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TRASCRIZIONE LEIONI VIDEO, Sbobinature di Neuropsicologia

TRASCRIZIONE FEDELE E COMPLETA DI TUTTE LE LEZIONI VIDEO DEL PROF. PERRI. DAL MODULO UNO AL MODULO NOVE

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 20/01/2022

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Scarica TRASCRIZIONE LEIONI VIDEO e più Sbobinature in PDF di Neuropsicologia solo su Docsity! NEUROPSICOLOGIA Prof. Perri MODULO 1 APPROCCI METODOLOGICI IN NEUROPSICOLOGIA: DALL’800 AI GIORNI NOSTRI I DIAGRAMMISTI = la neuropsicologia scientifica viene fatta risalire indicativamente alla seconda metà dell’800: nel 1861 quando BROCA’ descrive per la prima volta una sede cerebrale del linguaggio. Pochi anni dopo WERNICKE distingue un centro sensoriale di elaborazione delle immagini acustiche e un centro motorio del linguaggio associato alla produzione di immagini motorie. Wernicke ebbe la grande intuizione di osservare che questi 2 centri erano rispettivamente associati all’aspetto percettivo e motorio del linguaggio, distinguendo per la prima volta queste 2 importanti funzioni all’interno della funzione linguistica. Wernicke si spinse oltre arrivando a descrivere la afasia di conduzione: una particolare forma di disturbo del linguaggio, derivante da danni associati ai fasci di conduzione fra questi 2 centri: sensoriale e motorio = è un tipo di afasia associata a un deficit della ripetizione. L’approccio di quegli anni e di questi autori viene definito DIAGRAMMISTA: l’obiettivo era quello di definire dei modelli, dei veri propri diagrammi con il compito sia di descrivere i deficit associati ad alcune lesioni cerebrali sia quello di prevedere dei possibili danni anche in base a lesioni riportate dai pazienti. Approccio c o n t r a d d i s t i n t o soprattutto dallo studio di singoli casi neurologici. STUDI E CRITICHE AI DIAGRAMMISTI = più meno contemporaneamente ai diagrammisti iniziò a diffondersi un’altra corrente di pensiero: i cosiddetti OLISTI: sostenevano la cosiddetta equi potenzialità delle aree cerebrali = ritenevano che le aree, quindi le funzioni cerebrali, fossero legate le une alle altre e quindi non era possibile distinguere delle singole funzioni. F aticavano a supportare l’approccio dei diagrammisti che era un approccio fortemente orientato alle correlazioni anatomo-cliniche. Gli olisti muovevano ai diagrammisti anche importanti critiche di carattere metodologico (riguardava il metodo di selezione dei casi clinici): i casi clinici riportati dai diagrammisti erano casi dei singoli pazienti che per qualche ragione avevano colpito l’attenzione dei clinici: avevano qualcosa di speciale (per i clinici) e mostravano dei sintomi particolari. STUDI SUI GRUPPI = nella seconda metà del ‘900 vi fu una nuova tendenza di studi in neuropsicologia: si iniziò a estendere lo studio dei singoli casi allo studio sui gruppi di pazienti, con evidenti vantaggi: uso del metodo statistico. (prima i diagrammisti basavano le proprie osservazioni su alcune descrizioni cliniche anche compromessi dalla soggettività). Lo studio dei gruppi inizia a inserire nelle proprie osservazioni l’analisi secondo principi delle leggi statistiche. Si iniziò a standardizzare le valutazioni: nascono i primi test di valutazione neuropsicologici e le batterie di valutazione che consentivano ai clinici tutto modo di uniformare le proprie valutazioni e diagnosi. La nuova metodologia di ricerca imponeva anche l’uso e confronto con un gruppo di controllo (un gruppo di soggetti sani con i quali confrontare i pazienti oggetto d’indagine): questo consentiva di isolare delle eventuali variabili casuali (effetti dovuti al sesso, età, livello d’istruzione) che nel confronto con gruppo di controllo ne consentivano la spiegazione e riducevano un possibile bias (baias) dello sperimentatore (che poteva sorgere nel momento in cui un paziente presentava una prestazione inferiore in un test rispetto al quale sperimentatore aveva delle attese differenti). L’uso di gruppo impone un criterio di selezione: ve ne in particolare 2 tra loro alternativi entrambi con vantaggi e svantaggi: 1. basato sulla sintomatologia =si seleziona un gruppo di pazienti sulla base della sintomatologia riportata. Questo approccio non consente di trarre delle inferenze sulla sede della lesione: è possibile che tutta una serie di pazienti con la stessa lesione, non manifestino lo stesso disturbo; di conseguenza non è possibile inferire la funzione di un’area sulla base di un criterio di selezione basato sulla sintomatologia manifesta; 2. basato sulla sede della lesione = si selezionano dei pazienti in base al tipo di lesione riportata: è possibile trarre delle inferenze rispetto ai disturbi associate alla lesione che però andranno prese con molta cautela perché è possibile che altri pazienti presentino la stessa sintomatologia pur manifestando lesioni di tipo differente: bisogna evitare di cadere nell’errore dei diagrammisti che era quello di una stretta correlazione anatomo-clinica. CRITICHE AGLI STUDI SUI GRUPPI = alcuni lo consideravano un approccio eccessivamente empirico perché orientato allo studio delle correlazioni anatomo-cliniche. In realtà i nuovi metodi d’indagine delle funzioni cerebrali consentivano osservazioni molto più precise e accurate rispetto a quelle dei diagrammisti (che spesso osservavano cervelli solo post morte). Una delle critiche principali che veniva mossa allo studio sui gruppi era l’assenza di interazione e integrazione con la psicologia sperimentale: in quegli anni ‘50/’ 60 la neuropsicologia rischiava di confinarsi allo studio della patologia, ignorando le indicazioni e le ricerche che provenivano dal mondo della psicologia cognitiva e sperimentale, molto più orientata allo studio dei soggetti sani. L’osservazione dei gruppi di pazienti inoltre includeva l’artefatto della media = alcuni aspetti che emergevano solo in alcuni pazienti potevano essere mascherati con la procedura di media statistica. LA NEUROPSICOLOGIA COGNITIVA = fra gli anni ‘70/’80 dello scorso sec. Nasce la neuropsicologia cognitiva. Caratteristica = il crescente interesse verso l’organizzazione normale dei processi cognitivi. La neuropsicologia iniziava dialogare e ad arricchirsi delle conoscenze provenienti dall’ambito della psicologia sperimentale. Vi fu una forte integrazione fra neuropsicologia e i modelli di elaborazione dell’informazione (che era il paradigma dominante di studio della psicologia sperimentale secondo cui l’informazione a vari livelli veniva elaborata e processata dal cervello secondo diversi modelli o moduli cognitivi). DIFFERENZE FRA DIAGRAMMISTI E NEUROPSICOLOGIA COGNITIVA = il vantaggio di queste integrazioni consisteva nella possibilità di usufruire di nuovi modelli di funzionamento cognitivo. Diversamente da diagrammisti la neuropsicologia cognitiva moderna studia anche pazienti e soggetti normali: è fondamentale l’osservazione dello studio del funzionamento cognitivo normale per poter trarre delle inferenze su un cervello leso: i neuropsicologi moderni utilizzano e si avvalgono dei metodi statici e sperimentali, di conseguenza anche i metodi di valutazione sono standardizzati e condivisi a livello internazionale. La neuropsicologia moderna è molto più attenta alle correlazioni fra le funzioni e le aree o i circuiti cerebrali: spesso la stessa funzione è sottesa da più aree cerebrali o da un circuito: i network neurali. ASSUNZIONI NELLA NEUROPSICOLOGIA COGNITIVA = • la più importante è che la relazione fra la prestazione normale e il sistema cognitivo normale deve essere simile alla relazione che c’è fra prestazioni alterate e il sistema cognitivo danneggiato. Da qui l’importanza di studiare soggetti sani. Per esprimerlo con una formula un autore, Caramazza ha indicato che M* = M + Li dove M* rappresenta il sistema cognitivo danneggiato, M sistema cognitivo normale ed Li la lesione funzionale; • per una comprensione ottimale del funzionamento cognitivo è necessario che il danno cerebrale produca delle modificazioni locali del sistema, lasciando intatte le altre componenti del sistema cognitivo. • l’ideale sarebbe non studiare il paziente in una fase tardiva rispetto all’insorgenza della lesione (perché può accadere che il sistema stia andando incontro a una riorganizzazione funzionale). MODU LA RI TA ’ ED EQU I P OTEN Z I A LI TA ’ = a livello concettuale è molto importante la distinzione tra la modularità e l’equi potenzialità del sistema cognitivo. Sono 2 diverse correnti di pensiero: la modularità = ritiene che i sottocomponenti del sistema cognitivo siano relativamente indipendenti le une dalle altre: secondo questo approccio è possibile che una funzione venga modificata o alterata lasciando relativamente intatte le altre; equi potenzialità = supporta il concetto di non divisibilità delle sottocomponenti: una più rigida interazione fra le sottocomponenti e il sistema cognitivo Ormai numerosi dati sperimentali suggeriscono un’organizzazione di tipo modulare dei sistemi cognitivi. Uno dei primi autori che ha descritto in termini più scientifici il modulo è stato MARR nel 1976: ha attribuito alla modularità del sistema anche una sorta funzione evoluzionistica = la struttura modulare facilita la correggibilità e la maneggevolezza del sistema. È possibile che solo un sottocomponente venga danneggiato e questo non compromette tutte gli altri componenti del sistema. Una riorganizzazione funzionale sarà più facile e possibile con un sistema modulare. FODOR in seguito descrisse il modulo come un sottocomponente innato, indipendente dalle altre e avente accesso a una quantità limitata di informazioni in ingresso: iniziò a identificare 3 caratteristiche importanti del modulo = 1. che è innato 2. indipendente dagli altri moduli 3. ha accesso a una quantità limitata di informazioni. Fodor riteneva però che solo le strutture periferiche del sistema cognitivo fossero organizzate in maniera modulare ma non il nucleo della macchina cognitiva. Es. tipico di struttura periferica: il sistema dell’elaborazione dell’info visiva. Oggi grazie alla neurofisiologia sappiamo che la nostra corteccia visiva contiene dei diversi sottocomponenti, c iascun dei quali deputato all’elaborazione di aspetti specifici della visione: ci sono delle popolazioni di neuroni che elaborano solo la forma degli oggetti, altri solo il movimento, solo il contrasto, la luminanza e così via. Ad ogni modo secondo Fodor, il nucleo centrale della macchina cognitiva non sarebbe organizzato in maniera modulare. Alcuni anni dopo SHALLICE considera’ limitante la visione di Fodor: secondo Shallice in realtà anche alcune componenti centrali del sistema cognitivo sono organizzate in maniera modulare (es. è la lettura o il linguaggio). In realtà per alcuni processi cognitivi centrali come la programmazione, non è facile individuare una struttura di tipo modulare. A oggi sappiamo che altre funzioni gerarchicamente superiori come il pensiero, sono organizzati in maniera modulare. Basti pensare all’anosognosia: un disturbo particolare per il quale il paziente non è consapevole della propria patologia. Ci sono anche pazienti che presentano emiplegia: non riescono a muovere un arto, negano di presentare questo disturbo, trovano sempre una giustificazione rispetto alle loro problematiche. Questo disturbo ci dimostra che è possibile che il pensiero sia alterato in una sola dei suoi sottocomponenti: quella di riconoscimento della malattia: per cui questi che non produce effetti collaterali, non è rischiosa di per sé (non c’è esposizione a raggi X), ma potrebbe rientrare nelle tecniche leggermente invasive perché richiede la somministrazione del tracciante. Il vantaggio SPECT è quello di poter ottenere sia immagini di tipo strutturale quindi immagini tridimensionali ma anche delle informazioni di tipo funzionale. È e un tipo di tecnica che ricopre una notevole importanza nella indagine sperimentale neuropsicologica. C’è stato uno studio importante su pazienti afasici, che ha dimostrato come alcune lesioni sottocorticali si associavano al sintomo afasico solo quando queste lesioni producevano una ipoperfusione corticale o quando la lesione sottocorticale era associata anche al ridotto flusso ematico nelle aree corticali. Viceversa, è stato osservato che simili lesioni sottocorticali in assenza di ipoperfusione corticale non danno luogo alla sintomatologia afasica. L’esempio che ho appena riportato è utile per comprendere i limiti di una stretta correlazione anatomo-clinico quindi l’approccio dei diagrammisti: è la dimostrazione di come delle lesioni simili possono in associarsi a sintomatologie diverse, perché potrebbero dar luogo a effetti secondari difficilmente prevedibili con la sola osservazione di tipo anatomica. TOMOGRAFIA AD EMISSIONI DI POSITRONI (PET) La PET fa uso di diversi tipi di traccianti emittenti positroni: i diversi tipi di traccianti che possono essere utilizzati in questa tecnica dipendono dal tipo di parametro fisiologico di interesse: l’oggetto di indagine. I parametri fisiologici potrebbero essere per es. il flusso ematico, il consumo di ossigeno, o il metabolismo del glucosio. In genere il tracciante più utilizzato con questo tipo di tecnica soprattutto nell’ambito delle neuroscienze cognitive è il 18- fluorodesossiglucosio (FDG). Questo tracciante si stabilizza a distanza di circa 40 minuti dopo la somministrazione. Di conseguenza è necessario che il soggetto, dopo aver ricevuto la sostanza, resti per c.a. 40 minuti con gli occhi chiusi senza stimolazione di tipo visivo o acustico. È una tecnica che offre diversi vantaggi es. quello di poter studiare il cervello, le funzioni del cervello, durante l’esecuzione di alcuni compiti cognitivi. LA RISONANZA MAGNETICA FUNZIONALE (f MRI) La tecnica più importante, più diffusa, più rilevante per le neuroscienze cognitive e la f MRI. Si basa sulle proprietà magnetiche dell’emoglobina (quella proteina che porta l’ossigeno al sangue). Quando questa proteina cede ossigeno si trasforma in desossiemoglobina producendo il cosiddetto segnale B O L D che è il segnale rilevato di interesse della f MRI. E’ una tecnica che presenta un eccellente risoluzione spaziale addirittura superiore alla PET, e una buona risoluzione temporale. Non è eccellente nell’ordine dei secondi: bisogna considerare che gli indici metabolici, quindi gli indici di interesse delle tecniche viste sin ora, vengono cmq considerati come indici lenti (sono degli indici indiretti di attivazione neurale). I neuroni comunicano mediante potenziali elettrici, di conseguenza è l’attività elettrica l’indice più immediato e più attendibile di attivazione cerebrale. La funzionalità metabolica è un indice indiretto, più lento. Di conseguenza la risoluzione temporale di questi strumenti non sarà molto elevata. I disegni sperimentali che si utilizzano con fMRI sono 2: il disegno a blocchi = è possibile confrontare l’attivazione cerebrale durante l’esecuzione di diversi compiti. il disegno ad evento-correlato = l’attivazione cerebrale viene riferita e correlata anche a un singolo trial, a una singola prova. Per l’estrazione dei dati da fMRI viene utilizzato il metodo sottrattivo = si è soliti registrare l’attività cerebrale in uno stato di riposo e successivamente durante l’esecuzione di un test cognitivo. Quello che farà lo sperimentatore sarà sottrarre l’attività a riposo dall’attività cognitiva. Si ritiene che il risultato della sottrazione sarà direttamente associato all’esecuzione del compito. Il metodo sottrattivo non è esente da critiche: è stato osservato che il cervello presenta diverse attività anche a riposo = non esiste mai un livello zero di attività cerebrale, anzi sempre più negli ultimi anni si sta descrivendo la rete cerebrale particolarmente attiva nello stato di riposo e si ritiene addirittura che l’esecuzione di alcuni compiti cognitivi consista nella inibizione di alcune aree attive a riposo. MAGNETOENCEFALOGRAFIA (MEG) Tecnica di immagine funzionale: non utilizza indici metabolici. La MEG registra i campi magnetici generati dall’attività elettrica cerebrale. Questo consente una elevatissima risoluzione temporale nell’ordine di ms (millisecondi). Però rispetto alle tecniche viste sinora (che utilizzano indici metabolici), la MEG presenta una bassa risoluzione spaziale. La MEG si presenta uno strumento ove il soggetto siede posizionando la testa al di sotto di un casco. È una tecnica poco diffusa, in Italia, ne esistono soltanto quattro. È poco utilizzata perché offre delle potenzialità quasi sovrapponibili a quelle della EEG (invece molto più versatile della MEG). Inoltre, la MEG presenta dei costi veramente molto elevati (lo strumento deve trovarsi in una stanza idonea, schermata, necessità di assistenza specializzata molto costosa e interventi veramente frequenti: tutto ciò ne fa di questa tecnica uno strumento quasi inaccessibile). I suoi vantaggi nell’ambito delle neuroscienze cognitive risiedono nella possibilità di studiare con > precisione i paradigmi, le sorgenti neurali che sono perpendicolari rispetto ai rilevatori del casco di rilevazione. Di conseguenza la corteccia uditiva trovandosi nel solco temporale, si dispone proprio perpendicolarmente. Per cui questa tecnica e particolarmente utile nello studio delle attività uditive, cosa che invece e un po' più complessa con EEG. SPETTROSCOPIA NEL VICINO INFRAROSSO (NIRS) Una tecnica molto recente nell’ambito delle neuroscienze. È uno strumento che può essere, disposto su una cuffietta (in questa immagine vi è una NIRS con n° elevato di sorgente detettoria. Ci sono anche NIRS molto più piccole che si presentano come una sorta di fascetta da posizionare su un’ a r e a specifica dello scalpo, consentono rilevazioni più comode ma anche più limitante nello spazio). La NIRS misura la ossigenazione tissutale mediante una radiazione ottica: la banda spettrale nel vicino infrarosso. Parte del fotone NIR viene emesso dalla sorgente e assorbito dal tessuto. Mentre una parte del fotone verrà rilevato dal detettore, secondo una distribuzione detta banana shape. Nella seconda immagine vi sono una coppia di sorgente e detettore distribuite su varie aree dello shape. Ciascuna sorgente emette un fascio di luce che attraverserà il tessuto. Dall’altra parte il detettore riceverà parte di questo fascio di luce. L’intensità del fascio di luce sarà proporzionale al livello di ossigenazione nel tessuto di interesse. La profondità, l’estensione della corteccia indagata da questo tipo di tecnica dipenderà anche dalla distanza che intercorre fra la sorgente e il detettore: più saranno vicini la sorgente e il detettore, più l’area di corteccia indagata sarà superficiale. Viceversa, più si distanzia la sorgente dal detettore, più si tenderà a indagare un’area di corteccia più profonda. (In ogni caso se la distanza aumenta troppo si avranno meno informazioni rispetto all’area attraversata dal fascio di luce: vi è una distanza oltre la quale sorgente e detettore non possono essere posizionati). Il segnale che restituisce la NIRS è un segnale di questo tipo (terza foto): indica il livello di ossigenazione nel corso del tempo. Il vantaggio di questa tecnica e che presenta una buona risoluzione temporale, inferiore rispetto alla MEG e all’ EEG poiché a differenza di queste tecniche la NIRS fa riferimento all’ossigenazione del tessuto e non all’attività elettrica dei neuroni. Tuttavia, presenta una risoluzione temporale decisamente superiore anche a quello della fMRI. Presenta inoltre un buon compromesso rispetto alla risoluzione spaziale, che decisamente superiore rispetto alla MEG, EEG ma di molto inferiore rispetto f MRI, PET. È una tecnica ancora poco e veramente molto recente. I costi sono ancora abbastanza alti ma cmq non proibitivi per un laboratorio di ricerca. Il limite principale consiste nel fatto che non è utilizzabile per le carnagioni scure o con persone dai capelli di colore nero, proprio perché la carnagione scura non consente al fotone NIR di attraversare il tessuto in maniera adeguata: ne diminuisce notevolmente la portata. Il grandissimo vantaggio consiste nella insensibilità agli artefatti da movimento: diversamente da EEG può essere utilizzata anche sul campo p e r c h é insensibile ai movimenti della testa, ai movimenti oculari, e a qualsiasi tipo di artefatto muscolare. Questa tecnica viene sempre più utilizzata per le ricerche sperimentali per es. in ambito sportivo, o per misurare l’attività cerebrale per i piloti di aerei. Il grande vantaggio è la possibilità di condurre degli studi di tipo ecologico. DOCUMENTARIO Galeno: primo a fare ricerca sperimentale, primo vero medico (non Ippocrate). È interessante quello che è stato l’impatto sociale oltre che scientifico di alcune teorie: è il caso di un nostro connazionale Cesare Lombroso, medico, italiano dell’800 che sviluppa la teoria c h i a m a t a frenologia, secondo cui alcuni tratti comportamentali, in particolar modo alcuni comportamenti violenti ( delinquenziali) potessero avere un correlato anatomico. Questo medico dedicò tutta la sua vita a studiare post mortem crani e cervelli di delinquenti alla ricerca di un tratto specifico (quindi studiava la conformazione del cranio). Quindi molto interessante vedere come è evoluto l’approccio allo studio del cervello oltre allo studio delle funzioni cognitive. (parte il video: sito: la storia del cervello memex) PRINCIPALI INDICI ELETTROFISIOLOGICI (sia centrale sia periferico): quelli che ci consentono di studiare l’attività cerebrale. Molto + diffusi perché meno costosi e possono essere utilizzate in comuni laboratori di ricerca (esistono anche strumentazioni portatili). INDICI ELETTROFISIOLOGICI PERIFERICI: sono prevalentemente 2 i sistemi che vengono indagati: • sistema neurovegetativo = parametri fisiologici studiati: 1. ’attività elettrotermica registrata attraverso il riflesso galvanico; 2. l’attività elettrica del cuore mediante l’ECG. • sistema muscolare = parametri fisiologici studiati: 1. Attività elettrica muscolare attraverso l’elettromiogramma; 2. Movimenti oculari attraverso l’elettroocolugramma. L’attività elettrica della cute è strettamente legata a quella delle ghiandole sudoripare, le quali hanno una caratteristica: quella di essere innervate dal sistema nervoso simpatico: di conseguenza una > attivazione del sistema nervoso simpatico indurrà una > secrezione elettrica delle ghiandole. Le variazioni dell’attività elettrica della pelle in risposta a eventi sensoriali o cognitivi vennero inizialmente indicate come «riflesso psicogalvanico»: oggi si distingue un’attività di baseline o tonica (SCL, skin conductance level), da un’attività evocata in risposta a stimoli specifici che possono essere di tipo sensoriale o cognitivo (SCR, skin conductance response). Elettrodi poste sui polpastrelli delle dita perché ci sono + ghiandole sudoripare in cui è + facile individuare secrezione. Quello che si può osservare sono: latenza e intensità dell’onda (microsimens). Si arriva a un picco per poi tornare a un basement. Questa tecnica viene utilizzata per lo studio delle emozioni. Jung usò questa tecnica per le sue ricerche. Oggi viene utilizzata a fini riabilitativi o per ricerca. ELETTROMIOGRAMMA (EMG): misura attività di gruppi muscolari misurandoli mediante elettrodi di superficie - nella ricerca neuropsicologica può essere utilizzato come indice di risposta comportamentale (inizio di un movimento in risposta a specifici stimoli) o per lo studio delle contrazioni muscolari in aree di particolare rilievo psicologico (i muscoli facciali per le emozioni). Risoluzione temporale molto elevata. ELETTROOCULOGRAMMA (EOG): registra le variazioni di potenziale elettrico durante i movimenti oculari - in ambito sperimentale è particolarmente usato per lo studio delle saccadi, nel contesto della percezione, delle strategie cognitive, della lettura e del sonno REM - elettrodi EOG vengono utilizzati comunemente nell’EEG per monitorare i più comuni artefatti oculari, come saccadi e blink (o ammiccamento/chiusura palpebrale). Di recente si sta studiano l funzione cognitiva dei blink: pare che determinati ammiccamenti servano a memorizzare. INDICI ELETTROFISIOLOGICI CENTRALI 1. PATCH-CLAMP recording consente di misurare le correnti che attraversano singoli canali ionici presenti nella membrana cellulare = mediante questa tecnica è possibile andare a studiare l’attività di un assone (di una sinapsi in un tessuto cellulare); 2. SINGLE – UNIT recording: si registra l’attività di singoli neuroni in animali vivi. Questa tecnica è limitata allo studio con degli animali, ratti ma non solo: viene installato un impianto stabile nel cranio dell’animale; 3. ELETTROCORTICOGRAFIA (ECoG): è una tecnica che registra l’attività neuro elettrica mediante elettrodi posizionati direttamente sul cervello. Questa tecnica richiede un intervento neurochirurgico e la successiva applicazione degli elettrodi direttamente sul cervello. L’applicazione di questa tecnica è molto limitata: si ricorre all’utilizzo del ECoG soltanto c o n paziente epilettici farmacoresistenti = presentano delle gravi forme di epilessia che necessitano di un intervento chirurgico. Il neurochirurgo impianta degli elettrodi direttamente sul cervello così da mappare esattamente i focolai epilettici che lo guideranno in una fase nell’operazione; 4. ELETTROENCEFALOGRAFIA (EEG): è una tecnica che consente di essere utilizzata in maniera molto più ecologica, che non presenta nessun tipo di effetto collaterale e misura l’attività neuro elettrica mediante elettrodi di superficie. (foto del prof con cuffietta eeg) ELETTROENCEFALOGRAMA (EEG) consiste nella disposizione di alcuni elettrodi di numero variabile sullo scalpo. Il posizionamento degli elettrodi risponde a un particolare sistema: sistema internazionale 10-20 = considerate le distanze trasversali, la linea trasversale e quella sagittale del cranio, ciascun elettrodo viene applicato ad una distanza del 10 o del 20 % di queste due linee. 2. le componenti ERP vengono denominate in base alla loro latenza o al momento in cui emergono (picco di presentazione di quella componente): si tenderà ad indicare con P1/P100 una componente positiva che picca 100ms piuttosto che una componente positiva 300 ms (P3) e così via; 3. l’ampiezza: altro parametro da considerare nell’analisi degli ERP è l’ampiezza = la potenza espressa da quella componente = la latenza di una componente (la modulazione) riflette la velocità di elaborazione di un certo processo sensoriale o cognitivo, viceversa l’ampiezza degli ERP riflette l’intensità di elaborazione dell’area corticale che genera quello specifico potenziale. Nel contesto di un esperimento visivo osserveremo le componenti occipitali di origine sensoriale. Quindi la P1 - P100, che ha origine nella corteccia occipitale ventrale (area V4 e giro fusiforme posteriore) ed è modulata sia da caratteristiche fisiche dello stimolo sia aspetti visuospaziali quindi attentive: stimoli più luminosi o più grandi evocano ampiezze > di P100 perché coinvolgono una > popolazione neurale delle cortecce occipitali. Allo stesso modo però si sa che delle componenti cognitive modulano questo ERP: uno stimolo che apparirà nell’area dello schermo in cui stiamo prestando attenzione evocherà una p1 > rispetto allo stimolo presentato fuori dal campo attentivo visuospaziale. La componente N1 N100 è originata dalle aree visive extra striate ed è sensibile alla richiesta discriminativa del compito: se chiediamo a un soggetto di osservare passivamente degli stimoli in un caso e discriminare il contenuto di più stimoli in un altro compito, osserveremo che la richiesta discriminativa evocherà una > componente P1 (che viene associata all’attenzione orientata alle caratteristiche dello stimolo utili alla successiva discriminazione). L’N2 è una componente negativa che viaggia c.a. 200 250 ms sulle aree centrali dello scalpo. Emerge tipicamente nei compiti nei quali viene richiesta una qualche tipo di prestazione al soggetto (può essere anche una semplice parte motoria). Quasi certamente che l’origine di questa componente è nella parte rostrale della corteccia cingolata anteriore (alcuni aspetti funzionali sono ancora oggetto di dibattito). Tradizionalmente questa componente viene attribuita al cosiddetto controllo inibitorio. Un'altra teoria molto diffusa la descrive invece in termini di monitoraggio del conflitto. La P3 Pcento invece è una componente positiva che emerge fra 300 ms sulle aree centro parietali dello scalpo. Ci sono diversi generatori corticali e probabilmente sottocorticali di questa componente: è una componente multifattoriale: sono tantissimi i fattori che influiscono sulla sua modulazione: l’età, il livello di attività sportiva, delle eventuali patologie… vi è genericamente un accordo ad attribuire P3 a processi di tipo attenzionali. In linea generale gli ERP vengono tradizionalmente classificati come esogeni o endogeni: esogeni quelli la cui modulazione risponde esclusivamente ai fattori di tipo sensoriale (potrebbero essere le caratteristiche fisiche di uno stimolo); endogeni quando delle funzioni cognitive partecipano alla loro modulazione. Gran parte dei testi definiscono come esogene le componenti più precoci (componenti che emergono nei primi 100 150 ms dopo l’apparizione di uno stimolo sensoriale) ed endogene le componenti più tardive (che si presentano a latenze successive). vi sono componenti abbastanza precoci come la P100 che in realtà sono endogene ed esogene nello stesso tempo (entrambi fattori possono influire sulla loro modulazione) RISOLUZIONE SPAZIO-TEMPORALE: METODI A CONFRONTO LA MIGLIORE RISOLUZIONE SPAZIALE: 1. tecnica patch clamp: riesce addirittura a registrare l’attività di una sinapsi; 2. single unit recording: si può studiare l’attività di un neurone; 3. le tecniche utilizzate con gli uomini prima delle quali in ordine di risoluzione spaziale è la erp intracranico o elettrocortigofragia (ECog). Seguono poi sempre in ordine di risoluzione spaziale le varie tecniche di neuro immagini = la PET, le tecniche elettromagnetiche, le tecniche magnetiche o elettrofisiologiche. SE PRESTIAMO ATTENZIONE ALLA SCALA DI RISOLUZIONE TEMPORALE: 1. le tecniche elettrofisiologiche che partono da una risoluzione addirittura di 1 ms; 2. tecniche di tipo metabolico che usando questo parametro fisiologico avranno una risoluzione + o – pari al secondo. La NIRS si presenta come un buon compromesso tra le tecniche di neuro immagini di tecniche elettrofisiologiche per cui potrebbe collocarsi a metà fra ERP RMN sia per quanto riguarda risoluzione spaziale che quella temporale. TECNICHE DI STIMOLAZIONE CEREBRALE anche dette tecniche di neuro stimolazione: strumenti che consentono di stimolare e di interferire direttamente con le funzioni cerebrali. Quelle di nostro interesse sono due: innocue e che hanno un’importante rilevanza psicologica (esistono altre tecniche di stimolazione cerebrale che prevedono degli impianti cerebrali). Le 2 descritte invece possono entrare a far parte della cassetta degli attrezzi di uno psicologo. STIMOLAZIONE TRANSCRANICA A CORRENTE DIRETTA (Tdcs) 1. La TDCS è lo strumento che viene rappresentato qui in fig. (esistono modelli più compatti). È una tecnica che consente di stimolare direttamente l’attività cerebrale. È una tecnica innocua che presenta pochi o nessun effetto collaterale. Necessità d i un utilizzo prudente, consapevole da un operatore esperto ma se utilizzata secondo linee guida e protocolli validati è uno strumento con pochissimi effetti avversi. Consiste di una semplice batteria, inserita nello stimolatore, che eroga una corrente a basso voltaggio mediante 2 elettrodi: elettrodi che presentano una polarità di segno opposto (uno positivo e uno negativo) = rispettivamente un anodo ed uno catodo che sono applicati sullo scalpo mediante 2 spugnette. L’elettrodo è in gomma e viene inserito all’interno di una spugnetta (bisogna detergere la spugnetta, utilizzare prodotti appositi, e posizionare gli elettrodi di polarità opposta su aree specifiche dello scalpo che cambiano in base all’area cerebrale che si vuole stimolare). La corrente erogata è una corrente a basso voltaggio (il range va da 1-2 mV). La t DCS è una lontana parente della terapia elettroconvulsiva o elettroshock: la differenza consiste nella modalità di erogazione della corrente. Principio che sta alla base della tecnica: l’elettrodo positivo anodo eroga della corrente, mentre l’altro funge da riferimento: la corrente attraversa lo scalpo dall’elettrodo anodo in direzione dell’elettrodo catodo. I l principio fisico della tecnica prevede che l’area sottostante l’anodo si depolarizzi in caso di stimolazione anodica, mentre l’area sottostante il catodo si iperpolarizzi in caso di stimolazione catodica: la stimolazione può essere di segno positivo o negativo e prende il nome di anodica o catodica. Erogando della corrente elettrica si modifica il livello di eccitabilità della popolazione neurale sottostante: le membrane dei neuroni presentano una loro attività basale che viene chiamata potenziale di riposo che indicativamente ha un valore di - 65 mV. Erogando della corrente anodica si innalzerà quella soglia verso che riducono quel valore negativo di - 65 mV = innalzano il potenziale di riposo della membrana neuronale verso il cosiddetto valore soglia (soglia= - 55mV), superato il quale, nella cellula insorge il potenziale d’azione. Quindi superato il valore soglia insorge il potenziale d’azione. La corrente anodica farà in modo di avvicinare il potenziale di riposo della cellula al valore soglia = aumentando l’eccitabilità della popolazione neuronale sottostante l’elettrodo, la stimolazione anodica farà aumentare l’eccitabilità e quindi depolarizzerà le membrane neuronali di riferimento. Si parla di popolazioni neurali poiché la corrente erogata da questi elettrodi è una corrente che si diffonde per alcuni cm quadrati di corteccia, e all’interno di uno spazio così vasto di corteccia cerebrale troviamo una popolazione di miglia di neuroni. Alla corrente non interessa interferire con singoli neuroni o con poche decine di neuroni: saranno sempre migliaia le popolazioni coinvolte. Al contrario, qualora si volesse utilizzare una corrente catodica quindi di segno negativo, si otterrebbe un effetto inverso: si allontana il potenziale di membrana da quel valore soglia = la membrana dei neuroni si iperpolarizza e ne riduce l’eccitabilità corticale. Per semplificare: l’attività anodica positiva aumenta l’eccitabilità, quindi, attiva una popolazione di neuroni; la catodica inibisce quella medesima popolazione. In genere si ritiene più efficace la stimolazione di tipo anodico. L’associazione anodo attivazione e catodo inibizione non deve essere intesa come assoluta: non è un principio generale. Ci sono delle eccezioni: per es. alcune aree cerebrali svolgono di per sé delle attività di tipo inibitorio, di conseguenza aumentando l’eccitabilità di un’area inibitoria si avrà come effetto finale un aumento dell’inibizione (in questo senso non bisogna considerare come assoluta la relazione fra attività anodica e aumento dell’eccitabilità). I limiti della tecnica: l’elettrodo della t DCS presenta una superficie abbastanza ampia. Nei protocolli clinici viene utilizzata una superficie 5 x 5 (25cm quadrati) che rappresenta un’estensione molto ampia se riferita alle misure corticali. Negli impieghi sperimentali si utilizzano delle misure inferiori (possono scendere fino a 9 cm quadrati ma non al di sotto = perché riducendo l’estensione dell’elettrodo si aumenta la concentrazione di corrente: c’è un calcolo da fare che riflette una proporzione fra l’intensità della corrente e l’estensione (la superficie dell’elettrodo). Questo calcolo non deve superare dei limiti soglia che cambiano in base all’utilizzo sperimentale o clinico dello strumento perché potrebbe diventare pericoloso e danneggiare il tessuto sottostante (più piccolo sarà l’elettrodo e p i ù alta sarà l’intensità della stimolazione, > sarà l’effetto, che sarà molto intenso e molto focale: si rischia di produrre delle bruciature o delle escoriazioni sulla cute). Per il ricercatore l’estensione dell’elettrodo rappresenta un problema: andando a stimolare superfici ampie della corteccia celebrale, sarà più difficile stimare il target della stimolazione stessa= sarà difficile individuare l'estensione e il tipo di struttura o strutture celebrali interessati dalla stimolazione stessa (le inferenze neurofisiologiche che si possono trarre saranno un po’ compromesse): bisogna considerare che la corrente per sua natura si diffonde e lo scalpo, soprattutto il cranio, rappresentano dei conduttori fisici, biologici = la corrente applicata sullo scalpo tenderà a distribuirsi e non rimarrà al di sotto dell’elettrodo. Inoltre, il cervello non funziona per compartimenti statici: è costituito da network cerebrali = andando a stimolare un’area si può stimolare indirettamente il network di cui quell’area fa parte. Questi sono limiti metodologici che interessano più i ricercatori che i clinici (in presenza di protocolli riabilitativi terapeutici standardizzati ed efficaci, il clinico non dovrà porsi il problema di natura neurofisiologica). La tDCS sembra avere degli utilizzi clinici che mostrano sempre più la loro efficacia: in ambito psicologico questa tecnica viene annoverata fra le probabili con buona efficacia del trattamento dei disturbi dell’umore (depressione in particolar modo). In questo caso il trattamento consiste nella stimolazione anodica delle cortecce frontali di uno dei 2 emisferi associato all’umore eutenico. L’ utilizzo clinico riabilitativo prevede delle sessioni quotidiane della durata circa 20 minuti l'una da ripetere indicativamente per 7/10 giorni e può essere utilizzata da sola o in combinazione ad altri interventi. Ci sono diverse modalità mediante le quali la corrente può essere erogata: una modalità continua, una modalità alternata, una random. Nella modalità continua la corrente viene erogata sempre alla stessa intensità per tutta la durata del protocollo della stimolazione. Nella modalità alternata l’operatore modifica le frequenze dell’erogazione della stimolazione e in quella random è invece e il dispositivo a scegliere causalmente le frequenze con cui emettere la stimolazione. Ciascuna di queste modalità ha diversi principi neurofisiologici. STIMOLAZIONE MAGNETICA TRANSCRANICA (TMS) Tecnica innocua come la TDCs ma che opera su principi diversi. 