarantotto l’unico storico straniero era Jean-Baptiste Capefigue la cui produzione frettolosa consentì di volgarizzare molte delle teorie fondamentali della storiografia dottrinarie alla Guizot, nonché rifornire una giustificazione ad ampia copertura della storia francese dal 1789 al 1830. Il grosso del senso storico dell’ultimo scorcio degli anni Quaranta si dibatteva tra un’esaltazione poliedrica di alto e basso Medioevo e una difficile assimilazione della storia europea Sette o Ottocentesca di contro all’unicità della vicenda nazionale che trovava le sue cifre dominanti nella regione in un sano Settecento e senza rigetto della tradizione. Non era un senso storico univoco e ciascuna coorte di lettori avrà metabolizzato le connessioni con la modernità straniera a proprio modo e la gelosa custodia di una via tutta italiana a un progresso che implicava l’indipendenza dallo straniero. Le voghe storiografiche in traduzione furono mese estese e più complesse delle egemonie romanzeschenon si venne a creare uno sguardo largamente condiviso della storia moderna perché le vicende contemporanee risultavano peculiari con le conciliazioni dell’identità e della storia cattolica della penisola, ma le attitudini dominanti verso altri Paesi si erano fatte più vivaci. Che cosa portarono i mesi del “lungo Quarantotto” come offerta di libri stranieri? Nello specifico i girondini e l’affresco patriottico sugli Stati Uniti d’America. Il cuore pulsante delle traduzioni si spostò anche a Torino ma con Firenze si venne strutturando un discorso univoco e coerente mentre in Lombardia si imponeva un sapere storico esclusivamente a geografico . La vicenda delle traduzioni di opera di storia nell’Italia dal Congresso di Vienna alla Prima Guerra d’Indipendenza si configura come una traiettoria ininterrotta policentrica e polifonica come fu tanta storiografia italiana prima del Quarantotto e residuale in un decennio che aveva sdoganato le penne di politici e giornalisti e concentrato le energie sui fatti recenti della penisola. Dopo l’Unità si sarebbe aperta un’altra storia in virtù del nuovo legame della disciplina con le facoltà universitarie e l’evoluzione della scienza storica italiana. Gli storici stranieri tradotti nel paese furono quindi pochi autori e pochi titoli e a cadenza annuale uscivano Tacito e Svetonio: le opere di storia costavano molto e rendevano meno di altri generi e si doveva stare molto più attenti davanti alle istituzioni; in più bisognava recuperare ciò che interessasse effettivamente ai lettori italiani. Nonostante i suoi limiti quantitativi, questa vicenda non appare sottovalutabile anche a livello della pratica storiografica più rigorosa e gli stranieri importati contribuirono a definire periodi periodizzazioni e a creare dibattiti e immagini di un’Italia a lungo europea che per colpe non sue era rimasta defilata sulla strada della civiltà ma aveva in sé gli anticorpi per recuperare. Una sorta di storia nazionale a più voci con molti contrappunti e un’Europa di nazioni storiche e di nazioni giovani in attesa di riscatto: la religione nazionale doveva confrontarsi con questi pungoli ma non in maniera drammatica e infatti ci fu la soluzione negli anni Quaranta. LIBERTÀ E PROGRESSO IN TRADUZIONE 46 L’ITALIA NELL’EUROPA DELLE RIVOLUZIONI A primo impatto, il panorama delle versioni di opere di natura politica appare quasi deludente: nella comprensibile ristrettezza numerica dei titoli bisogna vincere ragioni di interesse tra le eccezioni e non in seno a quello che si individuerà come mainstream. Di politica si tradusse molto già durante il quindicennio napoleonico prima con una biforcazione radicale tra le regioni conquistate dalla Francia e gli Stati che rimanevano ancora sotto legittimi monarchi: nel primo caso c’erano titoli che avvicinavano gli italiani all’eredità della Grande Révolution, nel secondo una produzione legittimista e più controrivoluzionaria. Al di là delle singole vicende però si rimaneva nell’alveo di una pubblicistica incoraggiata e protetta dalle istituzioni regnanti. Per individuare un movimento dal basso bisogna fare un salto al 1814 ossia nei mesi in cui tutta la penisola fu coinvolta nella partita delle possibilità, delle resistenze o delle spinte liberali. I modelli stranieri furono importanti perché inaugurarono la transizione agli Stati modellati dal Congresso di Vienna e ne accompagnarono le vicende nazionali e la maturazione dell’opinione pubblica fino agli anni Quaranta. Bisogna però aggiungere una premessa: i trattati che affrontavano direttamente questioni costituzionali erano in parallelo con un corpus che contribuì a completare la visione dello Stato che si vagheggiava attinente alla sfera del diritto civile, alla questione dei rapporti Stato-Chiesa e agli assetti politici economici; in poche parole alle filosofie civili che di questi problemi dovevano fare da collante ideologico. In questo modo molti spiragli si aprono anche per autori e per scritti non facilmente classificabili ma non meno suggestivi per apprestare l’idea di quali modelli di civiltà politica potessero coesistere tra il 1814 e il 1860. Le rievocazioni accompagnarono la coagulazione dell’opinione pubblica, prima dei singoli Stati e poi della penisola verso scelte condivise di cui è rimasta memoria e ci si riferisce alle varie soluzioni costituzionali che scandirono l’età delle rivoluzioni e in seguito all’adesione polifonica al Piemonte dello Statuto Albertino e dei governi Cavour. Allo stesso tempo però affiorarono idee fortunate che finirono condannate a costituire un patrimonio minoritario in senso sociale o territoriale: quello che conta è che le traduzioni parteciparono