Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

TRADUZIONE de LA SOMBRA DEL TENORIO, Traduzioni di Lingua Spagnola

Traduzione completa dell'opera teatrale La sombra del Tenorio di José Luis Alonso de Santos.

Tipologia: Traduzioni

2021/2022

Caricato il 23/01/2023

serenelcost
serenelcost 🇮🇹

4.5

(26)

29 documenti

1 / 15

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica TRADUZIONE de LA SOMBRA DEL TENORIO e più Traduzioni in PDF di Lingua Spagnola solo su Docsity! La sombra del Tenorio – José Luis Alonso de Santos OSPEDALE della carità negli anni Sessanta. In un letto di rotondi e bianchi ferri, un vecchio comico, SA- TURNINO MORALES, termina i suoi giorni. Illumina il malato, magro e macilento, la luce della luna che entra da un’alta finestrella. Indossa uno scolorito pigiama che gli dà un aspetto spettrale. Su un lato del letto, una monaca immobile sta seduta su una sedia di legno. Dall’altro lato c’è un attaccapan- ni sul quale sono appesi, maestosi e spettrali, alcuni abiti di scena. Sullo stesso lato / al suo lato / dal suo lato c’è un tavolino con lo specchio che ricorda quello nei camerini di teatro, pieno di oggetti per truccarsi e ac- conciarsi. Alcuni tuoni in lontananza, misti a musiche celestiali, danno un certo sapore romantico alla scena. Saturnino si lamenta e si rigira tra le lenzuola come se avesse un incubo. Si sente un rintocco di campana del convento e il malato si alza dal letto. Si guarda intorno con gli occhi lucidi per la febbre. QUADRO PRIMO CHE DA INIZIO ALLA STORIA DI SATURNINO MORALES, LO STESSO GIORNO IN CUI FINISCE LA SUA VITA. [acotación] Sono già morto? Ad esserci, ci sono, ma poiché in questo stato uno non ha esperienza, non so dove me ne sto andando. Che sia un altro incubo per la febbre o starò già andando all’altro mondo? È stata dura vivere... e morire anche ha il suo peso, per quello che vedo. (Un lampo illumina la monaca che sta accanto a lui. Si sente il “Salve Regina” che canta il coro delle mo- nache dell’ospedale con tuoni e musiche allucinatorie.) Chi c’è lì? Non so se sei l’ombra dell’altro mondo, o sono in presenza del diavolo in persona che è venuto a portarsi i miei resti all’inferno! (SATURNINO si siede e colpisce il pomello che pende sopra la testata del suo letto. Il bagliore della lam- padina scaccia i suoi fantasmi.) Suor Ines, ma è lei! Mi ha spaventato, maledizione! Credevo di essere morto e che già venissero a prendere le mie ossa per portarle nella fossa! Che fa lì seduta a quest’ora della notte? La priora l’ha incaricata di vede- re fino a quando non rito le cuoia per mettere nella mia branda un altro malato che aspetta posto? Si è acca- nita su di me dal giorno in cui me la sono fatta sotto nella cappella, senza volerlo… questioni di età, bisogna tenerle in conto, dico io. Che dobbiamo fare, Suor Ines…! Il fatto è che se lei sta lì, un motivo ci sarà, lei ha più esperienza di me. Quindi se credono che debba essere oggi, bisognerà cominciare a farsi un’idea, anche se la cosa non mi pia- ce per niente. Forse a lei, che andrà dritta al cielo, non dispiace morire. Per questo si è fatta / si fece suora, no? Ma io vedo il mio futuro più nero della tunica del prete, che vuole che le dica. A questo preferisco il male che conosco [rispetto] a quello che verrà, per quanto bello possa essere. Sola- mente al pensiero di stare in una cassa più rigido di uno stoccafisso, mi viene la pelle d’oca. Non mi importa se vado in paradiso o all’inferno o da nessuna parte. Preferisco rimanere qui. Oltre al fatto, che a me quella del paradiso e dell’inferno è sempre sembrata una frottola. La faccenda di Dio è più seria e di più rispetto, questo già lo so. Però quella dell’inferno è per spaventare i bambini che non vogliono andare a scuola… – “Andrai all’inferno, Saturnino”…! Una balla, non è vero sorella? (Si sentono sei rintocchi di campane. SATURNINO si alza e si siede sull’orlo del letto, pensieroso e rifles- sivo). Le sei! Le sei di mattina! Che bel momento per spassarsela con una fanciulla nel caldo del letto, Suor Ines, e non per morire. Mi perdoni se la scandalizzo, ma visto il poco che mi resta, mi viene voglia di sfogarmi. Insomma! Dovrà prepararsi, sebbene per questo viaggio che farò non servono bagagli. Ma non c’è niente da fare, a meno che non si alzi all’improvviso il sipario dell’altra vita e mi trovi così, nel mezzo di quella scena senza aver ripassato il ruolo, che è sempre il brutto sogno del comico: stare lì, in mez- zo, senza sapere l’opera che si sta rappresentando. Un incubo sorella. Non può immaginare quanto sia brutto avere un vuoto di memoria. E il pubblico lì, che ti guarda in silenzio dalla sala buia... Mi succede questo nel sonno della morte, e muoio un’altra volta solo al pensiero: fare il ridicolo davanti agli stessi angeli del cielo, che avranno pagato ognuno il suo biglietto per venirmi a vedere, come Dio comanda! Tranne gli invitati, ovvio, che sempre ci sarà qualche angioletto intruso che si imbuca, perfino in cielo. Proprio per questo non appena l’ho incontrata, ho pensato di chiederle un favore e farle alcune domande sul mio futuro pubblico, perché lei, Suor Ines, è la suora più bella e buona di questa topaia, ed è molto esperta sulle questioni dell’aldilà. (Si sentono di nuovo i cantici de la “Salve Regina”, mentre SATURNINO MORALES si alza in piedi e va verso SUOR INES.) QUADRO SECONDO DOVE SI PARLA DELLE DIFFERENZE NEL TEATRO TRA I RUOLI DEI SERVI E DEI SIGNORI. Il problema è, sorella, che in tutta la mia vita di commediante, e lei già sa che esserlo fu tutto per me, ho sempre fatto il ruolo di Ciutti nel Tenorio. Tournée e tournée benedicendo i paesi di Dio con i versi di Zor- rilla sottobraccio, quel famoso scrittore delle terre del Pisuerga, che passa per Valladolid: “Clamorosa! Straordinaria! Commovente! Questa notte, di Don Jose Zorrilla, l’opera più importante che sia mai esistita nel nostro teatro. Dramma religioso-fantastico! Non mancate! Don Juan Tenorio!”