2. La TMS è costituita da una bobina (coil) questo coil in genere ha una forma a 8 (vi sono altre forme): la forma determina la direzione dell’impulso magnetico: quella più comune è il coil a 8. La bobina emette un rapidissimo impulso magnetico che grazie a una relazione fisica va a indurre una corrente elettrica nell’area corticale interessata: quella corrente ha come effetto una depolarizzazione dei neuroni attraversati dall’impulso. QUINDI: la tDCS ha la capacità di aumentare o diminuire l’eccitabilità corticale rendendo più probabile una depolarizzazione, quindi avvicinando il potenziale di membrana a quella soglia, mentre TMS ha l’effetto direttamente di innescare dei potenziali d’azione perché depolarizza la cellula: l’effetto è immediato ed evidente. La TMS può emettere singoli impulsi o un treno di impulsi e, a differenza della tDCS che eroga la corrente su aree diffuse, la TMS emette impulsi su aree corticali molto circoscritte: pochi cm ed è possibile indentificare molto meglio l’area interessata = si può restringere il campo e questo per il ricercatore è un notevole vantaggio. Anche la TMS trova dell’impieghi clinici riabilitativi, soprattutto in disturbi psichiatrici e neurologici nell’ambito del movimento: parliamo di disturbi neuromotori. In ambito sperimentale questa tecnica viene utilizzata nell’ambito motorio (lo studio delle funzioni motorie) o percettive, limitate al canale sensoriale visivo. In ambito motorio: stimolando l’area M1 (la corteccia motoria primaria) è possibile avere immediatamente un risultato sull’effetto per es. mettendo impulsi magnetici sull’area corticale della mano piuttosto che del piede, osserveremo immediatamente una contrazione involontaria dei muscoli della mano e del piede = è possibile avere una dimostrazione molto chiara dell’area stimolata. Questa tecnica viene utilizzata molto spesso per riattivare un’area motoria silente (per es. in seguito a episodi ischemici), oppure per approccio diverso a quello di dipolo. LORETA è basato su un algoritmo matematico che modella le sorgenti intra corticali che sottendono le distribuzioni dei potenziali di superficie: stima le sorgenti intra corticali mediante un metodo molto simile a quello utilizzato mediante fMRI. LORETA computa l’attività distribuita nell’intero volume cerebrale. Il modello si basa su un’assunzione molto corretta da un punto di vista neurofisiologico: quella secondo cui punti aree anatomicamente vicina hanno > possibilità di essere sincronizzate = l’algoritmo LORETA tenderà a isolare delle attività di bassa isolata intensità ma tenderà a dare un > rilievo a quelle popolazioni di neuroni che si attivano in maniera sincronizzata (quindi anatomicamente più attigue). La corteccia viene modellata in termini di voxels così come fa la fRMN. Il voxels e un’unità che viene misura in centimetro cubo in coordinate MNI (un metodo di localizzazione anatomica). Da pochi anni è disponibile una nuova versione, implementata, potenziata: prende il nome di sLORETA dove s sta per standardizzato: la nuova versione ha aumentato ulteriormente la risoluzione spaziale del metodo, implementando un algoritmo matematico di localizzazione. Questo software stima la distribuzione della densità di corrente intracerebrale e lo fa con un n° sorprendente di voxels per EEG (6239 voxels): è come se il cervello venisse scomposto in tanti cubetti = più piccolo sarà il volume di ciascun cubetto, > sarà il n° di voxels che lo compongono. In questo caso ogni voxels ha una risoluzione di 5mm. LE PRINCIPALI COMPONENTI ERP MOVIMENT-RELATED CORTICAL POTENTIALS (MRCPs) = una particolare classe di potenziale evento correlati. Sono dei potenziali lenti, di polarità negativa che emergono prima dell’esecuzione di un atto motorio: sono dei potenziali correlati a un movimento. Il movimento può essere rilevato mediante elettromiogramma posizionate ad esempio sulle dita di una mano (il movimento consisterà nella pressione di un tasto) o mediante una strumentazione esterna (una semplice tastiera). Il principale di questi potenziali è il Bereitschaftspotential (BP): un potenziale lento che emerge fino a 2 secondi prima dell’esecuzione di un movimento volontario e riflette il livello di eccitabilità dell’area pre-SMA. SMA indica l’area motoria supplementare. La BP a sua volta può essere scomposta in 2 componenti ( come dicevo un potenziale molto lungo): si tende a distinguere una fase precoce early BP e una fase più tardiva o late BP (late BP = NS = RP). Quest’ultima tende anche talvolta ad avere il nome di negative slope (NS) o readiness – potential (RP). Ci riferiamo con questi termini indicativamente ai 400 ms che precedono l’esecuzione della risposta motoria. La sorgente di questi potenziali tardivi risiede nella corteccia premotoria laterale e anche corteccia motoria primaria (M1) di conseguenza presenta una distribuzione più lateralizzata sullo scalpo rispetto la BP che invece indica una generica prontezza all’esecuzione del movimento. MP consiste in un picco di attività più meno concomitante al movimento che riflette la massima attività nell’area motoria primaria. In questo caso lo zero coincide con l’inizio di un movimento, in questo caso si tratta di un movimento autogenerato: consiste nella pressione di un tasto. Da c.a 1600- 1700 ms prima dello stimolo finale fino a c.a mezzo secondo vi e la componente BP, mentre subito dopo l’aumento di ampiezza subito dopo il potenziale prende il nome di NS ed è la fase immediatamente precedente all’esecuzione del movimento. L’elettrodo di riferimento è un elettrodo centrale perché rileva l’attività delle aree sottostanti che sono delle cortecce motorie. ESPERIMENTO DI LIBET SUL LIBERO ARBITRIO = uno degli esperimenti più noti nel campo dell’elettrofisiologia applicata allo studio della preparazione motoria è l’esperimento di Libet, pubblicato nel 1983, sulla la rivista BRAIN. Il soggetto era seduto di fronte a un orologio e aveva dinanzi a sé un tasto di risposta. Lo sperimentatore gli domandava di premere il tasto di risposta ogni volta lo avesse ritenuto + opportuno e di osservare le lancette di un orologio che camminavano indicando subito dopo su che numero si trovava la lancetta nel momento in cui avesse deciso di premere il tasto. Quindi il soggetto osservava l’orologio, decideva liberamente di premere il tasto quando riteneva più opportuno, e dopo riferiva in che posizione si trovava la lancetta durante il momento di premere il tasto. Qui la rappresentazione dell’attività relativa a questo processo. Ciò c h e gli autori osservarono: innanzitutto la posizione delle lancette riferite al soggetto precedeva l’esecuzione di movimento di c.a. 200 o 300 ms e questo è in linea con quanto oggi sappiamo = l’intenzione ad agire precede l’azione di qualche centinaio di ms che è il tempo che impiega il segnale neurale per raggiungere la corteccia motoria neurale primaria e scendere giù verso centri periferici di esecuzione del movimento. La cosa stupefacente fu che gli sperimentatori osservarono che il potenziale di eccitabilità motoria nasceva e cresceva ben prima che il soggetto decidesse consapevolmente che era giunto il momento di agire: c’era ancora 1/2 secondo in cui il cervello iniziava già a preparare l’azione, come dimostrato dalla crescente eccitabilità premotoria, ma era una fase durante la quale il soggetto era per così dire inconsapevole del fatto che subito dopo avrebbe deciso di agire. Questo esperimento ha favorito un’interpretazione della BP secondo cui la fase precoce di questa componente riflette una fase subconscia di preparazione all’azione. Mentre soltanto la fase più tardiva - Readiness potential - riflette la fase di preparazione motoria associata alla decisione consapevole del movimento. C’è un'altra osservazione da fare, questi 200/300 ms che precedono l’azione oggi noi sappiamo che rappresentano una sorta di fase di non ritorno di conseguenza in questa fase il soggetto non potrà più decidere di interrompere l’azione poiché sarà divenuta un processo obbligato. Se per es. immagineremo una persona che sta per sparare premendo un grilletto, il momento in cui diventerà consapevole della pressione del grilletto sarà anche il momento in cui non potrà tornare indietro. Questo ha aperto una serie di riflessioni nell’ambito delle neuroscienze forensi o nell’ambito della riflessione bioetica e aperto una strada a una serie di ricerche che hanno investigato più direttamente il libero arbitrio da una prospettiva neuro scientifica. Questo studio non è esente da critiche ma e stato determinante nel corso di ricerche successive che durano ancora oggi. MRCP:OLTRE LA BP Le MRCP non sono soltanto Bereitschaftspotential (BP) negli ultimi anni sono stati individuati diversi potenziali di preparazione all’esecuzione del movimento. Qui riporto 3 esempi che provengono dal mio laboratorio di ricerca: 1. qui a sx = uno studio sulla preparazione alle emozioni: qui il p.to zero coincide con la pressione di un tasto a un ritmo autogenerato, quindi deciso arbitrariamente dal soggetto. La caratteristica è che la pressione di un tasto generava un’immagine dal contenuto emotivo caratterizzata da diverse valenze: l’immagine poteva essere negativa, neutra, positiva o un’immagine senza contenuti. Il soggetto sapeva in anticipo che immagine aveva prodotto e che ad ogni tasto era associato una valenza differente. Ciò che abbiamo osservato è che già a partire c.a 1 secondo prima della pressione del tasto la consapevolezza di generare un immagine dal contenuto emotivo produceva una serie di attività sulle aree prefrontali, centrali e occipitali che erano modulate in funzione della valenza delle immagini che stavano per osservare: abbiamo osservato un gradiente che esegue livello di arousal di attivazione associate alle immagini: le immagini negative di colore nero sono associate ad un > livello di attivazione (arousal) e sono quelle che presentano la > attività di polarità positiva. In questo caso sulle aree occipitali e prefrontali. Da un punto di vista evoluzionistico questa funzione ha ricevuto molta attenzione perché si ritiene che il cervello anticipi costantemente le azioni che eseguiamo, cosi da renderci più pronti all’esperienze a cui stiamo per esporci. 2. sono state confrontate diverse condizioni di grasping. Grasping è un termine con il quale si indica l’afferrare di un oggetto. Le condizioni confrontate sono il key-press (una semplice pressione di un tasto), un virtual grasping (il soggetto premeva un tasto e generava un immagine in cui osservava una mano stringere una tazza) nella condizione di colorazione rosso real grasping il soggetto invece doveva materialmente stringere, impugnare una tazza con le proprie mani. Ciò che è stato osservato e un attività modulata a livello anteriore che > in condizione di grasping reale e virtuale addirittura non presenta differenze fra le 2 condizioni nonostante in un caso dovesse soltanto premere un tasto nell’altro il soggetto dovesse realmente stringere una tazza. Ma ancora più interessante a livello posteriore parietale: la semplice pressione del tasto non produceva nessun tipo di attività mentre il grasping virtuale e il grasping reale producevano delle attività progressivamente crescenti sulle aree parietali. Ricordate questo risultato quando parleremo del movimento dei disturbi prassici: la funzione che ricoprono le cortecce parietali nel grasping e nel raggiungimento degli oggetti. E’ interessante notare il fatto che un grasping virtuale producesse dei partner di attivazione neurale molto simili quasi sovrapponibili ad un grasping reale. Questo viene spiegato in funzione dell’attività dei cosiddetti neuroni mirror. 3. l’obiettivo era quello confrontare l’attività neurali di soggetti che eseguivano lo stesso compito, un compito di decision making ma caratterizzati da prestazioni comportamentali differenti. La caratteristica di riferimento, il parametro in questo caso era la cosiddetta variabilità della risposta: vi sono soggetti che a parità di tempo di reazione medio presentano una >variabilità quindi una > deviazione standard nei tempi di reazione = questi soggetti vengono definiti anche inconsistenti nella prestazione. Si definiscono come più consistenti coloro che riducono la variabilità della risposta nel corso di varie prove di esecuzione dell’esercizio. Da letteratura si sa che > controllo attentivo spiega in parte queste differenze comportamentali e ciò che abbiamo osservato in questo caso è che l’unica componente che differisce fra queste 2 classi di soggetti e la cosiddetta pN o prefrontal negativity prima dell’esecuzione del movimento: questa componente riflette una sorta di disposizione di tratto del soggetto per eseguire il compito. I soggetti con > consistenza, quindi ridotta variabilità della risposta presentano ampiezze maggiori che si associano a un maggiore controllo top down quindi di attenzione sostenuta all’esecuzione del compito. LE COMPONENTI ERP (POST STIMOLO) componenti ERP che seguono la presentazione di uno stimolo in qualsiasi modalità sensoriale. Tradizionalmente le componenti ERP venivano distinte in precoci o esogene, e tardive oppure endogene = Le componenti esogene (precoci): riflettono le caratteristiche fisiche dello stimolo = vengono modulate dalle caratteristiche fisiche dello stimolo e originano dai livelli più periferici, quindi nei sistemi sensoriali (SN). Sono delle risposte obbligate: il soggetto volontariamente non può fare nulla per impedire che emergono = un suono produrrà sempre un’attivazione in corteccia uditiva e così via per altre attività sensoriali. Le componenti endogene (tardive) = si ritiene che riflettano l’elaborazione cognitiva. Sono processi di elaborazione dell’informazione generate da eventi sia di natura interna che esterna. Indicativamente venivano definite come precoci le componenti che eseguono a 100 ms la presentazione di uno stimolo, quelle tardive quelle che seguono. ERP E MODELLI COGNITIVI la classificazione endogene ed esogene si rifà ai dei modelli ormai superati: modelli seriali. Questi modelli escludevano l’interazione complessa fra le componenti, in linea con l’ipotesi cognitivista di una rigida indipendenza fra i vari livelli di elaborazione di informazione. I modelli paralleli favoriscono una nuova interpretazione delle componenti ERP: in direzione di una influenza mista delle attività esogene e endogene nella generazione di un potenziale. I modelli seriali si riferiscono alla teoria di un famoso Neisser (1967) che secondo cui la nostra interazione con il mondo avviene attraverso una serie strettamente sequenziale di trasformazioni dell’informazione. I modelli paralleli presuppongono che i vari livelli di elaborazione possono procedere in parallelo senza necessità quindi di dover attendere l’esito del livello di elaborazione precedente per dare inizio allo stadio successivo: può esserci un’interazione mista di attività endogene ed esogene. ERP UDITIVI (AEP). ERP evocate dalla presentazione di uno stimolo uditivo: ERP vengono definiti anche AEP dove A sta per auditory evocated potential. I più precoci sono i potenziali cosiddetti tronco encefalici che vedete evidenziati nella figura in basso. Si tratta di 6 onde positive identificate da numeri romani. Indicativamente emergono nei primi 10 ms dopo la presentazione dello stimolo. Ed emergono sull’elettrodo Cz che è l’elettrodo di vertice EEG. Riflettono l’attività delle vie acustiche. Questi componenti così precoci non sono semplicissimi da identificare, poiché data la loro natura e la loro attività molto molto piccola è necessario, vedete per esempio la differenza fra la scala in questo caso (fig. E’ importante introdurre questo concetto poiché la connettomica rappresenta una vera e propria rivoluzione nell’ambito dello studio delle neuroscienze: la connettomica ha cambiato il modo in cui neuroscienziati guardano il cervello. Quindi da una sorta di frenologia cognitiva in cui l’avvento di nuove tecniche di nuove tecniche di indagini funzionali consentiva di osservare sempre più da vicino la funzione di una singola area cerebrale, si sta passando a un approccio che invece pone molta più attenzione alla connessione fra le aree cerebrali: i network neurali. La rivista statunitense New Scientist collocò la cosiddetta connettomica fra le 10 idee di maggiore tendenza nel 2012. Negli Stati Uniti addirittura è stato promosso un ambizioso programma di ricerca che prende il nome di Human Connectome Project (HCP) finanziato dagli istituti nazionali di salute con l’obiettivo nell’arco di cinque anni riuscire a descrivere le connessioni nervose che sottendono funzionamento del cervello. C ON N ETTI VI TA ’ C EREBRA LE cosa si intende con connettività cerebrale? Bisogna innanzitutto aver chiaro un concetto: i neuroni e le popolazioni di neuroni non funzionano come delle entità isolate ma al interagiscono fra di loro mediante connessioni afferenti ed efferenti, in modo che i diversi compito di tipo percepivo ma anche cognitivo possono aver luogo. Gli studi di connettività hanno lo scopo di descrivere la “forza funzionale” di queste interazioni (Barry Horwitz 2003). Vi sono diversi metodi con i quali poter indagare la connettività cerebrale: • metodi basati su misure microscopiche (single or multi unit microelectrode recording) quindi di < interesse per la neuropsicologia cognitiva perché sono orientate soprattutto allo studio della connettività anatomica; • metodi basati su misure cosiddette macroscopiche (metodi di esplorazione funzionale in vivo del cervello) che sono di rilevanza cognitiva. Fra questi vi sono metodi elettrici-magnetici (EEG,ERP,MEG) e anche metodi funzionali di carattere emodinamici-metobolici (PET,fMRI). Ci sono 3 tipi possibili di connettività: 1) connettività di tipo anatomico = il n° la quantità di assoni che da una regione A raggiungono una regione B; si riferisce quindi ai collegamenti anatomici fra diverse popolazioni di neuroni; 2) connettività di tipo funzionale = indica la correlazione temporale fra eventi neurofisiologici che sono distanti spazialmente (Karlj,Friston 1993): collocate su diverse aree dello scalpo del cervello; 3) connettività effettiva: indica l’influenza che un sistema neurale direttamente o indirettamente esercita su un altro sistema neurale (Karlj,Friston 1994). La connettività effettiva può seguire la connettività anatomica mentre queste non ci restituiranno informazioni rispetto alla connettività funzionale: la connettività funzionale non può consentire allo sperimentatore di trarre delle inferenze rispetto alla connettività effettiva ed anatomica effettivamente sottostanti. Ma adesso vedremo meglio questi concetti. C ON N ETTI VI TA ’ FU NZ I ONA LE ED EFFET TI VA La connettività funzionale indica una correlazione temporale fra eventi neurali; La connettività effettiva indica l’influenza diretta che un’area cerebrale esercita su un'altra area. Avremo: in un caso (1° fig alto sx) l’attività funzionale una correlazione quindi bi-direzionale; nell’altro invece (2° fig. alto dx) una relazione diretta da un punto vero un altro punto. Consideriamo l’immagine al centro: immaginiamo che vi sia una correlazione funzionale, un’associazione di eventi neurali fra queste aree: se ci limitassimo a osservare soltanto la connettività funzionale non avremo la possibilità di attribuire la connettività a una terza area cerebrale: è possibile che queste aree cerebrali stiano comunicando perché fra di esse vi è una connessione anatomica, quindi una connessione effettiva fra le aree. Oppure un'altra possibilità ò che queste aree comunichino: siano funzionalmente connesse poiché entrambe ricevono afferenze da una terza area che spiega l’attività di entrambe. Oppure ulteriore possibilità potrebbe essere che un’area eserciti un’influenza diretta su questa area che a sua volta eserciterà un influenza diretta sulla terza area che è funzionalmente connessa alla prima. Come vedete sono varie le possibilità che sottendono una connettività funzionale. Quindi può darsi che osserviamo una connettività funzionale, un’associazione fra eventi neurali dell’area cerebrale A e dell’area cerebrale B. La spiegazione potrebbe essere che entrambe vengono spiegate da un’influenza diretta proveniente dall’area C. La connettività effettiva al contrario spiega delle relazioni di causa effetto quindi consente effettivamente di avanzare delle inferenze importanti rispetto alle strutture che sottendono l’attività rilevata: è possibile ancora una volta osservare una connettività funzionale fra A e B, ma la connettività effettiva aggiunge informazione importanti = quella secondo cui l’area A esercita un influenza diretta sull’area C, la quale a sua volta eserciterà un’influenza diretta sull’area B. Questo spiegherà la connettività funzionale fra A e B. CARATTERISTICHE DI CIASCUNA CONNETTIVITÀ: La connettività funzionale descrive la distribuzione dell’attività neurale, stima le correlazioni temporali fra attività di diverse aree cerebrali, non richiede l’assunzione di un modello a priori di conseguenza viene definito come approccio model free: quindi non vi sono assunzioni rispetto ad esempio connessioni effettive, le connessioni anatomiche fra aree cerebrali; la connettività effettiva consente di spiegare le origini dell’attività osservata, va a stimare l’influenza che una certa area cerebrale esercita su un’altra area cerebrale, è un approccio model based: richiede un modello neurale casuale che sia basato proprio su relazioni di causa- effetto fra le aree. Concludendo la connettività funzionale spiega cosa fa il cervello mentre la connettività effettiva ci restituisce delle informazioni rispetto a come il cervello funziona. COERENZA EEG Coerenza del segnale EEG chiamata coherence nella letteratura anglosassone, è uno dei possibili metodi di analisi della connettività funzionale mediante EEG. Ve ne sono anche altri di più complessi ma studiamo qui la coerenza EEG che è cmq il metodo più diffuso dell’analisi del segnale EEG, qualora l’obiettivo sia quello di stimare la connettività funzionale. L a coerenza indica il livello di associazione, cioè di correlazione, fra segnali EEG registrati simultaneamente perché la connessione funzionale misura l’attività di eventi neurali che si verifichino in maniera simultanea su diverse aree spaziali per ciascuna banda di frequenza. L’unità di misura di coerenza e l’indice r: classico indice di correlazione che va da una scala da 0 a 1, dove 0 indicherà la totale assenza di coerenza e 1 una perfetta totale coerenza fra segnali EEG per bande di frequenza. Un fenomeno comune consiste nell’osservare livelli > di coerenza fra elettrodi disposti in maniera spazialmente più vicina (elettrodi ravvicinati). Questo può essere dovuto a 2 ragioni: 1) l’effetto del volume condotto; 2) una questione neurofisiologica; 3) entrambi. Effetto volume condotto cosa si intende? lo scalpo rappresenta un conduttore rispetto alle attività neuroelettriche, di conseguenza l’attività elettrica si diffonde sulla superficie dello in maniera un po' imprevedibile. Sappiamo però che la conduzione del segnale sarà di > intensità nelle aree circostanti la sorgente del segnale stesso: questo viene detto volume condotto = come condotto si indica proprio la distribuzione elettrica del segnale sullo scalpo. C’è anche una possibile questione neurofisiologica: sappiamo che popolazioni di neuroni circostanti più probabilmente sottendono una stessa funzione: se stiamo studiando stimolo visivo, sappiamo che nelle aree occipitali avremo un > livello di coerenza all’interno della corteccia occipitale poiché tutta quella fascia di neuroni lavorerà per processare uno stimolo di carattere visivo. Riporto un immagine di come tipicamente vengono rappresentati i dati di coerenza EEG: è rappresentato uno scalpo con diversi di EEG e ci sono delle linee che collegano coppie di queste elettrodi; ogni linea indica la connettività funzionale fra le aree sottostanti all’elettrodo = ad es. in questo caso (la prima fig. a sx) possiamo concludere che questi elettrodi stiano lavorando in maniera temporalmente associata di conseguenza presenteranno un certo indice r che indica una associazione di eventi neurali fra il segnale rilevato da quei specifici elettrodi. COERENZA EEG: ESEMPIO di uno studio Murias, M., Webb, S. J., Greenson, J., & Dawson, G. (2007). Resting state cortical connectivity reflected in EEG coherence in individuals with autism. Biological psychiatry, 62(3), 270-273. E’ un esempio di uno studio di coerenza EEG. Si è occupato di descrivere il funzionamento corticale di un gruppo di soggetti con disturbi di spettro autistico(ASD). Allora come teorie di autismo, interpretano questo disturbo in termini di alterate connessioni tra sistemi neurali: le manifestazioni dell’autismo non risiederebbero tanto nell’alterata funzione di una singola area cerebrale quanto nelle alterate connessioni fra sistemi neurali = nel modo in cui le diverse aree cerebrali comunicano fra di loro. Per verificare questa ipotesi gli autori hanno condotto uno studio di connettività funzionale mediante EEG. Hanno utilizzato una cuffia ad alta densità (come d’uso comune in questo tipo di studi) e il campione consisteva di 18 adulti con ASD e 18 soggetti di controllo ovviamente di pari condizioni di caratteristiche demografiche, valutati in condizioni di rest a occhi chiusi.