dalla prima linea al processo di edificazione di varie idee in Italia di nazione e di Stato nazionale rendendone partecipe una fascia di popolazione sprovvista dei criteri di cittadinanza politica ma chiamata per dare il proprio consenso ai movimenti politici e costituzionali che si avvicendarono nei decenni centrali dell’Ottocento. Nel 1814 il best-seller nazionale fu scritto da Chateaubriand sul ritorno dei Borboni e sulla necessità di riunire i principi legittimi per la felicità della Francia e dell’Europa: questo manifesto della restaurazione borbonica fu stampato a Milano, Venezia e Genova. A Venezia fu seguito da alcune apologie della Carta ottriata di Luigi XVIII: erano evidenti le ripercussioni dell’apertura del Congresso di Vienna e sul ritorno della stirpe dei Borboni sul trono di Francia. Gli elementi che dovevano solleticare un certo mondo moderato e cattolico c’erano tutti, in particolare la possibilità di conciliare legittimismo e apertura costituzionale. Ma i riferimenti della penisola non finirono qui, tanto che a Palermo la tipografia Abbate lancio una grande edizione dell’opera di Delolme per difendere l’isola dal ritorno della dinastia regnante che rischiava di demolire quel regime costituzionale all’inglese. I modelli erano due: quello delle libertà concesse dal sovrano unitamente alle garanzie della codicistica napoleonica e quello plasmato dalla tradizione britannica che l’isola avrebbe continuato a rivendicare per parecchi anni. La Restaurazione non contemplò aperture o permanenze costituzionali in tutta la penisola ma il lemma Costituzione era già entrato di peso nel patrimonio ideologico di regioni e capitali principali ma anche di località di secondo ordine. Chateaubriand quindi rappresentava una modalità originale di intendere le libertà costituzionali e che comunque chiamava in causa l’elaborazione del legittimismo e del primato del cattolicesimo. Delolme non venne più tradotto ma per molte élite 47 Gioia. A volte già negli stessi paragrafi il traduttore prendeva la parola. Le sole considerazioni impugnate dalla traduzione furono quelle che tracciavano un nesso casuale causale tra estensione del commercio, introduzione delle macchine e disoccupazione degli operai: non c’era niente che smentisse la lezione Sismondi. Il ginevrino riformista sarebbe stato edito in traduzione a Torino, a Milano dove introdusse nell’opinione pubblica temi più urgenti rispetto a quella della corsa ai profitti e avrebbe precisato il suo pensiero negli anni successivi per culminare nei saggi sulle scienze sociali. COSTITUZIONE E CIRCOLAZIONI TRANSAZIONALI Ecco che l’economia politica contribuiva insieme alle traduzioni di opere giuridiche a complicare il discorso sulla politica che, oltre un modello di nationbuilding, doveva prestarsi dottrine puntuali sulle istituzioni rappresentative e amministrative: Say proponeva diversi investimenti pubblici tra cui l’istruzione elementare popolare ma Sismondi andava oltre nel delineare i compiti dei governi per la sicurezza e la felicità pubbliche. Che Stato si sarebbe dato l’Italia? Un’opera pubblicata a Napoli contribuì a rispondere a molte domandeil Corso di politica costituzionale di Benjamin Constant apparve nella capitale partenopea tra il 1820 e il 1848 e poi a Firenze; sia lui che Sismondi erano morti ma rivissero nelle traduzioni allo scoccare del Quarantotto e della nuova stagione costituzionale: il lancio dell’opera di Constant è chiaro perché aveva già goduto di fortuna e nel recupero sembrava sicuramente sorprendente a vent’anni di distanza dai moti del Venti. L’edizione era uscita per la prima volta nel 1814 e la quarta fu stampata da Enrico Monni nei mesi tra l’agonia della dittatura di Guerrazzi e il rientro del duca Leopoldo II al seguito di armi austriache. Il traduttore Vincenzo Galeffi fu preciso fino alla pedanteria pur abbondando in toscanismo ed era nuova dettata da una coraggiosa volontà di presa di parola nell’ultimo scorcio del moto quarantottesimo fiorentino nazionale. Uno gli effetti di questa pubblicazione si era visto sulla rivoluzione italiana anche nel Regno di Sardegna con il proclama di Moncalieri dettato da Massimo D’Azeglio – poco dopo il Granduca avrebbe sospeso la Carta concessa. Le teorie di Constant si innestavano tra la sconfitta di un regime costituzionale e il trionfo di un altro: a entrambe le Carte risultavano indirizzate le considerazioni dell’autore tradotto e tenevano vivo il lemma critico dell’età delle rivoluzioni del “lungo Quarantotto” italiano. Inoltre anche l’esperimento democratico autoctono era chiamato in causa – come anche la Repubblica romana – in quanto il repubblicanesimo in tutte le sue declinazioni costituiva una pietra di paragone fondamentale per Constant, approdato all’ideale della monarchia costituzionale – con le due Carte ottriate il confronto era costruttivo mentre con lo stato di Mazzini vi era la condanna. Questo autore aveva scritto di Costituzioni fin dal XVIII secolo perché cominciava dalla liquidazione recisa delle costituzioni rivoluzionarie a partire da quella del 1791 alle due repubblicane: in Toscana era una premessa irrinunciabile e un altro assunto favorevole era quello relativo ai moti di ammirazione del modello istituzionale britannico. Nell’opera però si trovava un vero e proprio progetto costituzionale ideale che rendeva l’idea di quale dovesse essere il riferimento teorico e il vagheggiamento politico costituzionale di tanto moderatismo toscana all’indomani della deriva guerrazziana. Inoltre c’era da fare il confronto con quanto avveniva in Piemonte con Vittorio Emanuele II e fino a Cavour con le soglie della rivoluzione pacifica