… Era così…! I teatri pieni zeppi. Si è giunti a recitare addirittura nel giorno dei Defunti in sei teatri a Madrid, e quaranta in provincia, contemporaneamente. Si figuri! (SATURNINO prende le sue vecchie e logore pantofole da sotto il letto, e si siede a mettersele sullo sgabel- lo che c’è accanto al comodino.) Ma il fatto è che io, sorella, anche se in quest’opera facevo la parte di Ciutti, la figura del grazioso, il servo, quello che veramente ho sempre desiderato interpretare è il ruolo di Don Juan Tenorio, che è molto più vi- stoso di quello di Ciutti. Non so se mi capisce. Più lungo, costumi migliori… è più accattivante… con più copione, andiamo. Inoltre, quello di Don Juan è il ruolo del padrone, e quello di Ciutti di servo. E nei ruoli teatrali c’è la stessa differenza che c’è nella vita tra servi e padroni: gli uni sono i protagonisti, e gli altri sono al loro servizio. E non c’è storia, sorella. Per questo vorrei, fare il cambio una volta per tutte, per poter arrivare all’altra vita un po’ più lontano che in questa. Quello che non so è se al mio rispettabile pubblico, i signori angeli, e a Dio Nostro Signore che mi starà ascoltando, sembrerà giusto que un servo da tale diventi un dongiovanni. Ma è che per Ciutti non c’è futuro, né in questo mondi né nell’altro, glielo dico io, sorella. Per questo ho bi- sogno che mi aiuti e che preghi il mio futuro pubblico, lei che ha influenza su di loro, e chieda di capire e scusare questa sostituzione, diciamo. Ho portato la croce di Ciutti sulle mie spalle anno per anno, per uno sfortunato evento della mia gioventù: si ammalò l’attore che interpretava questo ruolo, ìì lo stesso giorno in cui entrai nella compagnia. Arrivo, salgo sul palco, senza nemmeno mollare la valigia, nel mezzo di quel trambusto della folla che entrava e usciva, arrivava e andava via… Mi avvicino con il mio bagaglio e dico: – “Salve”. E loro mi dicono: – “Tu!”. E io dico: – “Io?”. E loro rispondono: – “Si, tu. Tu: Ciutti.” Lo sostituii quella notte, con una tale disgrazia che ebbi un successo inaspettato, sebbene recitai il ruolo sen- za conoscerlo. La cosa peggiore che potesse capitarmi. Per una volta che ho ammazzato un cane mi hanno chiamato ammazzacani. Ho odiato la parte sin dal primo giorno in cui la recitai. E più lo odiavo, più mi re- stava attaccato per sempre alla pelle. Ciutti! (SATURNINO strattona il pigiama come se si trattasse della pelle di Ciutti, che era rimasta attaccata alla sua.) Per un certo periodo ho anche provato a recitarlo male per vedere se così me lo avrebbero tolto e dato a qualcun altro. Ma nemmeno così. Le strade dell’arte sono così misteriose e impenetrabili, come la vita stes- sa, sorella. A volte, l’entusiasta devozione a qualcosa produce solo disprezzo tra colore che ti guardano. Mentre altre, quanto maggiore è lo sdegno più entusiasmo suscita negli altri. Per tutte queste ragioni io vorrei, sorella, in questa ultima ora della mia esistenza, indossare per la prima e ultima volta nella mia vita i panni del Tenorio. (SATURNINO va verso l’attaccapanni dove c’è appeso il costume di DON JUAN, e lo accarezza con no- stalgia e adorazione.) QUADRO TERZO QUI SATURNINO COMINCIA A VESTIRSI E A PREPARASI PER IL SUO ULTIMO SPETTACOLO. Nastri, polsini, gorgiere, bottoni e ampi calzoni, la giacca, le mutande e i ricami esterni… conservati per tutti questi anni aspettando questa occasione. La parrucca, il mantello, la spada, gli stivali e il tipico sombrero… il costume completo di Don Juan! (SATURNINO prende la giacca dall’attaccapanni e se lo mette sul suo pigiama scolorito da malato, come in un rituale religioso pieno di emozione.) Con questa giubba debuttò Don Olegario Olmo nel teatro Ruzafa di Valencia… Questa è per te, maestro! Ora è con me come la casula che indossano i preti per accogliere Dio. Vestito così trionfi appena esci solo per gli abiti che indossi. Guardi sorella: oro e seta naturale. Ecco il tem- peramento di quell’uomo… Don Olegario Olmo! Raccontano che nello stesso giorno del suo debutto, non appena si alzò il sipario, quando Don Juan Tenorio da inizio alla commedia con quella famosa redondilla che dice: – “come gridano quei prepotenti! Ma un fulmine mi colpisca se non appena la lettera finisca non pagheranno cari i loro lamenti!” Al posto di dire “prepotenti”… Con il teatro Ruzafa pieno: il pubblico, la critica, le varie personalità… si al- za il sipario e don Olegario si sbagliò e disse: “malvagi”. – “come gridano quei malvagi!” Il pubblico rimase stupefatto. Un denso silenzio percorse la platea. Gli appassionati seguendo il libretti: “è prepotenti, che rima con lamenti, non malvagi”… Che affronto! Nel frattempo, lui stava lì senza muoversi, piantato come un albero nel mezzo della scena. Dalla giacca gli uscì l’ispirazione fino al cervello, e completò il verso: – “… ma che un fulmine mi colpisca se non appena la lettera finisca non li avrò sistemati!” Quasi veniva giù il teatri. Dovette salutare più volte. Applausi… acclamazioni… quelli dei palchetti: “Ole- gario, siamo la tua gente!”