(Rest e un termine che si usa per indicare la condizione di riposo in cui il soggetto sta ad occhi chiusi e non è coinvolto in nessun tipo di attività, quindi si misura in questo modo la funzionalità, l’attività di base del cervello umano). I risultati: ciò che gli autori hanno osservato è che nelle frequenze theta (quelle che vanno nella banda compresa fra 3 e 6 Hz) c’è una > coerenza funzionale nel gruppo autistico e questa coerenza si manifestava in particolar modo entro le aree frontali e le aree temporali sinistre, nell’emisfero sx. Al contrario, nel range dell’alpha basso (8-10 Hz poiché l’alpha come sappiamo e compreso fra 8 e 13) emerge una diffusa marcata riduzione di connessione EEG nel gruppo di soggetti autistici, sia entro le cortecce frontali, sia fra le cortecce frontali e il resto del cervello: sostanzialmente hanno osservato 2 partner di tipi opposti in 2 specifiche bande di frequenza. Lo potete osservare qui nelle figure: riportano le differenze statisticamente significative di connessione funzionale nel confronto fra gruppo di controllo e gruppo sperimentale. Quindi, in questo caso, soggetti autistici e soggetti di controllo. Nell’immagine di sx, si mostrano le frequenze theta in cui il gruppo di autistici presenta dei valori statisticamente > rispetto ai gruppi di controllo. C’è un > livello di coerenza EEG entro le aree frontali e temporali, soprattutto dell’emisfero sx e queste connessioni risultano essere > soprattutto per le distanze ravvicinate che sono indicate con il colore rosso. Colore rosse significa distanze inferiori a 10 cm. Al contrario nel range (fig. a dx) delle frequenze alpha basse emerse un pattern opposto: di ipo- connettività funzionale nel gruppo degli autistici: qui si mostrano le connessioni in cui il gruppo sperimentale statisticamente inferiore rispetto al gruppo di controllo, c’è un deficit di connettività funzionale soprattutto a lunga distanza, quindi il colore azzurro che indica distanze comprese fra 10 e 20 cm, e in particolar modo fra le aree anteriori e tutto il resto del cervello. Quindi un pattern di iper - connettività localizzato a sx nel range theta e un pattern di ipo – connettività funzionale sempre da parte degli autistici nel range alpha distribuito in tutto il cervello. Le conclusioni degli autori sono state: iperconnettività entro le aree frontali ed entro le aree temporali sx suggerisce un aumento di associazioni (ho scritto fibre proprio perché non sappiamo se effettivamente queste associazioni riflettono anche una > connettività anatomica tra le aree osservate di breve distanza). Questo potrebbe compromettere i processi di elaborazione globale dell’informazione che tipicamente riportano processi che sono tipicamente compromesse nei soggetti con disturbo autistico. Al contrario la iperconnettività fra le aree frontali e il resto del cervello suggerisce una ridotta integrazione fra diverse aree cerebrali nel processo di elaborazione dell’informazione.xxxxxxxxxxxxx FREQUENZE EEG E SISTEMA MOTORIO in questo ambito di studio sono i ritmi sensorimotori (SMR s): si intendono con questa sigla le oscillazioni neuroelettriche a distribuzione centrale, quindi sulle regioni rolandiche, per intenderci elettrodo Cz e circostanti dell’EEG, oscillazioni del ritmo mu (8- parossistica (ODP). Alla quale segue poi un treno di potenziali d’azione. L’ODP può essere considerata come una esagerazione delle componenti depolarizzanti che si hanno in condizioni normali. Qui nel tracciato vedete un esempio, una raffigurazione di un tracciato grezzo, registrato in un pz con disturbo epilettico. Nei canali che vengono evidenziati dal riquadro, si osservano chiaramente delle anomalie rispetto al resto dell’attività elettrica rilevata. Non siamo in grado in questo caso di identificare la sede dell’elettrodo poiché qui come vedete ogni canale viene indicato con dei n° anziché con riferimenti del sistema riceventi per cui non sappiamo dove sono stati localizzati. Talvolta per la diagnosi di epilessia i pz possono anche indossare una EEG per 24 ore consecutive. Quindi tipicamente il pz con sospetta epilessia si reca in ospedale dove gli vengono montati degli elettrodi sullo scalpo e il pz lo indosserà per 24 h consentendo cosi un analisi abbastanza distribuita nel corso della giornata di eventuali segni particolari del disturbo. In genere vengono impiegati un n° medio di elettrodi ovviamente non vengono impiegate delle cuffie ad alta densità, come avviene ad esempio nel laboratorio di ricerca per finalità sperimentale specifiche e solitamente vi e del personale tecnico che deputato esclusivamente all’applicazione dell’EEG. Quindi diciamo in genere l’obiettivo e quello di posizionare alcuni elettrodi un po' su tutti i lobi cerebrali cosi da avere più o meno una visione completa dell’attività elettrica cerebrale. Allora l’onda di depolarizzazione parossistica (ODP) dipende principalmente dall’attivazione di recettori/canali per il glutammato che comportano l’apertura di canali voltaggio dipendenti per il calcio. In seguito si presenta un’iperpolarizzazione a seguito dell’attivazione di recettori del GABA. Quindi in seguito alla scarica intervengono dei recettori del GABA favorendo cosi una iperpolarizzazione dell’attività. L’iperpolarizzazione naturalmente limita l’onda di depolarizzazione parossistica (ODP) e dipende da interneuroni inibitori mediati dai recettori gabaergici (farmaci anticonvulsivanti). Questa e la ragione per cui farmaci anticonvulsivanti sono spesso farmaci ad esempio BDZ (benzodiazepinici) o cmq farmaci che legano il recettore GABA. L’obiettivo e proprio quello di favorire una iperpolarizzazione che limiti ODP. Se questo non avviene, viene meno l’inibizione laterale e l’accesso epilettico purtroppo può diffondere. Se l’accesso epilettico dovesse interessare entrambi gli emisferi in quel caso diventa per cosi dire generalizzato secondariamente. allora osserviamo questa fig. che rappresenta un po' il concetto appena espresso. Il focolaio epilettico e inizialmente circoscritto ad una popolazione di neuroni. Qualora dovesse diffondere potrebbe seguire per cosi dire la via degli assoni. Per cui potrebbe diffondere e raggiungere anche delle popolazioni neurali che si trovano ad una distanza spaziale anche importante dal focolaio originario. In taluni casi addirittura potrebbe arrivare a interessare entrambi emisferi quindi essere trasferito sul emisfero opposto producendo cosi una crisi generalizzata. ACCESSI EPILETTICI GENERALIZZATI:ASSENZA TIPIC(PICCOLO MALE). Ecco vediamo per appunto un esempio di accesso epilettico generalizzato. Una particolare forma che detta assenza tipica o piccolo male. Consiste in modeste manifestazioni motorie senza la caduta a terra. L’episodio della crisi epilettica in questo caso la durata e abbastanza breve, dura circa 10 secondi. In questi casi nell’EEG si rilevano tipicamente delle onde a 3 Hz diffuse in tutto il cervello, e quello che viene detto complesso punta- onda 3 Hz, che e un complesso tipico di questa forma di epilessia che e il piccolo male. come possiamo osservare in fig. e evidente l’alterazione a 3 Hz, 3 Hz ricordo che sono tre cicli al secondo, quindi e facilmente evidenziabile dal tracciato grezzo, e come possiamo osservare diversamente da quanto si vedeva in una precedente immagine, in questo caso l’alterazione neuroelettrica diffonde e interessa tutte le aree cerebrali ovvero in questo caso tutti canali EEG utilizzati per la rilevazione dell’attività neuroelettrica. MODULO 2. APRASSIE (SISTEMA MOTOTORIO) ORGA N IZ ZA ZI ON E DEI SI STEMI MOTORI E NEGA Z I ON E DELL ’EMI PLEGI A : L’A N OSOGN OSI A . In questa lezione parleremo uno dei sistemi più importanti del cervello umano e non solo: il sistema motorio è descriverò un particolare disturbo che consiste nella negazione dell’ emiplegia: la anosognosia. I SISTEMI MOTORI. L’importanza del sistema motorio deriva dal fatto che consente all’essere umano di interagire costantemente con l’ambiente circostante dal quale riceve delle informazioni: i sistemi motori ricevono informazioni sia dai sistemi sensoriali che dall’ambiente esterno = ma mentre i sistemi sensoriali trasformano energia fisica in segnali nervosi, i sistemi motori fanno l’opposto, trasformano l’energia nervosa in energia fisica mediante dei comandi comportamentali. Il sistema motorio non si limita a questo: grazie agli organi propriocettori i sistemi motori ricevono anche delle informazioni che riguardano lo stato delle articolazioni piuttosto che l’intensità delle tensione muscolare. ORGANIZZAZIONE GERARCHICA. Il sistema motorio è organizzato in maniera gerarchica: i centri superiori del sistema (quindi centri cerebrali) controllano quelli inferiori, e quest’ultimi sono deputati al controllo delle risposte riflesse. È interessante notare come il midollo spinale, se isolato dal tronco dell’encefalo, può ancora generare alcuni comportamenti organizzati: movimenti ritmici come la deambulazione o i riflessi. Per aiutarvi ricordare questo concetto potrei raccontarvi brevemente un aneddoto che riguarda Einstein. Einstein non simpatizzava molto per gli uomini in divisa e fece una battuta un po' infelice sui soldati: disse che per loro in realtà un cervello era superfluo in quanto gli sarebbe bastato un midollo spinale per poter marciare. I sistemi motori possono essere individuati in 4 regioni distinte che sono: il midollo spintale, il tronco encefalico, e le cortecce motorie e premotorie. In realtà anche le cortecce parietali sono determinanti nel sistema motorio: sono delle cortecce che contribuiscono in maniera significativa alla programmazione dei gesti complessi come ad es. gesti di raggiungimento (reaching). Il sistema motorio e appunto uno dei sistemi più complessi del cervello Umano: studi di neuroscienze cognitive che vogliono indagare questa finiranno per investigare un po' le funzioni di tutte le aree cerebrali = lo studio del contributo delle aree frontali e prefrontali che sono la sede della programmazione comportamentale, della presa di decisione e quindi indirettamente anche loro possono partecipare alla esecuzione motoria. La corteccia cerebrale media gli aspetti più complessi del movimento volontario (non i riflessi). Anche nuclei della base del cervelletto contribuiscono all’esecuzione motori: i nuclei della base sono dei centri sottocorticali e il loro ruolo e quello di modulare sistemi motori della corteccia e del tronco dell’encefalo. Il tronco dell ’encefalo partecipa al controllo della postura e dei movimenti più distali. Il midollo spinale contiene circuiti neuronali che mediano i riflessi automatici e stereotipati. CORTECCIA MOTORIA E PREMOTORIA. In questa immagine possiamo individuare chiaramente la corteccia motoria primaria (M1) che è rappresentata in verde più scuro, ed è l’area precentrale: l’area anteriore rispetto al solco centrale che viene identificata con l’area 4 del Brodmann. Chiaramente l’area motoria presenta un’organizzazione somatotopica, quindi immagino che siate familiari con la famosa figura dell’homunculus, a muovere un braccio o una gamba tuttavia negano di avere questo disturbo. Quando vengono interrogati questi pazienti attribuiscono la loro permanenza in ospedale ad altre cause. Si rifiutano talvolta di rispondere, negano ogni forma di disturbo e sostengono di poter muovere correttamente l’arto contro lesionale. Vi sono a volte delle scene stupefacenti con questi pazienti: lo sperimentatore, o l’esaminatore può chiederli di compiere dei gesti molto elementari come battere le mani: un paziente con emiplegia di un arto sarà impossibilitato a eseguire correttamente il gesto, per cui muoverà soltanto una delle 2 mani, ma riferirà di aver eseguito correttamente il gesto. Allo stesso modo i pazienti con emiplegia di una gamba riferiranno di poter camminare correttamente quando invece sono immobilizzati. La caratteristica di questo disturbo e che si presenta soprattutto nei pazienti con danno cerebrale dx, ed è abbastanza diffuso poiché si presenta dal 30 % al 50% di pazienti con questo tipo di lesione (con emiplegie sx che ovviamente saranno contro lesionali). E ancora incerta l’incidenza del disturbo nei cerebrolesi sx poiché se vero che il deficit interessa soprattutto i cerebrolesi dx, è anche vero che spesso lesioni sx si accompagnano a un disturbo afasico, per cui non vi sarà un resoconto verbale da parte dei pazienti, probabilmente questo porterà a sottostimare la presenza di anosognosia per emiplegia. I N TERP RETA Z I ON I DELL’A N OSOGN OSI A . Vi sono state nel corso degli anni varie interpretazioni di questo disturbo: le prime sono state quelle di tipo motivazionale = interpretazioni strettamente psicologiche che attribuivano a questo disturbo a una sorta del meccanismo di difesa che aiutava il soggetto a preservare se stesso dallo stress, dal trauma della malattia. P er molto tempo anosognosia è stata appannaggio della psicodinamica che in realtà non ha facilitato per nulla la comprensione del disturbo. Evidenze invece più recenti supporterebbero una interpretazione cognitiva dell’anosognosia, e vi sono numerose ricerche a riguardo: sono stati mostrati dei casi di doppia dissociazione in cui pazienti con emiplegia sx completa, quindi impossibilitati a muovere sia il braccio sia la gamba, presentavano in realtà anosognosia solo per l’arto superiore e non per l’arto inferiore o viceversa = non si capisce come il meccanismo di difesa dovrebbe agire selettivamente su uno dei due arti. Inoltre vi sono stati anche degli studi di inattivazione farmacologica di un emisfero che consistono nella somministrazione di barbiturici nelle carotidi: questi studi hanno dimostrato che inattivazione dell’emisfero dx producevano anosognosia mentre inattivazione dell’emisfero sx non si accompagnavano a questa particolare forma di deficit cognitivo. Alcuni autori hanno attribuito talvolta il disturbo alla comorbilità con forme di neglect personale o extrapersonale. I neglect è un disturbo che consiste nella disattenzione selettiva di una parte del corpo o di un’area extrapersonale. Si riteneva che un neglect sx potesse di conseguenza portare il paziente a ignorare tutto ciò che avveniva in quella parte del corpo, ma anche in questo caso sono state osservate delle doppie dissociazioni per cui vi sono casi di pazienti con anosognosia senza neglect che escludono questa interpretazione. Concludendo, ad oggi vi è accordo nel riconoscere l’anosognosia come un deficit selettivo di un processo cognitivo di monitoraggio di comportamento e di autoconsapevolezza I DISTU RBI DELLA GESTU A LI TA ’: LE A P RA SSI E. VA LU TAZI ON E. In questa lezione ci soffermeremo sulla valutazione delle aprassie. Aprassia è un termine che letteralmente significa senza movimento. APRASSIE. In realtà i pazienti aprassici sono capaci di muovere, il disturbo è caratterizzato dall’incapacità a riprodurre, a imitare o a riconoscere dei gesti motori: affinché si possa parlare di aprassia è importante che il disturbo non venga attribuito ad una paralisi motoria. Il disturbo aprassico è interamente a carico delle strutture corticali e non dei gruppi muscolari. L’aprassia è un disturbo abbastanza diffuso fra i cerebrolesi sx: la sua prevalenza fra il 30% e il 50% dei pazienti che riportano lesioni a carico di questo emisfero. In letteratura viene documentata una dissociazione fra le abilità (compromessa) ad eseguire test di valutazione neuropsicologica, test nei quali i pazienti non riescono, e le capacità invece di riprodurre medesimi gesti nelle condizioni ecologiche (abilità preservata) cioè nella vita di tutti giorni. È un tipo di dissociazione che è stata definita automatico/ volontaria o dissociazione A/V: indica un danno ai sistemi di progettazione del movimento volontario = si ritiene che in condizioni ecologiche il paziente sia in grado di accedere a degli schemi cognitivi appresi e la situazione più artificiosa della valutazione neuropsicologica comprometta la capacità di imitare medesimi gesti o di riprodurli su richiesta. Talvolta la dissociazione A/V è stata un po' messa in discussione poiché alcuni autori rilevano che in realtà delle difficoltà motorie in questi pazienti sono rilevabili anche nella vita di tutti giorni. Tuttavia studi più approfonditi effettivamente hanno constatato delle dissociazioni molto forti: sembra che appunto il contesto della valutazione neuropsicologica imponga un maggior carico cognitivo nell’esecuzione del gesto e questo in un certo senso consenta al disturbo di emergere nella sua interezza. CLASSIFICAZIONE DELLE APRASSIE Le aprassie vengono classificate in base ad una serie di parametri. • Possono essere classificate in base al tipo di attività perturbata: un’aprassia nell’uso degli oggetti, un’aprassia nell’esecuzione di sequenze motorie, o un’aprassia nell’esecuzione di gesti (gesti che possono essere con significato o senza significato); • un altro parametro di classificazione è basato sul livello del processo di elaborazione danneggiato: si distingue tipicamente in un’aprassia ideomotoria da un’aprassia ideativa. APRASSIA IDEOMOTORIA: compromette la capacità del paziente di tradurre un programma motorio in un gesto comportamentale = paziente in grado di rappresentarsi la sequenza dei gesti, e in grado di descrivere la corretta esecuzione di un gesto però incapace poi di tradurre in azione lo schema motorio; APRASSIA IDEATIVA: l’incapacità di programmare il gesto motorio: in questo caso è preservata la capacità di produrre dei gesti non ideati dal paziente. • Può essere classificata anche in base ai sistemi effettori danneggiati: si distingue un’aprassia degli arti, da un’aprassia orale, o da un’aprassia del tronco. TEST DI VA LU TA Z I ON E DELL’A P RA SSI A non vi è un'unica metodologia di valutazione: ve ne sono diverse. Esistono cmq delle linee guida da rispettare. Ad es. è stato osservato che è importante che il clinico in fase di valutazione presti molta attenzione alla modalità con cui decide di presentare istruzioni. Tradizionalmente questi test venivano presentate in forma verbale, tuttavia, è da rilevare il fatto che spesso i pazienti aprassici presentano anche un danno di tipo afasico, proprio perché come accennavo prima si tratta quasi sempre di cerebrolesi sx, di conseguenza la lesione spesso interessa anche delle aree deputate alla comprensione del linguaggio. E’ importante quindi che venga esclusa la presenza di un disturbo afasico che potrebbe di per sé compromettere la comprensione delle istruzioni. • Si utilizzano tipicamente delle prove di imitazione: si chiede al paziente di riprodurre gesti con significato e gesti senza significato. Ad es. fare ciao con la mano, fare il saluto militare, fare il segno della croce, e così via. Questi gesti possono essere singoli o possono essere presentati in una sequenza. • Dimostrazione dell ’uso di oggetti comuni: in questo caso al paziente si mostrano degli oggetti e viene richiesto di descrivere l’uso di un particolare oggetto: ci sono diverse modalità sensoriali con cui le istruzioni vengono presentate: una prestazione tattile, che consiste nel mostrare un oggetto al paziente e di chiedergli di maneggiarlo mimando un utilizzo di quell’oggetto ( si potrebbero posizionare delle forbici di fronte al paziente e chiedere di mimare un utilizzo di quell’oggetto); una modalità visiva, dove l’oggetto viene mostrato al paziente ma non gli si concede di maneggiarlo o di toccarlo: di conseguenza il paziente dovrà produrre delle pantomime, dovrà imitare l’uso dell’oggetto che ha di fronte a sé; una presentazione verbale dove l’oggetto viene soltanto descritto, non viene mostrato al paziente e gli si chiede di mostrare che uso si potrebbe fare dell’oggetto appena nominato dallo sperimentatore. Perché vengono utilizzate diverse modalità? 1. è possibile che il paziente sia afasico bisogna che venga valutato anche con modalità diverse da quella verbale; 2. sono state riscontrate in letteratura delle doppie dissociazioni: casi di pazienti che presentavano deficit selettivi nell’esecuzione del test presentato in una certa modalità sensoriale, piuttosto che in un’altra. Di conseguenza si tende oggi a concepire anche la possibilità di un’aprassia che comprometta s e l e t t i v a m e n t e uno solo dei sistemi sensoriali di interesse: potrà essere un’aprassia di tipo verbale piuttosto che visiva. • Un altro test di valutazione consiste nel l ’uso coordinato e sequenzi al e di + oggetti : in questo caso il paziente ha di fronte a sé una serie di oggetti e gli si chiede di portare a termine un’azione che richieda il coordinamento e l’uso sequenziale di diversi oggetti. Questo impone il ricorso a diverse strategie cognitive rispetto alla semplice imitazione. Un esempio di questi test potrebbe essere preparare caffè piuttosto che accendere una candela. I P OSSI BI LI ERRORI N EI TEST DE LL’A P RA SSI A Sono diversi gli errori che un paziente può compiere nell’esecuzione di un test per l’aprassia. Nelle prove di imitazione gli errori principali consistono: • nella perseverazione: il paziente tende a riprodurre più volte lo stesso gesto, che magari ha eseguito correttamente, però tende a perseverare nella sua esecuzione; • Omissione: la mancata esecuzione di un gesto singolo o di un gesto all’interno di una sequenza; • Sostituzione: il paziente sostituisce l’azione indicata con un’azione diversa, estranea a quella richiesta dallo sperimentatore; • Errori di sequenza: il paziente riproduce esattamente tutti comportamenti che sono stati richiesti, ma lo fa nell’ordine sbagliato: sbaglia la sequenza di riproduzione. Nelle prove con più oggetti: è possibile osservare più tipi di errori: • la perplessità: il paziente rimane perplesso, osserva gli oggetti che ha di fronte a sé e non sa che cosa farne; • Maldestrezza: si definisce maldestrezza quella situazione in cui il paziente porta a termine la sequenza di gesti in maniera corretta, ma lo fa in maniera goffa, lenta, perché una delle difficoltà di questi pazienti risiede nel controllo dei movimenti più fini delle dita (x es.); • Errori di omissione: il paziente salta e ignora completamente un passaggio; • Errori di localizzazione: il paziente compie in maniera corretta un gesto che gli è stato richiesto, ma lo fa in una posizione spaziale diversa da quella disegnata; • Uso erroneo: il paziente non fa dell’oggetto un uso adeguato al contesto: tenderà a utilizzare un oggetto in maniera errata: avrebbe dovuto compiere quello stesso gesto con un altro oggetto; • Errori di sequenza: nel coordinare l’utilizzo del più oggetti il paziente inverte la sequenza, salta dei passaggi o ne anticipa degli altri. Nelle condizioni sperimentali più complesse o per esigenze di ricerca, talvolta vengono utilizzati dei markers sul corpo del paziente: vengono posizionate sugli arti = grazie all’utilizzo di speciali telecamere questi particolari sensori consentono di restituire informazioni dettagliate rispetto a diversi parametri di esecuzione del movimento, come ad es. la traiettoria o la velocità di esecuzione. VALUTAZIONE DEI TEST (DE RENZI) presenterò il test di De Renzi perché è un autore che ha prodotto tanta letteratura in merito, e ha ricevuto molta validazione a livello internazionale. Nella valutazione di De Renzi, ogni gesto da imitare è presentato dall’operatore fino a 3 volte di seguito, fin quando la riproduzione da parte del paziente è corretta. Per ogni singolo gesto si può attribuire un punteggio da 3 a 0, in base a come l’imitazione è stata eseguita correttamente la prima, la seconda, la terza volta oppure mai (in questo ultimo caso il punteggio sarà zero). Il test di De Renzi comprende 24 gesti: di questi la metà sono gesti simbolici, e la metà sono gesti non simbolici, senza significato. Il punteggio massimo ottenibile al test è 72. Altra caratteristica della valutazione di De Renzi: metà delle prove coinvolgono l’uso delle dita, l’ altra metà invece coinvolge invece il movimento di tutto l’arto. Vi sono dei punteggi di cut off che orientano il clinico nella diagnosi di aprassia: si può attribuire una diagnosi certa di aprassia qualora il paziente ottenga un punteggio inferiore a 53. Viceversa, un punteggio compreso fra 53 e 62 indica una probabile, una sospetta aprassia; punteggi superiori a 62 dovranno orientare il clinico verso l’esclusione della diagnosi. Ora vorrei mostrarvi anche un filmato di una valutazione di un paziente aprassico mediante appunto del test appena descritto. (2.3 test aprassia pratico, potete trovarlo su youtube): in questa situazione il clinico siede di fronte al paziente e ha di fronte a sé un documento con l’elenco dei gesti da riprodurre. L’operatore mette in atto una sequenza di gesti e al paziente è richiesto di riprodurre esattamente ciò che sta osservando di fronte a sé. Il gesto viene ripetuto più volte poiché il paziente probabilmente non lo esegue in maniera corretta già al primo al secondo tentativo. In questo caso la paziente ha dovuto riprodurre la chiusura del pugno riuscendo dopo diversi tentativi, in questo caso deve riprodurre un gesto delle dita e qui come potete osservare presenta difficoltà > ( una difficoltà di questi pazienti risiede proprio in particolar modo nel controllo più fine delle dita). Il gesto viene quindi ripetuto, la paziente come potete vedere spesso porta lo sguardo sulla propria mano poiché evidentemente diventa consapevole della difficoltà a riprodurre il gesto. Chiunque di noi sarebbe in grado di riprodurre questo gesto con le dita anche a occhi chiusi, mentre questi pazienti pur osservando ripetutamente la propria mano, la mano dell’operatore non riescono a riprodurre il gesto in maniera corretta. Qui dopo svariati tentativi la paziente non riesce quindi probabilmente il punteggio da attribuire sarà zero. Anche questo è un movimento che richiede un controllo delle dita, non solo di tutto l’arto, e infatti la paziente non riesce. Vedete anche dopo la corretta esecuzione del gesto la paziente continua a portare la propria tensione sulla mano poiché evidentemente non è sicura della sua capacità di tradurre un programma, uno schema motorio in comportamento. Non sappiamo se la paziente del video presenta un’aprassia ideomotoria ma è molto probabile che se così fosse la paziente sarebbe probabilmente in grado di descrivere verbalmente la corretta esecuzione del gesto ma come vedete incapace di tradurlo in un comportamento appropriato. In questo caso solleva 2 dita anziché 1 e il gesto è eseguito in maniera scorretta. Sarebbe importante l’implicazione a livello riabilitativo per questi pazienti. Va da sé che questo tipo di riabilitazione è poco utile poiché il danno è chiaramente e corticale e non è muscolare, di conseguenza questi pazienti necessitano di una riabilitazione di tipo neuropsicologico e non evidentemente di carattere fisioterapico. superiore rispetto alla produzione su imitazione. Non erano possibili spiegazioni né di tipo percettivo né di tipo produttivo. Una spiegazione di tipo percettivo non avrebbe spiegato, non avrebbe reso conto della migliore produzione sul comando verbale; una spiegazione di tipo produttivo non avrebbe consentito di chiarire il motivo per cui il paziente era comunque in grado di riprodurre alcuni gesti su imitazione. Di conseguenza gli autori introdussero il concetto di lessico dell’azione che è costituito a sua volta da 2 sottocomponenti: • il lessico dell’azione di input • il lessico dell’azione di output. Il lessico dell’azione è la sede delle tracce mnestiche del movimento: così come esiste per il linguaggio un lessico che conserva le parole del vocabolario, anche per il movimento ci sarebbe una sorta di magazzino dei gesti, che loro definiscono lessico dell’azione. Il deficit di imitazione senza un disturbo di comprensione verrebbe spiegato, in base a questo modello, come da una lesione in un punto successivo all’uscita dal lessico dell’azione di input: il linguaggio potrebbe accedere al lessico dell’azione di output senza passare dal lessico di input e questo spiegherebbe la migliore prestazione su comando verbale. In una successiva e ultima rivisitazione del modello, gli autori sostengono che la produzione di gesti simbolici, quindi gesti con un significato, come può essere fare segno della croce o fare ciao con la mano, deve prevedere una qualche interazione con sistema semantico: con il sistema di conoscenze dell’individuo. Al contrario la possibilità di imitare dei gesti senza senso, quindi la via non lessicale, deve prevedere una via diretta dall’analisi visiva ai pattern di innervazione. E questo è rappresentato molto bene in questa forma finale del modello in cui il sistema semantico ha un ruolo centrale rispetto a tutte le modalità visive e modalità sensoriali, e inoltre vi è una via diretta che connette l’analisi visiva ai pattern di innervazione. Così come l’analisi uditiva e i pattern di innervazione. APRASSIA IDEOMOTORIA: ALTRE INTERPRETAZIONI Vi sono state recentemente altre possibili interpretazioni della aprassia ideomotoria: il sospetto principale di alcuni ricercatori fu che l’aprassia ideomotoria può essere spiegata dalla comorbilità con l’afasia. Infatti, circa l’80 % degli afasici è anche aprassico. (entrambi i disturbi afasia e aprassia conseguono lesioni dell’emisfero sx). Il deficit aprassico è stato interpretato da alcuni in termini di incapacità di simbolizzazione, astrazione e concettualizzazione: che sono le difficoltà tipiche di un paziente con alcune forme di afasia. Questa interpretazione potrebbe essere plausibile per aprassia ideativa, che è quella forma di aprassia nella quale il paziente non sa cosa deve fare ma al contrario non sono possibili per l’aprassia ideomotoria p e r varie ragioni: • questo tipo di pazienti sbagliano anche dei gesti non simbolici, di conseguenza l’incapacità di simbolizzazione non avrebbe luogo in questo tipo di prove; • i pazienti con aprassia ideomotoria sbagliano soprattutto su imitazione, e l’imitazione non è mediata da processi di astrazione, di concettualizzazione; • l’evidenza più forte che contradice l’interpretazione appena descritta è quella della presenza di doppie dissociazioni fra afasia e aprassia ideomotoria: non sono molto frequenti però vengono riportate in letteratura diversi casi di pazienti con afasia e abilità motorie gestuali preservate o al contrario pazienti con aprassia ideomotoria in assenza di disturbi afasici. APRASSIA IDEATIVA, DEL TRONCO, ORALE forme meno diffuse, meno note di aprassia: l’aprassia ideativa, l’aprassia del tronco e l’aprassia orale. APRASSIA IDEATIVA diversamente dall’aprassico ideomotorio (che non sa come fare, l’aprassico ideomotorio conserva un buon ricordo della sequenza di gesti da compiere ma non sa come metterli in atto), l’aprassico ideativo non riesce a rievocare il gesto da compiere in questi pazienti manca il ricordo del corretto utilizzo dell’oggetto: non sa cosa fare. Gli errori commessi con più frequenza nell’esecuzione di azioni complesse da parte di aprassici ideativi sono: • le omissioni: ignorano alcuni passaggi fondamentali nell’esecuzione del gesto; • gli errori di localizzazione: eseguono correttamente alcuni gesti ma lo fanno in un punto spaziale errato; • l ’uso errato: utilizzano l’oggetto in maniera impropria. Tipicamente questi pazienti compiono con un oggetto dei movimenti che sono propri di altri oggetti. Per rendere più chiaro le caratteristiche di un paziente aprassico ideativo e soprattutto le differenze rispetto ad un aprassico ideomotorio vorrei mostrarvi un video in un cui viene mostrata proprio la valutazione di un possibile paziente con aprassia ideativa: dressing apraxia screening (lo trovate su youtube). Spiegazione: quello che ha detto che la persona che ha di fronte ha avuto uno stroker quindi sta per sottoporla ad una valutazione per aprassia. Lì sul tavolo sono presenti diversi oggetti che fanno parte della routine mattutina delle persone, quindi lo spazzolino da denti, il lucida labbra, l’orologio e un pettine, e in aggiunta c’è anche una lettera con una busta. L’esaminatrice dice che ora sta per mostrare singolarmente questi oggetti alla persona chiedendole di mimare gli usi che potrebbe fare con ciascuno di loro. Come avete potuto osservare sono diversi gli errori commessi: nell’ultima dimostrazione, quando la paziente doveva indossare una giacca è stato compiuto un errore di localizzazione (ha correttamente attribuito un significato a quell’oggetto quindi lo stava utilizzando per coprirsi ma lo indossava in maniera errata, commettendo degli errori di localizzazione spaziale); sono stati mostrati degli errori usi errati: quando gli è stato consegnato uno spazzolino l’ho ha utilizzato come fosse un pettine, quindi sarebbe stato un uso corretto per un oggetto diverso da quello che impugnava. Un’altra caratteristica comportamentale che contraddistingue questi pazienti è la fluidità dei gesti: questo li contraddistingue molto dagli aprassici ideomotori: gli aprassici ideativi presentano un comportamento fluido (non sono goffi) , il loro problema è la conoscenza relativa all’utilizzo esatto di quei oggetti. Affinché si possa fare diagnosi di aprassia ideativa (AI) è necessario escludere che i deficit siano dovute a compromissioni motorie associate ad altri disturbi. L’ aprassia ideativa è stata anche a lungo messa in dubbio, vi è poca letteratura, sono pochi casi di aprassia ideativa pura, per cui per lungo tempo alcuni autori hanno dubitato della reale esistenza di questo disturbo e l’hanno associato ad altre cause concomitanti che vedremo di seguito e che quindi necessitano di essere escluse affinché si possa diagnosticare una aprassia ideativa. Una delle possibili alternative e che l’aprassia ideativa dipenda in realtà dalla demenza o dallo stato confusionale: questa interpretazione deriva dal fatto che gran parte dei primi casi clinici descritti erano di soggetti in età senile avanzata con concomitante declino cognitivo o si in soggetti post-epilettici: ma ad oggi abbiamo diverse evidenze di aprassia ideativa in assenza di declino cognitivo e di stato confusionale per cui certamente questa prima alternativa può essere esclusa. Un’altra possibilità e che l’aprassia ideativa dipenda in realtà da una agnosia visiva: un disturbo della percezione. Secondo questa interpretazione quindi il paziente non usa adeguatamente gli oggetti poiché non li riconosce, non sa che cosa sono, a cosa servono. Ma questa alternativa può essere esclusa se il paziente riesce a denominare gli oggetti. Mentre gli agnosici visivi non sono in grado di denominare correttamente gli oggetti. Gli agnosici visivi diversamente dagli aprassici ideativi sono in grado di riconoscere l’oggetto quando lo prendono in mano. Quindi un paziente con agnosia visiva potrebbe probabilmente non riconoscere uno spazzolino d a denti posizionato di fronte ad esso, però sarebbe in grado di riconoscere l’oggetto, utilizzarlo adeguatamente una volta impugnato. Talvolta l’aprassia ideativa è stata descritta anche come grave forma di aprassia ideomotoria: effettivamente talvolta i 2 disturbi potrebbero un po' confondersi nelle loro manifestazioni cliniche, e gravi forme di aprassia ideomotoria si associano ad alcuni deficit di carattere ideativo. Ma anche questa alternativa viene esclusa dalla presenza di diverse doppie dissociazioni documentate in letteratura. Di conseguenza possiamo concludere che il paziente con aprassia ideativa tipicamente presenta degli errori caratteristici in questo disturbo che denotano una cosiddetta amnesia d’uso. APRASSIA DEL TRONCO una forma di aprassia abbastanza rara. Geschwind nel 1975 osservò che i movimenti eseguiti con la muscolatura assiale sono preservati in pazienti con aprassia degli arti. Quindi suggerì una possibile preservazione dei movimenti del tronco nei pazienti con aprassia degli arti. Infatti il movimento di un arto su comando verbale richiede la connessione fra le aree del linguaggio e la corteccia motoria mediante il fascicolo arcuato. Viceversa, il movimento assiale può essere eseguito dai fasci non piramidali a partenza della corteccia temporale: sono diversi centri neurali che codificano i movimenti del tronco e i movimenti degli arti. Di conseguenza una lesione parietale sx può operare una disconnessione fra le cortecce parietali e le strutture motorie anteriori. Geschwind suggerisce un danno a carico del fascicolo arcuato, tuttavia una lesione parietale sx non interesserà la codifica dei movimenti del tronco poiché, questi rispondono a strutture neurali differenti. L’aprassia del tronco se bene possibile e dissociabile da un’aprassia dell’arto per le ragioni appena esposte, è ancora oggi è un’entità incerta: sono diversi gli autori che dubitano della sua reale esistenza e cmq rappresenta un fenomeno abbastanza raro nella pratica clinica. APRASSIA ORALE consiste in un disturbo della produzione dei movimenti volontari dell’apparato faringo-bucco-facciale, in assenza di paralisi o danni alla corteccia motoria primaria (M1 - questo vale per ogni forma di aprassia). In questo disturbo si osserva una dissociazione fra incapacità a compiere un movimento su richiesta dell’esaminatore, e la conservata abilità ad eseguirlo automaticamente: la famosa dissociazione automatico volontario. Un paziente con aprassia orale è capace di deglutire normalmente quando beve, anche la masticazione è correttamente preservata, ma non è in grado di tirare fuori la lingua su richiesta dell’esaminatore o di compiere altri semplici gesti a carico dell’apparato bucco-facciale. Gli errori più frequenti di questi pazienti consistono nella sostituzione del gesto con un altro movimento orale, nella sostituzione del gesto con un rumore onomatopeico o anche con un vocabolo che lo descrive. Sono in grado di denominare correttamente ciò che viene richiesto loro, ma non sono in grado di eseguire il gesto quando questo interessa l’apparato bucco-facciale. Le omissioni, le perseverazioni e le conduite d’approche (tentativi di avvicinarsi alla forma corretta, ripetendo più volte un gesto nel tentativo di eseguirlo cosi come richiesto dall’esaminatore). L’aprassia orale si presenta più frequentemente nei cerebrolesi sx: le lesioni sono quasi sempre a carico degli opercolari frontali, e raramente si osservano le lesioni di tipo parietali, diversamente da altre forme di aprassia. Proprio per la sede della lesione l’aprassia orale si associa frequentemente ad afasia, quindi ai disturbi del linguaggio. Ma anche in questo caso