del 1859. Quali erano i principi costituzionali adottati dal lettore teorico della libertà dei moderni? Uno dei punti più forti del discorso costituzionale riguardava la necessità di un “potere neutro” in ogni carta costituzionale che volesse risultare equilibrata: era ideale nella monarchia costituzionale perché il monarca era il titolare di tale potere e di facoltà che gli consentivano di sciogliere le 50 Camere, di nominare nuovi membri della Camera Alta e di mettere dei ministri; d’altronde questi erano responsabili di fronte alla rappresentanza nazionale. Il re, inoltre, doveva disporre del veto, non quello sospensivo ma assoluto e definitivo perché tra gli spettri c’era la dittatura della rappresentanza importante particolar modo dei deputati eletti in un erroneo interpretazione della sovranità nazionale. Secondo lui il limite dei tre poteri era un diritto inalienabile degli individui: la vita, la sicurezza, la libertà nei limiti della legge, la proprietà e la facoltà di esprimere le proprie opinioni; a questi si aggiungevano la libertà religiosa e il diritto di resistenza a leggi lesive dei diritti fondamentali. Equidistante tra tirannia e anarchia, Constant chiariva i limiti teorici e pratici della parola d’ordine delle rivoluzioni: la sovranità nazionale; la Camera Alta doveva essere numerosa, rinnovabile ed ereditaria mentre per quella Bassa bisognava accedere per elezione diretta ma sulla base di un voto basato su una ragionevole proprietà. Quelli che per il liberale francoginevrino erano stati gli errori più dannosi delle tre frasi della Grande Révolution, per molti lettori toscani potevano evocare aporie rispetto ai fatti più recenti della propria terra rispetto al dibattito costituzionale quarantottesco e la demagogia autoritaria della seconda fase: lo Statuto concesso da Leopoldo II aveva garantito la libertà di culto e una certa libertà di stampa e commercio ma il Granduca si era intitolato il potere esecutivo pur essendo i suoi ministri responsabili come anche la nomina dei magistrati. In questo sistema bicamerale la legge elettorale prevedeva per l’esercizio del diritto di voto un censo ben più elevato di quello pensato da Constant e poteva avere il potere di veto. C’erano state le deroghe al modello ideale tradotto dal francese che avevano favorito l’ascesa dei democratici e quindi il Granduca aveva soppresso la Carta per evitare di continuare a emendarla. Gli sguardi dei lettori si rivolsero anche al Piemonte sabaudo dove lo statuto di Carlo Alberto presentava gli stessi difetti di quello toscano ma questo era l’unico in vigore a partire dal governo del 1848 e quindi era emendabile: alla lettera non sarebbe stato così ma Cavour volle far somigliare di più il potere del monarca a quello neutro evocato da Constantda una parte la progressiva parlamentarizzazione dell’azione del governo e dall’altra la volontà finale di Vittorio Emanuele II, salvatore del regime costituzionale. Rispetto alle Leggi Siccardi o i provvedimenti di Urbano Rattazzi in materia di spese della Chiesa cattolica, Constant aveva asserito concetti molto simili e la libertà di stampa sarebbe stata garantita e lo sviluppo economico migliorato. Si creò un asse tosco-emiliano moderato e costituzionale che contribuì a mettere in maggiore luce le idee e le aspirazioni dei moderatisti della penisola alla vigilia della Seconda Guerra di Indipendenza: si andava oltre la monarchia borghese di Luigi Filippo d’Orléans durante la quale circolavano teorie più innovative e capillarile paure non erano da meno perché a quella dei tiranni esterni si aggiungeva la ripulsa della democrazia sperimentata a Napoli. Negli stessi mesi si uscì con l’Essai sur le constitutions des peuples libres di Sismondi, meno tenero con i nuovi esperimenti costituzionali francesi e critico verso molte monarchie costituzionali: costui si poneva il problema dei disoccupati e salariati lasciati fuori dal perimetro elettorale ma di cui raccomandava l’integrazione a livello di istituzioni municipali. Le voci dei liberali di Coppet accompagnarono la vicenda del liberalismo europee fino allo scioglimento politico istituzionale ì definitivo con le annessioni al Piemonte sabaudo: dopo le due edizioni del 1848, queste voci uscirono dice scena perché ormai indigeribili per tutte le censure ma perché il tempo di dibattito delle idee era terminato. Il gruppo Coppet ebbe una fortuna lunga che andò spegnendosi quando la soluzione di tutti i problemi si rese unica e priva d’eco come le scelte si fecero più urgenti anche rispetto ai best-seller di importazioni dando forma a un percorso univoco. Si può apprezzare la stessa fortuna degli scritti di un liberalismo transnazionale se si traccia il perimetro editoriale dei capifila dell’anti liberalismo e dell’anti Risorgimento: anche qui abbondavano le voci straniere 51 in traduzione come dimostrava una lettura devozionale diventata più gretta e austera (sotto autorità come de Bonald, Cortés o de Maistre). Furono comunque poche voci poiché per tutta l’età del Risorgimento la vera voce della reazione fu quella del visconte di Chateaubriand poiché la controrivoluzione traduceva poco. A Napoli, a esempio, gli editori della Biblioteca cattolica puntavano sulla narrazione per portare avanti le loro idee dando spazio ai trattati solo occasionalmente: la caccia al pubblico medio proseguita con le collane teatrali l’avrebbero combattuta con dei lavori importati da Francia e Belgio; proprio Napoli fu protagonista del maggior numero di versioni di iscritti contro rivoluzionari della Seconda Restaurazione e la concorrenza si era affievolita a causa delle repressioni. Collane devozionali si trovavano