. Ovvio, indossava quella giacca… quella del Tenorio! Tuttavia, vestito da Ciutti, per quanto bene che lo faccia non si può arrivare più lontani di quello a cui sono arrivato io nella vita, e guardi che l’ho fatto bene, modestia a parte. Sembra che il maledetto Zorrilla scrisse questo ruolo solo per martirizzare il cuore del povero disgraziato che dovette farlo. Già nei nomi dei perso- naggi si vede la differenza. Uno: “Tenorio”, “Don Juan Tenorio”. E l’altro “Ciutti”. E sempre per i nomi e per i vestiti che hanno addosso si vede ciò che c’è da uno ad un altro ruolo, per quello che dicono in scena si vede persino meglio. Don Juan, per esempio, in un punto dell’opera dice: – “iniziò per una scommessa, continuò come amore non serio, generò poi un desiderio, e oggi mi brucia il cuore”. E Ciutti risponde: – “qual è la risposta che aspettate?” Confronti e vedrà le poche possibilità di un attore di avere un bell’aspetto quando ottiene una parte brutta. (Torna a toccare i costumi del personaggio tanto sognato, provando ad impossessarsi del suo spirito.) Con questi vestiti si ha successo, dentro e fuori la scena. Ha classe, eleganza e signorilità. Sono vestiti da conquistatore. Il Tenorio si chiama “Tenorio” perché è un dongiovanni, non so se mi capisce. Andiamo, si dedica ad approfittare delle donne altrui che trova sulla sua strada. Per i mariti, padri e fratelli, non sono un piatto gustoso, ma per lui: un banchetto. – “perché dovunque io vada, lo scandalo viene con me”. Lo scandalo… e i vestiti. Per il teatro, essenziali. E per la vita, anche. (SATURNINO prende i polsini di pizzo, e se li aggiusta con estrema cura.) Con questi polsini, tutti possono; pizzo olandese ricamato a mano. Guardi come scendono… come cadono bene. Suor Ines, lei si chiederà per quale ragione possiedo questi capi, e non ho altra scelta che confessarglielo. Molti dei Don Juan della compagnia a volte dovevano recitare con un capo in meno. Un duende si aggirava attorno al guardaroba del Tenorio, e spesso volava. Avreste dovuto vederlo, Don Juan, furioso, prima di ini- ziare lo spettacolo, cercando gli abiti: – “Satur, hai visto i miei polsini? Quelli di pizzo”… – “Io? No signore, polsini no”… – “Si li ho lasciati proprio qui”… – “Può indossare quelli vecchio, finché non compaiono” – “Sembra che ci sia un duende in questa compagnia”… E il duende, vestito qui, accessorio lì, a poco a poco completò questo corredo da trionfatore. O il sudario, a seconda di come lo si guardi. – “Beh, signore, un bell’inizio! Ho giocato molte mani in passato, ma, per Dio, non ne ho mai vista una, che mi facesse così onore! Ma vedo che mi aspetta Ciutti. Canaglia?” E io: – “Sono qui” E dopotutto, uscire a fare “una commissione” un personaggio in un’opera teatrale non ha bisogno di altro la- voro che stare in piedi tra le scatole in attesa ed entrare di nuovo quanto la parte lo richiede. Ma è che Don Juan continuava a recitare nella vita, e finita la rappresentazione, continuava a dare ordini con la stessa fretta che nell’opera, come se l’essere padrone e io servi fosse per sempre. Solo cambiando “Ciutti” con “Saturni- no”, che è come lei sa si chiama un servo, manteneva il resto della frase dell’autore per quanto riguarda il mandarmi a fare commissioni: “Satur, prendi questo. Satur, prendi quest’altro”. E io, per non tradire la rela- zione scenica, e anche perché uno si abitua a tutto nella vita, compreso ad obbedire, finivo per andare a prendere del vino o uno spuntino al bar vicino, perché lui non voleva uscire: – “Rinfresca già molto di notte, Satur, e posso prendere la raucedine, e vediamo chi dirà rauco doma- ni, quella lunga serie di versi:” – “Io nei vicoli mi sono addentrato, io sui palazzi sono salito, io sui chiostri mi sono arrampicato, e da tutte le parti ho lasciato un amaro ricordo di me”. E affinché potesse continuare ad addentrarsi nei vicoli e a salire sui palazzi con una buona voce, dovevo an- dare io a prendere il suo cibo, alla locanda del villaggio, che nevicasse o piovesse a dirotto. E se ero io quel- lo rauco il giorno dopo, senza che mi uscisse la voce nel dire: – “Tenta tutto con audacia, pensa di avere tutto sotto controllo, non si preoccupa di niente, tantomeno lo chiede”. O liberava qualche gallo sfortunato: – “sta succedendo qualcosa, gli dicono; e lui dice: Don Juan va lì”. E faceva ridere il pubblico, in fondo non importava, perché io ero l’attore secondario, il “grazioso”, ed era parte del mio ruolo patire sofferenze nella vita, e sul palco, per scherno mio e piacere altrui. Comprenderà lei, sorella, la mia decisione di stare sulla locandina, per essere io ora, nonostante sia per una sola volta, l’attore principale. (Terminata la sua caratterizzazione, SATURNINO va verso l’attaccapanni ed è pronto a continuare a ve- stirsi con i vestiti di DON JUAN TENORIO.) QUADRO SESTO SATURNINO DUBITA, COME ARRIVA IL GRAN MOMENTO, DELLE SUE CONDIZIONI PER RE- CITARE IL RUOLO. Starà perdendo la pazienza, sorella, con così tanti tira e molla, e avrà altre cose da fare che aspettare e malati di cui prendersi cura. Perciò mi metto i pantaloni e il resto del costume in un attimo, e lo spettacolo ha inizio adesso. Questi ampi calzoni erano di don Rodolfo Atienza, il Tenorio di Badajoz, con cui ha condiviso il manifesto per quattro anni. Non si spaventerà alla vista di un uomo nudo, lei che bada ai malati ogni giorno, ma se chiude gli occhi un attimo, mentre mi metto i pantaloni e le parti di sotto, è meglio per il suo spirito, e per mia comodità. Non guardi, andiamo, mentre sono mezzo nudo. So che voi vedete le cose di questo modo in maniera diversa ri- spetto a noi, ecco perché sembra che per metà siano già in paradiso. Anche se non tutte le suore sono come lei, sorella. Guardate la Madre Superiora, che genio è. Somiglia a quella dell’opera, che ha anche la sua par- te. Davano sempre il ruolo all’attrice col carattere peggiore della compagnia. Ce