sono state riportate delle doppie dissociazioni che consentono di escludere una possibile associazione del disturbo a concomitanti problemi di tipo afasico. TEST DI APRASSIA ORALE (DE RENZI) non esiste un unico test standardizzato: vi presento un test validato dal famoso De Renzi. In questo caso, così come abbiamo visto per l’aprassia ideomotoria, l’esaminatore si siede di fronte al paziente, ed esegue dei gesti che chiede di imitare. Per ciascun gesto si attribuisce un punteggio da zero a tre, in base al tempo impiegato per eseguirlo: il paziente riceverà un punteggio di 3 qualora dovesse eseguire correttamente al primo tentativo il gesto, un punteggio di 2 o di 1 qualora invece dovesse eseguirlo al secondo o al terzo tentativo, o di 0 qualora dovesse risultare incapace di riprodurre il gesto. Il punteggio massimo ottenibile in questo test è 24 e il punteggio di 20 costituisce un cut off, al di sotto del quale si considera molto probabile la presenza di un’aprassia orale. I gesti che l’esaminatore chiede di riprodurre sono: soffiare, fischiare, fare una pernacchia, dare un bacio, apertura a schiocco delle labbra, movimenti ripetuti della lingua contro i denti, schioccare la lingua contro il palato imitando il trotto del cavallo, rischiarirsi la gola. Un paziente con aprassia orale potrebbe mostrare delle difficoltà nell’esecuzione di tutti questi gesti. MODULO 3. ATTENZIONE E NEGLECT campo sx. Il movimento del dito presente nel suo emi campo sx verrà trascurato quando vi sarà un movimento concomitante nell’emi spazio dx. Una modalità di valutazione tattile dell’estinzione: chiedere al pz di restare a occhi chiusi lasciando le mani sospese in questo modo, ciò che fa l’esaminatore è semplicemente esercitare una pressione in maniera alternata sulle 2 mani. Un pz in fase d’estinzione riconoscerà la pressione esercitata sulla propria mano dx e sulla propria mano sx, ma ignorerà la pressione sulla propria mano sx quando questa sarà concomitante alla pressione sull’altra mano. La relazione spaziale fra l’osservatore e l’oggetto viene definita in base a coordinate cartesiane che possono essere centrate o sul soggetto (coordinate egocentriche), o sull’oggetto (coordinate allocentriche). Questa distinzione è corrispondente a una distinzione neurofisiologica: ci sono dei neuroni che rispondono specificamente a coordinate egocentriche piuttosto che allocentriche: quindi c’è una corrispondenza effettivamente neurofisiologica. Il neglect può interessare entrambe di queste coordinate spaziali: quelle egocentriche, allocentriche o anche entrambe in forme miste. Nella forma egocentrica il neglect si presenta nell’emi spazio sx del pz, riferito a coordinate anatomiche: l’asse sagittale del tronco o la direzione degli occhi = se chiediamo a un pz di copiare dei disegni distribuiti su un intero foglio, il pz tenderà a copiare soltanto i disegni presenti nel proprio emi spazio dx, e ignorerà tutti i disegni che si trovano a sx della sua asse sagittale. Il neglect allocentrico è un neglect riferito alla relazione spaziale degli stimoli o di parte degli stimoli: se chiedessimo a un pz di copiare un disegno, il pz tenderà a copiare soltanto la metà dx di ciascun disegno indipendentemente dalla sua posizione rispetto all’osservatore, indipendentemente dal fatto che il disegno si trovi nell’emi campo dx, nell’emi campo sx. Qui vi mostro alcuni test tipicamente impiegati nella valutazione dei pz con neglect: il più comune e il cosiddetto disegno dell’orologio che può essere richiesto su copia oppure prodotto spontaneamente. Nell’immagine di sx osserviamo un modello delle immagini da copiare, a dx invece è il disegno (freccia rossa) prodotto da un pz con neglect. Come potete osservare rispetto all’orologio il pz copia correttamente i numeri posizionati nello spazio dx del disegno ma trascura completamente tutto ciò che è a sx. Lo stesso si verifica per la casa in cui manca la rappresentazione sx dell’oggetto e anche nella margherita dove mancano dei petali sullo spazio sx. Nell’immagine centrale invece è stato richiesto un disegno spontaneo di un volto e di un orologio. Nella rappresentazione del volto mancano sostanzialmente alcune componenti dello stimolo, nella rappresentazione dell’orologio vengono copiati interamente tutti i dodici i numeri dell’orologio ma come vedete vengono disposti soltanto nell’emi spazio dx. Un altro test tipicamente impiegato nella valutazione di questi pz consiste nella cosiddetta bisezione di linee: la consegna che si dà al pz è semplicemente quella di tracciare la metà di una linea. Nel primo caso vi sono delle barrette disposte orizzontalmente di fronte al pz: in questo caso il soggetto ha correttamente bisezionato le linee sul suo emispazio dx ma completamente trascurato quelle dell’emi spazio sx. In realtà se andiamo a osservare più attentamente anche nell’emi spazio dx vi sono cmq degli errori di bisezione: la metà della linea viene spostata sempre un po' più a dx rispetto al centro. Nella figura B l’errore è molto più evidente, in questo caso il pz avrebbe dovuto bisezionare le linee, però la sua metà è sempre spostata a dx rispetto all’intero segmento e questo è molto più evidente quando il segmento di estende a sx. Un video di una valutazione con pz neglect. (youtube: clock drawing test in parietal stroke durata video 1:14): vi è un disegno spontaneo di orologio. Il pz deve semplicemente inserire i n° all’interno del cerchio = la pz ha riportato tutti i dodici n° dell’orologio, tuttavia li ha disposti nella metà dx dell’orologio: non ha trascurato parti di n° ma li ha inseriti tutti nella dx del suo emispazio visivo. SEDE DELLA LESIONE il neglect si osserva in seguito a lesioni dell’emisfero dx, in particolar modo della corteccia parietale dx. C’è una caratteristica: l’estinzione si osserva anche in seguito a lesioni della corteccia parietale sx. Diversamente dal neglect quindi l’estinzione sarebbe un fenomeno comune ad entrambi spazi visivi. Q uesta evidenza ha fatto suggerire ad alcuni ricercatori che in realtà il neglect e l’estinzione non siano tanto forme diverse dello stesso disturbo ma sembra proprio che rispondano a meccanismi differenti, quindi sottesi proprio da meccanismi differenti. La questione è ancora aperta. In generale possiamo asserire che il neglect si associa più di frequente a lesioni della corteccia parietale dx ma in particolar modo alla sua porzione più inferiore che è il lobulo parietale inferiore dx oltre che lesioni della giunzione parieto- temporale e del giro temporale superiore. Talvolta sono stati riscontrati anche casi di neglect associati al lobo frontale. La caratteristica che entrambe queste lesioni, quindi, sia parietali che frontali si associano a una forma di neglect consistente appunto in difficoltà di esplorazione dello spazio contro lesionale ma con una sorta di differenza comportamentale fra le 2 forme di neglect: neglect da lesione parietale (quello più diffuso anche detto neglect percettivo) si associa a difficoltà nello stadio iniziale di analisi dello stimolo. Questa forma di neglect viene anche detta motorio: si intende con neglect motorio la incapacità dell’arto contro lesionale di iniziare un movimento. Nelle forme in cui la sintomatologia è più rilevante, questi pz potrebbero addirittura arrivare a una totale immobilità di arti contro lesionali e quindi sx; neglect da lesione frontale viene definito anche neglect ipodirezionale: si assocerebbe a una difficoltà dell’arto ipsilaterale nell’iniziare un movimento verso lo spazio contro lesionale = in questo senso viene definito neglect ipodirezionale. A differenza del neglect puramente motorio che sarebbe quello da lesione parietale. NEGLECT: INTERPRETAZIONI IPOTESI SENSORIALE-PERCETTIVA (rigettata) assunto principale di questa interpretazione del disturbo è che le lesioni del lobo parietale dx producono una mancata sintesi di dati sensoriali e sensitivi, che a loro volta sarebbero responsabili del neglect. Questa interpretazione è stata disconfermata da diverse evidenze sperimentali (2 punti sufficienti a rigetttarla): 1. vi sono pz con deficit sensoriali che però non presentano neglect, questo porta ad escludere un contributo diretto del deficit sensoriali nella genesi del disturbo attentivo del neglect; 2. se si chiede ai pz con neglect di prestare attenzione verso l’em spazio deficitario senza però dirigere gli occhi in quella direzione abbiamo che lo stimolo visivo viene riportato = i pz con neglect sono ancora capaci di orientare implicitamente l’attenzione verso l’emispazio deficitario: questo determina un miglioramento della prestazione. IPOTESI RAPPRESENTAZIONALE secondo cui il disturbo da neglect sarebbe rappresentabile in termine di difetto della rappresentazione dello spazio (Bisiach e Luzzatti 1978). Un celebre esperimento che diede supporto a questa ipotesi fu il cosiddetto Esperimento del Duomo di Milano: questi autori chiesero a dei pz con neglect di immaginare di trovarsi rivolti di fronte alla faccia principale del Duomo di Milano e di descrivere tutti i palazzi che si trovavano alla loro dx e tutti gli edifici che si trovavano alla loro sx. Dopodiché chiedevano agli stessi soggetti di immaginare di trovarsi in posizione contraria: dando le spalle al Duomo di Milano e nuovamente gli veniva chiesto di descrivere tutti gli episodi tutti gli edifici che visualizzavano alla loro dx e tutti gli edifici che avrebbero osservato alla loro sx. Gli sperimentatori hanno osservato che i pz ignoravano gli edifici che si collocavano alla loro sx indipendentemente dalla loro posizione, di conseguenza se immaginavano di trovarsi di fronte al Duomo di Milano ignoravano gli edifici di sx ma subito dopo erano in grado di rappresentare perché si trovavano nel loro emispazio dx. Questi sperimenti non consentono di escludere totalmente un’ipotesi attenzionale del disturbo: è possibile che la difficoltà dei pz consista nel rivolgere l’attenzione sulla parte sx di una rappresentazione spaziale sia essa di tipo reale o immaginario. IPOTESI ATTENZIONALE ancora oggi la più accreditata: secondo questa ipotesi i pz con neglect presentano una difficoltà nell’orientare l’attenzione verso lo spazio contro lesionale, quindi a sx. In presenza di meccanismi percettivi e sensoriali conservati (ricordiamo un eventuale danno a carico di meccanismi percettivi escluderebbe una diagnosi di neglect). È importante distinguere 2 aspetti nell’orientamento dell’attenzione: si tende a distinguere un orientamento esplicito da uno implicito: orientamento esplicito dell’attenzione = è l’orientamento motorio verso lo stimolo cui vogliamo destinare l’attenzione: se sentiamo un suono, una voce, provenire da una direzione diversa a quella a cui stiamo rivolgendo lo sguardo, abbiamo la tendenza a orientare anche sguardo e corpo verso l’oggetto a cui vogliamo destinare l’attenzione; orientamento implicito dell’attenzione = orientamento verso uno stimolo in assenza di movimento esplicito: potremmo mantenere lo sguardo dritto di fronte a noi e con la visione periferica osservare quello che accade alla nostra dx o alla nostra sx senza muovere lo sguardo. Questo è un tipo di orientamento che viene definito implicito. Ci fu un ricercatore Posner che mise appunto un paradigma che viene ancora oggi utilizzato nell’ambito delle neuroscienze cognitive: l’effetto Posner: i benefici associati all’orientamento esplicito dell’attenzione. TEST DI POSNER (valuta l’attenzione spaziale). Il paradigma Posner: il soggetto è posizionato di fronte a uno schermo al centro del quale c’è un punto di fissazione. Alla sx e alla dx del punto di fissazione vi sono solitamente 2 riquadri. Nel corso dell’esperimento compariranno dei cosiddetti cue (cue = un’indicazione, un suggerimento), in questo caso costituito da una freccia, una freccia che può indicare dx o sx. Ciò che viene richiesto di fare al soggetto sperimentale è di orientare l’attenzione sul riquadro indicato con la freccia. Immediatamente dopo comparirà un target all’interno di uno dei 2 riquadri, il soggetto ha un tasto di risposta e deve premere il tasto di risposta quando individua il target. Sono 2 le condizioni possibili: una è la prova valida, l’altra prova invalida: prova valida la condizione in cui il target appare nel riquadro verso il quale soggetto stava prestando attenzione (poiché gli è stato indicato dal cue). Si definisce prova invalida quella prova in cui il target appare in una posizione diversa da quella indicata dal cue. L’effetto di questo esperimento, quindi l’effetto Posner, consiste in un rallentamento dei tempi di reazione prove invalide: le prove valide in cui Cue e target sono congruenti avranno un beneficio sui tempi di reazione e si ridurranno significativamente. DISSOCIAZIONE FRA MECCANISMI DI ORIENTAMENTO AUTOMATICO E VOLONTARIO DELL’ATTENZIONE È stato importante dimostrare nel corso degli anni della ricerca sperimentale su questo disturbo, la dissociazione fra meccanismi di orientamento automatico e volontario dell’attenzione. Nel caso dei pz con neglect se viene richiesto loro di orientare l’attenzione nell’emispazio sx, senza muovere gli occhi, le loro prestazioni miglioreranno: si potrebbe concludere il neglect comprometterà la capacità di dirigere l’attenzione volontaria verso gli stimoli. Il deficit attenzionale inoltre sembrerebbe associato anche a coordinate spaziali, e non solo a coordinate retiniche: la difficoltà si manifesta anche nel dirigere l’attenzione all’interno di un campo visivo sia di dx sia di sx = molti pz con neglect potrebbero presentare difficoltà a orientare l’attenzione anche verso una relativa sx, verso una sx che si collochi cmq all’interno dell’emispazio preservato: in questo senso si parla di coordinate spaziali al di là di coordinate di tipo retinico. In aggiunta un’assunzione importante è quella secondo cui oltre alla ipoattenzione per gli stimoli contro lesionali, quindi per gli stimoli presentati in emispazio sx, il neglect si assocerebbe a una iperattenzione per gli stimoli ipsilesionali, quindi per gli stimoli presentati nell’emi spazio dx. IL RUOLO D ELL’ EMIS FERO DX Il modello interpretativo Kinsbourne 1993 Il ruolo dell’emisfero dx è stato particolarmente approfondito dal modello interpretativo di Kinsbourne: parte dall’osservazione secondo cui ogni emisfero è deputato all’orientamento dell’attenzione in direzione controlaterale: l’emisfero dx processerà l’orientamento dell’attenzione verso sx e viceversa. Ma la tendenza dell’emisfero dx ad orientare l’attenzione verso sx è più debole rispetto alla tendenza dell’emisfero sx ad orientare l’attenzione verso dx. Anche in soggetti sani questa competizione è presente: viene definita competizione fra vettori antagonisti = ci sarebbe una tendenza in tutti noi a prediligere tutto ciò che ricade nell’emi spazio dx. Questo spiegherebbe perché le lesioni parietali sx producono delle estinzioni, ma non neglect. Neglect naturalmente è una forma più severa, ma le lesioni parietali sx sono le uniche che si associano ad attenzione ma non neglect. La spiegazione secondo questo modello sarebbe quella secondo cui l’emisfero dx in cerebrolesi parietali sx può controllare settori spaziali più ampi, cosa che invece non può fare l’emisfero opposto. Mediante il concetto di direzionalità dei vettori e non di emispazio, (viene sostituito concetto di emispazi con quello di direzionalità dei vettori), questo modello riesce inoltre a spiegare le difficoltà direzionali del neglect all’interno dello spazio ipsilesionale = il motivo per cui alcuni pz hanno difficoltà a spostare l’attenzione anche verso una relativa sx che cada nello spazio dx (quindi ipsilesionale). IL DESTINO DEGLI STIMOLI NEGLETTI ma che fine fanno gli stimoli negletti? vengono analizzati o vengono totalmente ignorati? E se vengono analizzati fino a che livello di elaborazione? Per rispondere a questa domanda bisogna considerare 2 teorie: l’ipotesi della selezione precoce: il processo pre-attentivo, quel processo attenzionale che precede l’intervento dell’attenzione selettiva, consente di elaborare soltanto singole caratteristiche fisiche dello stimolo: le più elementari = è necessario un coinvolgimento dell’attenzione selettiva per una piena elaborazione dello stimolo; l a t e o r i a d e l l a s e l e z i o n e t a r d i v a: tutte le caratteristiche dello stimolo vengono elaborate pre attentivamente: il riconoscimento può avvenire anche senza intervento dell’attenzione selettiva. L’attenzione selettiva agisce soltanto a livello di selezione della risposta, in una fase tardiva dell’elaborazione dello stimolo. C’è stato un esperimento importante di Berti e Rizzolatti 1992 che sembra confermare la seconda ipotesi: al pz con neglect venivano presentate delle immagini nell’emispazio sx, e subito dopo a distanza 200 ms altre immagini nell’emi spazio dx. I soggetti riferivano di non riconoscere nulla nell’emi spazio sx, ma gli veniva chiesto di indicare la categoria di appartenenza dell’immagine presentata nell’emi spazio dx. La variabile dipendente in questo caso era il tempo di reazione (tempo di risposta). Ciò che è stato osservato è che la congruenza fra l’immagine presentata nei 2 emi spazi si associava a tempi di reazione più rapide. Mentre quando gli stimoli erano semanticamente incongruenti i tempi di reazione rallentavano: se nell’emi spazio sx fosse stato presentato un oggetto un’immagine appartenente alla categoria frutta e subito dopo un’immagine appartenente alla stessa categoria nell’emi spazio dx, il superficie posti nella parte posteriore sx del collo. Si utilizza una frequenza di stimolazione a 100 Hz: anche questa tecnica come la precedente è abbastanza efficacia ma ha un effetto transitorio. ATTENZIONE E LOBO FRONTALE il ruolo di 3 componenti dell’attenzione e il contributo delle cortecce frontali in queste particolari funzioni cognitive. ATTENZIONE DIVISA E ATTENZIONE ALTERNATA L’attenzione divisa la capacità di prestare attenzione a più compiti contemporaneamente: abilità di elaborare contemporaneamente diverse info da più sorgenti. si definisce divisa quell’attenzione distribuita su più canali sensoriali; L’attenzione alternata la capacità di ridirezionare in modo flessibile l’attenzione da un compito all’altro o da una modalità di elaborazione all’altra: stesso livello sensoriale. TEA (TEST PER L’ ES AME DELL’ATTENZIONE) (ZIM MERMANN E FIMM, 1992/94) c’è un test abbastanza diffuso per la valutazione dell’attenzione: test per l’esame dell’attenzione che include anche un test specifico di valutazione dell’attenzione divisa che consiste in questo: al soggetto vengono somministrati 2 compiti in maniera contemporanea, uno è un compito visivo: la presentazione di una griglia sulla quale compaiono in posizioni diverse continuamente alcune croci; il soggetto dovrà identificare il momento in cui le croci formano un quadrato. In contemporanea un compito uditivo: il soggetto ascolta una serie continua di suoni alti e bassi e dovrà rispondere alle variazioni della sequenza normale. TMT = TRAIL MAKING TEST (TMT A – TMT B) (REITAN 1958) si compone di 2 parti, parte A più semplice, parte B più complessa. Nella forma A, vi è un’esplorazione visiva e si valuta l’attenzione sostenuta e selettiva. Il pz dovrà unire con una linea continua, in ordine crescente, una serie di numeri cerchiati che vengono disposti casualmente su un foglio. Si considera come misura di outcame il tempo impiegato per eseguire il compito. Si dà il via al soggetto e si cronometra la prestazione sino a termine. È semplice per un soggetto normale, può esserlo meno per i pz frontali: consiste semplicemente nel tracciare una linea che colleghi in ordine crescente i vari punti. nella forma B: il test viene invece inserito un altro elemento che è lo shift attentivo: il pz deve unire con una linea continua e in ordine crescente numeri e lettere alternandoli. La disposizione dei cerchi sul foglio è simile a quanto detto prima: il compito presenta un livello di difficoltà > Il pz dovrà alternare un numero una lettera nei rispettivi ordini, di conseguenza inizierà n° 1, lettera A, per poi proseguire n° 2 lettera B, tre C, e così via. PASAT (PACEDAUDITORY SERIAL ADDITION TASK) (GRONWALL E SAMPSON 1974) Il PASAT altro test molto noto di valutazione neuropsicologica, misura l’attenzione divisa uditiva e verbale, attenzione sostenuta e selettiva, la ML. Si chiede al soggetto di eseguire diversi sotto compiti e lo si fa imponendo una forte limitazione temporale: viene presentata acusticamente una sequenza di sessantuno numeri (da 1 a 9). Il compito del soggetto consiste nel calcolare e dire il risultato della somma di coppie di numeri in modo tale che ogni n° sia sommato a quello precedente. Quindi il primo al secondo, il secondo al terzo e così via. La stessa lista di numeri può essere presentata a diversi intervalli temporali. (2.4, 2.0, 1.6 e 1.2 s) in modo da aumentare l’attenzione al compito e non consentire di predire il timing della presentazione di stimoli. Misura di punteggio = numero di risposte corrette. Affinché venga considerata corretta è necessario che una risposta venga fornita prima della presentazione del n° successivo: venga presentata in tempo per la prova di riferimento. LESIONI E RISORSE ATTENTIVE è stato osservato che il deterioramento dell’attenzione divisa e attenzione selettiva si riscontra in seguito sia alle lesioni diffuse sia lesioni corticali non diffuse. Attenzione divisa e selettiva riflettono moduli differenti, però spesso la lesione compromette entrambe queste funzioni. Una spiegazione possibile deriva dal concetto di risorse attentive: bisogna considerare che il sistema di elaborazione delle info è un sistema limitato, ha dei limiti temporali e dei limiti spaziali. Per funzionare bene ha bisogno di essere supportato nella sua azione dai processi attenzionali = una riduzione della quantità delle risorse disponibili al sistema avrà come effetti inevitabili la compromissione di tutte le prestazioni di tipo volontario. Una lesione al sistema di elaborazione delle info si ripercuoterà sull’abilità dell’individuo di filtrare le info in entrata e distribuirle e di computare quei processi che sono a carico dell’attenzione selettiva e dell’attenzione divisa. ATTENZIONE SOSTENUTA ED AROUSAL altra forma di attenzione è l’attenzione sostenuta: consiste nella capacità di mantenere un determinato livello attentivo in maniera protratta nel tempo. È da distinguere dal arousal (erausal) che consiste invece nello stato individuale fisiologico di prontezza a rispondere a stimoli interni o esterni. L’attenzione sostenuta e l’arousal si influenzano a vicenda ma sono 2 funzioni distinte. Si influenzano a vicenda nel senso che un > livello di arousal favorirà migliori prestazioni a livello di attenzione sostenuta mentre una bassa attivazione renderà più difficile la possibilità di mantenere alti livelli di attenzione sostenuta nel tempo. SPECIALIZZAZIONE DELL’EMIS FERO DX ci sono stati studi su pz con cervello diviso (in letteratura vengono chiamati splint brain), che dimostrano una specializzazione dell’emisfero dx per l’attenzione sostenuta: sembra che questa funzione venga processata prevalentemente dall’emisfero dx. Un altro studio interessante ha dimostrato che l’emisfero sx era inizialmente più abile del dx a livello attenzionale, consentiva prestazioni migliori in un compito. Ma le prestazioni a carico dell’emisfero sx decadono rapidamente. All’opposto l’emisfero dx dimostra di poter mantenere medesimi livelli di prestazione in maniera continuativa durante l’esecuzione della prova. (Dimond 1980). Questo studio conferma la specializzazione dx per l’attenzione sostenuta. L’emisfero dx dimostra anche una superiorità rispetto alla capacità di mediare il livello di attivazione (arousal): la prontezza nel rispondere a stimoli interni o esterni. In questi pz a cervello diviso venivano presentati alternativamente stimoli in uno o nell’altro emicampo ipsilesionali o controlesionali: è stato dimostrato che quando era emisfero dx a supportare l’esecuzione del compito questo favoriva una riduzione di tempi di risposta. Indice nel complesso di un > livello di arousal durante l’esecuzione del test. IL LOBO FRONTALE o CORTECCIA FRONTALE ricopre un ruolo determinante nel livello di attivazione fisiologica e nelle varie forme di attenzione: infatti uno dei sintomi più frequentemente associate a lesioni frontali sono l’abulia o l’inerzia generalizzata che possono coinvolgere diversi aspetti del funzionamento come ad es. linguaggio, il movimento. È una sindrome frontale che si presenta come una mancanza di iniziative e di interesse. Quando questi deficit coinvolgono la sfera del linguaggio i pz presentano un deficit linguistico di produzione, che non è associato a una compromissione della produzione motoria, quanto all’intenzionalità del linguaggio: ciò che riferiscono i pz e che manca loro l’iniziativa, l’interesse ad esprimersi: se vengono rivolte loro delle domande questi pz non rispondono poiché viene meno l’intenzione a farlo. In maniera analoga questo può ripercuotersi sul movimento: vi sarà un’inerzia motoria dovuta proprio al mancato desiderio di iniziare un movimento. SISTEMA ATTENTIVO SUPERVISORE SAS (NORMANN E SHALLICE 1986) è quel sistema noto nella psicologia cognitiva e nella neuropsicologia descritto inizialmente da Normann e Shallice nel 1986. Parte da un presupposto: quello secondo cui esistono 2 modalità di controllo cognitivo = una modalità automatica: quella che si verifica in situazioni abituali della vita di un individuo: è quella modalità che processa sequenze di azione ben appreso o le routine, e che rende possibili più azioni contemporaneamente proprio perché l’esecuzione di queste azioni, gli schemi, richiederanno poche risorse attentive in quanto sono iperapprese e possono essere attivate automaticamente. Al contrario c’è anche una modalità di controllo di tipo volontario: si manifesta tipicamente in situazioni nuove, sconosciute. Si associa ad azioni di tipo intenzionale che richiederanno un coinvolgimento attivo dell’intenzione dell’individuo che dovrà programmare delle nuove sequenze di comportamento. Il comportamento umano è quindi controllato su diversi livelli: a un primo livello più elementare operano i processi di base o schemi che consistono in sistemi di controllo dell’attenzione locale, gestiti da strutture specifiche di elaborazione dell’info. A un livello successivo operano gli schemi di azione – pensiero: programmi d’azione strutturati e organizzati gerarchicamente che vengono attivati in vista del raggiungimento di uno scopo. Gli schemi di azione-pensiero rappresentano delle sequenze ben apprese, quindi di routine e sono fortemente associati a determinate stimoli o situazioni ambientali: una sorta di attivazione stimolo risposta quasi immediata. Sono procedure depositate nel cotention scheduling (catalogo delle decisioni): una sorta di memoria procedurale a lungo termine che si occupa di selezionare i diversi schemi. Gli schemi competono fra loro, questo meccanismo viene definito meccanismo di selezione competitiva che sceglie lo schema che presenta il > livello di attivazione. Sarà un’attivazione contesto specifico. Ci sono situazioni in cui non è sufficiente il sistema di selezione competitiva, in quanto le condizioni ambientali potrebbero essere nuove e quindi richiedere delle soluzioni nuove. In questi casi è necessario un controllo a livello superiore: ovvero a livello del sistema attentivo supervisore (SAS) che agisce indirettamente sugli schemi in competizione: lo fa aumentando e diminuendo il loro livello di attivazione cosi da influire la loro probabilità di venire selezionati nel processo di selezione competitiva. Il SAS anzitutto consente di ri-configurare dei vecchi schemi rendendoli adatti a fronteggiare nuove situazioni: può ricorrere alla selezione di uno schema iper- appreso ma impiegarlo in un contesto nuovo; permette l’organizzazione del comportamento sulla base delle intenzioni indipendentemente dalle stimolazioni esterne: rompe la stretta associazione che è alla base del comportamento automatico (quelle associazioni stimolo/risposta iperapprese che non si adeguano a situazione nuova e inusuale); il SAS ha capacità limitata e si attiva in tutte le situazioni in cui è richiesto un comportamento articolato e non rigido: un comportamento cosiddetto di problem solving. SAS E LESIONI FRONTALI le lesioni delle aree frontali più frequentemente si associano a: perdita della capacità di pianificare i comportamenti: in questi soggetti prevarranno dei comportamenti automatici, perché viene meno la capacità di trovare soluzioni nuove a situazioni nuove. Questi pazienti risultano essere facilmente distraibili: perché è compromessa la componente selettiva dell’attenzione (che consiste nella capacità di orientare l’attenzione su info deboli in presenza di distrattori forti), per cui basterà un suono, un dettaglio affinché un cerebroleso frontale venga distratto dal suo compito e orienti automaticamente l’attenzione sull’info nuova presente nel suo ambiente); Presentano tipicamente da un punto di vista comportamentale la perseverazione e difficoltà nel controllo dei comportamenti indotti da stimoli esterni: comportamento di utilizzo = la percezione di un oggetto indurrà l’attivazione di schemi d’azione di pensiero associati automaticamente a quell’oggetto = questi schemi verranno attivati in maniera automatica e incontrollata. Questi pz tipicamente toccano tutti gli oggetti che sono presenti nella stanza: se trovano delle forbici saranno portati a impugnare quelli forbici e tenderanno a maneggiare ogni oggetto associando a esso un comportamento uno schema d’azione attivato automaticamente. MODULO 4. NEUROPSICOLOGIA DELLE EMOZIONI in queste lezioni parleremo delle emozioni soffermandoci in particolare sul ruolo ricoperto alcune aree cerebrali nel riconoscimento e nell’espressione di emozioni. EMOZIONI E AREE SOTTOCORTICALI dei primi studi su animali decorticati dimostrarono che le reazioni di rabbia restavano inalterate davanti alla presentazione di stimoli emotigeni: i risultati suggerirono il ruolo importante ricoperto da aree sottocorticali nella valutazione degli eventi emotigeni = indicarono una sostanziale conservazione dell’abilità di valutazione degli stimoli emotigeni anche in assenza di una corretta elaborazione a livello corticale. I pz con lesioni delle vie cortico- diencefaliche dimostrano tipicamente come sintomo l’insorgenza improvvisa di riso o pianto: questa evidenza è importante poiché ci dice che nell’uomo lesioni a queste vie sembrerebbero non compromettere la capacità di esperire emozione ma andrebbero solo a compromettere l’adeguata espressione contestuale dell’emozione = l’insorgenza improvvisa di una reazione emotiva ovviamente denotava una reazione non congruente al contesto ma non una compromissione nella capacità esperire l’emozione stessa. Queste e altre evidenze portarono già nel 1937 un autore (Papez) a concludere che: l’ipotalamo, i nuclei anteriori del talamo, il giro del cingolo, l’ippocampo e le loro connessioni costituiscono un meccanismo armonico che suscita internamente le emozioni, e al tempo stesso contribuiscono a organizzare le risposte emotive = già negli anni ‘30 del secolo scorso emergeva il contributo notevole delle aree sottocorticali nell’ elaborazione delle informazioni. Si tende in genere a distinguere una componente talamica da una componente corticale nel processo di elaborazione delle emozioni: in particolar modo alla componente talamica veniva attribuito un ruolo di attribuzione di significato e si considerava la componente corticale coinvolta nel processo di elaborazione dell’esperienza emotiva. In un esperimento su una scimmia eseguito nel 1961, Downer dimostrò, tagliando le commessure callosali e il chiasma ottico dell’animale, ed eseguendo una ablazione unilaterale dell’amigdala, che la presentazione di stimoli visivi a carattere emotigeno all’occhio ipsilaterale all’amigdalectomia si associava una reazione di indifferenza da parte della scimmia mentre, a stimoli controlaterali, si associavano delle risposte emotivamente adeguate allo stimolo. Questo studio degli anni ‘60 fece emergere il ruolo funzionale ricoperto da un'altra area sottocorticale: l’amigdala facciali volontarie, mentre nei cerebrolesi si tende a studiare le espressioni facciali spontanee. La muscolatura che sottende queste 2 tipi di espressioni è associata a controlli differenti, per cui sono le diverse le strutture neurali che entrano in gioco. (questo può spiegare la discordanza fra risultati). In particolar modo le espressioni facciali volontarie vengono controllate dal sistema piramidale controlaterale, per cui è molto più facile distinguere l’intervento degli emisferi dx sx nei controlli dei soggetti sani, mentre le espressioni facciali spontanee vengono controllate dal sistema extrapiramidale, che ha una innervazione bilaterale, per cui è difficile la dissociazione intra emisferica. ESPERIENZA SOGGETTIVA DELLE EMOZIONI altre differenze da un punto di vista comportamentale sono state rilevate fra cerebrolesi sx e dx: I cerebrolesi sx: presentano una sindrome comportamentale che viene definita reazione depressiva- catastrofica = hanno delle reazioni di pianto, di disperazione, anche abbastanza frequenti; il disturbo dei cerebrolesi sx sembra rappresentare una conseguenza dovuta alla consapevolezza di altri disturbi e non l’espressione di un disturbo delle emozioni in senso stretto = nei casi di lesioni sx, le crisi di pianto e le reazioni catastrofiche a volte si presentano come conseguenza del disturbo afasico o paretico: siccome spesso le lesioni in queste sedi sono estese, arrivano molte volte a coinvolgere anche le aree del linguaggio producendo delle disabilità importanti nel paziente che avrà delle difficoltà di espressione, o produrranno delle paresi nell’arto controlesionale. Dato che molto spesso l’arto dominante è il dx, tutto ciò potrebbe indurre delle reazioni di pianto e catastrofiche in questi pz (non possono essere descritte come un disturbo dell’umore