anche a Milano ma al Nord si puntò sempre tanto su Chateaubriand: anche questa era un’editoria di settore vicino alla cura al governo ed era destinata a chiudere i battenti dopo il 1859. IL PROGRESSO SENZA POLITICA: LE TRADUZIONI SCIENTIFICHE A Milano la stasi delle offerte di narrativa moderna che succedettero alle principali fasi di repressione furono fermate affermate grazie a un genere non nuovo ma profondamente rinnovatosi e che, alla circolazione internazionale, era reso importante fin da quando era tradotto in lingua latina: le traduzioni scientifiche alle quali si affiancavano sempre di più le guide alle applicazioni pratiche. Sarebbe sbagliato non considerare questa parte nel profilo di Milano come prima capitale transnazionale del libro moderno: la prima esplosione quantitativa si ebbe nella seconda metà degli anni Venti ma non bisogna dimenticare che queste traduzioni erano già incominciate a inizio secolo soprattutto a Venezia – e che sarebbero cresciute; poco dopo Milano troviamo subito Firenze. La capitale del Regno Lombardo-Veneto non era una città universitaria ma aveva i suoi licei, le sue accademie e il museo di Scienze naturali: ma allora perché questo tipo di pubblicazioni? Era la città degli “Annali universali” e del Politecnico ma soprattutto gli editori mirarono alla coltivazione di un pubblico dai contorni sempre meno definiti di cultura medio-alta nel quale fossero sopravvissute le sirene dello scientismo rivoluzionario e napoleonico dopo la Restaurazione. Anche il mondo economico di Milano richiedeva una scienza moderna e aggiornata nel versante agrario e manifatturiero: in questi campi non valeva la regola della novità ma l’attingere dalle edizioni corrette più accreditate in sede internazionale – tradurre un saggio di medicina quando in patria questo era giunto alla quinta edizione era un vanto. Anche in campo scientifico si ebbero dei best-seller, primo tra tutti Tissot contro l’onanismo: ebbe una miriade di edizioni lungo tutto il XIX secolo assurgendo a voce scientifica ufficiale di denuncia dei danni psicofisici della masturbazione. Un altro editore fortunato nelle traduzioni, Visaj, inaugurò longeve collezioni di testi teatrali moderni ed esordi nella saggistica medica del 1819. Erano ancora pochi i testi dei saperi “positivi” nell’ambiente milanese e prevaleva la letteratura: si traduceva molta più scienza a Pavia, a Padova, a Firenze e a Palermo e anche a Napoli . Lo spartiacque lo si ebbe nel 1825 quando tutti i maggiori stampatori ambrosiani offrirono scienze in traduzione nell’anno in cui Sonzogno inaugurava la “Biblioteca economica portatile di educazione”. Da quel momento l’editoria scientifico-tecnologica non fu più un’eccezione in campo milanese ma si fece sempre più abbondante e stratificata: il caso di Milano, unico prima del 1848, si spiega grazie all’esistenza di un pubblico abbastanza vario e affamato di novità. Pochi saggi ebbero riedizioni ma l’offerta annuale era abbondante spaziando dagli studenti liceali e universitari alle guide per medici o pratici. La prima affermazione riposo su collane per lo più divulgative che potevano in parte supplire i silenzi forzati della narrativa mentre a partire dagli anni Trenta il profilo di Milano si 52 “romanzo per la gioventù”; dall’inizio alla fine, però, presentava il problema della fedeltà alla dottrina protestante espressa con numerosi richiami della Bibbia inglese e al dialogo diretto col Creatoreil naufrago era padre della borghesia liberale ma irrimediabilmente eterodossa e lontana dal gusto dell’Italia cattolica. Così gli italiani del Risorgimento lessero questo romanzo ma la religione, fondamentale nell’origine per l’evoluzione del personaggio, fu espunta in toto insieme a tutti i riferimenti negativi al papa di Roma. È evidente: le gesta del naufrago sono riprodotte fedelmente ma la sua etica e la sua fede scompaiono per problemi di compatibilità imposta o voluta con l’animus censorio della Restaurazionel’effetto macroscopico è che il borghese presentato agli italiani lavorava sodo ma in fondo non pensava o pregava mai e quindi ne viene fuori un personaggio di scarso spessore interiore o con pochi problemi di fede e valori perché così doveva essere il nuovo italiano. Intraprendente, con una tacita fiducia nella Provvidenza ma sereno nelle sue convinzioni e per niente tormentato al pensare dalla divinità. Rispetto al sostrato filosofico della vicenda di Robinson sull’isola e del suo rientro nella civiltà bisognava eliminare qualcosa: nel suo viaggio di ritorno a York, Robinson e Venerdì passano nel sud della Francia e si imbarcano per Dover nelle ultime pagine del romanzo nelle quali non si trovano accenni minimi alla politica o alla società francesi. Ma, nonostante questo, vennero tagliate nella versione italiana. Il protagonista di queste pagine tagliate era Venerdì, il selvaggio civilizzato da Robinson, che, con un atto di coraggio, era riuscito a salvare l’intera compagnia dall’assalto di un orso e il fatto che un selvaggio fosse riuscito a primeggiare e a salvare degli europei significava un rovesciamento di prospettiva delle attese dei lettori. Il fatto che il servo potesse aggiungere risorse ulteriori poteva sembrare troppo ma con questo taglio brutale l’impalcatura protestante originale era venuta meno come anche il mito della redenzione dei selvaggi. Questo romanzo era letto da migliaia di italiani che non sapevano dei tagli a patto di una profonda rinascita nella fede cattolica. Ecco perché questo libro ebbe grande fortuna a partire da Napoli arrivando fino a Milano dove venne annoverato da Truffi come una delle “novelle morali”. Con i tagli fatti si arrivò