n’era una che aveva un ca- rattere così pessimo che quando il Commendatore scopre che Don Juan ha portato via sua figlia dal conven- to, e la Madre Superiora gli dice, vedendolo correre: – “Dove andate, Commendatore?” E lui risponde, arrabbiatissimo: – “Imbecille, dopo il mio onore.” L’attrice, dopo, retropalco, quando finì, gli disse con rabbia: “non mi chiamare imbecille”. E l’altro rimase di stucco, prima di andare in scena come statua. Fino a che un giorno lei, stanca di sentirsi insultare, andò via dal palco e gli disse: – “Dove andate, Commendatore imbecille?” Lui, dopo essere rimasto in silenzio, pensando a come uscire dalla situazione, non fece altro che rispondere con il resto del verso: – “… dopo il mio onore”. Da allora molte madri superiore hanno recitato così la parte, e il Commendatore non ha avuto altra scelta che sopportare un “imbecille” che l’autore non gli aveva affibbiato. Anche questa di Don Gonzalo, il Commendatore è una brutta parte: lo uccidono, gli rubano la figlia, gli met- tono un vestito di pietra che non c’è verso di muoversi con quello addosso, e lo chiamano “imbecille” di punto in bianco. (SATURNINO si posiziona dietro il letto, per non essere visto da SUOR INES, e finisce di mettersi i panta- loni e il resto dei vestiti, tranne gli stivali e il tipico sombrero, che conserva per il futuro.) Mentre lei si dedica in silenzio e raccoglimento alla preghiera, che ne avrò bisogno, io finisco di mettermi i calzoni di Don Juan Tenorio in un attimo. Ah! E il mantello. E la spada, che in fin dei conti ne avrò bisogno per varie scene di duelli, e mi sono eserci- tato nella scherma nei momenti liberi, colpendo i sacchi di mangime dell’osteria, come fece, in altri tempo quel Cavaliere dalla Triste Figura alle botti di vino. Non so se al mio futuro pubblico sembrerà brutto che reciti con vestiti rubati. Però loro, come angeli che so- no, se è vero che vedono tutto, sapranno che pochi si presentano da loro con i propri vestiti, perché in un modo o nell’altro, cos’è la vita, se non prendere l’uno dall’altro ciò che possiamo? Che Dio mi perdoni, ma altrimenti come avrei fatto ad avere questo velluto squarciato. Ho messo male la mantellina… È che sono semplicemente terrorizzato, sorella, anche se conosco il ruolo a menadito, avendolo sentito da qualcun altro, non l’ho mai interpretato. Non so che cosa mi fa più paura, a dire la verità, se morire, o essere alla fine, Don Juan Tenorio, e di fronte ad un tale pubblico. Indossare gli abiti da signore quando uno per tutta la vita è stato un personaggio secondario, ha il suo peso. Una vita intera ad aspettare questo momento, e a temerlo, perché forse non sono in condizioni per questo ruolo. Nel peggiore dei casi, voglio dire. Guarda! Gli angeli mi fischiano! Quanta fretta Dio mio! Beh, i ve- stiti ci sono. Eccomi, sorella! (Il vecchio comico esce, con un gesto di rabbia da Tenorio, da dietro il letto con la spada in una mano e il mantello nell’altra.) – “Lasciate che i litigiosi vengano cercati e i giocatori d'azzardo circondati chi è orgoglioso, che lo affronti, e veda se c’è qualcuno che lo superi nel gioco, in battaglia o in amore”. “Eccolo Don Juan Tenorio per chiunque voglia provare”. (SATURNINO fissa il suo sguardo febbrile sull’infinito, e dopo aver meditato un attimo in silenzio, va ver- so SUOR INES, con un’idea istrionica e allucinata nella sua mente.) QUADRO SETTIMO IN CUI SATURNINO SI INVENTA UN PALCO E UN PUBBLICO, NELLA SUA ULTIMA RAPPRE- SENTAZIONE. Ci siamo tutti: Don Juan Tenorio, Donna Ines… e il pubblico! Pensavo, Suor Ines, che per avere un’idea più precisa del fatto che sta per iniziare uno spettacolo teatrale, possiamo fare come nei teatri, che fanno sembrare reale ciò che accade sul palcoscenico, possiamo immagi- nare, che invece della vita vera, questo sia un palco. E che lì, sorella, al posto della parete ci siano le poltro- ne con il pubblico. Molto pubblico, come sempre ne ho avuto, anche se è sbagliato per me dirlo, così è nor- male che anche questa volta debba esserci il pienone. Chiusa gli occhi della realtà, sorella, e apra quelli della fantasia. Guardi! Lo vede? È un teatro! Un grande teatro, con poltrone, tendaggi, palchi e luci in alto…! E dietro c’è Rufino, il nostro assistente, che si occupa della luce, del suono… alza il sipario, mette la sceneggiatura e apre la botola, quan- do si ricorda. Il buon Rufino! (SATURNINO avanza verso il suo proscenio immaginario – e reale d’altra parte – e si dirige al pubblico della sua mente – che coincide, ovviamente, con la platea dello spettacolo –.) Un teatro! Un bellissimo teatro! Grazie a questa brillante idea dell’autore della commedia, invece di stare qui da solo… beh solo, con Suor Ines che è una santa ma, a dire la verità, non parla molto, come avrete potuto notale. Ha fatto voto di silenzio e non dice che questa è la mia bocca, quindi non incoraggia troppo in questa situazione. Io parlo, parlo e lei sta lì, muta… Ma grazie al permesso dell’autore, come stavo dicendo, invece di essere qui con Suor Ines, a morire male in questo letto d’ospedale per poveri, sarò, se me lo permettete, insieme a voi, per dare vita a questa vecchia e nobile arte del teatro. E quando si abbassa il sipario, mi leverò il trucco e il costume, e invece di andare nella fredda tomba, andrò a casa a mangiare patate con il riso e a bere vino rosso con i miei amici, aspettando lo spettacolo di domani… Si alza il sipario, domani qui, alla stessa ora, e io, in questo letto. Rimbombano i tuoni e io dico: – “Sono già morto?” Così, mi prendo gioco della morte morendo ogni giorno, di Don Juan Tenorio, e non una volta per tutte, di Saturnino