in senso stretto) i cerebrolesi dx: si osserva più tipicamente un tono dell’umore neutro, indifferente o addirittura euforico. Nei cerebrolesi dx, l’apatia e l’abulia riflettono un disturbo puro delle emozioni, una vera alterazione dell’umore. LE EMOZIONI definizione scientifica di emozione: quella che è ancora oggi la teoria di riferimento nell’ambito dello studio sperimentale delle emozioni e la teoria bifasica delle emozioni (Lange et al 1998): secondo questo modello le emozioni vengono classificate in base a 2 parametri: • la valenza: indica il livello di piacevolezza, dispiacevolezza dell’emozioni, potrà essere positiva, negativa o neutra (nel caso di errori medi di valenza); • l’arousal (intensità): si intende il livello di attivazione associato a ciascuna emozione (quindi l’arousal); gli stimoli, quindi le emozioni, potrebbero essere: positive e altamente attivanti o negative e altamente attivanti (un es. di immagine positiva attivante è l’ immagine di carattere erotico sessuale, le immagini negative sono quelle che si associano ad alti livelli di attivazione). Ci sono anche degli stimoli negativi a bassa attivazione come possono essere quelli associati al disgusto o positive a bassa attivazione come un’immagine che ritrae un paesaggio (associato a un particolare benessere). Le emozioni attivano il sistema appetitivo o difensivo, influenzando diversamente la disposizione comportamentale: • le emozioni piacevoli attivano il sistema appetitivo, alla cui attivazione conseguano prevalentemente comportamenti di approccio (lo stimolo legato a cibo o al sesso che induce un comportamento di avvicinamento, quindi di approccio); • Le emozioni spiacevoli attivano il sistema difensivo quindi comportamenti di evitamento o di fuga, (basti pensare a una minaccia o a un pericolo). • L’unica eccezione in questo ambito è costituita dalla rabbia: è l’unica emozione spiacevole associata a comportamenti di approccio (i comportamenti di approccio si manifestano in termini di attacco: in questo senso c’è l’avvicinamento allo stimolo che evoca rabbia). Esistono dei database internazionali standardizzati che contengono stimoli di diverse modalità sensoriali a ciascuno dei quali viene associato un valore valenza e di arousal dell’emozione. Ad esempio, nello studio sperimentale delle emozioni mediante immagini, si utilizza un sistema la cui sigla è IAPS (l’autore è lo stesso Lange della teoria bifasica dell’emozione) e qualsiasi ricercatore può attingere a questo database per utilizzare delle immagini, i cui parametri di valenza e di arousal sono stati già definiti sulla base di un campione normativo. COMPRENSIONE DELLE EMOZIONI IN SOGGETTI CEREBROLESI: l’abilità di comprensione delle emozioni in soggetti cerebrolesi. Alcune lesioni cerebrali possono provocare dei deficit di comprensione e/o di espressione delle emozioni. In letteratura si suggerisce la specializzazione dell’emisfero dx nel processo comprensione delle emozioni: alcuni studi che hanno direttamente confrontato cerebrolesi dx e sx, ai quali hanno presentato immagini emotive, hanno osservato che soltanto i pz con le lesioni dell’emisfero dx mostravano degli errori di identificazione delle facce allegre, oltre che una difficoltà a distinguere fra emozioni di valenza diversa (tendevano a confondere la valenza positiva con quella negativa). Al contrario cerebrolesi sx e controlli non mostravano le stesse difficoltà nella discriminazione delle emozioni. Questo primo studio indica, a livello corticale, una possibile selettività dell’emisfero dx, quindi di un corretto riconoscimento delle emozioni (quanto meno rispetto alle facce). È stata riscontrata una dissociazione fra l’abilità di riconoscimento dei volti e delle emozioni facciali: è particolarmente evidente in soggetti con prosopoagnosia (persone che non distinguono l’identità dei volti) = c’è stato uno studio che ha impiegato tecniche di stimolazione elettrica della attività cerebrale e i risultati dimostrano che la stimolazione induceva dei disturbi di prosopoagnosia, quindi la difficoltà nell’identificazione del volto, soltanto a seguito di stimolazioni delle regioni parieto-occipitali. Al contrario il riconoscimento delle emozioni facciali era compromesso soltanto a seguito di stimolazioni del giro-temporale. Alcuni studi replicati dimostrano effettivamente una possibile dissociazione anche a livello neurofisiologico fra questi 2 stadi di elaborazione delle emozioni. ESPRESSIONE DELLE EMOZIONI l’interesse della neuropsicologia verso le espressioni non verbali delle emozioni (espressione non verbale è tutto ciò che ha a che fare con espressione della mimica facciale o con la rilevazione di indici fisiologici, anche l’espressione del tono della voce) è verso tutto ciò che NON è strettamente riferito ai contenuti del linguaggio verbale e deriva dal fatto che le espressioni non verbali sono le più rapide, quelle di carattere automatico e regolate da programmi biologici caratteristici della specie umana. Alcuni pattern di risposta emotivi sembrano addirittura essere di carattere innato. James (1884) e Lange (1885) furono 2 autori che già nel 19° secolo identificarono un’associazione importante fra il vissuto emotivo e l’espressione corporea delle emozioni: raggiunsero le stesse conclusioni a distanza di un anno l’uno dall’altro, per cui spesso le loro assunzioni vengono presentate in unico modello detto di James -Lange. Entrambi gli autori definirono il vissuto emotivo come la presa di coscienza da parte dell’individuo di variazioni corporee che si manifestano in situazioni specifiche = l’espressione corporea dell’emozione precede il suo riconoscimento, la sua identificazione a un livello cognitivo superiore: ritengono che sia la variazione corporea dell’emozione, associata all’esperienza emotiva, a determinare il successivo vissuto oggettivo dell’emozione stessa. Nel corso delle esperienze emotive, l’attivazione del sistema nervoso simpatico e p a r a s i m p a t i c o produce delle variazioni quali la vasocostrizione e la vasodilatazione che a livello esteriore identificano con pallore o rossore della cute, o l’accelerazione o decelerazione del battito cardiaco e del ritmo respiratorio, cosi come la variazione del diametro della pupilla e della sudorazione cutanea. La teoria periferica di James-Lange: sostiene che la percezione di pattern di particolari combinazioni delle variazioni autonomiche, quindi fisiologiche, è responsabile del vissuto soggettivo di una particolare emozione. Queste conclusioni vennero supportate da uno studio di Hohmann molto successivo (del 1966) in cui vennero coinvolti dei pazienti con lesioni midollari che compromettevano i feedback viscerali, quindi le sensazioni interocettive: l’intensità soggettiva del vissuto emotivo in questi pazienti era notevolmente ridotta e alcuni di loro riportarono delle descrizioni di sensazioni vissute come se stessero sperimentando delle emozioni. Ciò che conclude questo autore è che i mancati feedback dalla periferia, quindi il mancato riconoscimento di variazioni autonomiche associato a stato emotivo, comprometteva anche il vissuto associata all’esperienza stessa, a tal punto che i pz riferivano una sensazione di come se. Altri autori del secolo scorso criticarono questa teoria: Cannon (1927) e Bard (1928) – Cannon è posto in antitesi di James-Lange. Le critiche alla teoria periferica delle emozioni si basano su 4 osservazioni: 1. la differenziazione delle risposte viscerali non è tale da giustificare la presenza di una grande varietà di vissuti emozionali: un essere umano è capace di riportare una varietà di vissuti emotivi in misura decisamente > rispetto alla variabilità che è possibile riscontrare nelle risposte autonomiche associate al vissuto emotivo stesso; 2. le reazioni viscerali sono lente, secondo questi autori fin troppo lente per giustificare la produzione di sensazioni soggettive negli stati emotivi, che invece possono essere abbastanza rapide soprattutto quando si tratta di emozioni ad alto impatto; 3. i visceri possono essere separati dal SNC (sistema nervoso centrale) senza che questo comporti i cambiamenti nell’espressione delle emozioni (in realtà è stato dimostrato che la separazione delle risposte autonomiche compromette l’esperienza delle emozioni, però questi autori citano degli studi nei quali invece la separazione dei visceri dal sistema centrale non comporta cambiamenti nella capacità di esprimere emozioni); 4. iniezione di sostanze come epinefrine le possono produrre stimolazioni a livello viscerale, ma non generano delle esperienze soggettive di tipo emozionale (questo sarebbe visto come un dato a favore di una presunta indipendenza della periferia dal sistema dell’elaborazione centrale rispetto l’esperienza delle emozioni). In seguito, altri autori tentarono di risolvere il dibattito in letteratura, concludendo che le risposte autonomiche, come ad esempio il riflesso psicogalvanico, rappresentino un indicatore generico di attivazione, ma che non sia possibile associare questo a un tipo particolare di emozione. Alcuni autori nel 1962 (Schachter e Singer) descrissero le emozioni particolari come uno stato di attivazione indifferenziato che viene poi vissuto come una specifica emozione, ma soltanto dopo che gli eventi esterni vengono interpretati nel loro significato cognitivo (ci sarebbe un predominio delle funzioni cognitive nel riconoscimento dei vissuti emozionali indipendentemente dal tipo di attivazione che è indifferenziato e non consentirebbe una discriminazione). Rispetto alle connessioni fra il vissuto emotivo e manifestazione autonomica del vissuto stesso è importante ricordare Damasio, che più recentemente definì le emozioni come dei marcatori somatici i quali influenzerebbero le nostre decisioni sociali anche mediante l’intervento di risposte anticipatorie (mediante di gambling task è stato dimostrato come di solito le persone inizino a sviluppare una risposta anticipatoria rilevabile mediante complesso psicogalvanico, che precede assunzione di una decisione rischiosa: secondo Damasio questo aiuterebbe l’essere umano a prevenire delle decisioni rischiose a favore invece di decisioni più sicure e vantaggiose). Un altro autore di rilievo nel ambito dello studio delle emozioni fu Ekman 1983: la mancata identificazione di specifiche risposte autonomiche in associazione a particolari emozioni sarebbe dovuta parzialmente alla scarsità di rilevazioni e di emozioni indagate = secondo questo autore c’erano dei limiti metodologici ai precedenti studi che non consentivano di cogliere associazioni fra il vissuto emozionale e l’espressione autonomica del vissuto stesso (imputa il problema a pochi indici di rilevazione fisiologiche impiegati e all’utilizzo di emozioni miste generiche e non selettive) L’autore sostiene che l’induzione sperimentale di specifiche emozioni (non miste), consentirebbe di osservare che il battito cardiaco aumenta in risposta a emozioni differenti, ma lo fa in maniera distinta in base al tipo di valenza dell’emozione: quindi la frequenza cardiaca aumenta di più per la rabbia che non per l’allegria, e così la temperatura cutanea viene modulata più dalla rabbia che non dall’allegria. La temperatura cutanea è un indice indiretto del livello di vasodilatazione e vasocostrizione periferico: una > vasodilatazione consentirà un > flusso di sangue in periferia, di conseguenza aumenterà la temperatura cutanea superficiale rilevata. Al contrario la vasocostrizione si associa a ridotta temperatura cutanea (questo indice non va confuso con la temperatura corporea, poiché quello è un indice di regolazione talamica diverso dalla temperatura superficiale). Inoltre, Ekman osservò che nell’ambito delle emozioni a valenza negativa, la frequenza cardiaca rispondeva diversamente in base a specifiche emozioni e quindi, diversamente dalla rabbia e dalla paura, che sono fortemente attivanti, il disgusto si associa a una decelerazione cardiaca: il disgusto, è una delle emozioni che si associano a diversi livelli di arousal presentando una elevata valenza spiacevole. Un esempio di immagini utilizzati nell’ambito dello studio sperimentale delle emozioni, immagini di carattere disgustoso, sono ad esempio immagini che ritraggano del vomito o delle feci, e così via. Queste immagini sono tipicamente molto negative da un punto di vista di valenza e riscontrano bassi punteggi su arousal di attivazione. EMISFERO DX E CONDUTTANZA CUTANEA uno studio (Heilman et al. 1978) coinvolse dei pazienti con lesioni parietali dx e osservò che non presentavano il tipico incremento di conduttanza cutanea dopo l’applicazione di stimoli dolorosi. Nel 1982 Zoccolotti et al, confermò l’assenza di variazione di conduttanza cutanea a seguito della presentazione di stimoli emotigeni, sempre in pazienti con lesioni dx. Questi autori osservarono anche, che questa incapacità autonomica NON si associava a una compromissione della valutazione cognitiva e percettiva degli stimoli: la mancata espressione autonomica di un’emozione non determina una compromissione a livello della valutazione cognitiva degli eventi stessi. Le lesioni dx sarebbero associate alla compromissione della produzione di risposte autonomiche a stimoli emotigeni, probabilmente per via della disconnessione tra alcune aree dell’emisfero dx e il sistema limbico (si suggerisce il coinvolgimento dell’amigdala nella produzione di risposte autonomiche delle quali la conduttanza cutanea è un tipico esempio). EMOZIONI E CONDUTTANZA CUTANEA oggi si tende a considerare l’attività di conduttanza cutanea come un indice di attivazione psicofisiologico individuale, che risulta essere particolarmente utile nello studio dei correlati psicofisiologici dello stato emozionale. Diverse ricerche più recenti hanno fatto di questo indice un parametro utile interessante nella d i s c r i m i n a z i o n e di alcune condizioni emotive anche di interesse clinico, e non necessariamente in presenza di lesioni cerebrali: nei disturbi e nelle personalità di carattere fobico è stato osservato un livello di conduttanza cutanea più intenso del normale (sia in condizioni di riposo che in presenza di stimolazione). Nelle personalità fobiche si riscontra un ritardo nel processo di abitazione: un soggetto sano solitamente presenta un fenomeno di abituazione alla presentazione di immagine avversiva, per cui l’immagine avversiva che inizialmente sarà molto attivante, tenderà a esserlo sempre meno con l’aumentare della frequenza di presentazione dello stimolo stesso. Questo fenomeno di abituazione mancherebbe invece nelle personalità fobiche e questo spiegherebbe una certa disposizione anche allo sviluppo di fobie specifiche. vengono definiti S1 o S2 (dove S sta per stimolo) o stimolo chiu (s1) e stimolo target (s2). S’intende per chiu un’indicazione e per target l’evento che indica il via a un’azione. Nei paradigmi di neuroscienze cognitive l’S2 (target) potrebbe coincidere con un’immagine rispetto alla quale il soggetto dovrà esprimere una risposta o premere un tasto su una tastiera più velocemente possibile. L’ S1 (chiu) segnalerà l’inizio della fase di p r e p a r a z i o n e . Fra questi 2 eventi (S1 ed S2) sull’area centrale dello scalpo si rileverà un’attività di segno negativo che cresce progressivamente sino all’avvicendarsi di S2. Ci sono varie caratteristiche informative o meno di 2 stimoli: il primo stimolo chiu potrà essere informativo o meno di ciò che avverrà dopo; potrà essere congruente o non congruente rispetto al contenuto del successivo stimolo target; può variare inoltre la distanza temporale fra i 2. Ci sono varie caratteristiche che in elettrofisiologia vengono descritte molto bene. Ciò c h e importa sapere in questo contesto è che la CNV rappresenta un’onda di aspettativa e di preparazione allo stimolo target. Nelle fasi più tardive (fasi più prossime la comparsa di S2) è probabile che questa componente rifletta anche la preparazione motoria delle aree premotorie centrali, dove viene rilevato questo indice. C’è accordo in letteratura nel definire sicuramente la prima parte della CNV come un’onda di aspettative di attesa di ciò che verrà. Negli studi di neuropsicologia sulle emozioni è stato osservato che una ridotta FC si associa a un aumento di potenza e di ampiezza di questo segnale elettrocorticale, il che indica una > eccitabilità elettrocorticale, una > disponibilità a elaborare l’informazione che sta per giungere, confermando il modello dei Lacey (che attribuiscono ai valori cardiovascolari, e agli indici cardiovascolari, un’importante funzione di facilitazione o di inibizione neuro funzionale). ASIMMETRIA ELETTROCORTICALE NELLE AREE FRONTALI Un altro indice cerebrale elettrocorticale di stati emozionali è l’ asimmetria delle aree frontali: osservazioni proposte per la prima volta da Davidson 1998 = osservò che l’iperattività delle cortecce frontali sx rilevata mediante elettroencefalografia, rappresenta un marker biologico associato ai disturbi dell’umore e in particolar modo alla depressione. Davidson per primo confrontò l’attività elettrocorticale di pazienti depressi e di controllo e osservò che i primi mostravano l’asimmetria funzionale frontale = un pattern di attività in cui l’attivazione era spostata sull’emisfero dx rispetto ai pazienti di controllo. Dopo, molti altri studi sono stati prodotti utilizzando questo stesso indice confermando questo risultato in associazione a disturbi di tipo depressivo. Oggi non è ancora chiaro se questo indice rappresenti una predisposizione al disturbo depressivo, una > vulnerabilità o un’espressione del disturbo conclamato: sono stati svolti degli studi su figli piccoli di donne con depressione cronica, constatando che questi bambini presentavano già un’asimmetria elettrocorticale frontale, quindi un’iperattività di cortecce frontali dx (alcuni interpretano il dato come segno di una > vulnerabilità genetica alla depressione dei figli di donne depresse, mentre altri autori interpretano il dato in funzione di uno stile relazionale di attaccamento disfunzionale della mamma depressa, anche nelle prime fasi di vita del proprio figlio). Anni fa ho condotto una ricerca su alcuni stalker (persone che avevano già ricevuto delle condanne per comportamenti di stalking, uomini/donne): andammo a studiare questo indice di asimmetria funzionale frontale = osservammo un pattern asimmetrico frontale rispetto a individui di controllo di uguale età e condizioni demografiche e interpretammo i risultati in termini di una > vulnerabilità al rifiuto (o una > sensibilità al rifiuto). Una delle spiegazioni neuropsicologiche che si dà, rispetto a questo risultato elettrocorticale, chiama in causa il ruolo funzionale differenziato delle cortecce frontali sx e dx nella disposizione di approccio all’evitamento: si ritiene che le cortecce frontali dx riflettano maggiormente la disposizione comportamentale di evitamento e una > attività di base in queste aree corticali rifletta anche una > vulnerabilità o sensibilità al rifiuto In quel caso, considerata anche l’interpretazione che si dà del comportamento stalking in termine di relazione di attaccamento alterate, interpretammo il dato come espressione di una > vulnerabilità al rifiuto alla separazione sentimentale come conseguenza di un pattern di personalità neurofisiologico associato a un disturbo dell’attaccamento che effettivamente è stato riscontrato durante altre valutazioni cliniche. L’asimmetria elettroencefalografica nelle aree frontali viene misurata mediante delle analisi sulla potenza delle frequenze alpha (indice inverso di attivazione). F requenze alpha = bande di frequenze che vanno dagli 8 ai 13 Hz (come il correlato della veglia rilassata): si o s s e r v a un aumento di potenza di queste frequenze quando i soggetti stanno a occhi chiusi o sono particolarmente rilassati mentre le frequenze beta sono indice di attività corticale. Per l’indice messo appunto da Davidson, si utilizza (mediante un calcolo aritmetico) la potenza delle frequenze alpha come indice inverso di attivazione: una > potenza di alpha indicherà una ridotta attività corticale. Nei soggetti depressi si osserva una > potenza delle frequenze alpha sugli emisferi sx mentre ci sarà una ridotta attività alpha sull’emisfero dx, che di contro è associata a una > attività di bande di frequenze beta. DOCUMENTARIO EMOZIONI una puntata di superquark dedicata al cervello. Vengono introdotti nuovi argomenti sulle emozioni e ripresi alcuni concetti discussi nelle lezioni precedenti: il rapporto fra l’elaborazione cerebrale e stati emozionali. MODULO 5. DISTURBI DEL LINGUAGGIO ORALE E SCRITTO IL LINGUAGGIO E I PRIMI MODELLI DI AFASIA (disturbi del linguaggio). COMUNICAZIONE VERBALE può essere descritta come un sistema che permette di comunicare le idee attraverso la loro codifica in segnali. Il linguaggio orale va distinto da quello scritto: ci sono anche strutture cerebrali diverse sottostanti queste funzioni. Il linguaggio scritto è acquisizione recente da un punto di vista evoluzionistico e deve essere appreso formalmente in modo differente rispetto al linguaggio orale = la capacità di apprendere il linguaggio orale è una capacità innata. C’è una specializzazione emisferica sx nelle funzioni linguistiche. COSA NON E’ L’AFAS IA l’afasia può essere definita come un disturbo dei sistemi preposti alla comprensione o alla formulazione del linguaggio, a seguito di un danno cerebrale. Questa prima definizione indica che l’afasia non è un disturbo di tipo percettivo o motorio = non si può parlare di afasia in presenza di lesioni alle aree sensoriali uditive o al sistema motorio. L’approccio odierno allo studio del linguaggio enfatizza il ruolo ricoperto dalle connessioni fra aree cerebrali nel processamento della funzione: approccio moderno allo studio del cervello, diversamente dai primi approcci degli associazionisti e dei diagrammisti che tendevano a localizzare una specifica funzione cognitiva in una ristretta area cerebrale. BROCA il primo e il più importante studioso dei disturbi del linguaggio fu Pierre Paul Broca. Con Broca nel 1861 ha inizio quella che viene definita neuropsicologia scientifica: in quell’anno Broca per la prima volta descrive il caso di un paziente che in assenza di deficit di comprensione, riesce ad articolare delle parole, in seguito a una lesione cerebrale: Broca per primo individua una connessione anatomo clinica rispetto alla funzione linguistica. Broca studiò il linguaggio in maniera sistematica e viene ancora oggi riconosciuto come il primo esponente di questa disciplina: l’afasiologia. Il paziente di Broca articolava una parola che è tan – tan (da cui prese il soprannome il paziente stesso). Ciò che Broca dirà del suo paziente è: ha perso un tipo particolare di memoria, che non è la memoria delle parole, ma la memoria dei movimenti necessari per articolare le parole. Broca definirà questo disturbo come afasia motoria, incapacità di produrre linguaggio. a sx l’immagine del cervello leso del pz di Broca. BROCA: PASSATO E PRESENTE = Passato: piede della terza circonvoluzione frontale. Come è cambiata la afasia di Broca nel tempo = come è evoluto il concetto di afasia di Broca a partire dal suo paziente = dall’800 a oggi: sopra, le immagini reali di 2 pazienti studiati da Broca sui quali lo stesso basò le proprie assunzioni. La lesione di questi pazienti risiedeva nella terza circonvoluzione frontale (come è evidente dalle immagini dell’emisfero di sx). L'area di Broca si trova nel lobo frontale. Sopra come appaiono oggi quei cervelli: l’analisi del cervello del paziente di Broca mediante la TAC e risonanza magnetica strutturale (MRI), dimostra una lesione più estesa e profonda che coinvolge anche i gangli della base e l’insula oltre alla circonvoluzione frontale di cui parlò Broca. (immagini ottenute pochi anni fa da un ricercatore che osservò i cervelli reali, ancora oggi conservati, dei pz di Broca). Ciò che è emerso è che in realtà la lesione era molto più estesa e coinvolgeva altri centri ignorati dalle osservazioni iniziali di Broca. Altra analisi di 2 cervelli di pazienti di Broca mediante risonanza magnetica: emerse la lesione anche della sostanza bianca fronto-parietale: nuovamente lesioni più estese rispetto a quello osservate da Broca ma soprattutto lesioni che interessano altre aree cerebrali. Rappresentazione dell’area di Broca ai suoi tempi e oggi: a sx l’area descritta da Broca (un’area piuttosto estesa dell’emisfero sx); a dx l’area di Broca come viene intesa oggi =pur mantenendo la simile localizzazione è in realtà un’area più ristretta. WERNICKE Il secondo autore in ordine temporale che più di tutti diede un contributo allo studio dell’afasia fu Carl Wernicke: nel 1874 descrive l’afasia sensoriale = causata da lesioni alla parte posteriore della prima circonvoluzione temporale sx. Wernicke per primo fornì una sorta di modello connessionistico sulla formazione di funzioni complesse mediante il collegamento di aree cerebrale diverse tramite delle fibre nervose. Propose un vero e proprio diagramma del linguaggio, secondo cui l’area posteriore quella temporale deputata alla comprensione da lui descritta, era collegata all’area anteriore (frontale) deputata alla produzione (parliamo dell’area di Broca) mediante il fascicolo arcuato. La fine dell’800 = periodo in cui si diffonde l’approccio dei diagrammisti = coloro che tentano di sviluppare dei modelli di funzionamento del cervello sulla base di rigide correlazioni anatomo cliniche: Wernicke si inserisce in questa corrente di pensiero. WERNICKE: DIAGRAMMA DEL LINGUAGGIO. Osserviamo più da vicino il diagramma del linguaggio di Wernicke. Sulla base delle proprie scoperte e di quelle di Broca, Wernicke ipotizza 2 centri del linguaggio e 3 tipi di afasia. dei modelli precedenti: nella categoria motoria Lurija distingue 2 ulteriori forme di afasia: 1. afasia motoria afferente o afasia cinestesica: associata a lesioni post-rolandiche, dovute a compromissione del feedback sensoriale che controlla i movimenti articolatori: si associa all’incapacità a pronunciare i suoni del linguaggio; 2. afasia motoria efferente o afasia cinetica: associata a lesioni dell’area di Broca che impedisce al sistema fonatorio di passare fluidamente da una posizione articolatoria a un’altra: l’eloquio risulterà non fluido. Nell’ambito dell’afasia sensoriale Lurija distingue 2 sottocomponenti: • afasia sensoriale acustica: associata a lesione del giro temporale postero-superiore, caratterizzata da perdita dell’udito fonemico (incapacità a distinguere i suoni del linguaggio); • afasia sensoriale amnestica: associata a lesione dei giri temporale medio e inferiore: perdita del valore semantico della parola. In aggiunta Lurija descrive altri 2 tipi di afasia (afasia semantica e afasia dinamica): • afasia dinamica : incapacità a iniziare spontaneamente il discorso e si associa alle lesioni prefrontali. Abbiamo già osservato come delle lesioni frontali si associano a deficit di tipo attentivo che comportano una abulia e inerzia generalizzata: Lurija intuì questo particolare aspetto sintomatologico della lesione prefrontale, che si associa all’espressione linguistica e la denomina afasia dinamica (incapacità di iniziare spontaneamente un discorso). Questi pz però sono capaci di esprimersi su richiesta; • afasia di tipo semantico: associata a lesioni delle aree posteriori (in particolare lesioni parieto- occipitali): si manifesta con incapacità a cogliere le relazioni fra i concetti o a produrre ed esprimere relazioni fra concetti. Diversamente dai classici associazionisti di cui abbiamo parlato in precedenza, Lurija non considera la possibilità della disconnessione fra i centri: ogni tipo di afasia identificata da Lurija si associa alla lesione di una specifica area sensoriale, e non contempla la possibilità di un’ interruzione dei fasci di connessione fra i centri di linguaggio. AFASIA E PSICOLINGUISTICA AFASIA: nel 1965, + o - contemporaneamente a Lurija, un altro autore (Geshwind) definì una nuova sindrome nell’ambito dei disturbi del linguaggio: sindrome da isolamento dalle aree del linguaggio = si associa a lesioni del lobo parietale posteriore sx (le aree classiche del linguaggio - di Broca e di Wernicke - restano intatte, ma c’è un deficit a livello della comprensione fra queste aree e le aree associative della corteccia parietale) = il disturbo si associa a deficit di comprensione e di denominazione degli oggetti (presentati in qualsiasi modalità sensoriale): uno dei ruoli della corteccia parietale posteriore è l’integrazione sensoriale. L’intuizione di Geshwind fu quella di introdurre per la prima volta una definizione, che viene adottata anche nella afasiologia moderna, utilizzata per indicare le principali forme di afasia: definì una classe di afasie fluenti e una classe di afasie non fluenti. afasie fluenti = quelle che si associano a lesioni delle aree più posteriori: in questi casi l’eloquio è abbondante, scorrevole, ma privo di contenuto informativo e ci sono possibili deficit di comprensione. Vengono definite come fluenti le afasie di Wernicke, l’afasia di conduzione, la transcorticale sensoriale; afasie non fluenti = si associano a lesioni delle aree più anteriori del cervello: l’eloquio è molto ridotto (si pensi al pz tan-tan di Broca), ci sono delle difficoltà ad articolare il linguaggio orale, mentre la comprensione del linguaggio è conservata. Afasie non fluenti sono tipicamente di Broca, la transcorticale motoria e l’afasia globale. DAL DIAGRAMMISMO AL COGNITIVISMO. Nell’ambito dello studio dei disturbi del linguaggio, il passaggio dal diagrammismo al cognitivismo si è verificato con il passaggio dai modelli tradizionali di Broca e Wernicke, ai modelli provenienti dalla psicolinguistica (disciplina che si occupa anche dello studio del funzionamento normale del linguaggio): si passa da un approccio basato esclusivamente sulle osservazioni cliniche e su correlazioni anatomo-cliniche all’integrazione con le ricerche provenienti dalla psicologia cognitiva e dal funzionamento normale del linguaggio. PSICOLINGUISTICA. Le principali componenti linguistiche sono: la fonologia, la sintassi e la semantica. fonologia: lo studio dei suoni di una certa lingua; sintassi: regole che sottendono la corretta combinazione delle parole all’interno delle frasi; semantica: i significati espressi e veicolati dalle parole (la conoscenza del significato delle parole). La frase è l’unità fondamentale del sistema linguistico, all’interno della quale vengono combinate le parole. Si definisce come lessico l’insieme delle parole di una certa lingua. Si definisce lessico mentale le parole conosciute da una certa persona, il suo vocabolario. All’interno della parola si identificano 2 unità: i morfemi e i fonemi. Con morfemi si intendono le più piccole unità di una parola dotate di un significato. Se consideriamo la parola libro, abbiamo 2 morfemi che, per le persone madre lingua italiana, indicano 2 concetti differenti (un primo morfema è libr e indica un oggetto costituito da pagine, qualcosa associato alla lettura o alla scrittura = libreria, libraio, libro,ecce cc. Il secondo morfema è la vocale o che indica la singolarità dell’elemento, una singola unità). La parola a sua volta però può anche essere scomposta in unità più piccole che sono i fonemi. I fenomeni non hanno un significato: l potrebbe essere il primo fonema della parola libro. La psicolinguistica studia i moduli e i sottocomponenti indipendenti, associati all’elaborazioni dell’informazione linguistica. La psicolinguistica tende a scomporre le funzioni cognitive complesse quali il linguaggio scritto, la lettura, il linguaggio orale e così via, in sottocomponenti funzionali e indipendenti. L’approccio psicolinguistico all’afasia consente di identificare i disturbi delle varie componenti del sistema linguistico: il livello di analisi inizia a diventare più complesso rispetto a quello dei diagrammisti. DISTURB I FONOLOGICI NELL’AFASIA. L’afasia può essere scomposta in disturbi di diversi settori dell’elaborazione di informazioni. O c c o r r e distinguere la fonetica dalla fonologia. La fonetica: studia il livello articolatorio e le caratteristiche acustiche dei suoni del parlante. Aspetti molto particolari del suono quali l’aspirazione e il tratto di sonorità di una consonante vengono elaborati dal sistema uditivo centrale. Analisi acustico-fonetica: consente l’attivazione di moduli atti a rilevare gli aspetti articolatorio-percettivi dei suoni; la fonologia: studia le regole di combinazione tra fonemi = per un soggetto madrelingua la pronuncia particolare di una consonante aiuta già a predire la parte successiva della frase. Questo per specifici aspetti legati al suono del fonema come il tipo di aspirazione (nella nostra lingua la lettera c assume un suono diverso in base al fatto che venga seguita da una vocale o da H). Sia sul versante della produzione sia sul versante della comprensione si possono riscontrare dei disturbi sia a livello fonetico sia a livello fonemico di elaborazione. Disturbi del livello fonetico. Affinché si possa considerare un disturbo come un puro disturbo di livello fonetico, è necessario escludere altre condizioni che prendono il nome di disartria: sono tutti quei disturbi a carico dell’apparato muscolo-scheletrico che indicano una difficoltà reale a carico dell’apparato periferico (o può accadere che delle infiammazioni dei nervi cranici comportino delle difficoltà ad articolare le parole). Tutto ciò esclude la presenza di un disturbo del livello fonetico che compromette delle specifiche funzioni neurocognitive. Si definisce disturbo fonetico: l’uso errato della muscolatura fono articolatoria, indagato mediante analisi del movimento della lingua, della mandibola e così via. Questi disturbi possono essere sottili e una loro rilevazione quantitativa oltre che qualitativa, richiede utilizzo di strumentazione apposita (ci sono strumenti che possono rilevare in modo scientifico il problema). Questi disturbi sono tipici nell’afasia di Broca, che è un’afasia che compromette la produzione del linguaggio. Disturbi