a parlare di questo romanzo nei termini di un romanzo per giovani e sarebbe rimasto tale anche dopo la profusione dei titoli dettati dal lavoralismo. Qualcosa del genere accadde anche all’opera di Barthélemy, il Viaggio di Anacarsi: dalla patria del liberalismo illuminista erano transitati dei testi testimoni della fede cattolica come motivo di superiorità sugli antichiun sacerdote nobile formatosi dai gesuiti non riuscì a evitare la confisca dei suoi beni e questo libro presenta molti personaggi e i riferimenti storici per risolversi in un elogio del duo Socrate e Platone come antesignani del Cristianesimo. In questo viaggio c’è anche della politica con animo antidemocratico che individuava nell’età di Pericle le premesse della schiavitù antiche e moderna della Grecia e nella sofistica l’ideologia immorale del potere delle plebaglie; Socrate e Platone sono eroi politici prima che precursori della fede che riscatterà l’umanità e fonderà il vero significato della libertà. Nella seconda parte veniva proposta una genealogia del cristianesimo da Pitagora e Anassagora giungendo fino a Cristo, il tutto contrapposto dalla decadenza dettata dai sofisti che avrebbe gettato la Grecia tra le farci le fauci di del barbaro macedone. Per l’editore Sonzogno questo viaggio poteva rientrare nella sua collezione di relazioni di viaggio molte delle quali in traduzione con cui si era ritagliato un posto distinto nel mercato prima della Restaurazione: a scandire questa versione c’erano tanti inserti sull’autore come accademico parigino dell’ultimissimo scorcio dell’Ancient régime. Questo autore, fondamentale per l’erudizione, fu usato per parlare di tutt’altro a partire dalla demolizione sistematica del narratore ossia per l’Italia: la versione è fedelissima e Belloni inserì molte notecostui però demoliva l’interpretazione della filosofia greca come anticamera del cristianesimo, in quanto era fautore dell’educazione napoleonica nazionale e usava la storia 55 delle repubbliche greche per parlare dei comuni italiani e della successiva servitù della penisola dalla quale salvava solo Venezia. Costui proponeva un grande esecutivo e un legislativo censitario e una leva universale obbligatoria: le repubbliche nobiliari non ispiravano a lui alcuna fiducia e non considerava importante rilanciare il mito della libertà italiana ma bisognava salvare l’ordine francese. Costui vagheggiava una penisola forte da conquistare a viso aperto sui campi di battaglia. In questo modo Belloni andava già controcorrente rispetto al liberalismo locale che avrebbe pagato a caro prezzo le cospirazioni del Ventuno: il disoccupato della restaurazione asburgica, attraverso note, demoliva quest’opera eliminando tutti gli echi bonapartisti e unitari. Questa è uno dei più grandi e significativi esempi di manipolazione di testi importanti: era totalmente extra linguistica ed è da collocare in una collana dedicata ai viaggi celebri e che culminava con il declassare il testo a idolo polemico assoluto. Dell’originale veniva smontato e denunciato ogni valore a partire da quelli religiosi per approdare a quelli politici fatti risalire a una debolezza della lunga vicenda istituzionale europea. La Anacarsi e l’anti-Anacarsi coesistevano quindi, pagina per pagina, nei 13 volumi della Sonzogno con esiti a volte disorientanti: rispetto al filo ellenismo sembrava un qualcosa di mediocre. Questo libro finì per identificarsi soprattutto a Venezia e col suo gusto accademico e antiquario e con i legami con il mondo ellenico arrivando fino a Firenze e Parma: aveva comunque suggerito un’interpretazione cristiana della filosofia finendo per solleticare i regionalismi italici. Questo testo è da considerarsi uno dei classici in traduzione del primo Ottocento italiano ma deve ammettere l’esistenza di due diverse proposte, dove la seconda era più in sintonia con le suggestioni che potevano rendere italiani di essere orgogliosi di essere superiori ai Greci in età classica perché cristiani e politicamente pluralisti. Da questo scaturiva che essi fossero destinati all’indipendenza e questo è il retaggio del Settecento illuminato ma moderato e gradualista in politica e idealista nel pensiero. Il Settecento cattivo è quello giacobino, napoleonico, guerrafondaio, dispotico, ateo e materialista. La Grecia rappresentava una nazione sorella per il lettore nazionalista mentre la per la Spagna era diversa dal momento che fin dalle guerre di successione nella prima parte del XVIII secolo costituiva un problema già da un secolo soprattutto per i napoletani e milanesi prima che arrivasse Sismondi a qualificare l’età spagnola come epoca di decadenza della civiltà italiana. Le Repubbliche apparvero a Milano nel 1818 e l’anno successivo Manzoni confutò la critica della dottrina tridentina nelle sue Osservazioni: la religione nazionale era stata tutelata ma ben più arduo era trovare un bilancio positivo dalla storia italiana del XVII secolo a meno che non si tentasse di affratellare gli spagnoli del secolo successivo che avevano resistito all’occupazione napoleonica agli italiani. Su questa linea i napoletani volevano riscattare la decadenza di due secoli con la adozione della vera costituzione spagnola cioè la Carta gaditiana la quale però non era più di moda dopo le Tre Gloriose del 1830. Il problema della Spagna era complesso e la rivalutazione dell’età della dipendenza degli Asburgo impegnò alcuni intellettuali e in più ci si mise il romanzo di Manzoni a offuscare la memoria della vita italiana: fu fondamentale il Gil Blas di Lesage che partì da Venezia e da Napoli. Per i partenopei fu più significativo delle interpretazioni di Sismondi e di Manzoni poiché