Morales. (SATURNINO lascia il pubblico e si avvicina a SUOR INES, si sorprende nel vedere le lacrime sul suo vi- so muto e immobile.) Sta piangendo! Crede che l’abbia abbandonata per andarmene con il pubblico… e che sia diventata una suo- ra di teatro… Mi dispiace, sorella, per quello che le ho appena detto… Ma Suor Ines, se non sono lì… non c’è nessuno. Siamo solo noi ad esistere. Io e lei conosciamo il nostro segreto. Loro non sono altro che un sogno: li ab- biamo inventati noi… li abbiamo immaginati lì, seduti al buio, con gli occhi che brillano come il bagliore delle stelle del cielo nel cuore della notte. Il pubblico! Quell’essere fatto di centinaia di teste e occhi, che si muovono contemporaneamente, legati da un filo magico, fino al luogo del palco dove l’attore mette la cala- mita della curiosità dell’esistenza. Teatro, attore, pubblico… Che facciamo tutti all’inizio e alla fine della vi- ta se non uno spettacolo per essere applauditi da quell’essere sconosciuto che ci guarda dall’oscurità? Fino a che un giorno arriva il momento di uscire di scena, come è successo oggi a Saturnino… e ci cada il sipario. Il pubblico! Con il battito dei loro cuori, le loro risate, i respiri, gli applausi… soprattutto gli applausi. Li sente, sorella? Applausi che provengono dalle file di poltrone, come onde nel mare che si avvicinano alla nostro costa. Li sente, sorella?... Li sente…? (E l’applauso del pubblico immaginario – e reale – che arriva fino a SATURNINO e a SUOR INES chiude questo quadro, dove si mischiano le dimensioni della vita e del teatro.) QUADRO OTTAVO DOVE SI PARLA DEI PROBLEMI DI DON JUAN TENORIO CON SUO PADRE, E DI QUELLI DI ZORRILLA CON IL SUO. Applaudite! Siete vivi! Siete venuti a teatro per divertirvi, e per vedere come gli altri vivono la loro vita, per imparare a vivere la propria. Li abbiamo inventati vivi, sorella. Erano lì da un po’, mascherati nel loro ruolo di pubblico, che ascoltavano e osservavano dall’oscurità. Come ascoltavano e guardavano, dal pubblico, die- tro le loro maschere, nell’Hosteria del Laurel, Don Gonzalo da una parte e il padre di Don Juan Tenorio dall’altra. (SATURNINO prende una maschera di carnevale dal suo tavolo, e la usa per rappresentare i personaggi mascherati di cui parla.) Questa scena delle maschere ho dimenticato di raccontargliela prima, Suor Ines, ed è molto importante per poter capire il personaggio del Tenorio, perché è quando il padre di Don Juan, Don Diego Tenorio, vedendo lo stile di vita di suo figlio, Don Juan Tenorio, lo rinnega. Ed è già stato ripudiato nel primo atto. Succede durante la scommessa nell’Hosteria: – “…gli uomini uccisi nei miei duelli, e le donne tradite, Contate.” – “Contate.” – “Ventitré ” E dopo: – “Questi sono i morti. Adesso tocca a voi. Per la croce di Sant’Andrea! Qui ne conto trenta due”. – “Sono i morti”. – “È uccidere”. – “Ne ho nove in più di voi” – “Avete vinto”. Passiamo alle conquiste”. – “Qui ne conto cinquanta sei”. – “E io nella vostra lista ne conto settanta due”. – “Quindi avete perso”. I più ficcanaso scommettevano in un angolo. Alcuni puntavano su Don Juan, altri su Don Luis. Quando Don Juan e Don Luis dicono: – “C’è qualcosa che volete spuntare?” – “Vi manca solo una cosa”. – “E quale sarebbe?” – “Si, a proposito: lì c’è una novizia che sta per pronunciare il suo voto”. Il padre della novizia, Don Gonzalo, che ascolta la conversazione, si alza dal tavolo e grida: – “Scriteriati! Ringraziate Dio che se non mi tremassero le mani coi bastoni, come i villani vi ucciderei entrambi!” Don Juan allora dice: “Ha, ha, ha!” E se non fosse stato abbastanza chiaro, aggiunge: – “Mi fate ridere, Don Gonzalo”. Il padre di Don Juan, che è amico del Commendatore, vedendo ciò che gli ha fatto il figlio Don Juan, lo ri- pudia. E Don Juan da questo momento rimane senza famiglia, nonostante lui se ne sentisse già fuori, per le differenze che avevano. Lo dice a suo padre quando si arrabbia con lui: – “Quindi non vi preoccupate da qui in avanti per me che come ho vissuto finora è il modo in cui Don Juan sempre vivrà”. E agli altri che stanno lì, quando Don Diego Tenorio, va via furioso: – “Ah! Ce la siamo cavata: non va persa l’omelia, sono discorsi di famiglia, che non ho mai ascoltato”. Ma la cosa nasce da prima, quando appena lo vede il padre gli dice, quando scopre com’è il figlio dalle cose che gli racconta: – “… non ti conosco, Don Juan”. Don Juan, vedendo che un gentiluomo in maschera che non conosce, dice di non conoscerlo, risponde: – “…come se mi importasse, se mi conosci o no!” Don Diego, in procinto di andarsene, lo minaccia indignato e il figlio lo affronta mettendosi di fronte a lui: – “Addio, allora: mas non dimenticare che esiste un Dio della giustizia”. – “Aspetta”. Che non significa prendi, ma fermati. Che si fermi. E l’altro li, sfinito perché è un uomo anziano… – “Che vuoi?” – “Voglio vedere la tua faccia” [perché D.G. è mascherato] – “Mai, me lo chiedi inutilmente”. – “Mai?” – “No”. – “Quando voglio io, piuttosto”. – “Come?” – “Così”. Don Juan gli strappa via la maschera dalla faccia in un colpo, davanti a tutti. – “Delinquente! Mi hai messo le mani addosso!” Urla il padre. Don Juan, riconoscendolo, fa qualche passo indietro: – “Santo cielo, mio padre!” E ora è quando il padre gli dice: – “Menti, non lo sono mai stato”. – “Controllati, per Belzebù!” – “No, i figli come te sono figli di Satana”. E così lo rinnega, rimanendo tale per tutta la vita. E poiché le madri non compaiono nell’opera, ma solo quelle dei conventi… ma certo, sorella, non è lo stesso, e il padre lo ha ripudiato, beh è un vero peccato. Per quanto riguarda i suoceri, peggio