del livello fonemico. Negli afasici i disturbi fonemici più frequenti sono caratterizzati da: omissioni, ripetizioni o aggiunte di fonemi all’interno della parola (in questo caso si parla di parafasie fonemiche). L’utilizzo eccessivo di parafasie fonemiche all’interno della stessa parola ha come conseguenza l’impossibilità di comprendere la parola stessa: le parole incomprensibili vengono definite neologismi. Si parla di gergo neologistico o gergo fonemico quando un discorso contiene una quantità eccessiva di neologismi (a quel punto è compromessa la comprensione di tutto il discorso, da parte dell’ascoltatore). In termini di sistema di elaborazione delle informazioni, il disturbo fonemico viene localizzato a livello della conversione della rappresentazione dei suoni delle parole nell a forma appropriata per l’articolazione: si sposta sul versante esecutivo (e non di comprensione). Spesso i pz sono consapevoli del disturbo fonemico. Questo è rilevabile dal punto di vista comportamentale, con la conduite d’approche fonemica: i pz con afasia di Broca tentano di ripetere più volte una certa parola, fino al raggiungimento della forma esatta quasi come se stessero balbettando (diventano consapevoli dell’errata esecuzione della parola e cercano di ripeterla avvicinandosi man mano alla forma esatta). Un valido sistema di riferimento è il modello a tre vie secondo cui lo stimolo in entrata può seguire: • via semantica = dal lessico fonologico di input passa al sistema semantico, poi al lessico fonologico di output, quindi al buffer fonologico di output e all’articolazione finale della parola; • via lessicale non semantica = è una via diretta; • via sub lessicale = dall’analisi uditiva dello stimolo porta direttamente al buffer fonemico. Se la compromissione è localizzata a livello dell’input, il deficit di ripetizione non si accompagna a disturbi della denominazione o della lettura ad alta voce. Se la compromissione è a livello del buffer fonemico ( s’intende con buffer fonemico una sorta di magazzino a breve termine che riceve info in uscita dal lessico fonologico) allora il disturbo si manifesterà in tutte le prove che richiedono una pronuncia ad alta voce e non solo nella ripetizione. Gli aspetti fonetici e fonologici del linguaggio sembrerebbero essere processati, da un punto di vista anatomico neurofisiologico, dalle aree perisilviane dell’emisfero sx: torna la dominanza sx nella funzione linguistica. DISTURBI DEL LIVELLO SEMANTICO-LESSICALE. Anche per i disturbi del livello semantico-lessicale può presentarsi una compromissione sia sul versante della produzione sia della comprensione. Nell’ambito della produzione, i sintomi si manifestano come deficit della denominazione e anomie: • deficit di denominazione: incapacità di denominare il nome corretto di oggetti presentati in diverse modalità sensoriali. A volte possono essere osservate delle dissociazioni fra modalità sensoriali, quindi potrebbe esserci (raro) un deficit di denominazione soltanto visivo o soltanto tattile e così via; • anomia: incapacità di produrre una parola in un discorso spontaneo ( non avviene nel deficit di denominazione). Ciò che si osserva in questi casi è il fenomeno della parola sulla punta della lingua (capita a ciascuno di noi, la differenza è che il soggetto normale riesce ad arrivare al ricordo della pronuncia della parola di riferimento mentre il pz con anomia non è in grado di pronunciare correttamente la parola). Ciò a cui ricorre il pz afasico è l a circonlocuzione: una descrizione alla larga della parola nel tentativo di sostituire il termine di riferimento Nell’ambito della comprensione, il riconoscimento dei disturbi è più difficile rispetto a quelli della produzione; è necessario che l’esaminatore ricorra a test specifici che consentano di discriminare all’interno dei disturbi di comprensione. Una possibile valutazione consiste nel richiedere al pz di indicare, fra una lista di oggetti, quello che è stato denominato dall’esaminatore. Qualora il pz dovesse fallire nel test l e sue difficoltà potrebbero essere di 2 ordini: potrebbero essere attribuibili a un disturbo della discriminazione fonemica o a un disturbo della discriminazione semantica. C’è una modalità che si utilizza per distinguere queste 2 sottospecie di disturbi: consiste nel chiedere al pz di indicare fra la lista di oggetti quelli che sono fonologicamente o semanticamente simili alla parola denominata dall’esaminatore: nel caso della congruenza semantica se l’esaminatore ha indicato la parola mela è probabile che il pz individui l’oggetto banana all’interno degli stimoli presentati; se si tratta di somiglianza fonologica si riferisce ad aspetti del suono (similarità sonora con le parole). Ci sono 2 fattori che compromettono i disturbi semantico-lessicali (IMPORTANTE): la frequenza delle parole e le caratteristiche percettive = alcuni studi hanno osservato che tanto più raro sarà il ricorso del pz a una determinata parola tanto più difficile risulterà la rievocazione della stessa: parole usate raramente nel lessico del pz vengono rievocate con più difficoltà. C’è anche una difficoltà legata alle caratteristiche percettive delle parole: è stato osservato che le figure più degradate da un punto di vista percettivo compromettono maggiormente il deficit anomico. INTERPRETAZIONE DEI DISTURBI DEL LIVELLO SEMANTICO-LESSICALE. Ci sono varie interpretazioni rispetto ai disturbi del livello semantico- lessicale. Alcuni autori ( Gainotti 1983 in particolar modo) sostengono che un disturbo semantico, puramente semantico, sia definibile soltanto sulla base di deficit che coinvolgono entrambi i versanti (produzione e comprensione): se si verificano queste condizioni si potrà parlare di un disturbo di organizzazione centrale. Se si dovessero riscontrare deficit selettivi sul solo versante di produzione o sul solo versante della comprensione avremmo dei disturbi di carattere periferico e non centrale. Rispetto ai correlati neurali di queste funzioni c’è ancora del dibattito in letteratura: si ritiene che l’elaborazione semantica si associ a un probabile coinvolgimento della corteccia frontale sx, del giro del cingolo, del giro angolare e temporale medio. Il riconoscimento di un disturbo semantico di tipo centrale (che compromette entrambi versanti produzione e comprensione) richiede un ulteriore distinzione: il disturbo potrà essere di accesso al magazzino della memoria semantica o legato alla perdita delle rappresentazioni contenuta nel magazzino. Ci sono diversi criteri che consentono di distinguere fra questi due diversi livelli di elaborazione di informazione. AFASIA E PSICOLINGUISTICA (PART. 2) DISTURBI DEL LIVELLO SEMANTICO-LESSICALE. Il disturbo semantico centrale richiede un’u l t e r i o r e distinzione: il disturbo può essere dovuto a un problema di accesso (input al magazzino della memoria semantica) o un disturbo legato alla perdita della rappresentazione dell’oggetto contenuta nel magazzino semantico. La distinzione fra questi 2 livelli non è semplice: ci sono alcuni criteri + o - validi che possono orientare nella distinzione = il criterio della coerenza della prestazione, quello della frequenza lessicale, l’effetto dei suggerimenti semantici e la velocità di presentazione degli stimoli. CRITERIO DELLA COERENZA DELLA PRESTAZIONE se è vera la perdita di rappresentazione dell’informazione nel magazzino semantico, le prestazioni riguardanti il medesimo oggetto devono essere sempre compromesse: un’eventuale incoerenza della prestazione sarebbe indice di una difficoltà di input al magazzino. Se è compromessa la rappresentazione dell’immagine di uno specifico oggetto, il pz dovrà presentare difficoltà di rappresentazione del medesimo oggetto anche attraverso la ripetizione della medesima prova o attraverso prove differenti che valutino lo stesso oggetto. Questo criterio è stato contestato. Oggi si tende a non utilizzarlo in maniera determinante per distinguere il deficit specifico. FREQUENZA LESSICALE si manifesta in presenza di disturbi della rappresentazione nella memoria semantica. Al contrario un difetto nella fase di input non dovrebbe essere suscettibile all’effetto frequenza. FLUENT APHASIA (WERNICKE’S APHASIA). Il linguaggio era scorrevole ma il contenuto non era congruente al contesto e alle domande. Se non si presta attenzione al contenuto del linguaggio sembrano dei soggetti normali, invece il linguaggio pur essendo fluente è privo di contenuto. YOUTUBE: WERNICKE’S APHASIA. Viene chiesto di ripetere delle parole. Lei ripeterà delle parole ma non sono quelle pronunciate dallo sperimentatore. Poi le viene chiesto di fare dei movimenti, dei gesti con la bocca ( e le elenca i gesti da fare). Le ha chiesto più volte di ridere e la pz non riusciva ( ripeteva delle frasi senza senso). Solo alcune volte è riuscita a eseguire il gesto (leccare le labbra, tossire). Il filmato ha dimostrato come un linguaggio fluente si possa associare a un grave deficit di comprensione. AFASIA DI CONDUZIONE. Sintomatologia = Venne descritta anch’essa da Wernicke: deficit selettivo nella ripetizione delle frasi. L’eloquio fluente e ci sono delle parafasie fonemiche. I pz comprendono le frasi e producono a loro volta un linguaggio comprensibile. È un deficit specifico nelle ripetizioni delle frasi. Sede della lesione = prevalentemente nell’area di Brodmann 40 (lobo parietale) con estensione alla sostanza bianca del fascicolo arcuato (il fascicolo arcuato connette le aree di Broca e di Wernicke). AFASIA GLOBALE. Sintomatologia = è la forma più grave di afasia: incapacità a comprendere e produrre linguaggio - è una sintesi di afasia di Broca e di Wernicke. La produzione e la comprensione possono essere molto limitate, se non completamente assenti. È un’afasia non fluente, con linguaggio volontario limitato a poche frasi o parole (si usa una medesima parola per qualsiasi comunicazione). Sono preservati alcuni aspetti del linguaggio automatico (recitare i giorni della settimana o avviare un conteggio). Sede della lesione = quasi in tutta area dell’emisfero sx che sottendono il linguaggio, spesso si associa a embolie che interessano l’arteria cerebrale media di sx (questo spiega grande estensione della lesione). YOUTUBE: TERAPIA LOGOPEDICA CON PZ AFFETTO DA AFASIA GLOBALE. È un pz italiano con afasia globale. È una sessione di terapia. Deve indicare l’oggetto che ascolta. Quando la terapeuta pronuncia dei nomi lo fa scandendo bene la voce e si rivolge con il volto di fronte al pz articolando in maniera evidente le parole. Questo perché addestra questi pz in riabilitazione a prestare attenzione a più modalità di comunicazione del linguaggio (non solo il suono ma anche l’articolazione per aumentare la possibilità di comprendere). La produzione del linguaggio è totalmente compromessa. AFASIA ANOMICA. Sintomatologia = incapacità di denominare gli oggetti o le situazioni. È un deficit che spesso si associa ad altri tipi di afasia, ma è stata osservata anche una forma pura del disturbo anomico, che si manifesta con l’anomia (le capacità di comprensione, di produzione e di ripetizione sono preservate). E’ un deficit selettivo che si manifesta con l’incapacità a denominare oggetti. Sede della lesione = polo temporale sx, o nella porzione anteriore della corteccia temporale sx. S ORDIT A’ VERB ALE PURA. Sintomatologia = deficit di comprensione del linguaggio parlato; la percezione degli stimoli uditivi non verbali è intatta. È un deficit specifico per il linguaggio parlato (comprensione del linguaggio parlato). I l p a z i e n t e s e n t e normalmente l’esaminatore ma non comprende ciò che dice: ascolta una persona che parla una lingua sconosciuta = sente bene ciò che dice ma non comprende il contenuto. Sede della lesione = aree sottocorticali delle vie genicolo-laterali, o temporali sottocorticali. Prevalentemente di interesse sottocorticale. AFASIE SOTTOCORTICALI Sintomatologia = la correlazione anatomo-clinica è un po' complessa: è difficile associare uno specifico sintomo a una specifica lesione sottocorticale. Raramente si sono osservate lesioni talamiche che si associano a un tipo di afasia non fluente, con comprensione e ripetizione nella norma. Sede della lesione = interessa i nuclei ventrali del talamo o i nuclei della base. LINGUAGGIO ED EMISFERO DX C’è una specializzazione emisferica sx del linguaggio: il linguaggio sembra essere quasi totalmente appannaggio dell’emisfero sx. Tuttavia vi sono dei contributi dell’emisfero dx del linguaggio, in particolare questo emisfero partecipa alla comprensione emotiva del linguaggio, o anche alla comprensione degli aspetti più astratti della comunicazione. E infatti i pz con lesioni dx hanno tipicamente difficoltà nella comprensione delle metafore, dell’umorismo, del sarcasmo. È importante poi specificare che le lesioni sx si associano ad afasia sia in destrimani che mancini. Ovvero nei mancini non vi è una lateralità inversa nelle funzioni linguistiche. Sono rari i casi in cui il linguaggio viene processato dall’emisfero dx dei mancini, sono ancora più rari i casi in cui un destrimane presenti una selettività dx per il linguaggio. In questi pochi casi in cui una lesione dx produce un disturbo afasico si parla di afasia crociata, ma in genere sono delle eccezioni che confermano la regola. I DISTURBI DEL LINGUAGGIO SCRITTO. In precedenza abbiamo descritto i disturbi del linguaggio orale, ora invece apriamo un nuovo capitolo i disturbi del linguaggio scritto, che sono di due tipi: ovvero possono essere disturbi della lettura o disturbi della scrittura, vengono chiamati rispettivamente dislessie e disgrafie. Bisogno specificare che la dislessia può essere di tipo evolutiva o di tipo acquisita. La dislessia evolutiva: è quella come indica il nome stesso che si manifesta appunto in età evolutiva e viceversa con dislessia acquisita: s’intende quella dislessia che insorge tipicamente in età adulta in seguito ad una lesione cerebrale. In questa lezione ci soffermeremo in particolar modo su queste seconde forme di dislessia che sono appunto conseguenti una lesione in una specifica area cerebrale. ALESSIA SENZA AGRAFIA. Un disturbo puro di lettura = un disturbo limitato esclusivamente all’abilità di lettura. Questi pz scrivono correttamente, non presentano altre compromissioni cognitive. Sono persone che sanno scrivere ma non sono in grado di leggere ciò hanno scritto. L’alessia senza agrafia viene anche considerata come una sindrome da disconnessione = sindrome che va a ledere delle fibre di collegamento fra centri specifici. In questo caso la lesione è quasi sempre di tipo vascolare e interessa le aree visive sx e le aree dello splenio del corpo calloso (regioni che si occupano di trasmettere l’info visiva fra i due emisferi). Le aree del linguaggio in questi pz sono preservate, non vengono interessate dalla lesione: il pz è incapace di leggere perché le aree della lettura non ricevono l’info visiva. AREE CEREBRALI DELLA LETTURA. Spesso pz con dislessie acquisite presentano comorbilità dei disturbi di scrittura o dei disturbi di linguaggio orale (disturbi afasici). C’è stato un autore, Benson (1979), che ha descritto correlazioni anatomo-clinico nell’ambito della dislessia e ha identificato 3 aree la cui lesione compromette delle abilità di lettura. La classificazione neuroanatomica di Benson distingue: • una dislessia parieto-temporale sx: produce un disturbo nella lettura e scrittura di parole, così come nella comprensione delle parole; • una dislessia occipitale: corrisponde all’alessia senza agrafia, in questo caso la compromissione interessa esclusivamente l’abilità di lettura, poiché il deficit è associato a una mancata trasmissione dell’informazione visiva verso le aree del linguaggio; • una dislessia associata a lesioni frontali: il deficit è di denominazione delle lettere, oltre che di comprensione della sintassi. Per via della aree corticale interessate, questo tipo di dislessia si associa a disturbi afasici (particolarmente di Broca) Talvolta è possibile che la dislessia rientri in un quadro più ampio di disturbi motori di difficoltà comportamentali di carattere motorio associate alla sindrome di abulia, di inerzia generalizzata che si associa lesioni frontali. In quel caso il pz potrebbe manifestare una sorta di inerzia motoria associata più alla scarsa intenzione nell’iniziare un’azione piuttosto che a deficit cognitivi della funzione relativa. Anche nel caso della dislessia cosi come dell’afasia, è importante questa sindrome comportamentale venga esclusa affinché il disturbo possa essere riconosciuto e diagnosticato. LETTURA: MODELLI COGNITIVI. Anche nel caso della lettura sono diversi gli stadi di elaborazione che contribuiscono alla corretta identificazione e lettura di parole. 2 modelli che hanno ricevuto validazioni scientifiche: il primo è la procedura fonologica nella lettura = una via di lettura che consente di tradurre un grafema nel codice fonologico senza dover passare dalle conoscenze lessicali. Si parte da una parola scritta, poi ci sarà un processo di analisi visiva grafemica che permette il riconoscimento delle lettere indipendentemente da caratteristiche quali forma e dimensione (indipendentemente, ad esempio, dal fatto che le lettere siano scritte in maiuscolo o in minuscolo). In seguito, questo livello di analisi consentirà una segmentazione grafemica: le sequenze delle lettere vengono scomposte in grafemi che possono consistere in lettere o combinazioni di lettere che formano un fonema (fonema = unità della parola associata a uno specifico suono). La segmentazione grafemica consentirà successivamente una conversione dello stesso segmento in un corrispondente fonema, quindi un processo di elaborazione che viene definito conversione del segmento grafemico in segmento fonemico. Il segmento fonemico va in seguito assemblato: assemblaggio fonemico vuol dire unire le unità dei fonemi al fine di costituire delle lettere quindi delle parole, le quali entreranno poi nel buffer fonologico (una sorta di memoria di lavoro specifica della produzione orale). La funzione del buffer è proprio quella di mantenere le informazioni attive per un tempo limitato così da renderle disponibili (in questo caso per la successiva produzione orale, se l’esercizio richiede una lettura ad alta voce). La caratteristica di questa via (fonologica) della lettura è quella di tradurre direttamente il grafema in corrispondente fonema. È un tipo di via della lettura alla quale si può ricorrere nella lettura di lingua italiana ( in italiano spesso i grafemi hanno un corrispondente fonema). Nel caso delle scritture ideografiche, come il cinese o il giapponese. In quei casi la parola può essere pronunciata solo dopo che l’ideogramma sia stato riconosciuto (dopo che vi è stato un accesso al lessico). Come sempre ovviamente il punto di partenza è la parola scritta, alla quale seguirà un’analisi visiva grafemica. In questo caso la rappresentazione grafemica entrerà nel lessico ortografico andando a incontrare la corrispondente rappresentazione. Successivamente questa avrà accesso al sistema semantico (anche qui abbiamo un input e una rappresentazione all’interno del magazzino semantico). Il ruolo di questa fase dell’elaborazione è quello di attribuire un significato alla parola: il lessico sarà funzionale al vocabolario del soggetto (c’è un lessico mentale che riflette proprio la coscienza individuale delle parole, u n vocabolario individuale). Il sistema semantico consentirà l’attribuzione del significato alla parola stessa. A quel punto la rappresentazione potrà passare al lessico fonologico di uscita. La rappresentazione fonologica poi entrerà nel buffer fonologico. Quanto appena descritto coincide con elaborazione lessicale semantica: viene definita elaborazione lessicale semantica poiché c’è un passaggio quasi immediato al sistema semantico, ancor prima che la rappresentazione non raggiunga il lessico d’uscita. Però sono stati descritti dei particolari tipi di dislessia in cui la compromissione interessava una via (in seguito descritta come non semantica): doppie associazioni che hanno osservato pz nei quali era preservata l’abilità di lettura, ma non comprendevano ciò che avevano appena letto. Erano in grado di leggere senza comprendere. Questo ha consentito di individuare una possibile variante a questa procedura lessicale: il sistema di elaborazione lessicale non semantica = la rappresentazione dal lessico ortografico di entrata passerà direttamente al lessico fonologico di uscita, salterà il sistema semantico intermedio, arrivando correttamente a una produzione orale finale. Ma ciò che verrà meno sarà la comprensione di ciò che è stato appena letto. Warrington e Shallice (1980) distinsero 2 grandi famiglie di dislessie (all’interno di ciascuna ci sono delle forme specifiche): individuarono le dislessie periferiche e le dislessie centrali: • dislessia periferica: un disturbo della forma visiva della parola = viene definita periferica perché la compromissione si ferma a un livello ancora di elaborazione periferica e non di contenuti. Le dislessie di questo tipo sono 3: la lettura lettera per lettera, la dislessia da neglect e la dislessia attenzionale; • dislessie centrali: disturbi nella fase di analisi successiva all’elaborazione visiva della parola = la comprensione riguarda gli stati di elaborazione canonicamente definiti di tipo centrale. Anche in questo caso sono tre sottotipi di dislessia: la dislessia superficiale, la dislessia fonologica e la dislessia profonda. DISLESSIE PERIFERICHE E CENTRALI. In precedenza abbiamo distinto le dislessie di tipo evolutivo da quelle acquisite. Qui tratterremo soltanto le dislessie acquisite: disturbi della lettura che insorgono a seguito di una lesione cerebrale. DISLESSIE PERIFERICHE. DISTURBI DELLA FORMA VISIVA DELLE PAROLE. Lettura lettera per lettera tipo di dislessia senza agrafia: non vi è compromissione della scrittura. In questa particolare forma di dislessia, la parola viene ricostruita a partire dalle singole lettere. Ciò che farà il soggetto dislessico sarà l’individuazione delle singole componenti quindi l e t t e r e che ricostruiranno poi la parola intera (data dalla loro integrazione). Questo processo rallenta notevolmente la lettura, che può arrivare anche fino 7, 8 secondi per parole composte da circa 8 lettere. Non solo la velocità ma anche l’accuratezza presenta un effetto lunghezza: parole più lunghe sono più suscettibili all’errore rispetto a parole di breve lunghezza. Gli errori sono o di tipo visivo o di contesto, quindi di riconoscimento della lettera oppure di contesto (di contesto = errore nel rispetto delle regole di integrazione contestuale delle lettere, ad esempio una lettera viene pronunciata in maniera differente in base alla consonante o alla vocale che precede o che la segue e una mancata integrazione di contesto può dar luogo a degli errori tipici di questa forma di dislessia periferica). Inizialmente questo disturbo venne interpretato come una forma di simultaneo – agnosia (mancata integrazione degli elementi, in unità percettive). Tuttavia, è stato dimostrato che questa forma di dislessia si associa a compromissioni selettive per le lettere = la mancata integrazione avviene soltanto di fronte a un testo e non in presenza di immagini, per cui non può essere definita come una simultaneo- agnosia. preceduta o seguita da un’altra parola appartenente alla sua stessa categoria, si avrà un effetto facilitatore e rapidamente il pz sarà in grado di riconoscere la categoria di appartenenza. Nei casi di dislessia diretta questo effetto facilitatore viene meno. È una forma di dislessia che viene interpretata alla luce della terza possibilità che abbiamo illustrato: l’elaborazione dell’info salterà un passaggio che è quello del sistema semantico, e dal lessico ortografico di entrata gli elementi verranno trasmessi direttamente nel lessico fonologico di uscita (elaborazione lessicale non-semantica). Filmato tratto da una trasmissione televisiva (youtube: superquark puntata del 02 07 2015 dislessia, partenza del video: 2:57) in cui si approfondiscono un po' gli aspetti fisiologici della dislessia. Da questa lezione, quindi, sono emersi 2 elementi: 1. la dislessia è una manifestazione abbastanza varia di disturbi di linguaggio, di conseguenza è necessario che l’esaminatore (neuropsicologo), individui con molta esattezza il livello di elaborazione compromesso per arrivare a una diagnosi definita in modo da favorire in modo più efficace, un eventuale percorso di riabilitazione di questi disturbi. Ogni dislessico ha le sue caratteristiche, ogni dislessico sarà diverso dagli altri ed è necessario che vengano identificati anche gli eventuali disturbi associati. Spesso le dislessie si accompagnano a disturbi afasici o di altro tipo. 2. l’importanza delle connessioni (un livello più neurofisiologico). Nell’ultimo filmato abbiamo visto che la differenza fra un soggetto normale e un dislessico durante la lettura, consiste nel fatto che il dislessico attiva un n° maggiore di aree. Si potrebbe pensare che una maggiore attività cerebrale indichi una migliore elaborazione dell’informazione. Invece in questo caso, è esattamente l’opposto = un’attivazione più distribuita (diffusa, maggiore) nei cervelli dei dislessici spiega il concomitante disturbo di lettura. La chiave di tutto ciò risiede quindi nelle connessioni. Abbiamo già parlato dell’importanza degli studi di neuroscienze orientati prevalentemente allo studio dei network funzionali, perché ciò che rende possibile una funzione cognitiva è l’integrazione delle aree cerebrali deputate all’elaborazione di diverse info. Ad esempio, come abbiamo visto nel caso della dislessia, ciò che renderà buona una prestazione di lettura sarà l’integrazione fra le aree più posteriori deputate all’analisi visiva, e le aree più anteriori deputate al linguaggio. L’integrazione, quindi le connessioni fra di esse determinerà poi una corretta lettura. DISTURBI DELLA SCRITTURA: DISGRAFIE. Disturbi della scrittura, inizialmente dette agrafie. La disgrafia presenta diversi aspetti in comune con la dislessia: da un punto di vista cognitivo l’elaborazione della scrittura può seguire 2 procedure o vie = quella fonologica e quella lessicale (anche detta via diretta nella dislessia). Anche in questo caso i disturbi possono essere distinti in centrali e periferici in base alla classificazione più moderna di dislessia. Esattamente come la dislessia, le compromissioni possono presentare una forma sia evolutiva sia acquisita (vengono detti disturbi dell’apprendimento se riferiti all’età evolutiva, in questo contesto tratteremo soltanto i casi conseguenti una lesione cerebrale). Sono dei disturbi di raro riscontro nella pratica clinica = una disgrafia pura (non associata ad altri sintomi) è di difficile riscontro clinico. E’ molto più probabile che questi disturbi si associno ad altre difficoltà (lettura o linguaggio). La procedura lessicale nella scrittura ha un suo correspettivo anche nella dislessia. Nella dislessia questa via veniva detta lessicale o procedura diretta. In questo caso la rappresentazione sonora della parola attiva la sua rappresentazione fonologica nel lessico di entrata (lessico fonologico di entrata) e successivamente nel lessico grafemico di uscita, passando attraverso il sistema semantico. Verrà attivata la sequenza di grafemi che resterà attiva nel buffer grafemico sino alla successiva produzione scritta (buffer grafemico = sorta di magazzino di ML nel quale l’info resta attiva per un periodo limitato). La procedura lessicale può presentare una via s em a n t i c a , che è quella appena descritta, e una via non semantica. La via lessicale non semantica nella quale l’info dal lessico fonologico di entrata passerà direttamente al lessico grafemico di uscita senza passare attraverso sistema semantico. La seconda procedura è quella cosiddetta fonologica. Anche questa sarà simile al modello analogo fonologico della lettura. La differenza fondamentale è che in questo caso la conversione non sarà da un grafema a un fonema, ma da un fonema, quindi da un suono, a un grafema. La parola orale dopo un’analisi acustica fonetica entrerà nel buffer fonologico, quindi nel magazzino di ML, per essere poi convertita da un segmento fonemico a un segmento grafemico. Un nuovo buffer di tipo grafemico in questo caso trae l’informazione attiva per alcuni istanti sino alla sua produzione scritta (fino alla sua emissione sotto forma di scrittura a mano, a macchina o anche spelling orale). DISGRAFIE sono spesso associate a dislessia, e conseguono a lesioni del giro angolare e del giro sopramarginale. Affinché si possa fare diagnosi di disgrafia, è necessario escludere un concomitante disturbo a carico dei sistemi visivi o motori (non devono esserci impedimenti di tipo percettivo o di tipo motorio che ostacolino direttamente la scrittura). Le disgrafie si distinguono in centrali e periferiche in base allo stadio di elaborazione compromesso da lesione: disgrafie centrali: disturbo del livello semantico, sintattico o fonologico; disgrafie periferiche: disturbo ostacola la traduzione di una rappresentazione grafemica astratta in un’azione motoria concreta (scrittura o spelling orale). DISGRAFIE CENTRALI. Disgrafia lessicale = la compromissione è a carico della via lessicale della scrittura: essendo preservata la via fonologica, il pz sarà in grado di scrivere parole regolari e non parole, ma ci sarà una compromissione a livello della scrittura delle parole irregolari (le parole irregolari non riflettono una rappresentazione congrua fra grafema e fonema e richiedono l’accesso al lessico mentale). In questo caso vi sarà una compromissione associata al deficit della via lessicale. Ad esempio, le parole di lingua straniera vengono regolarizzate o talvolta scritte cosi come si pronunciano = mediante una conversione fonema grafema diretta. Disgrafia fonologica = opposto della precedente: ad essere lesa è la via fonologica, mentre è preservata quella lessicale. Vi saranno errori nella scrittura di non parole, mentre sarà preservata la scrittura delle parole. Una disgrafia fonologica presume una normale capacità di ripetizione delle non parole (se vi fosse una difficoltà in questa abilità, il disturbo potrebbe aver leso la memoria fonologica). Disgrafia profonda = presenta i sintomi della disgrafia fonologica: difficoltà a scrivere le non parole, ma in aggiunta paragrafie semantiche ed errori ortografici con parole funzione e parole astratte. Per riassumere: la disgrafia profonda interessa sia la via fonologica sia quella lessicale. Deficit del buffer grafemico = deficit a carico del buffer grafemico = si associano a difficoltà di scrittura di qualsiasi tipo, quindi sia parole sia non parole, e soprattutto scrittura in qualsiasi modalità, qualsiasi espressione (scrittura a mano, la scrittura a macchina, al computer e allo spelling orale). Vi sono degli errori di trasposizione (la parola esempio potrebbe essere scritta esmepio), c’è un’inversione di lettere, sono frequenti le omissioni di lettere e le sostituzioni, così come il raddoppiamento delle lettere. Ci sono alcuni criteri che devono essere rispettati affinché il deficit possa essere riconosciuto come a carico del buffer grafemico = 1. un deficit buffer grafemico presuppone che gli errori siano comuni alla scrittura di parole e alla scrittura di non parole, altrimenti sarebbero sistemi specifici a essere lesi; 2. gli errori non devono essere influenzati da fattori lessicali come la frequenza d’uso regolarità; 3. le lettere devono essere corrette, ma errate da un punto di vista ortografico (sostituzione di lettere); 4. deve esserci un’assenza di effetto lunghezza (s’intende il fatto che le parole più lunghe si associano a una > quantità di errori: questo non deve essere presente nel deficit buffer grafemico). DISGRAFIE PERIFERICHE = disturbi che interessano la conversione di rappresentazioni grafemiche in azioni motorie concrete. I disturbi periferici della scrittura possono essere di 2 tipi: disgrafie allografiche: con allografico si intente la forma delle parole (ad esempio maiuscolo, minuscolo, corsivo, stampatello). Disgrafie della selezione allografica consistono in errori nella scelta del carattere, oppure possono essere dei disturbi nella scelta del pattern motorio grafico (la sostituzione di lettere simili da un punto di vista visivo e spaziale – la p e la b); disgrafia da neglect: caratteristiche simili alla dislessia da neglect = le difficoltà riguarderanno prevalentemente l’inizio delle frasi (metà sx in quanto il disturbo interessa solitamente le aree corticali dx). Sintomi della disgrafia: la disgrafia si può presentare come una lettura poco leggibile, come una scrittura molto lenta e stentata o al contrario precipitosa, con uno scarso controllo del gesto grafico, confusa o disordinata e disarmonica. Scrittura disorganizzata nella forma e nell’uso degli spazi. La persona potrebbe presentare rigidità muscolare mentre scrive. La disgrafia non si manifesta solo attraverso le caratteristiche grafiche rintracciabili nella pagina scritta, ma coinvolge il movimento dello scrivente: da qui l’importanza di osservare anche il comportamento della persona mentre scrive. Qui vi riporto alcuni esempi di testi scritti da disgrafici. Questi sono dei testi scritti da bambini (siamo di fronte alle disgrafie evolutive che cmq nella loro espressione possono presentare molti tratti in comune con le disgrafie acquisite). Sono molto indicative perché ci danno degli esempi su come potrebbe apparire lo scritto di uno di questi pz. Il primo caso in alto a sx, la scrittura è addirittura completamente incomprensibile quindi potremmo rintracciare alcune singole lettere ma non emergono delle parole di senso compiuto: in questa grave forma la disgrafia produce un testo del tutto incomprensibile. A dx invece, la scrittura di parole sembra essere più preservata, rispetto al caso visto in precedenza, tuttavia i margini non vengono rispettati per cui vi è anche un problema nella distribuzione spaziale del testo. In basso