dopo la Quarantana le tipografie partenopee deposero l’opera del XVIII secolo e fecero proprio il romanzo storico italiano. Il titolo francese però assicurava divertimento al lettore e in fondo la lettura integrale non era necessaria per apprezzare quella rappresentazione caricaturale della società spagnola tra Filippo III e Filippo IV: come il Don Chisciotte , si appaiava alla perfezione nel condannare senza possibilità di riscatto una società di nobili decaduti e di borghesi corrotti, di donne lascive e di famiglie sfasciate 56 e duelli inutili. Il Don Chisciotte quindi rappresentava l’idealtipo spagnolo, vanesio, inconcludente, decaduto ossia l’anti-Robinson Crusoe. Questi riferimenti si giustapponevano nel lettore del 1820 che non sapeva nulla delle edizioni originali dei libri e ne ignorava le date: l’eroe di Lesage abitava la Spagna nel XVII secolo e l’autore aveva fatto intravedere qualche risveglio riformista etico nella penisola iberica con Filippo IV; ma lo stesso finale in cui tornano infedeltà coniugali e incertezza della paternità e ricordi di ingiustizie subite contribuiva a proiettare un momento storico determinato in un’aura di eternità. Il lettore medio distratto su Cadice e ignaro delle guerre civili tra liberali e carlisti pensava che la Spagna di Lesage fosse la Spagna di sempre. L’edizione italiana non mancava di assecondare questa visione monolitica e tutti i riferimenti alla Polonia libera monarchia elettiva venivano rimpiazzati con riferimenti al Portogallo per cementificare un’unica considerazione negativa dell’intera penisola iberica soprattutto per il momento di maggior splendore e della potenza asburgica. Ad esempio don Pompeo Castro è un diplomatico spagnolo al servizio del re di Polonia mentre nella versione italiana diventa un diplomatico spagnolo al servizio del re di Portogallo. Così anche la libera Polonia di età moderna scompariva dalla storia del XVII secolo destinata al lettore italiano e dalla penisola, il romanzo francese non trattava di questo ma altri scrittori avevano denunciato le ricadute negative di quel dominio. Il Settecento letterario è popolato da un proto-borghese addomesticato o dagli avi ancora non cristianizzati dei greci moderni: i fondamenti di un illuminismo moderato cattolico e riformatore vengono solo accennati e convivevano con i moti della temperie romantica che i lettori assorbivano con il melodramma e la riscoperta del primato italiano. A conferma di ciò vi è il successo di uno degli ultimi manifesti di questa linea di pensiero che è Paul e Virginie di Bernardin de Saint-Pierre: era un testo breve, molto patetico addirittura strappalacrime, una storia di amore familiare e giovanile ambientata in un momento della fantasia. Venne stampata dalla vedova Stella a Milano e fu un investimento economico notevole perché si trattò di una traduzione originale e iniziò a insegnare l’epoca dell’inserimento di questo titolo nel catalogo della gioventù (era il 1840). Era ancora però molto raccomandabile per motivazioni politiche ed era un’opera per adulti: erano pronti i tempi per accogliere il grande trattato storico politico di Gioberti con il suo connubio tra papa romano e nazionecon le sue cautele di ordine costituzionale e istituzionale queste traduzioni hanno permesso di creare un terreno per costui filtrando il miglior Settecento. UN GENIO ROMANTICO La traiettoria biografica di Chateaubriand, uomo dell’establishment napoleonico, spiega il successo duraturo delle opere di Chateaubriand. La prima versione del Genio del Cristianesimo fu edita a Pisa e solo nel 1812 a Napoli un sacerdote pubblicò l’Atala. I Martiri fu edito poco dopo e l’anno dopo il suo scritto su Bonaparte e i Borboni fu tradotto e pubblicato in tutte le capitali italiane. Da quel momento in poi fu gara tra Milano e Napoli a rilanciare le opere dell’autore fino a quando a Milano, grazie a Fontana, uscì la edizione definitiva. Accorpate in più tomi, le composizioni del vennero stampate per tutti gli anni Trenta e nel 1843 arrivarono persino a Torino. Questo trattato era molto complesso nelle parti dedicate agli aspetti dottrinali ma ebbe successo in quanto must della Santa Alleanza e quindi da adottare per tutti gli editori milanesi che proponevano collane di libri educativi. Nel Nord intercettò una precisa declinazione della giovane cultura romantica apprestando ciò che mancava, ossia l’auto- rappresentazione dello scrittore cattolico moderno come genio ed eroe che ereditava il meglio della grande tradizione letterale e la voltava in immagini. Era un grande discorso sulla 57 napoleonica e la risoluzione della questione polacca cambiava il senso se letta nell’epoca d’oro della Santa Alleanza. Non c’erano più espliciti riferimenti storici né venivano dati i giudizi di valore sulle nazioni, ma allora quali significati potevano suscitare nei lettori italiani the l’Empire o della Restaurazione? Significati mutevoli. L’opera necessitava di grossi interventi già dopo il 1814 ma ancora di più durante la Restaurazione perché continuava a interessare perché trasmetteva un’immagine dei polacchi molto edificante verso la quale i patrioti italiani potevano provare un moto di simpatia . La questione dello zar buono divenne addirittura insostenibile quindi gli editori salvarono l’immagine della buona Polonia attraverso la figura della protagonista ma posero in subordine il fragile impianto politico ingigantendo i motivi della storia d’amore. Certo Elisabetta, rimaneva polacca ma il suo innamorato diventava un po’ meno russo e il problema dello zar buono era meno importante: l’adattamento fu fatto aggiungendo e integrando e il risultato finale snaturava