ancora. Sarebbe stato Don Gonzalo, il padre di Donna Ines, ma dopo que- sto lo ha rifiutato come genero. E dopo è venuta tutta la storia che le ho raccontato: il rapimento della figlia, e il colpo di pistola con cui Don Juan manda il padre della giovane all’altro mondo, dal quale poi ritorna, trasformatosi in una statua di pietra. Sembra che questa cosa dei problemi di Don Juan con suo padre siano gli stessi del suo autore, Zorrilla, a causa di quanto non andasse d’accordo con il suo, dato che non si parlavano. E diede al personaggio l’idea di ripudiarlo, probabilmente come suggerimento, per quando il padre avrebbe visto l’opera. – “Ah! Non è forse vero, angelo dell'amore, che su questa riva isolata più pura splende la luna e si respira in modo migliore?” Le mucche alla loro: – “Muuuu!” E io, alla mia: – “Quest'aura errante, piena dei semplici odori dei contadini fiori”… Lei, sentendosi chiamare fiore di contadino, mi aprì la porta con un piccolo sorriso. Balzai in piedi, avvici- nandomi a lei, e continuai, strofa dopo strofa, cercando di conquistare quel castello: – “... quell'acqua pulita e serena che attraversa senza timore la barca del pescatore che aspetta cantando il dì, non è forse vero, colomba mia, che respirano amore?” E al ritmo delle decime della scena sul divano, lei aprì la porta a poco a poco... – “Quell'armonia che il vento… …quel dolcissimo accento”... Stava già mostrando la sua testolina. E quegli occhietti mi guardavano, estasiati dall'effetto poetico, tra i muggiti delle mucche. – “Don Juan, lo facciamo un giorno sì e l'altro pure”. Glielo dissi. E ho continuato con i versi, vedendo il cambiamento favorevole che la situazione stava pren- dendo. – “... guarda qui ai tuoi piedi, per tutto l’altero rigore di questo cuore traditore”… Era brutta, sorella, quella maledetta! Com'era brutta! – “... che nell'arrendersi non credeva, nell'adorare la mia vita”... Era bella brutta! – “... la schiavitù del tuo amore”. Quando mi aprì del tutto la porta, e il suo cuore, apparve improvvisamente Don Rodolfo Atienza, quello di Badajoz, che aveva finito il suo primo incontro e voleva [fare doppietta], l'egoista. Così me ne sono andato come Don Luis Mejia, composto e senza fidanzata. E il successo con le donne, quello che chiamano succes- so, i tenori. Per questo motivo è stato necessario cambiarli presto, perché sono morti giovani per sfinimento. Tanto attrito, logicamente, ha dato i suoi frutti e, sebbene Don Juan non avesse figli nell'opera, sia perché Zorrilla se ne era dimenticato, sia perché, come dice il proverbio [X spagnolo], “meno uno sa, più leva in al- to il naso”, il fatto è che, al di fuori dell'opera, li aveva. Diffusi in tutto il paese. Capitava che, quando arrivavamo con la compagnia da qualche parte, quando i bambini uscivano per salu- tarci, c'era sempre qualcuno che diceva: “papà, papà"” il cui volto e le cui caratteristiche facevano pensare che potesse essere il Tenorio. A quel: “papà”. Che si tratti del padre del bambino, o del Don Juan assunto in precedenza, o ancora di quello di un’altra compagnia: era “papà”. Chiamavamo quei bambini Juanillos, cioè figli di Don Juan Tenorio. Abbiamo avuto problemi in diversi punti con i Juanillos. Con le madri e i nonni, naturalmente, ma non con loro. Erano entusiasti: – “Papà, papà, voglio fare il comico, portami con te”... Che peccato! Con la fame che c’era in quei villaggi e volevano fare i comici. Innocenti! A volte non c'era altra scelta che alleggerire il peso. Li pagavamo e rimanevamo amici, perché “con l’oro è tutto più dolce”, come dice il mio signore Don Juan in un passo della commedia. (SATURNINO si aggiusta la parrucca e la giacca e termina la sua caratterizzazione e i suoi ricordi amoro- si. Poi va fino al proscenio per parlare al pubblico). QUADRO DODICESIMO INTERMEZZO IN CUI L’ATTORE SI SVAGA CON IL PUBBLICO Dovete perdonarmi ma dato che vi abbiamo inventato come pubblico e siete seduti lì a guardarmi dalle vo- stre poltrone, interromperò lo spettacolo in modo da poter parlare un po’ tra di noi. Come se fosse una di quelle pause che si fanno a teatro. Di tanto in tanto mi piace interrompere lo spettacolo che sto recitando e parlare con il pubblico. Non posso raccontare le storie tutte di fila. Un tempo, quando vedevano che il pubblico si annoiava e cominciava a pen- sare alle proprie cose, interrompevano lo spettacolo e facevano un intervallo. Ebbene, questo è ciò che sto facendo ora, fermare il racconto degli ultimi momenti della vita di Saturnino Morales è come se fosse un in- termezzo. O intervallo se volete, per chiamarlo in modo meno formale. Perché il teatro di fila, che dire? È faticoso. E, in fondo, è ancora teatro. Perché facendo questo o facendo quello, io sono ancora un attore e voi siete an- cora un pubblico, che si aspetta che io copra il dramma della vita con il divertimento del palcoscenico. Il palcoscenico! Questo luogo magico in cui tutto il mondo entra in pochi metri di spazio. E non solo il mondo che vediamo o sentiamo, ma molto di più: c'è spazio per dei e diavoli, per cieli e inferni. C'è spazio per fantasmi, spettri ed esseri immaginari. C'è spazio per la verità e la menzogna, per la giustizia e l'ingiusti- zia, per i nostri sogni e le nostre speranze. Tutto si adatta qui, signore e signori, perché il palcoscenico è l'immenso regno della nostra immaginazione. È per questo che il teatro è ancora vivo, nonostante le numerose vicissitudini che ha subito, da quando, molti secoli fa, l'uomo ha iniziato a cercare di dominare il mistero della vita attraverso l'arte della rappresentazio- ne. Allora, visto che siamo qui, voi nel vostro ruolo di