possiamo osservare diversi disordini nella forma di scrittura, poi vi sono diversi errori di omissione o di sostituzione (leggiamo sullo scuoldus). È difficile capire se questa è effettivamente una o o una a; è stata omessa vocale dopo la l; la b è stata sostituita con una d che presenta caratteristiche visive spaziali simili; evidentemente questo bambino ha difficoltà nella discriminazione dei due fonemi b, d per cui il grafema risulterà compromesso. Alla prima fermata presumo in questo caso la m viene sostituita con una n probabilmente per le stesse ragioni per cui la d è stata sostituita con la b, qui fermata è stata sostituita una vocale, sono saliti 14 banbini, la n al posto della m; il rigo non segue una sua organizzazione. La fermata successivo credo una o, ne sono saliti altri 11. Quanti bandini, qui nuovamente la n e la d che sostituisce la b, sono saliti sullo scuoladusus, in questo caso viene riportato scuoladusus. Sono molti gli errori che abbiamo già descritto nelle varie forme di disgrafia e che sono un po' concentrate in questi 3 esempi di disgrafia evolutiva. COMORBILIT A’ NEL LA DIS GRA FIA = un disturbo disgrafico puro (isolato) è di difficile riscontro nella pratica clinica. E’ molto più probabile che il disturbo presenti delle comorbilità (si presenti in associazione ad altri disturbi) come può essere un disturbo di linguaggio o della lettura. Le prime classificazioni della disgrafia sono basate sulle associazioni di sintomi concomitanti. Inizialmente veniva descritta una agrafia afasica: il termine agrafia tende ad essere sostituito oggi con disgrafia poiché agrafia intende in realtà un’incapacità totale di scrivere (un disturbo della scrittura che si associa al disturbo del linguaggio). Qualora il disturbo del linguaggio consista in un’afasia di Broca, la scrittura può limitarsi a singole parole contenuto = rispecchia la sintomatologia del disturbo di Broca. Al contrario nell’afasia di Wernicke, la produzione grafica è fluente esattamente come il linguaggio, ma povera di contenuto. Nelle agrafie aprassiche: vi sarà un c o ncomitante disturbo del movimento ma di origine corticale e non a carico degli arti (ci sarà un’incapacità a scrivere singole lettere ma lo spelling è preservato). La agrafia pura: è di raro riscontro, e in genere questo disturbo viene descritto in seguito a lesioni frontali, e più frequentemente a carico delle cortecce parietali sx. Veniva poi individuata una agrafia motoria: consiste in una difettosa realizzazione della scrittura dovuta a lesioni delle strutture che coordinano ESEMPIO DI DISCALCULIA. Alcuni esempi di discalculia tratti da bambini discalculici, quindi bambini che presentano difficoltà d’apprendimento (le forme in cui si manifestano questi disturbi sono comuni alla forma evolutiva e alla forma acquisita o successiva a lesione cerebrali). Nell’immagine di sx l’errore consiste nel fatto che l’addizione viene eseguita partendo da sx. Nel secondo caso anche vi è un errore nell’iniziare la moltiplicazione dal punto giusto. LINEA MENTALE DEI NUMERI(LMN). Modello sulla cognizione numerica (Dehaene et al. 2003) = particolarmente interessante nell’ambito dello studio del sistema di calcolo è la linea mentale dei numeri o LMN = modello della cognizione numerica = sostiene che i numeri sono rappresentati mentalmente in base a 3 aspetti: il codice arabo visivo (numeri scritti in cifre), il codice verbale (in parole) e la rappresentazione sulla grandezza dei numeri (i numeri verrebbero rappresentati secondo una linea mentale, una sorta di linea mentale immaginaria, la mental line number o LMN). Noi scriviamo da sx verso dx, la rappresentazione della grandezza dei numeri seguirà un ordine congruente: i numeri più piccoli vengono rappresentati a sx della linea mentale immaginaria e così via. Verso dx numeri più grandi. Vi sono diversi dati sperimentali che confermano l’esistenza di una linea mentale di numeri distribuita sul piano orizzontale, con i numeri distribuiti da una presunta sx a una presunta dx. Un’evidenza alla LMN su soggetti normali proviene dall’effetto SNARC (spatial numerical association of response code). In questo esperimento si chiede ai soggetti di indicare se un n° è un n° pari o un n° dispari. I tasti di risposta sono 2: quindi il soggetto potrà rispondere con la mano sx o con la mano dx (il tasto di risposta darà un’indicazione diversa). È stato osservato che i tempi di risposta sono più rapidi se: per i numeri piccoli si risponde con la mano sx e per i numeri grandi si risponde con la mano dx. Questo risultato viene interpretato come un effetto di compatibilità spaziale fra i numeri rappresentati sulla linea mentale e la posizione della mano nello spazio. Quindi la mano dx e il n° grande saranno posizionati nell’emispazio e nello spazio dx della linea mentale, viceversa numeri piccoli risponderanno a una congruenza fra mano sx e metà sx della linea mentale dei n u m e r i . Vi sono anche delle evidenze che provengono da studi clinici particolari su pz con neglect: a questi pz se si prova a chiedere di bisezionare mentalmente l’intervallo fra 2 numeri, tenderanno a spostarlo a dx (in questi compiti si può sempre dire a un pz di individuare la metà e quindi il n° che separa l’intervallo fra 3 e 9). La metà di questo intervallo è costituita dal n° 6. Tuttavia, questi pz (che presentano una disattenzione selettiva sull’emispazio sx) tendono a spostare a dx la metà dell’intervallo riportando il n° 7 anziché il n° 6 (in maniera analoga a quanto fanno nell’esercizio di bisezione delle linee). Questa è un’ulteriore evidenza all’ esistenza ormai condivisa di una linea mentale dei numeri disposta su un piano orizzontale. Mediante queste immagini vorrei descrivere le aree cerebrali più frequentemente associate al sistema di elaborazione del calcolo: le aree che una volta lese possono produrre dei disturbi nell’ambito del sistema di elaborazione dei numeri. Immagine tratta da un articolo (da Roux et al 2008): è uno studio nel quale sono stati coinvolti dei pz con tumori a carico dell’emisfero sx. Erano tutti dei pz che necessitavano di un intervento neurochirurgico, e in fase preoperatoria si è voluto stimolare elettricamente alcune aree cerebrali, per osservare se queste producessero un’interferenza con le abilità cognitive di calcolo. Questo consentiva ai chirurghi di non andare a ledere durante l’intervento quelle aree cerebrali altrimenti (che una volta lese avrebbero potuto compromettere l’elaborazione di calcolo nei pz tumorali). L’immagine rappresenta la localizzazione della lettura di numeri arabi nell’emisfero sx (cerchi rossi). I c e r c h i blu indicano gli script di tipo alfabetico, quelli viola la sovrapposizione fra i 2. Concentriamoci sui rossi. Ogni cerchietto rosso indica il punto anatomico in cui sono stati riscontrati effetti di interferenza, successivi a elettrostimolazione. La stimolazione di questi cerchietti rossi comprometteva le abilità di lettura di numeri arabi. Queste aree sono state riscontrate nel giro sopramarginale anteriore area di Brodmann 40 (area 40 di Brodmann) e una fetta abbastanza diffusa del lobo parietale. Il è giro sopramarginale (quadratino verde) nell’area di Broca quindi Brodmann 45 (quadratino blu), e nella porzione posteriore dell’area temporale T3 (quadratino arancione). Vi sono anche dei cerchi bianchi con un n° all’interno, questi numeri indicano il n° di volte in cui sono state studiate quelle aree specifiche (in 13 è stata osservata l’effetto di una stimolazione -quadratino nero - nel giro angolare, in 6 casi è stato studiato u n possibile effetto interferenza a carico della temporale inferiore -T3 con quadratino arancione - ecc.). Le uniche aree che non sono mai state osservate sono quelle occipitali (quadratino giallo) dove mancano dei cerchi, e quelle più anteriori della corteccia prefrontale (quadratino blu). Questi risultati indicano che non esiste una singola area specifica deputata ad elaborazione di una funzione cognitiva anche complessa come quella dell’aritmetica. Quella aritmetica necessita di varie funzioni quindi (comprensione o produzione di numeri, capacità di incolonnare, capacità di comprendere i simboli aritmetici, ecc.). Ci sarà un network di aree coinvolte nella loro elaborazione. Questo studio indica certamente una sorta di dominanza dell’emisfero sx (sebbene alcune forme di discalculia sono state osservate anche in seguito delle lesioni nell’emisfero dx). In particolar modo nell’emisfero sx le aree coinvolte sarebbero localizzate nella corteccia frontale, quindi indicativamente di Broca, nella corteccia temporale posteriore e in maniera più diffusa sicuramente a carico del lobo parietale. Altri esperimenti hanno confermato che fra tutte queste aree appena indicate, la IPS (solco intraparietale - blu tratteggiato -), è certamente l’area coinvolta nel processo dell’elaborazione del calcolo. Quindi potremmo concludere che sebbene sono varie le aree che sottendono questa funzione, il solco intraparietale presenta una sorta di selettività per l’elaborazione dei numeri. MODULO SEI. I DISORDINI PERCETTIVI. PERCEZIONE VISIVA: MODULARITA’ = i disturbi della percezione possono interessare tutte le modalità sensoriali, di conseguenza tratteremo separatamente la modalità visiva, piuttosto che uditiva, tattile e così via. In questa prima lezione apriamo una parentesi ampia sulla percezione visiva e sui disturbi della percezione visiva definiti agnosie. DISTURBI DELLA PERCEZIONE: AGNOSIE = approfondimento concetto di modularità nella percezione visiva = i disturbi della percezione vengono definiti agnosie. Le agnosie possono essere di vario tipo e possono interessare: i canali sensoriali (e all’interno di ciascuno canale sensoriale andare a compromettere diversi stadi di elaborazione). Definizione di agnosia =una difficoltà di riconoscimento limitata a un canale sensoriale, non spiegabile da disturbi percettivi elementari, da disordini nell’oculomozione, da compromissione dell’attenzione, da alterazioni afasiche o da deterioramento mentale. Ci sono già una serie di possibili condizioni di carattere puramente percettivo o neurocognitivo che possono indirettamente o direttamente partecipare alla percezione sensoriale. È necessario che alcune condizioni vengano escluse affinché si possa correttamente diagnosticare un’agnosia. Le agnosie venero descritte da prime osservazioni cliniche già nel 19° secolo, e il primo a proporre una classificazione di agnosie (tutt’ora mantenuta e adottata) fu Sigmund Freud, che distinse le agnosie appercettive dalle agnosie associative: • agnosie appercettive = il disturbo riguarda i processi sensoriali; • agnosie associative = ci si riferisce a un deficit a carico della rappresentazione della coscienza degli stimoli = l’integrazione del percetto con le conoscenze che ha il soggetto rispetto allo stimolo percepito. Si fa riferimento a funzioni più complesse, da un punto di vista cognitivo, rispetto a quelle che interessano le agnosie appercettive. Il riconoscimento di uno stimolo richiede l’intervento e l’integrazione di vari livelli di elaborazione dell’info. Di conseguenza un deficit di riconoscimento può derivare da diverse cause. In linea generale, il deficit di riconoscimento può essere a carico di 3 livelli di elaborazione: 1. livello di elaborazione sensoriale = disturbi sensoriali elementari; 2. analisi percettiva dello stimolo = agnosie appercettive; 3. analisi delle conoscenze strutturali, funzionali e semantiche dello stimolo = associata a disturbi della percezione che prendono il nome di agnosia associativa (riflette il livello di elaborazione + elevato in un processo di elaborazione dell’info) Inizieremo discutendo i disturbi a carico dell’elaborazione sensoriale per poi man mano spostarci su livelli più elevati. PERCEZIONE VISIVA Premesse anatomo-fisiologiche alla modularità visione = richiamiamo alcuni argomenti dell’anatomo-fisiologia della visione con uno sguardo nuovo: abbiamo più volte parlato dell’importanza del concetto di modularità nell’ambito delle neuroscienze cognitive = il modulo è un’unità funzionale indipendente (o abbastanza indipendente) da altre unità funzionali. Si tende ad associare o a identificare un’area cerebrale o un network cerebrale che sottende la funzione di un certo modulo. Anche nel caso della percezione visiva possono essere vari i moduli compromessi in questo sistema di elaborazione, e quindi possono essere diverse le componenti funzionali lese in un’agnosia percettiva. L’importanza delle premesse anatomo-fisiologiche: potremo associare a ciascun modulo percettivo (in questo caso specifico di percezione visiva) a una area corticale o ad alcune particolari cellule delle cortecce sensoriali che elaborano aspetti diversi della visione. L’elaborazione visiva da un p.to di vista neurofisiologico = le info dei recettori retinici, quindi coni e bastoncelli, raggiungono il corpo genicolato controlaterale che provvederà a un’elaborazione grezza ed elementare dello stimolo. L’informazione verrà poi inviata, mediante le radiazioni ottiche, alla corteccia precalcarina, che riceve info da punti simmetrici delle 2 retine. L’area visiva primaria (anche detta V1) è organizzata in colonne di neuroni. Al livello più basso (strato detto strato IV c) le cellule stellate ricevono afferenze dal nucleo genicolato laterale del talamo (NGL) ed elaborano variazioni di luminosità. Il talamo è un importante centro che riceve afferenze sensoriali (siamo ancora a un livello sottocorticale) e il nucleo genicolato laterale (quell’area del talamo che si occupa di ricevere le prime afferenze visive). Ho volutamente saltato alcuni passaggi sui quali torneremo dopo (passaggi mediante i quali l’info dei recettori retinici raggiunge le cortecce visive). Il mio interesse in questa fase è concentrarmi su ciò che accade nella corteccia visiva. Nelle aree occipitali (quindi nella corteccia visiva primaria) le cellule semplici (strato IV b), rispondono a stimoli con configurazione lineare: possono essere delle linee o delle sbarre. Quindi l’orientamento definito nello spazio è una posizione precisa nel campo recettivo. Questi sono gli stimoli molto selettivi, ai quali rispondono le cellule semplici: cellule elementari ma molto selettive. Le cellule semplici trasmettono a loro volta l’info alle cellule complesse, che hanno le stesse caratteristiche delle semplici, ma presentano un campo recettivo più largo e rispondono ovunque una linea orientata in una certa direzione vi si trovi. Infine, vengono identificate le cellule ipercomplesse, che hanno caratteristiche simili alle cellule complesse ma sono sensibili a linee di lunghezza limitata, non eccedente la regione eccitatoria del campo recettivo (sono idonee a codificare le dimensioni dello stimolo). Abbiamo descritto 3 tipi di cellule che sono le semplici, le complesse e ipercomplesse, ciascuna di loro risponde a stimoli con caratteristiche diverse: un orientamento definito nello spazio, un campo recettivo più ampio, sensibilità a linee di lunghezza limitata = piccole differenze che suggeriscono la presenza di specifici moduli della visione. Filmato molto interessante e molto famoso, nel quale viene mostrato ciò che abbiamo appena definito (youtube: hubel & wiesel’s demonstration of simple, complex and hypercomplex cells in the cat’s visual cortex): mostra un esperimento condotto su un gatto (si studia la corteccia visiva del gatto mediante una tecnica di rilevazione di attività neurale). Abbiamo già osservato queste tecniche e abbiamo visto come è possibile studiare l’attività di neuroni o popolazione di neuroni nel cervello di animali vivi. Questo offre dei grandi vantaggi. Durante la presentazione del video ascolterete delle frequenze di scarico (dei rumorini): si riferisce alla scarica del neurone (quando i neuroni registrati si attivano ascolteremo le scariche). Quando invece sono silenti vuol dire che quei neuroni non stanno lavorando. Si inizia con l’osservazione delle cellule semplici. Vedete che la frequenza di scarica aumenta quando la barra luminosa si trova disposta secondo un certo orientamento. Basta spostarla di poco e i neuroni sono silenti. Quest’ultima verifica è stata molto importante, poiché abbiamo osservato che i neuroni scaricavano soltanto quando la linea luminosa cadeva in questo campo recettivo (segnate con le x nell’immagine), bastava In figura la via retino-genicolo-striata che riassume ciò che abbiamo detto sinora: l’info in uscita dalla retina viene tramessa mediante i nervi ottici che poi decussano nel chiasma ottico, vanno a formare i tratti ottici nei 2 nuclei bilaterali del talamo (i nuclei genicolati del talamo). Da qui l’info procede mediante fibre (dette radiazioni ottiche o tratto genicolo calcarino) che conducono l’info direttamente dal talamo fino alle cortecce visive primarie (quindi in V1 a livello della corteccia occipitale). Questa è la via retino- genicolo-striata che è la via o il sistema visivo che conduce gran parte dell’info visiva (circa il 90 % delle fibre del nervo ottico vengono convogliate nella via retino genicolo striata). Esiste una seconda via che è la via r e t i n o collicolo-extrastriato (il restante 10% delle fibre del nervo ottico viene convogliato in questo sistema visivo che raggiunge delle regioni sottocorticali come il collicolo superiore da cui il nome via retino collicolo-extrastriato). L’info è arrivata alla corteccia visiva primaria. Da qui verrà trasmessa, mediante fibre principali o fascicoli, verso una via ventrale e una via dorsale. Quali sono le differenze? La via ventrale raggiunge il lobo temporale, la via dorsale risale verso il lobo parietale. La via ventrale è anche detta occipito-temporale ed è conosciuta come via del cosa. La via dorsale detta anche occipito-parietale è conosciuta come la via del dove. La via occipito-temporale sottende prevalentemente la identificazione dello stimolo (cosa vedo) mentre la via dorsale processa la localizzazione spaziale degli stimoli (via del dove). Il deficit da disturbo sensoriale elementare talvolta non è riconosciuto dal pz e viene diagnosticato solo a distanza di anni dall’insorgenza del disturbo mediante una visita oculistica più approfondita. La motivazione per cui il pz non riconosce i disturbi, risiede nel fenomeno del completamento (fenomeno per il quale il nostro cervello fornisce delle rappresentazioni sempre armoniche e complete degli stimoli). Esempio: se a un pz con emianopsia con cecità in metà campo visivo viene presentato una figura geometrica, ciò che si aspetta è che il pz descriva una figura geometrica completa solo a metà. Invece il pz riporterà una figura completa poiché il suo cervello gli fornirà una rappresentazione della figura anche nella parte dell’emicampo visivo ceco e quindi il resoconto soggettivo non risentirà della emianopsia. CECIT A’ CORT ICALE = consiste nella perdita totale della vista, nella riduzione o assenza del ritmo alfa occipitale. L’alfa occipitale = particolare attività rilevata mediante elettroncefalografia, è un tipo di frequenza diffusa sulle aree posteriori, le sue variazioni vengono associate in vario modo all’attività visiva). In questo caso l’inattività corticale a quel livello si assocerà a una riduzione o addirittura un’assenza del ritmo alpha occipitale. Il disturbo deriva da una lesione della corteccia striata ( visiva primaria) dovuta spesso a cerebrale (una lesione che provocherà un ridotto o assente flusso sanguigno sulle aree visive). Si associa ad anosognosia (mancato riconoscimento del disturbo) quindi talvolta questi pz non riconoscono la loro condizione di cecità. Il decorso della cecità corticale è variabile e può prevedere un recupero anche entro una settimana (in base a l tipo di danno ischemico) oppure può essere permanente o altre volte invece vi è un recupero parziale e il disturbo evolve verso forme di agnosia appercettiva. È interessante notare che la cecità corticale, si associa anche a deficit nella generazione di immagini mentali visive. In letteratura questa evidenza ha suggerito un coinvolgimento fondamentale delle cortecce occipitali non solo nella percezione visiva ma anche nella produzione mentale di immagini visive. Tuttavia, questa conclusione necessità di essere un po’ rivista (infatti studi di stimolazione cerebrale e sull’epilessia suggeriscono che i lobi occipitali non sono gli unici a ricoprire un ruolo nella generazione di immagini mentali visive). Si sa che le epilessie che originano nelle occipitali producono soltanto delle macchie di luce o delle forme stellate. Allo stesso modo la stimolazione dell’occipitale prodotta mediante TMS (stimolazione magnetica transcranica), produce allo stesso modo dei punti luminosi nel campo visivo del soggetto (una delle applicazioni della TMS è proprio nell’ambito della percezione visiva mediante la stimolazione occipitale). Al contrario, epilessie temporali si associano a produzione di allucinazioni visive = persone, scene. Le allucinazioni visive più complesse però, si ottengono soltanto in seguito alle stimolazioni delle aree tempero occipitali. Quindi i lobi occipitali contribuiscono alla produzione di immagini mentali visive ma vi è anche un coinvolgimento temporale. È comunque interessante notare che la cecità corticale si associa anche a un deficit nella generazione di immagini mentali visive. Una possibile spiegazione è che viene compromesso l’accesso al contenuto semantico di immagini (viene persa l’info semantica dell’immagine del percetto e questo compromette anche la produzione di immagini mentali). BLINDSIGHT O VISIONE CIECA = è un disturbo che offre molti punti di studio e di riflessione nell’ambito neuropsicologico. Delle lesioni circoscritte della corteccia striata producono gli scotomi (scotoma deriva dal greco skotos e vuol dire buio, oscurità = macchie buie nel campo visivo), in una porzione specifica del campo visivo. Tuttavia, la capacità di localizzare gli stimoli dello spazio è preservata. Il soggetto sarà incapace di identificare uno stimolo, di riportare la presenza di uno stimolo, di descriverlo, di riconoscere il contenuto, ma sarà capace di individuare la sua posizione nello spazio. C’è una dissociazione fra meccanismi di identificazione e di localizzazione di stimoli. Per darvi idea di che cosa è uno scotoma vi mostro un filmato (YouTube: simulated scotoma for contextual coeing): in questo filmato viene riprodotta quella che può essere una vista con scotoma. Nel primo esempio vedremo uno scotoma di 7 gradi (indica l’ampiezza dello scotoma in campo visivo). Ci sono delle macchie di oscurità. Poi vedremo le prove precedenti con uno scotoma di 3 gradi ( più ridotto). All’interno dello scotoma è impossibile identificare un oggetto. Abbiamo introdotto il concetto di blindsight anche detto visione cieca. Questo fenomeno venne descritto in maniera sistematica per la prima volta da un autore nel 1973 che riportò il caso di 4 pz (reduci della Seconda guerra mondiale), che riportarono delle ferite d’arma da fuoco sulle cortecce visive. Ciò che osservarono Poeppel et al.: i pz erano in grado di localizzare gli stimoli anche in assenza di detezione consapevole. L ’esperimento consisteva in questo: veniva chiesto ai pz di tenere lo sguardo su un punto di fissazione, e in seguito venivano presentati degli stimoli luminosi in varie porzioni del campo visivo dei soggetti. L’istruzione era quella di indicare dove era stato presentato uno stimolo. Questi pz presentavano uno scotoma importante per cui buona parte del loro campo visivo era cieco e gli sperimentatori chiesero di indicare la presenza di uno stimolo anche quando appariva nello scotoma (nella porzione cieca). All’inizio ci furono resistenze da parte dei pz (ritenevano impossibile, sciocco indicare un oggetto in una porzione di vista cieca e di campo visivo cieco). L’esperimento dimostrò che i soggetti erano ancora in grado di indicare la presenza di un oggetto nel campo visivo cieco sebbene non avessero esperienza consapevole di quell’oggetto: erano incapaci di identificarlo e di riconoscerlo, ma riportavano un’impressione della presenza dello stimolo comparso in quel campo visivo. Successivamente degli autori italiani (Corbetta et al 1990) dimostrarono che localizzazione è possibile quando al pz è concesso di muovere lo sguardo verso la porzione visiva stimolata. Al contrario, la richiesta di mantenere la sguardo su un punto di fissazione e indicare manualmente lo stimolo, produce la scomparsa del fenomeno di blindsight. Questi autori dimostrarono che l’effetto blindsight (riconoscere nello spazio un oggetto pur non riconoscendolo consapevolmente) era possibile soltanto quando veniva concesso di muovere lo sguardo in direzione dello stimolo. Al contrario se lo sguardo fosse rimasto fisso su un punto di fissazione, sarebbe venuto meno il fenomeno del blindsight (né di identificare lo stimolo né di riportarne la localizzazione spaziale). L’effetto del blindsight viene spiegato alla luce della teoria dei due sistemi visivi: il sistema retino-genicolato-striato e quello retino-collicolo-extrastriato. • Il sistema retino-genicolato-striato (che raggiunge l’area V1) è compromesso e determini un deficit dell’identificazione dello stimolo; • il sistema retino- collicolo-extrastriato è preservato e sarà preservata anche la possibilità di localizzare lo stimolo nello spazio. Una conferma: è stato dimostrato che l’area MT (che si trova nel solco temporale superiore in un’area più posteriore della corteccia temporale) si attiva, sebbene con minore intensità, per stimoli in movimento anche in presenza di lesioni all’area striata. L’area MT è un’area i cui i neuroni rispondono selettivamente al movimento degli stimoli e si occupa della detenzione del movimento di uno stimolo. Quest’area si attiva anche quando la corteccia visiva primaria è lesa: se si presentano degli stimoli in movimento non verranno riconosciuti, ma l’area MT (i neuroni del MT) scaricano ancora. L’integrità del sistema retino-collicolo-extrastriato e di altre aree corticali e sottocorticali spiega l’effetto blindsight. (il collicolo superiore presenta una rappresentazione topografica del campo visivo e questa pare sia una delle motivazioni per le quali la localizzazione degli stimoli è ancora preservata). Filmato in cui si dimostra quali aree cerebrali vengono attivate in fRMN in presenza di 2 stimoli diversi. In entrambi i casi c’è un quadrante centrale che è il punto di fissazione. Nello stimolo di sx l’immagine è in movimento, nello stimolo di dx si presenta una procedura detta flickling (stimoli lampeggianti statici). Nel caso di dx quella che si attiva è l’area occipitale mediale (area V1 corteccia, visiva primaria o corteccia striata). Nel secondo caso (stimoli in movimento) oltre all’area primaria, si attivano (nelle porzioni temporali laterali) le aree MT. Se potessimo sottrarre l’attività evocata dal movimento dall’attività evocata dallo stimolo statico, scomparirebbe l’attività della corteccia primaria e resterebbero soltanto attivazioni nel MT. Questa è la possibilità di riconoscere ancora del movimento anche da parte dei pz con lesioni all’area visiva primaria. (YouTube: blindsight: blind man can see and avold obstacles) altri video che dimostrano l’effetto blindsight: pz ciechi in questo caso totalmente ciechi che conservano però la capacità di localizzare gli stimoli. È una capacità che deriva da una detenzione non consapevole. Quello che stiamo per vedere è un pz completamente cieco, non vede nulla, consapevolmente non riconosce nessuno degli oggetti che gli sono di fronte, ma gli viene chiesto di camminare lungo il corridoio. Come vedrete scanserà inconsapevolmente alcuni oggetti pur non sapendone spiegare le ragioni. E’una percezione che viene definita subconscia (sub consapevole). Ha correttamente evitato tutti gli ostacoli pur avendo riferito di aver camminato nel buio. (YouTube: Helen ‘’a blind monkey who sees everything’’) video di una scimmia alla quale è stata asportata chirurgicamente la corteccia visiva primaria, quindi c’è certezza sul fatto che è completamente cieca. È un esperimento datato (le regole attuali dei comitati etici non consentirebbero un tale esperimento). Questo filmato che ci dà info importanti sul fenomeno della localizzazione degli stimoli anche in assenza della loro identificazione consapevole. La scimmia s i muove in uno spazio di ostacoli. Ciò che si aspetta è che un animale cieco vada a scontrarsi con gli ostacoli. Invece si muove nello spazio evitandoli. Le viene lanciato del cibo e lei riconosce in maniera subconscia la direzione degli stimoli, per cui tenderà ad afferrare con la zampa e a mangiare correttamente. Il blindsight è un fenomeno che offre molte possibilità di studio per le neuroscienze cognitive: studiare le funzioni visive in assenza della via retino-genicolo-striata, quindi la percezione visiva basata soltanto sulla retino collicolo extrastriato, e dissociare di conseguenza la identificazione dell’oggetto e la localizzazione dell’oggetto nello spazio; studiare le basi neurologiche e i processi cognitivi della coscienza e questo è fondamentale (la possibilità di riconoscere nel nostro cervello pur in maniera inconsapevole uno stimolo in uno spazio cieco è un fenomeno che offre spunti di studio alle neuroscienze della coscienza. Negli ultimi anni le neuroscienze hanno riscoperto l’interesse nei confronti delle basi neurali della coscienza che è un argomento molto complesso e si avvantaggia anche di studi in questo settore specifico); la possibilità di perfezionare tecniche di intervento riabilitativo. È stato dimostrato che alcuni training, che consistono nell’insegnare al pz ad orientare sempre lo sguardo verso lo scotoma, consentono col tempo di riabilitare parzialmente o completamente la capacità di identificare degli stimoli o cmq migliorano la capacità del pz di localizzare degli stimoli anche in assenza di detenzione consapevole. PERCEZIONE VISIVA. DISTURBI SENSORIALI ELEMENTARI. (2) MODULAR IT A’ DEL S IS T EMA VIS IVO = organizzazione modulare del sistema visivo: all’interno della corteccia striata vi sono diversi tipi di neuroni che rispondono selettivamente a diversi aspetti sensoriali del percetto. Data la natura modulare del sistema percettivo visivo, una conseguenza è che delle lesioni della corteccia occipitale possono provocare dei disturbi indipendenti dalla percezione visiva, come i disturbi nella discriminazione dei colori, i disturbi nella percezione del movimento o i disturbi selettivi per la visione della profondità. DISTURBI NELLA DISCRIMINAZIONE DEI COLORI. ACROMATOPSIA = il pz presenta una visione in bianco e nero a seguito della lesione dell’area V4 (aree sottocalcarine della corteccia occipitale). Il deficit può essere bilaterale (entrambi gli occhi) o controlaterali (emi-acromatopsia). lesioni bilaterali occipito-parietali. AGNOSIA PER GLI OGGETTI. (PART.1) = saliamo nel livello di elaborazione gerarchica del percetto visivo e trattiamo una particolare forma di disturbo di riconoscimento della percezione visiva: l’agnosia per gli oggetti. DISTURBI DI RICONOSCIMENTO DI STIMOLI VISIVI = nelle altre lezioni nel descrivere il percorso dell’elaborazione dell’info a partire dai recettori retinici, eravamo arrivati all’area visiva primaria (V1). L’info non si ferma a questo livello ma viene ulteriormente elaborata: a partire da V1 (corteccia striata), l’info verrà trasmessa mediante un fascicolo longitudinale inferiore e un fascicolo longitudinale superiore (conosciuti come via della cosa e via del dove). Via ventrale = quella che dalla corteccia visiva primaria raggiunge aree temporali è l’area che processa il riconoscimento degli oggetti (nella figura sottoindicate con le frecce rosse) – via del cosa; Via dorsale = processa la localizzazione spaziale degli stimoli (nella figura sottoindicate con le frecce blu) – via del dove. Molti sistemi di elaborazione presentano un’organizzazione modulare: significa che all’interno della via ventrale è possibile distinguere vari moduli: vi sarà un modulo deputato all’elaborazione della forma degli oggetti piuttosto che della dimensione e dei colori e così via. Di conseguenza potremmo avere, in base al tipo di lesione, delle compromissioni specifiche in ciascuno di questi moduli. In base al modulo compromesso avremo un tipo diverso di agnosia e le forme più descritte in letteratura sono: un’agnosia per gli oggetti, agnosia per i volti, agnosia per le parti del corpo e agnosia per i colori. AGNOSIE PER GLI OGGETTI = può derivare da compromissione in diversi livelli di elaborazione. Sono 2 le famiglie di agnosia per gli oggetti: agnosia appercettiva = rappresenta un livello più elementare; agnosia associativa. Agnosia appercettiva: difficoltà nell’integrare delle singole unità visive in forme organizzate e definite; agnosia associativa: mancata integrazione fra la corretta rappresentazione visiva dell’oggetto e le conoscenze relative all’oggetto (conoscenze che abbiamo immagazzinato relativamente all’utilizzo dell’oggetto, alla sua associazione, ecc.) Modello di Marr = il modello cognitivo principale nell’ambito dello studio della organizzazione modulare della percezione visiva è il modello di Marr: l’identificazione di un oggetto richiede 3 tipi di rappresentazione, gerarchicamente organizzati. Primal sketch = schema primario: livello + basso, mediante il quale si ottengono delle info bidimensionali e si identificano semplicemente i bordi delle figure; schema 2 e ½ D = oltre alle info dello schema primario, vengono definiti anche la profondità e l’orientamento delle superfici, mediante una sorta di segmentazione delle superfici. Fino a questo livello il riferimento visivo è ancora egocentrico (basato sul punto di vista dell’osservatore), quindi la profondità e l’orientamento della superficie dipenderanno dalla posizione dell’osservatore; Schema 3D = è il livello più elevato di elaborazione. Si ottiene una rappresentazione delle caratteristiche tridimensionali dell’oggetto, quindi diversamente dallo schema precedente, il 3D non dipende dal punto di vista dell’osservatore (l’oggetto