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trama e commento: le troiane, Appunti di Lingua Italiana

riassunto con commento dell'opera le troiane.

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 15/07/2018

matisse5
matisse5 🇮🇹

3.5

(17)

23 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica trama e commento: le troiane e più Appunti in PDF di Lingua Italiana solo su Docsity! TRAMA: Gli eventi narrati vanno collocati nel periodo immediatamente successivo alla distruzione della città di Troia da parte degli Achei. Sulla scena, con funzione di prologo, irrompe Poseidone, che al contrario della tradizione iliadica, è schierato dalla parte dei Troiani, ormai costretto a rammaricarsi per la distruzione della città, senza più altari per onorare gli dei. La città, ormai ridotta a luogo di dolore, desolata, è il palcoscenico della divisione, senza diritto di protesta, né d’appello, della spartizione delle donne troiane tra gli eroi Achei, ultima propaggine di una guerra sanguinosa. E Poseidone presenta (al contrario dei canoni classici) Ecuba al pubblico. Al monologo di Poseidone s’intreccia la figura di Atena, che ciecamente adirata per un sacrilegio compiuto nei suoi confronti dagli Achei (Aiace Oileo, impunito, aveva violato il suo tempio prelevando Cassandra dall’altare della dea), tesse, assieme allo “scuotitore di terre” la propria vendetta contro i Greci, sottintendendo i difficili nostoi degli eroi achei. È qui che si colloca l’accesa critica contro l’imperialismo greco (vedi Tematiche). Gli dei escono ed entra Ecuba. L’ormai decaduta regina, prostrata a terra, solleva la sua dignità, e soffre per la sorte, così capricciosa, così ingrata, così imprevedibile. Il lamento diviene l’occasione per ripercorrere rapidamente le fasi della guerra di Troia, causata da Elena, causa suprema di sventura. È qui che inizia un threnos funebre che serpeggia nella tragedia, sino alla fine, ora commovente nella voce rotta di Ecuba, ora patetico nei due Semicori che si alternano, formati dalle prigioniere di guerra. Sanno qual è la loro sorte, la rifuggono eppure a essa sono costrette. Arriva in scena l’araldo Taltibio, il quale sostiene che il sorteggio è ormai compiuto: ogni donna a un guerriero diverso, o come concubina o come schiava - Cassandra (figlia di Ecuba) – Agamennone, Polissena-immolata sul sepolcro di Achille, Andromaca – Neottolemo, Ecuba-Odisseo. Ecuba si lamenta della propria sorte, disprezzando alacremente l’eroe, infangato per l’aver progettato l’inganno del cavallo, per la sua lingua, e per la sua astuzia. Una luce fa presagire il tentativo delle donne Troiane d'incendiarsi per sfuggire alla sorte, ma in realtà la colpevole è Cassandra, sacerdotessa d’Apollo, cui il Dio diede il dono- condanna della preveggenza poiché a lui si era rifiutata; la donna, invasata, celebra l’imeneo della sua unione con Agamennone, rilevando come sarebbe stata la fine della casa degli Atridi, e facendo riferimento all’Orestea di Eschilo. Inutile il tentativo di placare la donna, ormai in delirio. È qui che si colloca il dissacrante affresco della guerra di Troia, un conflitto annoso sorto per una donna, combattuto per un onore che non è, nel principio (ma sì nello svolgimento) desiderio di fama, ma soltanto risposta a un’offesa subita. Mentre i Troiani hanno combattuto per difendere la patria, si sono sacrificati per un ideale, di cui Ettore, il grandissimo eroe, è emblema imperituro. Il reiterato delirio della donna si conclude con la maledizione verso Taltibio, essere alle dipendenze dei potenti, e all’annuncio che Ecuba morirà a Troia, in patria, e che non sarà serva di Odisseo, costretto a navigare in mare per anni e anni. La donna è trascinata via, da Agamennone, da un irritato Taltibio. Non prima però di aver stracciato i paramenti sacri, trasformandosi in Erinni vendicativa verso Agamennone. Ecuba, in preda alla disperazione cede a un progressivo ateismo, e si crogiola nel dolce ma doloroso ricordo dei benefici persi. La conseguenza è una drammatica visione, alquanto pessimistica, sulla condizione umana: la felicità, prima del trapasso, è effimera. Il coro riprende voce, e decanta un reiterato lamento per Troia, rievocando l’inganno del cavallo, e abbandonandosi alle dolorose immagini della caduta della città. Arriva Andromaca, con al petto il figlio Astianatte. Il fantasma di Ettore rievocato dalle due donne, una madre e una sorella, riecheggia della disperazione delle due, ed emerge con patetico compianto il destino triste di un eroe troppo presto sottratto alla vita, a causa dell’incoscienza di Paride. Bersaglio di questa sfiducia è il divino, logorato dal dolore, lacerato dall’ingiustizia. Andromaca annuncia la morte tragica di Polissena. La tragedia è catarsi del