pubblico e io come attore che interpreta Saturnino Mora- les, vorrei raccontarvi alcuni fatti che mi sono accaduti, recitando anch'io questa commedia del Don Juan Tenorio su questi palcoscenici del mondo. (L'attore scende in platea per raccontare aneddoti della sua vita di comico, approfittando della confusione di realtà creata dall'autore.) Ricordo che una volta, quando stavo iniziando a fare teatro in una compagnia amatoriale... siamo andati in un posto a Galizia. Quando arrivammo all'intervallo dello spettacolo, l'organizzatore entrò dove ci stavamo cambiando e ci disse di non vestirci per la seconda parte finché non avessimo saputo se c'era una seconda parte, perché lì c'era l'usanza di pagare i comici con quanto ricavato dalla lotteria di un prosciutto tra il pub- blico, all'intervallo. E se le schede non fossero state vendute, non ci sarebbe stata una seconda parte. E, cosa peggiore, abbiamo dovuto vendere i biglietti da soli. All'inizio ci siamo rifiutati, come pare abbiano fatto tutte le compagnie che passavano di lì, perché la dignità dell'artista gli impedisce di fare simili servitù. Ma dopo un po' ci siamo arresi, perché ci è stato detto che tut- ti avrebbero ceduto, data la necessità e la situazione in cui ci trovavamo. Il problema era che le schede non venivano vendute. Don Juan e Donna Ines ne vendettero un po', ma gli al- tri non vendettero nulla. Ci incontrammo di nuovo con i proprietari del teatro, litigi, discussioni, il pubblico fuori che gridava perché lo spettacolo andasse avanti, che gridava ma non comprava i biglietti, finché alla fine raggiungemmo un accordo: fare la seconda parte, anche se più breve e veloce, per evitare mali maggio- ri, e tenere in cambio il prosciutto, che a quanto pare era quello che tutti quelli che recitavano lì finivano sempre per fare alla fine. In altre parole, avevamo recitato per un prosciutto, anche se ci avevano promesso mari e monti quando ci hanno assunto. Inutile dire che quella sera abbiamo mangiato prosciutto per cena. Il tutto si è concluso a tarda ora, tra una battuta e l'altra, in un'area picnic alla periferia della città. Abbiamo mangiato il prosciutto con l'organizzatore dello spettacolo, che si è iscritto anche lui. E ci ha detto che anche se eravamo dilettanti... mangiavamo co- me professionisti. In un'altra occasione, sempre per questa commedia del Tenorio, il palcoscenico aveva una sola porta di usci- ta che si apriva direttamente su un cortile di polli. Era in un villaggio di Badajoz. Così abbiamo dovuto met- tere le nostre cose all'aria aperta e cambiarci al chiaro di luna, aspettando il nostro turno per varcare la porta e recitare la nostra parte. Ci era già successo altre volte, vestendoci nel cortile o nel recinto. Ma quello che non ci era mai successo prima, e che ci è successo lì, è che ha nevicato. Nevicava su di noi e non c'era posto per ripararsi all'esterno. L'unica speranza era che presto sarebbe toccato a noi salire sul palco per riscaldarci, soprattutto a quelli di noi che indossavano costumi più leggeri. La cosa negativa era che quelli sul palco al- lungavano loro parte il più possibile, data la fredda promessa che li attendeva dietro la porta d'uscita. Era- vamo così infreddoliti che più di uno di noi salì sul palco tremante per recitare, senza che quello fosse il suo ruolo. Bisognava vedere Don Juan Tenorio uscire con i capelli pieni di neve per recitare le parole: – “Bella notte... Guai a me! Quante come questa, così pure in infami avventure, ho perso stupidamente!” Nevica! Anche noi abbiamo avuto i nostri problemi con la censura. In un posto dove ci siamo esibiti siamo stati in- gaggiati dal parroco, e lui ci ha detto di tagliare tutto ciò che riguardava il rapimento della novizia, che non era giusto. Il Tenorio senza il rapimento della novizia! Non si capirebbe nulla... E come se non bastasse, è arrivato un sergente della Guardia Civil a piazzarsi nel retropalco: – “Per sicurezza, a volte mi hanno detto che avrebbero fatto uno spettacolo decente e poi hanno la- sciato al pubblico quello che volevano”. E ha aggiunto, toccandosi i baffi: – “Se qualcuno sgarra, gli sparo due volte proprio lì”. Immaginate cosa significhi fare una recita con qualcuno che ha una mano sulla pistola a due metri da voi... Ogni volta che accadeva qualcosa del genere, colui che interpretava Don Luis, molto spaventato, cambiava le battute del primo atto, e invece di dire: – “Ho comprato con la forza del denaro… la libertà! e la carta; e incontrando il frate per un sentiero, gli mandai accuratamente una pallottola avvolta in essa”. Diceva: – “Ho comprato con la forza del denaro.... la libertà! e la carta; e incontrando un frate su un sentiero... lo salutai”. Ricordo che lo stesso giorno abbiamo avuto un'altra disavventura... Alla fine del primo atto della commedia, alcuni ufficiali giudiziari escono e dicono: – “Don Juan Tenorio?” – “Sono io”. – “È stato preso”. E fanno prigioniero Don Juan. Per una scena così breve non abbiamo assunto attori. Li abbiamo presi dallo stesso villaggio in cui recitavamo: – “Ehi, tu! Vuoi recitare in teatro?”. – “Una volta, da bambino, ho interpretato un pastore a Natale”. – “Beh, stasera farai la parte dello sceriffo”. E quello che vedevamo con la faccia più intelligente gli dicevamo la frase che doveva dire: – “Don Juan Tenorio?” – “Sono io”. – “Siete stato preso”. E lui diceva: – “Don Juan Tenorio, sono io, sono prigioniero”. Tutto in fila! – “No. Lei non è Don Juan Tenorio. Don Juan Tenorio è lì in piedi e dice: Sono io. Lei dice: Don Juan Tenorio? Ed è prigioniero”. Quel giorno siamo arrivati lì, li abbiamo portati, e loro sono rimasti nel retropalco pronti ad entrare in sce- na... molto nervosi... Quando il Tenorio stava pronunciando quella lunga serie di versi, quando fu il momen- to della scommessa: – “…le romane: capricciose, le loro abitudini, licenziose, io, coraggioso e scapestrato chi ridurrebbe a un resoconto le mie imprese amorose?”