l’ispirazione originaria compiendo il mutamento della destinazione del romanzoda romanzo sulle nazioni oppresse era diventato una storia edificante per un pubblico soprattutto femminile curante dei destini della patria e fedele al suo ruolo di angelo del focolare. L’Elisabetta fatta italiana fu ricondotta ad accenti molto simili di un Paul et Virginie con un doppio lieto fine e le sorprese non finiscono qui perché gli editori italiani mutarono il finale non politico ma quello culminante nel matrimonio binazionale che era proprio il finale di vita di Elisabetta. Il destino di una polacca patriottica fedele trovava la sua miglior collocazione in un convento e il marito russo era scomparso. Il matrimonio già impedito a Corinne viene negato anche all’eroina di Cottin: queste due autrici diversissime dovevano parlare alle giovani italiane la stessa lingua dando il messaggio di meglio sole o suore che mogli di stranieri ostili all’Italia. LE PRIME PRIGIONI Victor Hugo fu molto fortunato e uscirono di lui molte opere di generi vari che per diversi motivi dovevano esercitare potenti suggestioni sull’immaginario del lettore medio nell’età del Risorgimento: ad esempio l’Ernani fu un tassello di primaria importanza nella costruzione dell’immagine del bandito medio meridionale come rappresentante di un ribellismo illegale ma ammirevole. Furono anche note le ricadute sulla produzione teatrale e sul settore dell’illustrazione e poi fu tradotto in italiano Notre-Dame de Paris che offrì l’impulso a un immaginario gotico ultra-romantico non alla portata italiana del quale gli autori non provarono di prendere il modello per nuove storie originali. L’opera più letta fu L'ultimo giorno di un condannato a morte – storia ambientata in un carcere parigino dove il condannato attende una grazia sovrana che non arriverà il che è una deroga alla prospettiva del romanzo storico già imperversante in quegli anni. Le piccole dimensioni dell’opera e l’estrema condensazione dei contenuti fecero sì che l’opera venne pubblicata nel 1829 e solo dopo Hugo ne riconobbe la paternità facendone il manifesto della battaglia alla pena di morte – il suo condannato acquisì una plasticità che poteva far pensare ai condannati politici e ai martiri del Ventuno. Negli stessi anni Trenta gli si affiancarono Le mie prigioni di Pellico e i testi carcerari di Gladstone che avrebbero trovato il modo di trovare posto nella memorialistica e nelle altre scritture risorgimentali dopo l’Unità. Lo scritto di Hugo contribuì a determinare l’eclissi del canone che proponeva una vicenda opposta cioè la grazia concessa come si vede nelle Elisabetta di Cottin. Qua invece il carcerato spera ma non ottiene la grazia e il sovrano è il glaciale e vendicativo – addirittura il condannato invidia i condannati ai lavori forzati perché è rimasti in vita. 60 La prima traduzione apparve nel 1834 a Milano e poi il libro arrivò anche a Firenze e a Palermo. Prima del 1848 a Milano ci fu una versione anche di Masieri: innanzitutto bisogna considerare che la prefazione che Hugo aveva scritto non trovò mai spazio nella penisola e la denuncia della pena di morte non arrivò prima dell’Unità degli Stati italiani neanche nel Piemonte di Cavour dove imperversavano le memorie di Silvio Pellico. E infatti Masieri taglio il testo per quanto riguarda il mito della ghigliottina concepita come supplizio umanitario e addirittura scomparvero i nomi di Robespierre e Luigi XVI come anche il finale della pena capitale. La prefazione di Hugo era una denuncia dei supplizi capitali che non interessava davvero a molti dei lettori italiani anche perché l’Italia creata dal Risorgimento avrebbe mantenuto la pena capitale nel suo codice penale. Ebbe successo perché non vi erano riferimenti politici a ribellioni o sovversioni sociali e non si sapeva quale fosse il reato del protagonista. DALLE STORIE DEGLI ALTRI ALLA STORIA D’ITALIA L’Ivanohe ebbe molto successo, fu la prima fonte di ispirazione per il capolavoro del Manzoni e che diede vita a un ventennio di successo nel romanzo storico fino all’esaurimento nel 1840 . Per quanto fosse immerso in un lontano Medioevo britannico e avesse a suo eroe Riccardo Cuor di Leone, protagonista delle crociate, e trasudasse massimo rispetto per le gerarchie sociali consolidate in un’avversione per qualsiasi forma di rivoluzione violenta, questo testo presentava qualche punto delicato primo tra tutti la rappresentazione idealizzata dei fuorilegge e una denuncia del malgoverno dei sovrani mediocri e usurpatori ma ancora di più la legittimità di una tazza straniera – i Normanni – come despoti di una razza autoctona e legittima – i Sassoni. Il romanzo si chiudeva con un lieto fine dove entrambi gli schieramenti cominciavano a conoscersi e a mescolarsi: quello dello scontro tra razze era un qualcosa di già visto nell’Europa moderna poiché già Sismondi se n’era occupato rispetto ai Longobardi e Romani dando vita a una querelle che raggiunse l’acme nell’età d’oro della storiografia cattolico liberale. Questo libro informò il pubblico medio dei miti e delle Nazioni fondando il medievalismo primo ottocentesco nella cultura popolare italiana. Scott si coniugò con Vincenzo Ferraio e il traduttore Barbieri che lo adattarono nella direzione di pochi tagli e della sostituzione degli squarci poetici con nuovi testi. I primi tagli non dovevano turbare la comprensione d’insieme del lettore italiano, ma erano lampi dell’ironia del giullare di corte contro i nuovi padroni – al lettore milanese potevano venire in mente le angherie dei funzionari austriaci ma Barbieri non oltraggiò la sostanza del testo . Sono invece importanti i tagli rispetto alla vicenda