dolore. Andromaca sostiene come la sorte di Polissena sia preferibile, la morte come fine del dolore; a questa visione risponde alacremente Ecuba, che, portavoce di un attaccamento tutto greco alla vita, positivo nella speranza che in essa rimane. Eppure Andromaca è colpita da un radicale pessimismo. La donna, famosa per essere brava madre e brava moglie, è dilaniata da una dicotomia interiore: se parteciperà attivamente al letto di Neottolemo, arrecherà danno a Ettore, al contrario incorrerà nell’odio di Neottolemo. Ecuba la invita a cedere a Neottolemo per garantire un sicuro futuro al figlio, ma l’Araldo entra in scena e svela il futuro di Astianatte: sarà ucciso, gettato da una torre. Sotto minaccia di non sepoltura, alla donna è tolto anche lo sfogo della maledizione. L’Araldo si commuove. Grande è lo strazio della donna, che pateticamente si rivolge al figlio, in un ultimo, disperato addio. Accetta l’imbarco, maledice i Greci ed Elena, la quale irrompe sulla scena, al seguito di Menelao, deciso a riprendersi la moglie e a ucciderla ad Argo, come espiazione dei danni arrecati dalla guerra, e aggiunge che la guerra non era un nuovo ratto di Elena, ma una punizione nei confronti di Paride. Ecuba invoca la giustizia. Elena, saputo il suo destino, erompe in un’apologia spassionata nella quale la donna figura come vittima impotente di Eros, che l’ha soggiogata, e come pedina nelle mani degli dei, vittima dei loro capricci. Inoltre accusa Ecuba, la madre, e Priamo, re morto, che non l’aveva ucciso nonostante il sogno premonitore di Ecuba. Accusato è anche Paride, colpevole di non essersi curato della moglie. A tale difesa risponde Ecuba, esasperata verso la donna, e la quale accusa violentemente Elena. Assurdo è il far passare le tre dee come delle sciocche capricciose, e sostiene che in realtà la sua stessa mente è divenuta Afrodite alla vista del bellissimo Paride, da lei seguito spontaneamente, per vivere nel lusso, e soprattutto non aveva chiesto aiuto. Elena sarà imbarcata su una nave differente affinché Menelao non subisca il fascino mellifluo della sua prorompente bellezza. Si leva il pianto delle vedove, per i mariti insepolti, e per la condizione di schiave costrette a imbarcarsi lasciando i bambini piangenti. Entra Taltibio che trasporta Astianatte, ormai morto, pulito parzialmente dalle ferite, e affidato a Ecuba, che pur compiangendo i segni dello strazio, rivelando la sua forte moralità, e la sua tenacia, nonostante l’avversità, decide si concedere gli onori funebri al nipote, originariamente destinato a un grande futuro. Inoltre inveisce contro i Greci, crudeli, e compiange la caducità del destino degli uomini. Il lamento funebre prosegue, alternando Ecuba e il Coro, al fine di conferire significato alla sciagura, divenuta ormai occasione di canto (quasi una riflessione meta- poetica). Troia intanto è incendiata, la partenza si affretta. La tragedia termina con gli ultimi gesti rituali, che testimoniano l’assurdità della guerra mentre la città di Troia rimbomba della propria rovina. Tutto diventa cenere, deserto, fumo vacuo. Rimane soltanto il dolore silente di passi verso la schiavitù, il dolore sì un destino spezzato, di una vita ormai finita. COMMENTO: Quando Euripide scrive le Troiane, la guerra del Peloponneso era all’apice del suo corso e della sua violenza. La grandezza di Atene volgeva alla fine. Ben presto l’esercito spartano invase le strade e le piazze della città, e le lunghe mura furono abbattute. Ma, più profondamente delle vicende della città che fu la patria dell’età classica, è qui decisiva la crisi di un’intera cultura, i cui valori avevano trovato espressione e forma nelle storie e nel culto degli dei. Nella società arcaica il mondo era pieno di dei, non nel senso di un rigido panteismo, quanto invece nel proliferare di miriadi di divinità facenti capo a Zeus che proliferavano arrogandosi ora il predominio di un ambito, ora quello di un altro. Obbedire a queste divinità, comportava il seguire la giustizia. Trovare la propria collocazione in quest’ordine era la condizione per la realizzazione di qualunque speranza di felicità. È in questa dimensione che la vita dell’uomo acquisisce un significato, si completa, per così dire di un senso. Eppure il rapporto con le divinità è quanto mai ambiguo, e anche in Solone che pure rivendica il valore della giustizia incarnata da Zeus, così come poi sarà per Eschilo: infatti il rispettare la giustizia, non costituisce una garanzia per il proprio futuro, non è un qualcosa che possa permettere la felicità del giusto e l’infelicità dell’ingiusto. Non è dunque un caso che il terrore per il divenire, per l’imprevedibile dovesse portare a due fondamentali conseguenze che la
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