dispone le sue caratteristiche spaziali che vengono riconosciute indipendentemente dal punto di vista dell’osservatore), quindi indipendentemente dal fatto che l’oggetto sia ruotato in una certa posizione, che sia capovolto o si presenti in modalità spaziale diverse all’osservatore. Avendo le rappresentazioni 3D sarà possibile riconoscere la configurazione indipendentemente dalla sua posizione rispetto a chi osserva. Una volta formatosi, lo schema 3D potrà poi accedere al sistema di descrizione strutturale: qui sono depositati i modelli tridimensionali di oggetti già memorizzati, quindi di oggetti conosciuti. Se avviene questa corrispondenza, l’oggetto apparirà come conosciuto (un oggetto familiare). Tuttavia, non vi è ancora un’attribuzione di significato (sino a questo livello si è capaci di riconoscere l’oggetto come familiare ma non si è ancora in grado di descriverne l’utilizzo). Affinché quest’ultimo passaggio si verifichi sarà necessario che lo schema 3D acceda alla rete associativa semantica dove sono depositate le info relative al contenuto dell’oggetto, al suo utilizzo, al suo contesto di presentazione etc. Quest’ultimo passaggio (l’elaborazione dell’info da parte della rete associativa semantica) farà sì che l’oggetto venga riconosciuto in tutta la sua interezza, anche da un punto di vista semantico di contenuto. AGNOSIA APPERCETTIVA = consistono in disturbi dell’analisi percettiva dello stimolo = difficoltà nel comporre i dati sensoriali in unità percettive. È importante escludere disturbi sensoriali elementari (deficit non deve essere dovuto unicamente a una discriminazione di colori), a disturbo della percezione della profondità etc. Sulla base del modello modulare di Marr è possibile individuare delle compromissioni in ciascuno dei 3 livelli osservati (ciascun livello sarà associato a una diversa forma di agnosia percettiva): • agnosia per la forma: compromissione dello schema primario; • agnosia integrativa: compromissione dello schema 2 e ½ o D; • agnosia trasformazionale: deficit nella rappresentazione dello schema tridimensionale. Le lesioni cerebrali che si associano nel quadro di agnosia appercettiva riguardano il lobo parietale e occipitale tendenzialmente nell’emisfero dx. Agnosia per la forma = il pz analizza correttamente le singole caratteristiche sensoriali dello stimolo ma fallisce nell’identificare la forma globale dell’oggetto (configurazione esterna, i suoi bordi completi). Non sarà in grado di copiare dei disegni, discriminare figure geometriche o accoppiare delle forme geometriche simili. È la forma di agnosia appercettiva più grave. Un test che si utilizza con i pz è il test di riconoscimento visivo. TEST DI EFRON. Il paziente deve dire se le coppie di figure dalla A alla G sono uguali o diverse. Il soggetto con agnosia appercettiva per le forme sbaglierà in quanto risulta incapace di discriminare un quadrato da un rettangolo o un cerchio da un’ellisse TEST DELLE FIGURE SOVRAPPOSTE: in questa prova il paziente dovrà identificare gli stimoli (lettere o figure) sovrapposte. Il paziente con agnosia per le forme non è in grado di attribuire singole unità percettive a una configurazione integrata. Altro video (YouTube: object agnosia): un pz al quale viene mostrata un’immagine dalla parte del foglio che non vediamo, e nell’immagine viene ritratto un lucchetto, viene chiesto di riconoscere l’oggetto. Addirittura, lo si aiuta un po' dicendo ti do delle possibilità, quindi quale fra questi e l’oggetto che ti ho mostrato? È un orologio? È un lucchetto o un telefono? E ha detto il pz potrebbe essere un lucchetto però si notava che era stata buttata a caso la risposta, allora l’esaminatrice dice sei sicuro che è un lucchetto? E lui dice no non sono per niente sicuro, non riuscirei a riconoscere un telefono. Alla fine, è stato identificato e era un lucchetto con combinazione. Bene vedere dei pz reali durante una fase di valutazione ci ha aiutato a comprendere come il disturbo potrebbe manifestarsi e, nel caso della donna vista in precedenza come nella realtà, bisogna estendere la valutazione a più aree di funzionamento poiché spesso le lesioni vascolari e cerebrali possono interessare più aree e portare a più compromissioni. (nonostante a oggi vi sia una letteratura scientifica che ci consente di associare le varie compromissioni e quindi anche trattarle isolatamente anche per esigenze didattiche). AGNOSIA PER GLI OGGETTI PARTE 2 = le agnosie associative si riferiscono alla incapacità di integrare la rappresentazione dell’oggetto con le conoscenze semantiche relative all’oggetto stesso. AGNOSIA ASSOCIATIVA = consistono in disturbi dell’analisi strutturale, semantica e funzionale degli oggetti. Un pz con agnosia associativa pura riconoscerà un oggetto come noto, come familiare, dal punto di vista della forma, ma non sarà in grado di indicarne gli usi associati, per cui sarà anche incapace di raggrupparlo insieme a oggetti semanticamente correlati. L’agnosia associativa è un disturbo di raro riscontro nella pratica clinica, soprattutto nella sua forma pura (manifestazione del disturbo senza altre comorbilità) diversamente dall’agnosia appercettiva che invece e un po' più frequente. Le compromissioni psicologiche presentano notevoli associazioni cliniche per cui, soprattutto per disturbi la cui compromissione magari si associa a delle lesioni molto circoscritte, è talvolta difficile riscontrare una forma pura. In questo caso il pz potrebbe non riconoscere gli oggetti che ha di fronte oppure li utilizza in maniera impropria. Sono stati descritti casi in qui alcuni pz versavano il thè su un cucchiaio piuttosto che nella tazza, oppure cercavano un oggetto particolare, lo avevano di fronte a sé e nonostante le indicazioni di chi stava intorno faticavano a riconoscerlo (una compromissione importante nella vita di tutti giorni). Uno degli errori riportati da soggetti con agnosia associativa, consiste nell’errore di denominazione in forma semantica = sbagliano a nominare degli oggetti e la parola che indicano al posto di quella corretta è cmq correlata da un punto di vista semantico (possono dire pera per indicare una mela e possono dire cane invece di gatto, ecc.). Affinché il riconoscimento di un oggetto sia completo (venga riconosciuto dal punto di vista strutturale e semantico) è necessario che queste rappresentazioni accedano anche al sistema di conoscenze semantiche (schema 3d). Le conoscenze strutturali sono necessarie affinché il soggetto riconosca oggetto come familiare ma essendo un livello presemantico non è ancora sufficiente affinché il pz riconosca anche la funzione, l’utilizzo dell’oggetto. Perché questo si verifichi è necessario che quelle conoscenze strutturali accedano a un passaggio successivo di elaborazione da parte del sistema delle conoscenze semantiche. Doppie dissociazioni = Nell’ambito delle agnosie associative sono state riscontrati diversi casi di doppie dissociazioni: alcuni casi di doppia dissociazione consentono di distinguere dei deficit di conoscenza strutturale da deficit selettive della conoscenza semantica = vi erano pz con compromessa conoscenza strutturale e preservata come conoscenza semantica e viceversa. Un test che consente di verificare questa diverso livello di compromissione è il test della plausibilità degli oggetti. Mediante questo test si presentano alcuni stimoli visivi al pz e gli si chiede di indicare quali sono reali o plausibili e quali invece sono inesistenti, o non plausibili. Alcuni pz sono in grado di eseguire correttamente questo test e di indicare gli oggetti reali senza però saper fornire alcun tipo di indicazione rispetto agli aspetti funzionali e semantici di quelli oggetti. Però questi stessi pz sono in grado di eseguire correttamente il test se eseguito in modalità verbale. Questo dimostra che la conoscenza semantica è preservata, poiché possono accedervi mediante altre modalità sensoriali, ma vi è una compromissione a livello di conoscenza strutturale mediante modalità visiva. Ci sono anche casi opposti che hanno dato luogo a diverse doppie dissociazioni che ci consentono di distinguere un’agnosia associativa da conoscenza strutturale, un’agnosia associativa da conoscenza semantica. Inoltre, sono stati documentati anche dei casi di doppie dissociazioni categoriali = disturbi del riconoscimento di stimoli appartenenti alla categoria dei viventi o non viventi. È stato osservato che alcuni pz hanno difficoltà nel riconoscere animali, ma non oggetti di uso comune o viceversa. Una possibile spiegazione deriva dal fatto che le maggiori difficoltà riscontrate nell’identificazione della categoria dei viventi siano associate al fatto che le immagini dei viventi sono di più complessa discriminazione (presentano molti più dettagli per cui il loro riconoscimento richiede una analisi più complessa). Basti pensare alla differenza fra un cane e un gatto, a pensarci bene entrambi hanno 4 zampe, hanno una coda, 2 orecchie, ecc. di conseguenza la discriminazione fra cane e gatto dovrà far ricorso a una serie di altri dettagli percettivi che consentono poi il riconoscimento. Tuttavia questa interpretazione spiegherebbe le difficoltà in termini di conoscenza strutturale, ma non in termini di conoscenza semantica. E’ stato infatti dimostrato che alcuni di questi pz sono poi in grado di riconoscere correttamente l’appartenenza semantica di uno stimolo appartenente alla categoria vivente se presentata in altre modalità sensoriali (verbali). Di conseguenza questo tipo di interpretazione è plausibile ma limitata soltanto all’aspetto strutturale della categoria. Al contrario sono stati osservati anche dei casi in cui la dissociazione avveniva esclusivamente a livello semantico, e quindi indipendentemente dalla modalità sensoriale di presentazione (alcune persone avevano una compromissione di conoscenze semantiche della categoria dei viventi piuttosto che selettivamente categoria dei non viventi). Queste doppie dissociazioni hanno consentito di individuare un’ulteriore modularità all’interno di questo stadio di elaborazione. Tuttavia i casi che sono descritti in letteratura sono veramente pochi per cui le ipotesi interpretative sono diverse, per cui sarebbero appunto necessarie osservazioni e più valutazioni differenziate prima di poter giungere a spiegazione unitaria conclusiva. All’interno dell’agnosia associativa di tipo semantico, vi è un’altra possibile distinzione: il disturbo associativo semantico è dovuto ad un deficit di accesso alla traccia semantica, o piuttosto a un deterioramento della traccia semantica nel magazzino? Vi sono alcuni criteri condivisi che si possono utilizzare e che consentono di distinguere ulteriormente i 2 livelli di compromissione nell’ambito dell’agnosia associativa di carattere semantico: priming semantico = priming vuol dire un innesco: è una sorta di suggerimento che si dà in termini cognitivi e consiste in questo: si presentano una serie di stimoli al soggetto e gli si chiede di indicarne l’appartenenza categoriale quindi riconoscimento semantico. È stato osservato che se lo stimolo target ( quello da riconoscere) è preceduto da altri stimoli appartenenti alla medesima categoria (priming semantici), questo avrà un effetto facilitatore sul riconoscimento dell’oggetto stesso = la presentazione di un priming semantico immediatamente prima rappresentazione dell’oggetto da riconoscere, fa sì che quest’ultimo acceda più facilmente alla traccia semantica, proprio perché facilitato dallo stimolo che lo ha proceduto. L’effetto dei priming semantico emerge soltanto in presenza di una difficoltà di accesso al magazzino (poiché l’innesco del priming facilita l’accesso alla traccia semantica). Al contrario se il deficit fosse nel deterioramento della traccia semantica il priming non può facilitarne il riconoscimento ovvero la presentazione di altri stimoli cmq non faciliterà il recupero di una traccia deteriorata. la frequenza d’uso e la presentazione prolungata dello stimolo la frequenza d’uso è un criterio che si riferisce alla frequenza con cui il pz rievoca, utilizza un determinato oggetto = potremmo dire il suo livello di familiarità con un certo oggetto. Se vi è un decadimento di quella traccia mnestica è chiaro che questo non risente della frequenza d’uso dell’oggetto stesso, poiché un decadimento comprometterà cmq rievocazione. Al contrario una maggiore frequenza d’uso consentirà un migliore accesso alla traccia amnestica, poiché più volte il soggetto con più frequenza avrà avuto accesso alla medesima traccia. Se vi è una difficoltà nel rievocare un oggetto è funzionale alla frequenza d’uso dell’oggetto stesso siamo probabilmente di fronte a un disturbo di accesso alla traccia. Il criterio della presentazione prolungata dello stimolo potrà avere un effetto facilitatore sulla prestazione dell’oggetto sé questo presenta un disturbo di accesso. Presentazione prolungata dello stimolo vuol dire che lo stimolo viene presentato con una durata maggiore. Se il soggetto viene esposto maggiormente per più tempo, più a lungo a quell’oggetto è possibile che questo ne faciliti l’accesso alla relativa traccia. Se al contrario siamo di fronte a un deterioramento di quella traccia mnestica, la durata di presentazione non faciliterà la prestazione, poiché la traccia può essere decaduta di conseguenza è impossibile accedervi. Anche in questo caso sono state riportate delle doppie dissociazioni fra disturbi di accesso al magazzino semantico e disturbi deterioramento della traccia semantica che indicano una organizzazione modulare anche all’interno di questo specifico step del processo di elaborazione. Le lesioni che provocano delle agnosie associative riguardano aree occipito temporali sx sebbene come detto è un quadro clinico di piuttosto raro riscontro. DOCUMENTARIO PERCEZIONE VISIVA = Parlando del sistema visivo e di disturbi della percezione visiva sarà immerso probabilmente un aspetto molto molto interessante: il nostro sistema percettivo non agisce in maniera passiva = non si limita ad acquisire delle immagini staticamente come potrebbe fare una fotocamera, ma acquisisce delle info e poi le interpreta, le elabora, le lavora dando luogo a una serie di fenomeni molto interessanti. Alcuni di questi sono stati descritti in maniera molto accurata dalla gestalt che ha presentato una serie di famose illusioni che spiegano bene il funzionamento del sistema percettivo (basta pensare al fenomeno del completamento = alcuni disturbi sensoriali elementari teoricamente dovrebbero compromettere la capacità del pz di visualizzare una parte o una metà del campo visivo, e quindi di alcune figure). Talvolta la percezione di questi pz viene riferita nella norma, di conseguenza il pz non riconosce il proprio disturbo: questo perché il suo sistema visivo compensa parte del disturbo e lo fa mediante il fenomeno del completamento. I sistemi sensoriali e sistemi cognitivi si integrano e lavorano insieme per dar luogo a quel fenomeno straordinario che è la percezione visiva umana che ci consente d i elaborare, cogliere tutti gli aspetti della realtà esterna. Questi fenomeni del funzionamento del sistema visivo vengono descritti in un documentario (memex: la mente visiva). PROSOPOAGNOSIA = difficoltà nel riconoscimento dei volti. Questi pz sono incapaci di riconoscere l’identità di una persona sulla base del loro volto. Tuttavia, potrebbero ancora essere capaci di identificare le persone sulla base di altri elementi percettivi, come il modo di vestire, di camminare, il tono della voce, ecc. Il riconoscimento basato su indizi limitati al volto sarà compromesso sul tipo di disturbo della percezione. Quindi le persone saranno incapaci di riconoscere una persona in fotografia, o in alcune forme sono addirittura incapaci di riconoscere sé stessi di fronte a uno specchio. Inizialmente la prosopoagnosia venne considerata come parte di una compromissione globale delle capacità di discriminare stimoli visivi complessi = si è ritenuto a lungo che il disturbo non fosse specifico del riconoscimento dei volti, ma fosse attribuito a una compromissione delle capacità di discriminare stimoli visivi particolarmente ricchi di dettagli (attribuire un’identità di un volto vuol dire porre attenzione a una serie di piccoli indizi quali la distanza degli occhi, le caratteristiche delle labbra, ecc.). Questa interpretazione era basata prevalentemente sul frequente riscontro di associazioni di sintomi = associazioni fra la prosopoagnosia e altri disturbi della percezione (altre forme di agnosia). L’associazione di sintomi in neuropsicologia è cosa frequente e che non deve favorire delle inferenze teoriche troppo semplicistiche, poiché la natura della lesione o giustifica l’urgenza di più disturbi ma la storia insegna che spesso in letteratura sono state riscontrate poi delle doppie dissociazioni che hanno per la prima volta consentito di individuare delle specificità in determinati processi di elaborazione. L’interpretazione corrente del disturbo lo descrive come una compromissione specifica, selettiva per il riconoscimento dei volti. Questa conclusione si basa sull’osservazione di diverse doppie dissociazioni. Venne descritto un caso di un medico che presentò prosopoagnosia a seguito di una lesione. Questa persona a un certo punto dovette rinunciare alle proprie attività professionali perché questo disturbo comporta una serie di compromissioni di disabilità importanti nella vita di tutti giorni per cui era incapace di riconoscere i propri colleghi, i pz, ecc. Decise di diventare un contadino e di allevare delle pecore. A distanza di anni questo pz si stupì del fatto che era diventato capace di riconoscere ciascuna delle sue pecore osservandole in fotografia ma non era ancora capace di riconoscere la propria moglie o i figli sulla base del volto. Aveva oltre 10 pecore e sosteneva che ciascuna di loro ha delle caratteristiche particolari che lui era capace di distinguere poiché a ciascuna aveva assegnato un nome, quindi era capace di riconoscerle. Ora io sfido chiunque di voi a distinguere una pecora dall’altra, è molto difficile distinguere delle pecore. Questo medico sosteneva di poterlo fare e questa conclusione destò talmente tanto interesse che ci fu chi provò a verificarlo sperimentalmente... Come ulteriore verifica le foto di alcune pecore vennero mescolate casualmente alle foto di altre pecore e lui era esattamente in grado di riconoscere quelle che appartengono al suo gregge e quelle che erano sconosciute. Tuttavia, rimaneva un grave disturbo, una grave compromissione nell’identificazione dei volti umani, addirittura familiari. filmato (YouTube: prosopagnosia) una pz con prosopoagnosia. Le vengono mostrate le foto di diverse persone e le viene chiesto di indicare chi fra queste donne è sua madre. Le foto sono state scoperte lei era incapace inizialmente di identificare la mamma basandosi sul volto, poi le foto sono state scoperte e questo le ha consentito di osservare più indizi, perché è possibile che con l’identificazione della persona si orienti prevalentemente su caratteristiche e aspetti diversi da quelli del volto. La pz sta raccontando un po' il suo vissuto e dice che è difficile non poter riconoscere i propri familiari. Le vengono mostrati volti di personaggi molto molto famosi nella sua nazione, e anche in questo caso non è capace di riconoscere persone note. La pz è evidentemente a disagio e lo si nota anche dalla sua postura. Osservate bene questa foto. E’ la sua foto, e lei stessa e non si è riconosciuta. Quindi le compromissioni di questo disturbo possono essere anche molto serie. RICONOSCIMENTO DEI VOLTI. IL MODELLO DI BRUCE E YOUNG. 1986 = il modello neurocognitivo più accreditato è il modello del riconoscimento dei volti di Bruce del ’86: l’elaborazione di volti conosciuti e di volti sconosciuti procede in parallelo ma risponde a meccanismi differenti. Vi sono delle prime fasi di elaborazione comune volti noti e sconosciuti, e altre poi specifiche dei volti familiari. Fasi di elaborazione comuni: vi è anzitutto un’elaborazione sensoriale visiva, se vi fossero dei deficit a Sopra viene mostrato schematicamente quanto detto. Immaginate che il soggetto abbia un’amputazione a livello dell’arto superiore dx, trascuriamo quello che accade in periferia e concentriamoci sulle aree centrali. Ciò che avviene nell’emisfero controlaterale, là dove si verifica la riorganizzazione, è un processo di smascheramento: l’iniziale disinibizione delle sinapsi silenti preesistenti; processo di gemmazione neuronale quindi nascita poi di nuovi sinapsi, nuovi neuroni deputati a un lavoro differente; disinibizione generale dell’attività neuronale; processo di rimappatura corticale: va a trasformarsi l’homunculus tradizionale; perdita di neuroni e funzionalità neuronale; denervazione, modificazioni strutturali nei neuroni e incongruenza senso-motoria/senso-sensoriale (tipo di incongruenza che crea il fenomeno e i sintomi associati = il dolore - dovuto proprio alla differenza fra le afferenze percepite dal cervello e la mancata possibilità di produrre le efferenze sull’arto mancante). L’ incongruenza dà luogo al fenomeno dell’arto fantasma e produce dolore nella zona interessata. Filmati: ci mostrano una particolare terapia che si utilizza con i pz con l’arto fantasma: chiamata Mirror therapy o terapia dello specchio (YouTube: terapia del dolore cronico con uno specchio) = si fornisce a questi pz (al cervello di questi pz) una sorta di illusione: mediante lo specchio si fa in modo che il pz visualizzi la parte controlaterale dell’arto sano. Questa semplice illusione percepita consapevolmente dal pz, serve a illudere il cervello ed è molto molto efficace nel ridurre le sensazioni di dolore. È un tipo di terapia che favorisce molto la qualità di vita di questi pz. Qui vediamo un esempio di un pz con amputazione della gamba: interessante notare che riferisce di a distanza di 21 anni di non avere picchi di dolore che cmq lui chiama i soliti fastidi quindi cmq vi è una presenza di dolore sebbene meno intenso anche a distanza di così tanti anni, il che fa pensare che questo pz nelle fasi precedenti abbia invece esperito livelli importanti di dolore. Non a caso riferisce una sensazione di benessere quando vede la gamba rispecchiata. Questa è un'altra caratteristica, lo specchio non deve essere piegato o inclinato affinché l’illusione abbia effetto, e lui questo effetto lo sta dimostrando proprio con il suo resoconto soggettivo dicendo che interrompe il benessere piegando lo specchio in direzione inopportune come in questo caso. Ovviamente questa è una piccola nota generica quando si lavora in ambito clinico con i pz si fanno terapie, mentre le nostre scelte devono essere dettate da dei risultati che provengono dalla letteratura scientifica, da linea guida di riferimento, da ciò che è stato pubblicato già osservato e descritto, la decisione di un protocollo non può basarsi come sta lasciando credere questa dott.ssa su non mi convince, penso sia meglio. In realtà questo setting viene consigliato per più volte al giorno, deve essere proprio un addestramento per il pz che deve fare a casa. Poi dà la dimostrazione di quanto vi ho anticipato: in quel caso il problema era solo della dott.ssa che credeva che la ripetizione quotidiana di un esercizio fosse poco convincente o problematica, in realtà siamo di fronte a un disabile che ha una sintomatologia molto importante, gli è stato dato un elemento semplice ma molto efficace, gli dà del benessere, gli restituisce delle sensazioni che non provava da tanti anni. Oltre a essere efficace dal p.to di vista clinico, sintomatologico. Possiamo percepire un'altra cosa: lui percepisce del prurito talvolta dal lato mozzato: immaginate quale può essere la sofferenza di avvertire del prurito in una gamba che non è possibile grattare. Questo crea del disagio, in questo caso non parliamo del dolore, ma proprio del disagio. Mediante lo specchio può illudere il cervello, grattare il lato opposto a quello amputato e cmq dare del sollievo. Può essere utilizzato chiaramente anche per un braccio (YouTube: mirror box therapy with david butler), per una mano. vediamo una modalità molto semplice di specchio: portabile. Viene utilizzata con pz che hanno un’amputazione a livello della mano. Il principio è lo stesso. Qua elencano una serie di problematiche per le quali questa terapia è utile. A ltri sintomi, artriti, ecc. Sentite cosa ha detto: l’opposto di quanto era nel video precedente = sta dicendo che è importante che si possa portare con sé lo specchio poiché a volte bisogna utilizzarlo per un’ora, anche per due ore al giorno. Affinché l’illusione sia completa è importante che il braccio sia libero da oggetti che confonderebbero rispetto a una possibile illusione. Fa vedere alcune tecniche di utilizzo dello specchio, la terapia dello specchio. Alcune tecniche consistono nel fare il finger thumbing (toccare le dita, posizionarle sullo specchio, provare a maneggiare degli oggetti). Il tipo di tecnica da utilizzare dipende dall’obiettivo della riabilitazione. Quindi se è un problema motorio nell’arto, per cui si vuole riabilitare la persona a compiere dei movimenti più fini della mano o delle dita bisogna fare delle cose. Se invece siamo di fronte a un arto mancante la riabilitazione avrà scopi diversi. Alternare movimenti fra le mani. Sta dicendo che con la mano compromessa può provare a stringere dentro la scatola magari il pz lo farà con poca forza, dall’altra parte l’arto sano invece dovrà stringere invece con molta forza e questo produce con tempo una riabilitazione motoria, ma questo a chi la mano ce l’ha. Questi sono gli effetti, quindi le modalità delle quali agisce questo tipo di terapia. Utilizzarli in diversi contesti, con diversa luce, più volte al giorno, con persone di fianco, la musica etc. differenti stati emozionali. Cioè cercare di generalizzare il più possibile il fenomeno, questo è l’obiettivo. Un ultimo filmato in italiano (YouTube: dall’Austria arriva la protesi che riproduce sensazioni tattili) descrive una modalità differente con la quale si dà del sollievo o cmq si risolve l’aspetto sintomatologico del fenomeno dell’arto fantasma. Qui parliamo di protesi. Un po' diverso. In questa lezione abbiamo visto quali possono essere delle conseguenze di un’interruzione delle afferenze sensoriali, e come la neuropsicologia può rivelarsi utile nel mettere appunto delle tecniche di intervento, e validare delle tecniche di intervento che chiaramente non possono essere risolutive al problema principale dell’amputazione dell’arto ma che cmq aumentano di moltissimo la qualità di vita dei pz. ALTRI TIPI DI AGNOSIA. AGNOSIA PER I COLORI = disturbo nel riconoscimento dei colori. Affinché possa essere diagnostica un’agnosia bisogna escludere la presenza di disturbi sensoriali elementari. Nel caso specifico i disturbi sensoriali elementari che compromettono le abilità di percezione dei colori, sono: la acromatopsia e la discromatopsia (si riferiscono rispettivamente alla visione bianco e in nero e alla incapacità di discriminare fra colori diversi; la acromatopsia è dovuta a una lesione dell’area V4 area della visione v4, la discromatopsia si associa a lesioni delle cortecce parietali). Una pura agnosia per i colori rappresenta un disturbo che viene classificato in 2 famiglie: l’agnosia da dissociazione visuo- verbale e agnosia per i colori. • dissociazione visuo-verbale: i pz riescono normalmente in compiti di discriminazione acromatica e riescono ad accoppiare 2 stimoli che presentano lo stesso colore, riescono a individuare gli stimoli con colore diverso. Falliscono in compiti di denominazione e indicazione del colore su richiesta verbale: se si chiede a questi pz di indicare il colore di un particolare stimolo visivo che stiamo mostrando sarà incapace di farlo. Allo stesso tempo se si chiede al pz di indicare fra gli stimoli visivi quello di colore giallo piuttosto colore rosso il pz sarà incapace di portare a termine la richiesta. In questa forma di agnosia per i colori in genere la lesione compromette le connessioni fra le aree visive dell’emisfero dx e le aree del linguaggio più anteriori dell’area frontale sx (i centri del linguaggio). Il processo di elaborazione delle aree visive sensoriali sarà preservato = ciò che viene meno in questi pz è la trasmissione dell’info dalle aree occipitali, quindi visive, alle aree anteriori deputate al processo di denominazione. • amnesia per i colori: i pz falliscono in prove di associazione stimolo-colore = se si chiede al pz di indicare qualunque colore tipico di un certo oggetto, sarà incapace di portare a termine la prova in maniera corretta. Quindi gli si potrebbe chiedere di che colore sono le ciliegie, di che colore la banana etc. il pz sarà incapace di indicare lo stimolo colore accoppiato a un certo oggetto. Il deficit in questo caso si presenta in tutte le modalità, quindi per stimoli presentati in un’unità visiva, modalità tattile e uditiva. Sono preservate le abilità di denominazione: i pz sono assolutamente capaci di denominare i colori e quindi di riconoscere rosso, giallo, verde ecc. Si tratta di una compromissione che va a ledere specificamente la memoria semantica per i colori ma non la capacità di indicarli o denominarli. PERCEZIONE UDITIVA = AGNOSIA UDITIVA = affinché un’agnosia possa essere diagnostica come tale, bisogna che si escludano dei disturbi sensoriali elementari. Nel caso della percezione uditiva, potrebbero essere lesioni al nervo acustico e in questo caso vi sarà una sordità per l’orecchio ipsilaterale al nervo leso, o il disturbo può essere conseguente di lesioni alla via uditiva nel tronco encefalico, in questo caso si avrà una sordità parziale. Da ciascun orecchio il segnale neurale viene trasmesso bilateralmente alle cortecce uditive primarie: le nostre cortecce uditive (localizzate nel lobo temporale), ricevono info sia dall’orecchio ipsilaterale che controlaterale. Quindi ciascun orecchio proietta bilateralmente il segnale neurale e questo è il motivo per cui delle lesioni unilaterali alla corteccia uditiva non sono sufficienti a rendere una persona sorda. Sarà necessario che le lesioni cerebrali interessino entrambe le cortecce uditive (entrambe le cortecce temporali) affinché vi sia un disturbo della sordità completo. Le agnosie uditive consistono in disturbi nel riconoscimento di suoni non verbali in assenza di sordità (se sordità = disturbo sensoriale elementare). Agnosie uditive possono essere di 3 tipi: vi è agnosia per i suoni ambientali, l’agnosia per la voce umana e l’agnosia per le arie musicali. Tutte queste forme di agnosia in letteratura sono state riscontrate a seguito di lesioni a entrambe le cortecce temporali, quindi dx e sx. Ancora oggi non vi è una grande selettività anatomica che ci consenta di individuare un centro per l’elaborazione della voce umana piuttosto che dei suoni ambientali: è quasi come se delle simili lesioni si associano a manifestazioni sintomatologiche diverse. Questa conclusione ha fatto anche dubitare della reale esistenza di diverse agnosie, però ad oggi sono stati riscontrati dei casi, diversi casi di doppia dissociazione, come spesso accade e questo ci consente di classificare le agnosie uditive in queste 3 classi principali e siamo abbastanza certi di poter attribuire a ciascuno di questi tipi di elaborazione una sua indipendenza dalle altre 2. Può darsi che ciascuna di queste elaborazioni uditive, venga processata da aree cerebrali che sono attigue, per questa ragione probabilmente è difficile identificare un centro specifico e sappiamo solo che le cortecce temporali bilaterali sottendono queste funzioni. È però anche possibile che l’agnosia uditiva interessi tutte e 3 le modalità osservate e in quei casi si parlerà di agnosia globale, agnosia uditiva globale = incapacità di riconoscere suoni ambientali, voce umana e musicali. PERCEZIONE SOMATOSENSORIALE = SISTEMA SOMATOSENSITIVO = alcuni richiami di neurofisiologia: il sistema somatosensitivo sottende elaborazione di 4 diversi aspetti della percezione somatosensoriale: il tatto discriminativo (la capacità di maneggiare un oggetto e riconoscerne forma, dimensioni, superficie), la propriocezione (posizione dei arti e del corpo nello spazio), la nocicezione (segnali provenienti da vissuti e la percezione del dolore), la sensibilità termica (la percezione di discriminare il caldo e il freddo). In corteccia le aree principali che sottendono quelle funzioni sono la corteccia somatosensoriale primaria, somatosensoriale secondaria anche chiamate rispettivamente S1 ed S2, oltre alle cortecce associative. Funzioni processate dal lobo parietale, aree post rolandiche. L’area somatosensoriale primaria si estende molto lateralmente e raggiunge delle aree che sono quasi attigue ad alcuni centri del linguaggio: questo è il motivo per cui disturbi della percezione tattile si associano a disturbi del linguaggio. Più lateralmente troviamo la corteccia somatosensoriale secondaria, mentre le cortecce associative somatosensoriali riguardano l’area di Brodmann 5 e 6 e interessano la corteccia parietale. Delle lesioni alla corteccia somatosensoriale primaria comprometteranno la capacità di identificare la forma, il peso, la dimensione di un oggetto sulla base del tatto. La corteccia somatosensoriale secondaria riceve info da tutte le aree S1, di conseguenza una compromissione a questo livello produrrà dei disturbi quasi analoghi a quelli che si hanno da lesione diretta di S1. Lesioni invece dell’area associativa quindi area 5,7 di Brodmann nel lobo parietale possono produrre vari sintomi come anche ad esempio la incapacità di prestare attenzione degli stimoli che provengono dall’emispazio controlesionale. Abbiamo già discusso in altre lezioni di altri disturbi che si associano alle lesioni delle cortecce parietali, abbiamo ad esempio considerato neglect e questa è la ragione per cui spesso delle lesioni a carico della corteccia parietale danno anche luogo alla sintomatologia di altro genere. Che abbiamo già discusso in parte.
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