dell’usuraio ebreo e della figlia Rebecca che facevano di quest’ultima una vittima innocente a causa dell’anti giudaismo locale. Nel lieto fine non ci sarà spazio per questa figlia di Israele che deciderà di lasciare l’Inghilterra perché gli ebrei non potevano mescolarsi  il disprezzo subito dal padre si poteva spiegare con la sua professione odiosa invece lei era una vergine timorata di Dio e gelosa della sua reputazione. La questione non poteva essere risolta come aveva fatto Scott perché lo statuto e le memorie degli ebrei italiani erano molto diversi: la scena dell’addio della ragazza all’Inghilterra rimane in tutta la sua intensità perché riguardava chiaramente quel Paese ma la questione ebraica non doveva essere sollevata in Italia. Il problema accompagnava quello della pessima figura che faceva nel clero le pagine di Scott – la vicenda del cavaliere templare lussurioso e corrotto non poteva essere modificata senza sconvolgere la trama nonostante autore editore tagliarono dove Scott si dilungava sui suoi costumi mondani di un frate eremita sotto cui si celava un frate gaudente. Dopo aver descritto le manipolazioni, resta da dire che Barbieri era fedele alla letteralità e non erano state tagliati le parole rivolte dal vegliardo sassone contro la prepotenza dei potenti Normanni: gli italiani 61 lessero molto questo romanzo e fu importante per il loro immaginario nazionale deprivato di quello che potesse ledere la sensibilità dei governanti o dei chierici. Nello stesso momento uscii Le Solitaire del visconte d’Arlincourt, ambientato nella Francia di fine Medioevo ebbe seller del Risorgimento. Scott e questo visconte non erano per nulla appaiabili ma nel romanzo di quest’ultimo tornavano i tre i temi come l’usurpazione dei regni e il mito dell’eroe misterioso senza macchie senza paura – il solitario era Carlo il temerario, celebre duca di Borgogna. Arlincourt infatti era ortodosso nella fede e nostalgico delle antiche libertà provinciali e mal si adattava all’accentramento borbonico della Restaurazione. Il suo Solitario non era un crociato fedele al re e infatti affrontava un periodo di pentimento e addirittura l’autore si inventava cose del tutto irreali ma stavano in piedi grazie alla sua abilità narrativa e al tenore dei dialoghi. L’opera apparve nel 1823 a Milano ma scomparve attorno agli altri agli anni Quaranta per poi ricomparire negli anni Cinquanta. Il momento di poche edizioni coincise con l’uscita di scena anche del romanzo di Sophie Cottin: le Tre Gloriose avevano spazzato via la fame del visconte in patria e non era tempo di umori ultracattolici per quanto disciolti nelle strutture narrative – inoltre la concorrenza interna al campo letterario aveva surclassato l’effimera fortuna del visconte come l’interprete suscitata dall’avanzata europea nel liberalismo moderato e del riformismo in tema italiano. Inoltre il campo era stato invaso da un diluvio di titoli italiani più credibili e che trattavano di memorie più vicine ai lettori; in aggiunta questo sarebbero arrivati la Quarantana e Dickens. Il declino di Arlincourt coincise con l’apparizione del Il Bravo: storia veneziana di Cooper e Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton: nel primo riecheggiava la denuncia della virata liberticida della Venezia medievale e moderna che costituiva gran parte del romanzo mentre il secondo condivideva il fatto di puntare su una delle epoche e delle ribalte più oscure. La Venezia di Cooper era quella moderna piena di delatori e oppressori violenti che sembrava preludere all’oscura Napoli borbonica del dopo-Quarantotto e ai soprusi della Seconda Restaurazione. Venne tagliato di netto il punto in cui Cooper comparava la vera libertà americana con la farsa della libertà europea delle monarchie e perciò si trattava di modelli che non si adattavano né al momento nella cultura rispetto ai riferimenti italiani eccezion fatta per qualche utopista. Questo libro doveva suggerire dei rimandi dopo il Quarantotto e se prima eliminava un falso palladio delle libertà dalle memorie risorgimentali finì per diventare la rappresentazione della presente condizione della penisola a patto che scomparissero riflessioni di natura costituzionale. Cooper era stato tradotto moltissimo e aveva conosciuto una buona circolazione e fu pubblicato dopo quasi tutto il Quarantotto anche se a Venezia non era mai stato proponibile. Quello di Cooper prima dell’unità fu un successo in gran parte milanese e poi dovette percorrere l’itinerario che terminava nei cataloghi dei lettori più giovani e le sue meditazioni politiche quell’oro accenti repubblicani e democratici furono tagliate e poi passate in subordine come un qualcosa di totalmente americano – la fortuna che non ebbe fu a causa dell’originario sostrato politico. Ecco perché fu meglio Gli ultimi giorni di Pompei, critico allo stesso modo rispetto dei miti italici ma per il resto innocuo per la politica e ortodossa per la religione. Lytton aveva utilizzato dei motivi che potevano rievocare i motivi del viaggio di Anacarsi perché nella scena pompeiana, colta dal tragico terremoto, c’erano anche personaggi greci elevati a qualche nobiltà interiore e calati nel vivo di un degrado morale del quale la catastrofe naturale appariva essere la prevedibile punizione divina. Il finale infatti mostrava una conversione al cristianesimo da parte di un gladiatore condannato a morte cioè uno dei simboli dei costumi antichi la sopravvivenza era il premio dei pochi che si erano mantenuti integri evitando gli eccessi elevati in quella città opulenta. Il romanzo proponeva messaggio e dei personaggi 62
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