… All'improvviso uscirono i quattro: – “Don Juan Tenorio, prigioniero!” Pronti a farlo prigioniero, che finisse o meno i versi. E passarono dieci minuti prima che arrivasse il loro turno! – “Non ancora!” Don Juan disse loro il più tranquillamente possibile, furibondo. E la comparsa [con la frase] rispose molto seriamente, iniziando ad uscire di scena: – “Mi girerò”. E mille altre storie che potrei raccontare mi sono accadute sul palcoscenico, come sono sicuro che ognuno degli attori che recitano in questo spettacolo racconterà le proprie. E forse uno di loro tornerà a fare la lotte- ria dei prosciutti tra di voi, se le circostanze e il suo spirito lo renderanno opportuno (La campana del convento di suore che si occupa dell'ospedale suona di nuovo, scandendo le preghiere del mattino. L'attore lascia il pubblico e torna sul palcoscenico, pronto a fare il suo dovere e a concludere lo spettacolo.) QUADRO TREDICESIMO ALCUNE RIFLESSIONI DI SATURNINO MORALES SUL TEMPO, L’AMORE E LA MORTE. Quel suono di campana mi ricorda, come se stesse suonando per me, che il giorno si avvicina e la scadenza sta per arrivare. Scusatemi, ma devo tornare in scena e finire di adempiere all'obbligo di vestire i panni di Don Juan Tenorio per morire, prima che Suor Ines inizi a innervosirsi perché sto uscendo dal personaggio e lei non può dire nulla, essendo di pietra. Pensandoci bene, forse succede che la febbre che ho, [in quanto] Saturnino mi fa avere le allucinazioni e passare ad altri ruoli che non sono i miei. Mi invento e immagino di essere in un'altra epoca, di fare uno spettacolo, di interromperlo e di andare a parlare al pubblico delle mie cose... Ma non è vero. Lo sto sognando. Sono Saturnino Morales, sono in ospedale e il pubblico è solo nella mia immaginazione. Non è vero, sorella? (Si rivolge ora a SUOR INES, mentre recupera il suo ruolo, il suo spazio e il suo tempo scenico, come pa- ziente dell'ospedale.) Ho l'impressione, Suor Ines, che, impelagato in una cosa o nell'altra, il mio tempo stia passando, ma non par- lo con nessuno da così tanto tempo che avevo bisogno di sfogarmi un po', e ancora di più, pensando a quanto tempo starò senza parlare d'ora in poi. Ma “non perdiamo tempo”... come ci dice Don Juan. Il “tempo”, che in teatro è molto diverso dalla vita. Il tempo sul palco vola. Don Juan in questa opera vive, grida, litiga, ama e muore in sole due ore. Il tempo in cui un cane fa un pisolino. Don Juan è anche molto impaziente. Ha sempre fretta. Alle otto è all'Hosteria, con la scommessa. E quello stesso giorno viene arrestato, torna libero, vede Brigida e la cameriera di Donna Ana, entra, esce, va e viene... E poi racconta a Ciutti i suoi piani con le due donne, Donna Ines e Donna Ana: – “... alle nove al convento; alle dieci, in questa via”. Quante cose può fare quest'uomo in un'ora! E a proposito dei giorni di cui ha bisogno per conquistare le donne: – “Uno per farle innamorare, uno per conquistarle, uno per lasciarle, due per sostituirle e un'ora per dimenticarle”. In totale, cinque giorni per donna. Come nella relazione che fa nella scommessa con Don Luis Mejía, nel primo atto, dice che in un anno ha beneficiato di settantadue donne, cinque giorni per donna, il che significa che l'uomo non ha riposato nemmeno la domenica. Un fulmine! E lo stesso vale per gli omicidi, non si ferma. Vive sempre le sue avventure sul palcoscenico come se sapes- se che sarebbe morto giovane e che gli fosse rimasto poco tempo per godersi la vita. Tuttavia, per la sua anima si concede più tempo. Dà l'impressione di aver letto l'opera e di sapere che alla fine verrà salvato da Donna Ines. Da qui la sua famosa frase: – “Mi dai molto tempo". L'unica cosa che lo ferma è l'amore, l'amore per Donna Ines, che da novizia, come lei, vive con il tempo fermo. Per questo, quando si innamora di Doña Inés, anche il suo tempo si ferma. L'amore lo ferma... – “... guarda qui ai tuoi piedi, per tutto l’altero rigore di questo cuore traditore che nell'arrendersi non credeva, nell'adorarvi vita mia la schiavitù del tuo amore” È come il mio tempo e il suo, sorella, quanto sono diversi. Il mio sta finendo, il suo no. Anche se vedendola lì, così immobile e silenziosa, sembra abbia visto la statua di pietra di Donna Ines, nella scena del cimitero, come se assistesse alla rappresentazione del suo stesso dramma. Mi sento di dirle quello che Don Juan disse all'altra Suor Ines, vedendola di marmo: – “Marmo in cui Donna Ines in un corpo senz’anima esiste, lascia che l'anima di un uomo triste pianga per un momento ai tuoi piedi”. In parte avete il candore e la dolcezza che il ruolo richiede, e l'umiltà e la purezza che queste abitudini dan- no. L’avreste fatto molto bene se vi fosse stato dato quel destino, invece di quello che avete ora. Dopo tutto, non siete così lontane l'uno dall'altro, e se io posso passare da Ciutti a Don Juan, lei può passare da Suor Ines a Donna Ines ancor più facilmente. Così, forse ora, quando mi vedrete recitare Don Juan, si innamorerà addirittura di me e romperà subito il vo- to di silenzio con quella famosa redondilla della scena del divano, che qui dovrà essere del letto, perché non c'è il divano: – “Don Juan! Don Juan! imploro la tua nobile compassione: o mi strappi il cuore, o mi ami, perché io ti adoro”.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved