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Trascrizione video pillole Diritto del lavoro avanzato (modulo I - prof. Senatori), Sbobinature di Diritto del Lavoro

Trascrizione video pillole Diritto del lavoro avanzato (modulo I - prof. Senatori). Anno 2022/2023

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 24/11/2022

Lorenzo.42
Lorenzo.42 🇮🇹

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Scarica Trascrizione video pillole Diritto del lavoro avanzato (modulo I - prof. Senatori) e più Sbobinature in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! Video 2 e 3. Rappresentanza collettiva dei lavoratori. Introduzione. Il modulo si basa sulla rappresentanza collettiva dei lavoratori con particolare riferimento a come gli istituti di rappresentanza collettiva dei lavoratori cambino rispetto alle trasformazioni delle relazioni di lavoro. Iniziamo a definire il concetto e la funzione della rappresentanza collettiva dei lavoratori, cominciamo dalle fonti di livello più alto che si occupano di questo tema (sono entrambe di rango costituzionale, perché anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è collocata al livello più alto, come i trattati). - Art. 39 Cost. è dedicato alla libertà sindacale: “l’organizzazione sindacale è libera”. Una frase secca e non chiarissima. Cosa significa organizzazione? Cosa significa sindacale? - Art. 12 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (diritto di associazione): “il diritto di ogni persona di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi”. Due sono gli elementi importanti di questa definizione. In primis, “Insieme con altri” dà l’idea dell’importanza della dimensione collettiva per aggregare e difendere interessi comuni. La dimensione collettiva nasce con la Rivoluzione Industriale, ma è stato per lungo tempo osteggiato. Adesso l’ordinamento riconosce che, nelle relazioni di lavoro, gli interessi delle parti (lavoratori ma anche datori di lavoro) possono essere perseguiti attraverso meccanismi di auto-difesa (autotutela) – quindi non solo rimettendosi a norme di legge, ma anche con strumenti diversi – rispetto ai quali assume carattere determinante la dimensione collettiva (organizzazione e azione). Anche nei contratti collettivi aziendali i lavoratori sono organizzati collettivamente, sono le rappresentanze collettive dei lavoratori in azienda a sottoscrivere i contratti collettivi: non viene meno l’elemento dell’autotutela collettiva. Mentre l’impresa lo sigla come soggetto individuale. Questo elemento collettivo è solo eventuale dalla parte dell’impresa mentre è necessario dalla parte dei lavoratori per poter dare quel contropotere in modo tale da avviare un dialogo paritario ai tavoli negoziali. Il secondo elemento è “Per la difesa dei propri interessi”. Che cosa significa? Solitamente si tende a non sindacare nel merito le azioni del sindacato. Nel concetto di libertà sindacale dell’art.39 è considerato implicito che siano i lavoratori stessi e le loro organizzazioni a decidere che cosa sia un loro interesse comune (rispetto alle condizioni di lavoro, della retribuzione…). Con un solo limite: il divieto di costituire sindacati di comodo (costituiti o finanziati dal datore di lavoro per perseguire il suo interesse invece di quello dei lavoratori. Questo è vietato dall’art. 17 dello Statuto dei lavoratori). Secondo l’orientamento europeo l’azione sindacale deve essere rivolta al miglioramento delle condizioni di lavoro e il giudice può verificare se, date le circostanze di ogni caso concreto, quella determinata iniziativa posta in essere da un sindacato fosse realisticamente condotta a migliorare le condizioni di lavoro. Quali sono per l’ordinamento italiano i contenuti della libertà sindacale? Un concetto fondamentale è quello di categoria. La categoria è l’elemento basico della struttura organizzativa che si danno le organizzazioni sindacali. Nel nostro ordinamento la categoria corrisponde al settore economico in cui si svolge la prestazione lavorativa (settore merceologico). Il sindacato, quindi, riunisce nella medesima categoria tutti i lavoratori che svolgono la propria attività nell’ambito di quel settore economico. Il presupposto, quindi, è quello che l’interesse comune derivi dal lavorare nello stesso settore, piuttosto che, come in altri ordinamenti, dallo svolgere la stessa attività di lavoro, ovvero essere camionisti ecc. Il settore merceologico, infatti, è anche il perimetro per l’applicazione dei contratti collettivi. Questa articolazione pone dei problemi riguardo alle innovazioni del mercato del lavoro: - Inquadramento giuridico delle esperienze di rappresentanza collettiva dei nuovi lavori, es. movimenti urbani dei riders. Gli interessi di questi soggetti sono stati portati avanti non solo dalle organizzazioni sindacali classiche, ma anche da org. Sindacali di base, nate in quel specifico ambito. Questo è un dato nuovo che ci spinge a riflettere: gli strumenti giuridici con cui regoliamo le relazioni di lavoro stanno reagendo rispetto alle nuove forme di lavoro. - Un altro aspetto che riguarda i lavoratori delle piattaforme è: qual è, volendo anche ricondurre agli schemi tradizionali del sindacato, la categoria che può più efficacemente rappresentare gli interessi di questi lavoratori che sono al confine fra vari settori merceologici? Non a caso questa situazione ha portato alla stipulazione di contratti collettivi che ci sono impegnate categorie del terziario ma anche della logistica e dei trasporti. I riders effettuano servizi di trasporti ma lo fanno nel settore merceologico della vendita di beni alimentari. - Un altro aspetto è la bipartizione fra la libertà positiva (fondare un sindacato, aderire a un sindacato) e la libertà negativa (non aderire). Questa libertà è tutelata esplicitamente dall’art 15 dello Statuto dei lavoratori che si occupa di tutelare le discriminazioni fondate su qualsiasi scelta sindacale. - Un altro profilo della libertà sindacale riguarda i limiti al datore di lavoro di influenzare le scelte sindacali dei lavoratori, quindi di fare propaganda a favore o contro determinati sindacati. Questo comportamento è vietato dall’art.28 Statuto dei lavoratori (sulla condotta antisindacale). - Il concetto di libertà sindacale ha un ulteriore effetto, che è quello di limitare l’estensione del campo di applicazione dei contratti collettivi al di fuori dell’insieme dei lavoratori iscritti al sindacato che ha stipulato il contratto collettivo. Dunque, esiste il diritto a rifiutare l’applicazione di un contratto collettivo stipulato da un sindacato a cui il lavoratore non è iscritto. Quali sono gli strumenti della rappresentanza collettiva? Partiamo dall’ordine gerarchico delle fonti e quindi a livello costituzionale sovranazionale. - L’art 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE stabilisce il “diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi ai livelli appropriati”. Quindi i diritti reciproci delle parti devono essere rispettati già dal momento in cui si avvia il processo negoziale che potrebbe condurre alla stipulazione di contratti collettivi. - Per capire come il diritto di contrattazione collettiva si inserisca nel contesto della libertà sindacale è interessante leggere l’evoluzione della giurisprudenza internazionale. In particolare, quella della Corte europea dei diritti umani (nel caso di Demir e Baykara), che è l’organismo giurisdizionale che decide in merito all’interpretazione della convenzione europea dei diritti umani. La Corte, nella pronuncia Demir e Baykara ha svolto un ragionamento importante per spiegare il ruolo del diritto di contrattazione collettiva nel sistema dei diritti afferenti alla libertà di associazione sindacale. La convenzione non stabilisce espressamente il diritto alla contrattazione collettiva, ma la Corte europea ha stabilito che il diritto di contrattazione collettiva è parte integrante del diritto di associazione sindacale. Il contratto collettivo è il principale strumento attraverso cui si realizza la funzione di tutela degli interessi collettivi dei lavoratori. Quindi, se l’essenza della libertà sindacale è quella di tutela degli interessi collettivi dei lavoratori allora la protezione garantita dall’ordinamento non può limitarsi al momento in cui si forma l’organizzazione, ma si deve estendere a tutte le principali modalità attraverso cui poi si esprime questa organizzazione collettiva degli interessi. La contrattazione collettiva è dunque implicita e dev’essere tutelata come una componente essenziale del diritto di associazione/aderire ad un sindacato. Nell’ordinamento interno il diritto di contrattazione collettiva non è sancito espressamente, anche se è sempre stato ricondotto al principio di libertà sindacale dell’art. 39. - Sempre all’art. 39 si legge al c. 4 Cost.: i sindacati aventi personalità giuridica possono stipulare contratti collettivi dotati di efficacia speciale “erga omnes” (applicata a tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contr. Collettivo fa riferimento). Secondo la Costituzione è un istituto che può essere applicato solo da sindacati dotati di personalità giuridica. Questa norma non è mai stata applicata nel nostro ordinamento, i sindacati non hanno mai richiesto il riconoscimento come persone giuridiche, ma operano come associazioni di fatto. nell’ambito di specifiche associazioni sindacali, cioè quelle che abbiano stipulato dei contratti collettivi nell’unità produttiva. Perché queste due limitazioni? Perché queste prerogative sono onerose per il datore di lavoro. L’esercizio di questi diritti, ad esempio riunirsi in assemblea durante l’orario di lavoro, costituisce un costo. Il requisito dimensionale si spiega col presupposto che solo imprese che hanno una certa dimensione abbiano la solidità organizzativa ed economica per sostenere questi costi. L’altro criterio, l’aver stipulato un contratto collettivo, premia l’organizzazione sindacale sulla base della sua rappresentatività, cioè sulla base della sua effettiva capacità di rappresentare collettivamente gli interessi dei lavoratori. Il fatto che solo ad alcune organizzazioni sindacali spettino queste prerogative speciali ha sollevato alcuni dubbi, ma la Corte costituzionale ha sempre ritenuto che una differenziazione di questo tipo non leda il principio costituzionale di uguaglianza, purché però i criteri selettivi individuati dal legislatore siano ragionevoli. Negli anni, la nozione di rappresentatività è mutata nel corso del tempo perché nella versione originaria dell’art 19 dello St. lav. Il legislatore presumeva che il requisito della rappresentatività spettasse a tutte le organizzazioni sindacali che aderivano alle confederazioni maggiormente rappresentative (cgil,cisl,uil). Successivamente il criterio è stato modificato per tendere all’identificazione di una rappresentatività effettiva concretamente misurabile e non solo da presumere. Ecco che il criterio cambia e diventa l’avere stipulato un contratto collettivo nell’unità produttiva. È quindi quest’ultimo che qualifica l’organizzazione sindacale come soggetto rappresentativo in quanto capace di costringere il datore di lavoro a sedersi un tavolo e fare delle concessioni attraverso la stipulazione di un contratto collettivo. Qual è il problema che segue a questa formulazione della rappresentatività? Che il contratto collettivo diventa la porta di accesso ai diritti sindacali; stipulando il contratto collettivo si acquisisce anche il potere di costituire delle rappresentanze sindacali aziendali. Il datore di lavoro sa che se stipula il contratto collettivo viene come effetto ulteriore quello di aprire le porte dei luoghi di lavoro alle rappresentanze sindacali aziendali e il sindacato sa che la stipulazione del contratto collettivo può essere il prezzo da pagare per poter accedere ai luoghi di lavoro attraverso le proprie rappresentanze sindacali. Tra il 2009 e il 2011 la FIAT aveva proposto la stipulazione di un contratto collettivo unico di primo livello, non legato ai contratti nazionali del settore metalmeccanico e la FIOM-CGIL aveva deciso di non sottoscriverlo con effetto di trovarsi escluso dal godimento dei diritti sindacali perché non più idoneo a soddisfare i requisiti sanciti dall’art. 19 St. lav. Allora si è posto un quesito costituzionale: è legittimo un criterio selettivo disegnato in modo da forzare un sindacato a stipulare un contratto collettivo, in modo da ottenere come contropartita il godimento dei diritti sindacali? La Corte ha cambiato indirizzo: questo criterio non poteva più reggere sull’attuale sistema delle relazioni industriali, una situazione dove i sindacati più importanti spesso non si trovano uniti al tavolo negoziale. La Corte cost. ha cambiato ragionamento: l’art 39 Cost. tutela anche il dissenso, quindi la facoltà di non stipulare un contratto collettivo. L’art 19 St. lav. Deve essere reinterpretato, in modo da equiparare il sindacato stipulante a quello dissenziente che tuttavia abbia partecipato attivamente alle trattative. Questo ovviamente deve essere dimostrato con la presenza ai tavoli negoziali, con l’insieme di richieste al datore di lavoro eventualmente con azioni di pressione come lo sciopero… In parallelo alle Rappresentanze sindacali aziendali, c’è un altro soggetto che ha acquisito nel tempo un’importanza uguale a quella delle RSA, la rappresentanza sindacale unitaria (RSU). Questo soggetto non trae la disciplina costitutiva dalla legge ma da accordi fra le parti sociali, mediante inizialmente un protocollo interconfederale del 1993 e successivamente con un accordo interconfederale noto come Testo unico sulla rappresentanza del 2014. Come si formano le RSU? Non mediante designazione su iniziativa dei lavoratori, ma mediante elezione diretta dei lavoratori. Per quanto riguarda la loro struttura, hanno carattere unitario; cioè, mentre nel modello delle RSA ognuna può costituire la propria, le RSU sono un unico organismo collettivo composto dai rappresentanti di tutti i sindacati partecipanti all’elezione in proporzione dei voti conseguiti. Allora abbiamo un doppio livello di rappresentanza nei luoghi di lavoro? No, perché il meccanismo prevede una sostituzione: chi partecipa alla costituzione delle RSU rinuncia a costituire le proprie RSA. La clausola di salvaguardia prevede proprio da parte dei sindacati che partecipano alle elezioni delle RSU l’impegno a non costituire proprie RSA (anche se non viene eletto nell’organo). Le RSU subentrano alle RSA nel godimento delle prerogative sancite dalla legge a quest’ultime (diritti sindacali, informazione e consultazione, soggetto della contrattazione collettiva aziendale). Riassunto: oltre ad aver visto come funziona la rappresentanza collettiva nei luoghi di lavoro abbiamo parlato della rappresentatività. Quest’ultimo è un concetto che ha più significati: - Abbiamo visto finora la selezione delle organizzazioni sindacali abilitate all’esercizio di specifiche prerogative (parametro: stipula contratto collettivo applicato in azienda). - C’è poi un'altra nozione di rappresentatività che serve per selezionare i contratti collettivi che la legge individua come standard normativo ai fini della determinazione delle condizioni di lavoro in alcuni settori. Ovvero, fa riferimento per la definizione di certi standard normativi da applicare a determinate tipologie di lavoro, come i minimi retributivi del lavoro su piattaforma, ai contratti collettivi stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a livello locale o nazionale. Qua la rappresentatività viene anche misurata in modo diverso, perché in questi casi si fa riferimento non ai criteri esaminati finora, ma alla media tra numerosità iscritti al sindacato e i risultati conseguiti nelle elezioni RSU. Video 5. La contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi. Partiamo da un inquadramento del problema. Noi siamo abituati a pensare ai lavoratori autonomi come lavoratori che non hanno bisogno delle tutele tipiche del diritto del lavoro perché appartengono alla figura dei professionisti che con le proprie forze negoziali riesce ad ottenere dalle sue controparti il trattamento economico-normative volute. Nella realtà in veloce mutamento assistiamo a due fenomeni che mettono in discussione questa premessa. Il primo è legato alle nuove forme di lavoro, in particolare a quel del lavoro tramite piattaforma digitale: quale qualificazione giuridica? Normalmente sono lavoro autonomo, anche se spesso assistiamo a pronunce che identificano queste forme di lavoro come subordinato. C’è poi un altro filone, che è quello invece del lavoro genuinamente autonomo nel quale comunque un numero crescenti di lavoratori si ritrova in posizione di vulnerabilità (tipica del lavoratore subordinato). C’è un avvicinamento quindi fra le due tipologie. Il tema: i lavoratori autonomi possono accedere alle tutele collettive e in particolare a quelle fornite dalla contrattazione collettiva? Sono alla pari dei subordinati titolari dei diritti di rappresentanza collettiva e quindi anche di contrattazione collettiva? Nell’ordinamento italiano la risposta è positiva. Si ritiene che l’art.39 Cost. offra copertura anche all’organizzazione sindacale dei lavoratori autonomi, e quindi legittimi anche la contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi. C’è un problema però che viene dal diritto internazionale e quello europeo, perché questi ultimi, diversamente dall’ordinamento italiano, mettono in dubbio il riconoscimento dei diritti di contrattazione collettiva a favore dei lavoratori autonomi: questo pone un rischio di conflitto fra ordinamenti. Sul versante del diritto internazionale del lavoro una norma di riferimento è l’art. 11 CEDU (convenzione europea dei diritti dell’uomo). Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, la libertà di associazione sindacale presuppone l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. (Sindicatul Pastorul Cel Bun -> pronuncia che conferma quanto detto. Si trattava di un sindacato formato da sacerdoti in Romania che volevano contrattare le proprie condizioni di lavoro con la diocesi, ma per il diritto rumeno i sacerdoti non sono lavoratori subordinati e quindi secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo non essendo subordinati non potevano rivendicare il diritto di associazione sindacale e di contrattazione collettiva). Questo è un precedente che ha avuto effetti anche su cause molto note come Indipendent Workers Union Great Britain v. Deliveroo, risolto con il mancato riconoscimento del diritto di contrattazione collettiva ai lavoratori del food delivery in quanto lavoratori autonomi. È proprio facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte europea dei dir. Dell’uomo che anche le corti inglesi hanno ritenuto che essendoci alla base un lavoro autonomo (perché esisteva nel contratto fra i riders e la piattaforma una clausola di sostituzione che permetteva di adempiere alla prestazione non necessariamente con la prestazione d’opera personale ma anche delegando ad un terzo -> indice di autonomia e non di subordinazione) non potevano godere, secondo il diritto inglese, del diritto di contrattazione collettiva. Cosa dice il diritto europeo? Per il diritto dell’Unione Europea la contrattazione collettiva rappresenta una intesa restrittiva della concorrenza, in quanto è funzionale a fissare condizioni di lavoro (economico- normative) uniformi. La Corte di giustizia è uscita da questa possibile contraddizione individuando una clausola di esonero di intese restrittive della concorrenza di cui beneficiano i contratti collettivi purché: - Costituiscano il risultato di un negoziato tra organizzazioni di lavoratori e di imprenditori e - Perseguano il fine del miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori. Il problema è che questa eccezione viene riconosciuta solo ai lavoratori subordinati. La Corte di giustizia alcuni anni fa ha dovuto decidere rispetto alla possibilità di riconoscere un’analoga esenzione dal divieto di intese restrittive della concorrenza a favore dei lavoratori autonomi. In un caso che riguardava degli orchestrali assunti come sostituti di altri orchestrali in un teatro. Questi orchestrali rivendicavano di poter negoziare collettivamente le loro condizioni di lavoro; la causa è finita all’esame della Corte di giustizia che ha detto che i lavoratori autonomi non sono equiparabili ai subordinati. Quando un’organizzazione collettiva negozia sulle condizioni di lavoro a favore di lavoratori autonomi, non agisce come sindacato (che migliora le condizioni di lavoro) ma come organizzazione di imprese e pertanto è soggetta alla norma generale dell’art. 101 TFUE (trattato funzionamento UE), cioè al divieto di intese restrittive sulla concorrenza. Fa tuttavia eccezione l’ipotesi in cui i lavoratori siano “falsi autonomi”, ovvero prestatori che versano in una situazione paragonabile a quella dei lavoratori subordinati. Quindi che questa indipendenza che godano i lavoratori autonomi sia fittizia: sia per quanto concerne le condizioni di mercato, cioè che non siano economicamente indipendenti dal committente ma che la loro sussistenza dipenda da quei compensi di quel committente, sia alla funzionalità della loro prestazione (il lavoratore autonomo si organizza il lavoro, nel subordinato no). Il diritto classico non è più idoneo a inquadrare le sfide/problemi della realtà odierna perché sfuggono dai vecchi schemi. Allora il diritto europeo si sta attrezzando per adeguarsi a queste novità; ci sono due iniziative importanti che sta conducendo la Commissione europea a riguardo. La prima è una consultazione delle parti sociali su “azioni di risposta alle sfide riguardanti il lavoro su piattaforma” al fine di superare gli ostacoli strutturali che discendono dalle modalità di organizzazione del lavoro e di esecuzione della prestazione che impediscono in determinati settori di lavoro autonomo (come quello su piattaforma) di svolgere il dialogo sociale e la contrattazione collettiva nelle forme con le quali normalmente queste dinamiche hanno luogo. Mancano alcune delle premesse essenziali per l’organizzazione collettiva degli interessi: mancanza di un lavoro condiviso per decidere possibili linee di azioni comune e c’è elevata competizione fra i lavoratori delle piattaforme in cui le prestazioni vengono valutate con sistemi di rating che premiano i lavoratori che ricevono i voti migliori dai clienti (con più compensi ecc.). Quello del lavoro su piattaforme non stimola la solidarietà fra lavoratori, anzi la competizione. L’altra iniziativa ha ad oggetto la contrattazione collettiva e si propone di riformare la regola sul divieto di intese restrittive sulla concorrenza che è ad oggi l’ostacolo maggiore per il diritto del lavoro europeo per la possibilità per i lavoratori autonomi di accedere alla contrattazione collettiva. Si parla di estensione dell’“eccezione Albany” a lavoratori autonomi che operano tramite piattaforme digitali senza disporre di una organizzazione di impresa. L’ordinamento italiano è più avanti, perché per i lavoratori genuinamente autonomi c’è lo “Statuto del lavoro autonomo”: la l. 81/17 riconosce e legittima l’esistenza di forme di organizzazione sindacale di lavoratori autonomi e le corrispondenti pratiche di contrattazione collettiva. Lo Statuto contiene due norme per facilitare il dialogo fra le rappresentanze dei lavorati autonomi e le istituzioni (ES: convenzioni tra Centri per l’impiego e associazioni comparativamente più rappresentative dei lavoratori autonomi e tavoli di confronto permanente sul lavoro autonomo). - Coerentemente con questa aspirazione si esclude il calcolo del compenso a cottimo a consegna e si definiscono i criteri per il compenso minimo su base oraria parametrato alle tabelle CCNL Logistica. - Qua si prevede la possibilità di stipulare accordi collettivi di secondo livello in sede territoriale o aziendale su temi come utilizzo strumenti digitali, buoni pasto, premio di risultato, privacy legata all’uso di sistemi di geo-localizzazione. A proposito di questo contratto ci si può porre un problema di rappresentatività, non sul versante delle organizzazioni sindacali ma sul versante delle organizzazioni datoriali chiedendosi quante piattaforme di food delivery facciano parte di organizzazioni di rappresentanza nel settore trasporti e logistica. C’è una terza esperienza meritevole di segnalazione che è invece un accordo aziendale stipulato dalla piattaforma Just Eat con le organizzazioni sindacali dei trasporti e dei lavoratori atipici. Da un lato si conferma il tentativo di ricondurre, dal punto di vista della rappresentanza, queste forme di lavoro nell’ambito della logistica-trasporti. Però intervengono anche le organizzazioni sindacali dei lavoratori atipici, proprio ad evidenziare che sono sì affini al settore dei trasporti ma ci sono delle peculiarità che devono essere risolte. Una delle specificità di questo accordo è di voler plasmare un modello innovativo di regolazione di queste forme di lavoro (riconoscendo le peculiarità e la non riconducibilità a schemi più consolidati) salvaguardano la natura di lavoro subordinato. Quindi definire un modello innovativo di regolazione del lavoro subordinato dei riders: rimanere nell’alveo di maggior tutela per i lavoratori bilanciandola con l’efficienza del servizio, che per sua natura si basa su elementi di flessibilità marcata. Come tenta di operare questo accordo aziendale? - Opera nell’alveo del CCNL trasporti e logistica rinviando a questo contratto collettivo la definizione del trattamento standard ma integrandolo poi con alcune disposizioni specifiche sulle pause, i riposi, la retribuzione oraria, i premi di produttività… - Individua anche quali siano le tipologie contrattuali ammesse fra rapporti standard e flessibili. C’è l’impegno dell’azienda ad assumere i lavoratori con contratti di lavoro subordinato. Sia l’accordo Just Eat che Assodelivery partono dal presupposto di dover definire un modello contrattuale che risponda alle esigenze specifiche di tipo organizzativo di questo particolare settore (flessibilità connaturata), ma in Assodelivery si insiste nella natura autonoma del rapporto di lavoro dei riders; invece, in questo Just Eat si punta sulla subordinazione come elemento di maggior tutela. Il punto è: l’abbassamento di tutele è necessario per garantire l’efficienza organizzativa e del servizio? Chiudiamo con esperienze di regolazione pattizia, quelle che non discendono direttamente dagli impulsi direttamente della legge, come il dlgs 81/2015, ma hanno avuto altri impulsi. Osserviamo le esperienze dei protocolli urbani. Si tratta di interventi che si promettono di promuovere buone pratiche di lavoro in questo settore, prendendo atto della diffusione di queste forme di lavoro nelle città, i Comuni e le istituzioni pubbliche si fanno carico di queste novità perché riguardano il loro territorio. - “Carta di Bologna” sui diritti fondamentali dei lavoratori digitali, promossa dall’amministrazione comunali. Sono stati individuati standard di trattamento (il potere dei comuni è solo quello di incentivare questi standard, non di imporli) che poi hanno ispirato i contenuti del dlgs 81/2015 art 47. - Uno simile a quello di Bologna è il protocollo per la promozione della buona occupazione nel settore Food Delivery tra Comune di Modena e CGIL, CISL, UIL (2021). Insiste sull’impegno che l’ente pubblico si prende per predisporre modalità, strumenti, mezzi che rendano più dignitose le condizioni di lavoro rispetto al fatto che i lavoratori occupano spazi pubblici. Quindi la predisposizione di spazi al coperto per l’attesa del turno (i riders si raccolgono in spazi pubblici dove attendono la segnalazione dalla app dell’incarico da svolgere), spazi per la manutenzione dei propri mezzi e per ricaricare il cellulare. Si aggiunge ad altri strumenti come la discriminazione positiva a favore di operatori che utilizzano “piattaforme etiche” (piattaforme che rispettano determinati standard di lavoro e premiarle con un segno distintivo che possa essere utilizzato dalle piattaforme come strumento di promozione) Video 8. Lavoro agile e inclusione Ci occuperemo del lavoro agile nella prospettiva dell’inclusione (ambienti di lavoro inclusivi). È a ponte fra i nostri due blocchi tematici: quello relativo alle nuove tecnologie e l’esercizio della contrattazione collettiva in riferimento alle nuove tecnologie. Nozione di lavoro agile (art. 18 legge 81/17): è una modalità di esecuzione del lavoro subordinato che si istituisce con un accordo accessorio al contratto di lavoro mediante accordo individuale, che si caratterizza per alcuni elementi tipici come l’alternanza fra l’esecuzione all’interno dei locali aziendali e all’esterno (senza una postazione fissa -> flessibilità spaziale). Inoltre, per la possibilità di organizzare il lavoro per fasi, cicli e obiettivi, senza precisi vincoli di tempo (flessibilità temporale) nel rispetto dell’orario massimo. Infine, come elemento solo eventuale, la possibilità di usare strumenti tecnologici per l’esecuzione del lavoro. Sarà possibile eseguire la prestazione lavorativa da remoto. La legge, quindi, definisce il lavoro agile come una modalità finalizzata all’incremento della competitività e alla agevolazione della conciliazione vita-lavoro. Questo può essere vero solo però in alcuni casi… Nel disciplinare le modalità concrete di organizzazione del lavoro agile bisogna porsi il problema dell’effettività della conciliazione fra il miglioramento della produttività e della conciliazione vita-lavoro. Ci sono due tecniche che la legge e la contrattazione collettiva possono utilizzare per favorire l’effettività della conciliazione. In primis i requisiti di accesso: chi può accedere al lavoro agile? - L’art. 18 legge 81/2017 stabilisce che laddove il datore di lavoro consenta il lavoro agile nella sua impresa allora il datore deve dare la priorità ad alcune categorie di lavoratori: lavoratrici o lavoratori con fili <12 anni, senza limiti di età se disabili ex legge 104/92, i lavoratori con disabilità grave e i caregivers (familiari di lavoratori in condizioni di grave disabilità). Questa casistica può essere integrata sempre dalla contrattazione collettiva. Cosa significa priorità? Non dobbiamo confondere il diritto al lavoro agile con la priorità, che definisce un’aspettativa rafforzata. Non è diritto al lavoro, perché per diritto al lavoro agile significa che laddove sia tecnicamente possibile svolgere il lavoro da remoto allora il datore non ha altra scelta che concedere questa facoltà. Diversa è la priorità; la scelta organizzativa del lavoro di attivare o meno il lavoro agile come modalità di organizzazione del lavoro è più libera da parte del datore, c’è spazio per la scelta del datore di lavoro. C’è poi una seconda tecnica attraverso la quale la conciliazione del lavoro agile può essere protetta, che riguarda l’organizzazione del lavoro (tempi e luoghi, obiettivi, carichi di lavoro). Le modalità concrete sono rimesse agli accordi tra le parti (sarà necessario individuare delle modalità organizzative che però rispettino la conciliazione vita-lavoro). Anche qui i contratti collettivi possono fornire degli strumenti per facilitare gli accordi individuali: scelta dei tempi all’interno di un intervallo di riferimento, fasce di reperibilità, completa sincronizzazione con gli orari normali della struttura. Per quanto riguarda la fruibilità dei permessi: negli accordi collettivi si tendeva ad escludere che nelle giornate dedicate al lavoro agile fosse anche possibile fruire di permessi, proprio perché l’idea era che il lavoro agile fosse già uno strumento di conciliazione/autonomia. In realtà se l’orario è stabilito con rigidità la fruibilità dei permessi acquista un senso, tanto che il Protocollo del 2021 ha stabilito che anche i permessi possono essere fruiti in lavoro agile. Anche sulla scelta del luogo, la libertà del lavoro è spesso corretta da un’ingerenza del datore di lavoro, che fanno riferimento alla sicurezza del lavoratore o dei dati che il lavoratore utilizza durante il lavoro; nei contratti collettivi si precisa che il lavoro è flessibile rispetto alla scelta del luogo ma può essere svolto solo in posti chiusi (non come i bar) posti nella disponibilità del lavoratore. Quindi come si garantisce l’effettività della conciliazione nell’ambito degli accordi relativi alla organizzazione del lavoro (tempi, luoghi...)? Cercando di prevenire il fenomeno della “porosità temporale”, cioè quando tempo di lavoro e non lavoro non sono separati da una barriera, ma quando si mescolano. Per prevenire questo rischio è importante la disconnessione. La disconnessione è un diritto (anche se la legge non ne definisce una disciplina dettagliata). Il protocollo di dicembre 2021 richiede esplicitamente che negli accordi istitutivi del lavoro agile si definiscano specifiche misure tecnico-organizzative per garantire questa disconnessione. La disconnessione cos’è? È il diritto a non lavorare/essere disturbati al di fuori del proprio orario di lavoro. Il contenuto essenziale è quello che il lavoratore non possano ricevere una sanzione per non essere stati reperibili nel periodo in cui avevano la facoltà di essere disconnessi. La casistica ricavabile dai contratti collettivi è varia: - È definita come un diritto-dovere: la sanzionabilità per il lavoratore che non abbia esplicitato il suo diritto alla disconnessione, perché con la disconnessione si protegge anche la salute e la porosità temporale. Quindi obbligo di cooperazione per il lavoratore alle misure di prevenzione. - Non sanzionabilità della mancata connessione (disciplina minimale). - La disconnessione deve essere garantita ma non attraverso misure drastiche, come lo spegnimento dei server. Alcuni accordi esprimono una sfiducia verso modalità rigide e spostano il ragionamento su una buona prassi organizzativa: indicano la necessità di rispettare regole su programmazioni riunioni e invio e-mail (evitare invio di e-mail in orario serale). - C’è poi la tecnica basata sulle fasce orarie. Qua c’è una distinzione che notiamo soprattutto in accordi collettivi recenti, in alcuni comparti del settore pubblico, che partono da una distinzione fra l’inoperatività e l’incontattabilità e stabiliscono che la disconnessione debba operare in entrambe le fasce. L’inoperatività è la fascia in cui il lavoratore esercita il suo diritto al riposo, una volta terminato l’orario di lavoro. C’è poi la fascia di incontattabilità che deve essere concordata nella quale il lavoratore potrebbe essere a lavoro come no, ma non può essere contattato. Questo è espressione dell’autonomia del lavoratore di definire le modalità di organizzazione del suo tempo di lavoro. Può esercitare anche qui il diritto alla disconnessione senza sanzioni: opera come tutela alla conciliazione. Se fosse limitato all’inoperatività tutelerebbe solo il diritto al riposo, che è sì un diritto fondamentale, ma esiste già una legge che stabilisce di non lavorare nel periodo di riposo. Ultimo problema, sempre relativo al lavoro agile come strumento di inclusione, sul versante degli accomodamenti ragionevoli. La domanda è: il lavoro agile è una forma di accomodamento ragionevole? Il protocollo dicembre 2021 dice: “Salvo quanto previsto dalla legge, le parti sociali si impegnano a facilitare l’accesso (non priorità ma facilitazione) al lavoro agile per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità, anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole”. Nel rispondere alla domanda dobbiamo tenere conto della definizione di accomodamento ragionevole prevista dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili del 2006, che impone l’adozione nei rapporti di lavoro di misure di accodamento ragionevoli intesi come “modifiche necessarie ed appropriate per assicurare alle persone disabili l’esercizio di tutti i diritti umani su basi di uguaglianza rispetto alla generalità dei lavoratori, ma che non impongano un onere eccessivo e sproporzionato”. La linea di confine fra ciò che è accomodamento ragionevole e non sta nell’intensità dell’obbligazione del datore di lavoro di operare una modificazione attiva in modo da rendere l’organizzazione del lavoro più inclusiva nei confronti del lavoratore disabile senza che ci sia un onere eccessivo. È eccessivo/sproporzionato aspettarsi che il datore di lavoro intervenga rafforzando la digitalizzazione in modo tale che sia possibile lavorare da remoto? Questo è il terreno su cui si gioca la prospettiva di considerare il lavoro agile come un accomodamento ragionevole. Video 9-10-11. Informazione e consultazione dei lavoratori Concludiamo il primo nucleo tematico dedicato alla rappresentanza collettiva dei lavoratori, con un’analisi degli istituti dell’informazione e consultazione dei lavoratori. Sono strumenti molto importanti per la gestione dei cambiamenti organizzativi, perché rappresentano degli strumenti di interferenza dei lavoratori ambientali dell’impresa; nella realtà di minori dimensioni il datore di lavoro è a contatto diretto e continuativo con tutti i lavoratori singolarmente e quindi c’è uno scambio di informazioni con un canale di tipo informale, non serve formalizzare questo dialogo. Per quel che riguarda la legge sul quadro generale per le informazioni e consultazioni dei lavoratori trova applicazione solo nelle imprese che hanno >50 dipendenti. Nel caso delle imprese transnazionali (impresa o gruppo di imprese di dimensioni comunitarie) dove opera il Comitato Aziendale Europeo, la legge stabilisce i parametri di >1000 lavoratori complessivamente in UE e >150 dipendenti per Stato membro in almeno 2 stati membri. Per quel che riguarda i licenziamenti collettivi e il trasferimento d’azienda il livello si abbassa a >15 dipendenti. Sulla salute e sicurezza c’è una precisazione da fare; il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza deve esistere in qualsiasi impresa, a prescindere dalle dimensioni. L’unica differenza sta nel fatto che se l’impresa ha >15 dipendenti il rappresentante deve essere individuato nell’ambito delle RSA/RSU, se ha meno di 15 dipendenti deve essere eletto tra i lavoratori. Questi sono i requisiti legali da leggi e dlgs, ma anche i ccnl possono attribuire diritti particolari di informazioni e consultazione purché sia più favorevole ai lavoratori. Abbiamo già detto che i diritti di informazione e consultazione sono di tipo procedurale (dialogo, confronto con i lavoratori): come si attuano queste procedure? Secondo la legge sono i contratti collettivi che devono stabilire le regole concrete di funzionamento di queste procedure (tempi, contenuti specifici…). Nel caso dei Comitati Aziendali Europei le norme di dettaglio (sul funzionamento del CAE) sono stabilite mediante l’accordo tra l’impresa di dimensione comunitarie e una “delegazione speciale di negoziazione” costituita ad hoc. La legge fissa invece dei criteri generali riguardo al comportamento che le imprese, i datori e i rappresentanti dei datori devono tenere nel corso di questa procedura: le parti devono operare con spirito di cooperazione nel rispetto dei diritti e obblighi reciproci (dlgs 113/12) e perseguire l’efficacia della procedura (consentire ai rappresentanti dei lavoratori di avere un’influenza concreta nelle decisioni dell’impresa) attraverso il contemperamento tra gli interessi di impresa e lavoratori. Qua ci sono due commenti da fare. Il primo riguarda lo spirito di cooperazione, questo ci ricorda che il coinvolgimento dei lavoratori, l’idea è favorire un dialogo costruttivo tra l’impresa e i rappresentanti dei lavoratori; cooperare non vuol dire seguire lo stesso tipo di interessi, ma arrivare a soluzioni condivise -> contemperare interessi divergenti. Un altro concetto importante è quello del “effetto utile” delle procedure di informazione e consultazione. L’informazione deve svolgersi con contenuti e tempi idonei a consentire un esame adeguato dei temi in discussione e preparare la consultazione. L’informazione, quindi, serve perché i rappresentanti dei lavoratori vengano messi effettivamente a conoscenza di una situazione dell’impresa che li riguarda direttamente e devono poter analizzare questi dati per poter preparare la consultazione (presentazione all’impresa di proposte). Effetto utile in concreto vuol dire che l’informazione deve essere trasmessa prima che la decisione datoriale sia stata perfezionata. Inoltre, i contenuti devono essere trasmessi in maniera comprensibile e evitare condotte dilatorie che ostacolino l’effettiva esecuzione della decisione alla fine della procedura. La consultazione deve avvenire secondo modalità e tempi adeguati e ai livelli pertinenti di direzione e rappresentanza, secondo il tema trattato (sede del potere decisionale effettivo: dal quartier generale? O a livello dei singoli stabilimenti?) previo incontro con il datore. Il datore di lavoro, che pure rimane completamente unico titolare del potere decisionale (non è costretto ad accogliere le osservazioni dei rappresentanti dei lavoratori) deve comunque confrontarsi con esse al fine di formulare una risposta motivata, anche negativa. L’informazione e la consultazione sono due fasi diverse della stessa procedura e sono in sequenza. L’informazione è una prima fase che si conclude con la trasmissione delle informazioni ma poi la consultazione avviene in un secondo motivo dopo che i rappresentanti dei lavoratori, tramite le informazioni ricevute, abbiano potuto approfondire il tema ed elaborare una loro posizione. La procedura di consultazione si conclude con la risposta motivata del datore di lavoro? No, in alcuni casi la consultazione può essere l’anticamera di un contratto. Quando il datore di lavoro decida invece di accogliere in tutto o in parte le proposte dei rappresentanti dei lavoratori allora lì dal coinvolgimento si potrà passare alla contrattazione collettiva. È un canale alternativo di accesso alla contrattazione collettiva, non c’è solo quindi la rivendicazione con lo sciopero, ma si può arrivare alla contrattazione all’esito di una procedura di dialogo partita con un’informazione e continuata con una consultazione. In alcuni casi la legge dice che le parti devono dialogare ricercando una conclusione di un accordo; non è una regola di condotta a cui le parti devono fare riferimento sempre, perché ad esempio nella disciplina dei Comitati Aziendali Europei si dice che il parere dei rappresentanti dei lavoratori deve essere tenuto in considerazione (senza cercare per forza l’accordo, ma solo con la risposta motivata). Si tratta di un obbligo a trattare, che non implica l’obbligo di raggiungere un accordo. Il comportamento si valuta secondo buona fede in base al principio di collaborazione richiamato nelle norme. Abbiamo visto quanto la legislazione insista sull’effetto utile delle procedure di informazione e consultazione in modo tale che si possa perseguire l’effettivo intervento dei rappresentanti dei lavoratori nei processi decisionali. È evidente che nessun effetto utile si realizzerebbe con l’informazione e consultazione se si potesse omettere di adempiere agli obblighi sanciti dalle norme senza che intervenga un apparato sanzionatorio che corregga gli adempimenti. Il principio a cui la legislazione si ispira è che le sanzioni non solo devono esistere, ma devono essere dissuasive, cioè devono scoraggiare gli adempimenti. Il dlgs 25/07 che è quello che attua la normativa quadro sui diritti di informazione e consultazione prevede che si applichi una sanzione amministrativa a carico del datore inadempiente. Nel caso di licenziamenti collettivi, anche quando ci sono interessi individuali, senza osservare gli obblighi di informazione e consultazione (in particolare l’esame congiunto) scatta l’obbligo di corrispondere un’indennità ai lavoratori illegittimamente licenziati compresa fra 6 e 36 mensilità retributive. Nel caso del trasferimento d’azienda la legge stabilisce che l’inosservanza degli obblighi di i&c equivalga ad una condotta sindacale ai sensi dell’art. 28 St.lav. La nullità della decisione assunta in violazione degli obblighi procedurali può verificarsi solo in casi specifici, ma non costituisce una conseguenza generalizzata. In termini generali è molto più ammissibile la ripetizione della procedura a seguito di un vizio nella violazione dei diritti di i&c, mentre è molto più dubbio che venga dichiarata nulla. Un altro aspetto molto rilevante nelle dinamiche delle procedure di i&c riguarda la tutela della riservatezza dell’impresa. Abbiamo già visto che l’esercizio di questi diritti si oppongono all’esercizio della libertà d’impresa e con essa vanno bilanciati. All’interno della libertà di impresa troviamo la volontà dell’imprenditore di mantenere riservate le informazioni che riguardano l’impresa; su strategie, introduzioni nuovi prodotti, ipotesi di acquisizioni/fusioni fra imprese ecc. La legge consente in casi eccezionali al datore di lavoro di ritenersi esonerato dall’obbligo di informare e consultare i lavoratori su alcuni temi che la legge prevede come oggetto di i&c. Tuttavia, prevede restrizioni: - Esonero: il datore è esonerato dall’obbligo di I&C quando la natura delle informazioni è tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell’impresa o arrecarle danno, a causa di comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive. - L’altro aspetto con cui la legge tutela la riservatezza d’impresa è la clausola di confidenzialità. Significa che il datore di lavoro può espressamente qualificare determinate informazioni come riservate, con l’effetto che queste informazioni vengono fornite ai rappresentanti dei lavoratori ma loro non possono comunicare a terzi le informazioni di cui siano venuti a possesso (anche all’interno delle proprie organizzazioni sindacali o ad altri lavoratori dell’impresa). Tal volta i contratti collettivi possono prevedere dei correttivi: possono prevedere che le informazioni marchiate con la clausola di riservatezza possano essere trasmesse ad altri lavoratori quando anche essi siano legati a un obbligo di riservatezza. Ultimo punto sono le garanzie per i rappresentanti dei lavoratori. Come qualunque rappresentante dei lavoratori anche coloro che ricevano informazioni e partecipino a procedure di i&c devono poter esercitare la propria funzione in maniera efficace senza subire pregiudizi e discriminazione e anche disponendo delle risorse necessarie. In generale si stabilisce che i lavoratori che fanno parte di organismi che esercitano i diritti di i&c godono di tutte le prerogative dei rappresentanti dei lavoratori, come prendere permessi retribuiti e di essere tutelati contro provvedimenti discriminatori. sui membri del Comitato Aziendale Europeo la legge dispone che devono disporre dei mezzi economici e giuridici (il CAE deve avere personalità giuridica che consenta al comitato aziendale come soggetto di diritto di agire in giudizio per rivendicare un diritto violato) necessari all’esercizio delle proprie funzioni, inclusi i permessi retribuiti. Inoltre, sia i membri del CAE e il RLS devono ricevere una adeguata formazione (per membri CAE, relativa in particolare allo svolgimento di funzioni in un contesto internazionale). Video 12. Parità di trattamento e inclusione nei luoghi di lavoro. Introduzione. Inauguriamo il secondo nucleo tematico, quello dedicato all’esame degli istituti giuridici delle norme relative alla parità di trattamento e all’inclusione e alla non discriminazione nei luoghi di lavoro. Il primo elemento su cui ci dobbiamo focalizzare è il principio di non discriminazione. Il concetto si riferisce al fatto di favorire o sfavorire un soggetto rispetto ad un altro per ragioni arbitrarie e ingiuste. Il principio di non discriminazione comporta il dovere di trattare situazioni uguali in modo uguali e situazioni diverse in modo diverse. In particolare, a parità di altre condizioni, un individuo non deve ricevere un trattamento differenziato rispetto ad un altro in ragione di specifici elementi (fatto di discriminazione), che riflettono caratteristiche soggettive che la legge si propone di tutelare. Con riferimento specifico ai rapporti di lavoro e al diritto del lavoro è la figura del datore di lavoro come soggetto dotato di autorità decisionale a poter esercitare le sue prerogative con modalità o con effetti discriminatori. Tutti i provvedimenti datoriali come l’aumento retributivo, la promozione, il licenziamento possono essere dettati da ragioni discriminatorie. Anche altri strumenti e fonti di autorità regolamentare e normativa possono avere gli stessi effetti discriminatori; la legge e i contratti collettivi possono contenere clausole discriminanti. In tutti questi casi il diritto antidiscriminatorio funge da strumento di controllo e repressione per riportare la parità di trattamento. Ci sono però numerose difficoltà che rendono particolarmente complessa la trattazione del problema delle discriminazioni nei luoghi di lavoro: la complessità e spesso l’opacità dei processi decisionali ostacolano l’accertamento della discriminatorietà degli atti datoriali. Ci sono poi problematiche che derivano dalle nuove tecnologie, che rischiano di rendere ulteriormente complesso il processo decisionale, perché non è neanche più un processo interno alla sfera del datore di lavoro ma è delegato ad una macchina che elabora dati e fornisce una decisione che il datore recepisce. Pensiamo allo screening dei cv. Se il computer viene istruito per tenere conto di fattori come la provenienza può risultare difficile ricostruire tutti i dati e gli elementi che il computer ha tenuto in considerazione: risulta difficilmente attaccabile visto la difficoltà di capire come i dati sono stati elaborati. Il principio di non discriminazione è un primo pilastro dell’ordinamento giuridico delle norme che si occupano di garantire l’obiettivo di maggior inclusione e parità di trattamento nei luoghi di lavoro. C’è però un altro aspetto emerso più recentemente che non si limita a punire gli atti discriminatori ma si arricchisce di elementi di proattività, che mirano ad includere pienamente le diversità di età, cultura, genere nei luoghi di lavoro. A livello politico, un forte impulso in questa direzione proviene dagli organi euro-unitari. La Commissione europea ha avviato da alcuni anni una strategia per la parità di genere 2020-25 che si propone di operare attraverso azioni come promozione di parità retributiva, parità nella fruizione dei congedi e degli altri strumenti di vita-lavoro e la partecipazione equilibrata di donne e uomini nei diversi settori lavorativi. La Commissione Europea nella sua comunicazione “Un’Europa sociale per transizione giuste” individua e prevede una serie di azioni che puntano alla tutela dell’occupazione femminile, ma anche altre categorie svantaggiate come i disabili e i stranieri. riferimento agli ostacoli che la Repubblica italiana si impegna a rimuovere (art.3); legittimità di azioni positive che tentano di riequilibrare uno svantaggio iniziale. Opera però diversamente rispetto all’art.3 perché la norma nel trattato non fa riferimento alle donne, ma al sesso sottorappresentato, ammettendo quindi che in determinati ambiti il sesso sottorappresentato sia quello maschile. Questa formula si spinge a valutare le misure da intraprendere previa valutazione oggettiva del mercato del lavoro. Un’altra differenza con l’art. 37 Cost consiste nel fatto che gli interessi del sesso sottorappresentato sono protetti in modo diretto, ovvero sono quelli che riguardano direttamente la categoria protetta e non sono dettati in nome di finalità esterne come nella formula obsoleta dell’art. 37 cost che fanno riferimento alla funzione familiare della donna. Per arrivare ad un primo momento di sintesi cosa possiamo vedere nell’evoluzione del principio di non discriminazione e parità di trattamento nel diritto UE? - C’è stata un’estensione progressiva delle situazioni tutelate (fattori di discriminazione e ambiti di discriminazione-> non solo la retribuzione, ma anche all’accesso al lavoro e alla formazione). - L’ammissibilità di misure di diritto diseguale finalizzate a riequilibrare situazioni di svantaggio. Un ultimo aspetto che riguarda l’attuazione dei principi di non discriminazione nel diritto UE concerne l’ipotizzata efficacia orizzontale delle norme di rango costituzionale (art.21,23). Efficacia orizzontale significa la capacità di una norma di produrre effetti diretti, quindi di essere direttamente invocabile in giudizio nell’ambito di una controversia che riguarda soggetti privati (anche nei rapporti di lavoro) senza la necessità che si interponga una norma interna di attuazione. (Solitamente si ritiene che le norme dettate dall’UE abbiano solo un’efficacia verticale, non sono direttamente applicabile, e impegnino gli stati a dare attuazione al diritto europeo in modo tale che i privati possano invocare non direttamente il diritto ue ma solo le norme nazionali di attuazione nelle controversie). La Corte di Giustizia, sia in materia retributiva (Defrenne II), sia in caso di discriminazione per età (Mangold, Kucukdeveci) e anche con riferimento specifico nell’art. 21 CDFUE (parità di trattamento) in alcune sentenze ha ritenuto che le norme europee fossero direttamente applicabili. Questo però non vuol dire che esista un principio di parità di trattamento autosufficiente che sia applicabile in mancanza di specifiche dispositive attuative. La Corte di giustizia ha affermato nella pronuncia Kaltoft l’art.21 CDFUE non fonda uno strumento di tutela autonoma contro i fattori di discriminazione che la legislazione derivata non contempli esplicitamente. Il principio di non discriminazione in quanto tale permette, con la sua efficacia orizzontale ad una normativa di dettaglio emessa dal legislatore UE, di essere applicata in un rapporto fra privati anche senza attendere la sua attuazione nell’ordinamento interno. Non arriva comunque al punto di superare lo stesso diritto derivato europeo e permettere di impugnare, a prescindere dalla legislazione derivata all’interno di un rapporto di lavoro, di evocare un generale principio di non discriminazione. È comunque fondamentale fare riferimento alle norme derivate e di diritto interno, che stabiliscono specifici campi di applicazione rispetto ai fattori di discriminazione. Nei prossimi video affronteremo l’esame del diritto interno, che deriva dall’attuazione delle direttive UE. Video 15-16. Parità di trattamento e rapporto di lavoro nella legislazione italiana: definizioni. Cominciamo con una elencazione dei principali testi normativi pertinenti su questa materia. Ci sono alcuni testi organici, cioè dedicati al tema della discriminazione e parità di trattamento. - Dlgs 198/08 (Codice delle pari opportunità) - Dlgs 215/03 (Parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etcnica). - Dlgs 216/03 (Normativa quadro sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro). I primi due testi normativi riguardano il tema in generale, mentre l’ultimo si dedica specificamente al tema del lavoro considerando vari fattori discriminatori. - Altre disposizioni sono presenti nell’ordinamento in modo diffuso, es. art 15 St. lav. (nullità atti o patti che discriminano i lavoratori per motivi di affiliazione sindacale o per ragioni politiche, religiose, razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali). Le discriminazioni si distinguono in dirette e indirette. I due tipi di discriminazioni sono equiparati quanto ai mezzi di tutela, ma per alcune forme di discriminazione indiretta la legge concede maggiori margini di giustificazione rispetto alle discriminazioni dirette. La legge definisce la discriminazione diretta come un trattamento produttivo di effetti pregiudizievoli o comunque meno favorevole rispetto ad altro soggetto in situazione analoga. Sono numerosi i comportamenti datoriali che possono produrre un effetto pregiudizievole di questo tipo. La legge non elenca dettagliatamente questo tipo di comportamenti, li nomina in un catalogo aperto che includono: criteri, prassi, regolamenti aziendali, una pratica non scritta ma applicata in maniera continuativa, ma anche atti formali come atti, patti o disposizioni. (anche i comportamenti discriminatori “delegati” ai subordinati del datore di lavoro vengono puniti). Come ci accorgiamo se un comportamento è discriminatorio? - La disparità di trattamento si misura con riferimento ad un soggetto comparabile (tertium comparationis). Trattare situazioni uguali in modo diverso è un indice di discriminazione. - La comparabilità deve essere verificata in modo globale. Significa che ci sono diversi indici, uno può essere quello dell’inquadramento contrattuale, ma occorre valutare tutti gli elementi rilevanti del caso concreto come l’anzianità di servizio, professionalità. - Talvolta è la stessa legge a precisare i parametri di confronto. Ad es. in materia di lavoro a termine il dlgs 81/15 stabilisce che la parità di trattamento fra lavoratori a termine e a tempo ind. di una stessa impresa si valuta rispetto ai lavoratori posti allo stesso livello contrattuale. - Inoltre, la comparazione deve essere effettuata tra dipendenti dello stesso datore di lavoro. Può sembrare ovvio, ma ci sono occasioni in cui diversi soggetti giuridici si trovano in collegamento stretto dal punto di vista funzionale ed economico. Es tipico è quello degli appalti ed esternalizzazioni. La corte di giustizia europea nella pronuncia Allonby ha ammesso che la discriminazione deve essere valutata solo fra i dipendenti dello stesso datore di lavoro, non è ammesso il confronto tra i dipendenti dell’appaltatore e del committente. - Come detto prima serve una figura di riferimento terza rispetto al quale verificare se in situazioni analoghe ci sia stata una discriminazione a vantaggio di un lavoratore o lavoratrice. L’esistenza di questo “Tertium comparationis”, secondo la legge, non deve essere verificata necessariamente in modo contestuale rispetto al comportamento discriminatorio, ma si può verificare anche con situazioni ipotetiche o del passato. Rispetto alla discriminazione ipotetica c’è un caso interessante della Corte di giustizia (Feryn) che riguardava un annuncio nel quale l’imprenditore dichiarava in partenza di non essere disponibile ad assumere candidati appartenenti a determinate categorie etniche. Questa dichiarazione, secondo la Corte, ha l’effetto di scoraggiare le candidature del gruppo etnico stigmatizzato e già questo effetto è idoneo a costituire discriminazione diretta. L’effetto è solo potenziale, non è andato nessun lavoratore, ma la Corte ha comunque ravvisato un effetto direttamente discriminatorio. - Non si richiede la sussistenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa); in altri termini non si richiede al datore o al soggetto che ha compiuto l’atto discriminatorio, che fosse consapevole e volontariamente stesse operando in modo discriminatorio. Questo elemento lo traiamo dal dlgs 198/06 che esplicita come la legge si propone di “eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia lo scopo (c’è proprio l’elemento del dolo) o l’effetto di impedire il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali (qua si va a vedere l’effetto, non importa se c’era un elemento soggettivo).” - Ci sono poi alcuni casi in cui è proprio la legge che identifica la discriminazione diretta a priori. Ad esempio, trattamenti meno favorevoli attribuiti ad un lavoratore/lavoratrice in ragione di maternità, paternità, stato di gravidanza e esercizio dei relativi diritti. Anche le ipotesi di molestie e molestie sessuali. Delle molestie e molestie sessuali si occupa l’art. 26 dlgs 198/06. Sono comportamenti indesiderati: quello che conta è la percezione soggettiva della vittima, che prevale sull’intenzione dell’autore. Ovviamente non basta questo, servono anche le condizioni di contesto; con il fine o effetto di violare la dignità della vittima (lavoratore o lavoratrice) e creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Per rafforzare la tutela il legislatore considera molestia anche i trattamenti sfavorevoli conseguenti al rifiuto di comportamento (molestia ritorsiva. Es. un’avance non gradita diventa molestia se c’è un comportamento che consegue al rifiuto) o comunque anche in relazione ad iniziative della vittima volte a ottenere il rispetto della parità di trattamento, inclusa l’azione in giudizio (discriminazione ritorsiva-> es. la vittima che riceve una molestia agisce in giudizio per ottenere che il comportamento cessi, in cambio riceve ulteriori comportamenti sfavorevoli e anche questi comportamenti diventano molestie e quindi discriminazione). La legge, infine, dice che la molestia, proprio per la sua gravità, costituisce discriminazione in sé, non è necessario verificare se c’è stato un terzo che in condizioni comparabili sia stato trattato nella stessa maniera (tertium comparationis). Adesso cominciamo a vedere il significato della discriminazione indiretta. Si ha una discriminazione indiretta quando un datore di lavoro attua un comportamento apparentemente neutro (non indirizzato direttamente contro un soggetto o una categoria in ragione di sue caratteristiche) ma sia suscettibile di mettere la persona appartenente alla categoria protetta in una condizione di particolare svantaggio. Es: retribuzione incentivante calcolata su giornate di presenza: può penalizzare le donne in quanto categoria più esposta a discontinuità di presenza (particolare svantaggio), a causa di fruizione congedi parentali ecc. In sintesi, in una situazione di discriminazione indiretta i membri della categoria protetta subiscono uno svantaggio superiore rispetto alla generalità dei lavoratori perché sovra rappresentati nel gruppo dei soggetti che finiscono per essere sfavoriti dal provvedimento del datore di lavoro. Un altro caso, di cui si è occupata la Corte di Giustizia Europea, può essere un regolamento aziendale che vieti di indossare segni di carattere politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro nell’ambito dell’obiettivo di perseguire una politica di immagine neutrale rispetto a qualunque qualificazione politico/ideologico/religioso. La Corte ha detto che in questo caso non siamo di fronte ad una discriminazione diretta, perché non c’è una vittima in particolare, ma può trattarsi di una discriminazione diretta laddove colpisca in modo particolare gli appartenenti ad un determinato credo religioso o ideologia. Che differenza c’è quindi fra le discriminazioni dirette e indirette? Mentre quelle dirette colpiscono individui determinabili in funzione di una loro caratteristica soggettiva, in quella indiretta emergono situazioni di svantaggio sistemico nelle quali si trovano tutti gli appartenenti ad una specifica categoria (discriminazione di gruppo). Anche nel caso delle discriminazioni indirette non è necessario valutare l’elemento soggettivo (dolo o colpa), può accadere che in buona fede il datore individui una politica aziendale di neutralità ma poi ci si accorge che ci sono gruppi di lavoratori che possono essere penalizzati da questa decisione. Altri aspetti definitori interessanti possono essere quelle riguardanti: - Le discriminazioni multiple. Si verificano quando una stessa condotta colpisce più fattori di discriminazione, tutti posseduti da uno stesso soggetto. Ad esempio, non assumo donne over 50. In questo caso la vittima può fondare la propria azione su entrambe le basi giuridiche. - Le discriminazioni intersezionali: che riguardano invece i casi in cui è solo dalla combinazione di più fattori di discriminazione che si verifica l’effetto discriminatorio. Per esempio, la combinazione fra sesso e religione. Una disposizione aziendale che vieti l’esposizione di simboli religiosi può lavoro per proprie valutazioni economiche può decidere di perseguire una politica di assoluta neutralità di immagine: questo può giustificare il divieto generalizzato di esibizione di simboli di appartenenza religiosa, ideologica ecc. Ultimo esempio, le organizzazioni di tendenza (sono caratterizzate da un orientamento ideologico). La legge dice che non sono discriminatori (né diretta o indiretta) le differenze di trattamento basate su convinzioni religiose o personali, se: - Praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni ideologicamente connotate; - Il credo o l’orientamento costituiscono requisito essenziale, legittimo e giustificato allo svolgimento di un’attività; - Considerati la natura dell’attività esercitata da enti o organizzazioni e il contesto in cui essa viene espletata La Corte d’appello ha stabilito che l’orientamento sessuale non rappresenta requisito essenziale per l’assunzione in una scuola cattolica. Il sesso non può interferire con l’insegnamento. In un altro caso, sempre relativo ad un’organizzazione di carattere religioso, la CGUE ha precisato che la condivisione del credo o dell’ideologia per giustificare una discriminazione, deve essere necessariamente relativa all’attività professionale, proprio perché quell’attività professionale serve a portare avanti l’etica dell’organizzazione. Nel caso in questione (Egenberger) si trattava di un’organizzazione a carattere religioso che aveva posto una discriminazione ad una lavoratrice atea che doveva essere assunta per svolgere attività di studio e di formulazione di pareri su questioni etiche a favore di questa rappresentazione. Quindi c’è la distinzione fra le mansioni che contribuiscono a determinare in concreto i contenuti ideologici dell’organizzazione di tendenza, dall’affermazione etica dell’organizzazione in modo coerente con i propri principi ispiratori; queste mansioni possono essere riservate solo ai lavoratori che condividono gli orientamenti dell’organizzazione, mentre per i lavoratori assunti per svolgere mansioni neutre, non è possibile giustificare una discriminazione. Un caso interessante è quello relativo ad un’impresa che aveva giustificato la mancata riassunzione di alcuni lavoratori appartenenti ad un certo sindacato (che era in conflitto con l’impresa); per l’impresa era legittimo estromettere lavoratori che appartenevano a un sindacato che non condivide gli obiettivi dell’impresa. Questa tesi è stata però respinta dalla Corte d’appello. Video 18-19. Specifici fattori di discriminazione. Genere e orientamento sessuale. Come già detto, norme applicabili ai fattori di discriminazioni sono molteplici. Il divieto di discriminazioni in base al genere costituisce l’archetipo del diritto antidiscriminatorio; ad esso si sono successivamente ispirate le norme relative agli altri fattori di discriminazione tutelati dalla legge. Per trattare però dei temi relativi alla parità di genere, ormai non possiamo più solo far leva sul diritto antidiscriminatorio; nel corso del tempo si sono affiancati strumenti proattivo che prevedono interventi non di tipo repressivo ma promozionale volti alla rimozione degli ostacoli al godimento della parità di genere. Il tema della parità di genere è trattato nell’ordinamento sulla base di tre pilastri: 1. Divieto di discriminazioni basate sul sesso (codice pari opportunità) e sull’orientamento sessuale (quadro generale di derivazione UE sul divieto di discriminazione e parità di trattamento -> dlgs 196/03). 2. Mianstreaming di genere. Vuol dire che il tema dell’uguaglianza di genere vanno collocati in maniera trasversale nelle diverse situazioni attinenti ai rapporti di lavoro. Le pari opportunità fra uomo e donna devono essere garantite in tutti i campi, inclusi occupazione e retribuzione. L’obiettivo del pari trattamento deve essere tenuto presente a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, nella formulazione di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività (incluse policy aziendali e ccnl). È una norma promozionale, a bassa prescrittività. Ma è comunque importante perché si collega al mainstreaming di genere l’erogazione di misure economiche di supporto a progetti e iniziative rivolte alla rimozione di questi ostacoli. 3. Azioni positive: il principio secondo cui la parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedono vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato. Quali sono gli ambiti dei divieti di discriminazione? Innanzitutto, l’accesso al lavoro. La parità di genere deve essere tutelata attraverso misure antidiscriminatorie nell’accesso al lavoro subordinato, autonomo o in qualsiasi altra forma. Non solo assunzioni, ma anche attività propedeutiche ad essa come iniziative di formazione, orientamento e tirocinio. Inoltre, anche riguardo all’affiliazione sindacale e organizzazioni datoriali; non è solo quindi accesso al posto di lavoro che è tutelato dal diritto antidiscriminatorio, ma anche l’accesso agli strumenti di rappresentanza collettiva. La discriminazione nell’accesso al lavoro può operare anche con modalità indirette che la legge elenca con alcuni esempi: stato di gravidanza, matrimoniale, maternità/paternità (la discriminazione può operare anche con meccanismi di preselezione o pubblicitari che indichino il genere come requisito). Possono esserci delle deroghe ammesse solo per mansioni particolarmente pesanti individuate dai contratti collettivi o per assunzioni nei settori di moda, arte o spettacolo. Un esempio di cosa costituisce discriminazione in accesso vietata: un bando di concorso che prevede valutazione di idoneità fisica con punteggi identici per donne e uomini è discriminatorio perché non tiene conto delle caratteristiche intrinseche ai due sessi. Un altro aspetto fondamentale è il divieto di discriminazione in materia retributiva oggi sancito dal dlgs 198/06. È un divieto che ha portata generale, vieta qualsiasi tipo di discriminazione diretto e indiretto su qualunque aspetto o condizione retributiva, per quanto riguarda uno stesso lavoro o lavori di pari valore (quindi non bisogna fare riferimento a dati solo oggettivi come l’inquadramento ma anche altri fattori come l’anzianità di servizio ecc. per fare la comparabilità correttamente). La parità deve riguardare tutti gli aspetti della retribuzione, non sono solo i minimi retributivi da considerare. Per retribuzione si intende salario, trattamento di base e tutti i vantaggi pagati dal datore al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. Per esempio, la CGUE ha stabilito che anche la pensione complementare istituita da un contratto collettivo rientra nel campo di applicazione del divieto, perfino i permessi retribuiti. Un altro aspetto interessante è che la legge stabilisce che i sistemi di classificazione del personale dei contratti collettivi devono contenere criteri comuni per uomini e donne ed essere elaborati in modo da prevenire le discriminazioni (es: non penalizzare mansioni ricoperte da donne e non premiare sistematicamente le mansioni che presentano caratteristiche tipicamente maschili -> forza fisica). Un altro ambito riguardo i divieti di discriminazione è l’attribuzione di qualifiche, mansioni e progressioni di carriera. Non possono esistere lavori nel quale le donne possono accedere (in passato le donne non potevano fare i magistrati) e non devono sussistere ostacoli (discriminazioni dirette e indirette) ad un pieno completamento delle donne lavoratrici in tutto il percorso di carriera fino all’accesso alle posizioni apicali. Nemmeno nell’accesso alle prestazioni previdenziali devono sussistere differenze tra uomini e donne, tanto che la legge impone l’equiparazione dei limiti di età tra i due sessi. Nemmeno al calcolo e ai requisiti di accesso per le pensioni complementari. L’accesso agli impieghi pubblici. La donna può accedere a tutte le cariche o impieghi pubblici, senza limitazione di mansioni o di progressione di carriera. Inoltre, è precluso ai datori di lavoro di stabilire requisiti di accesso agli impieghi pubblici sempre basati sull’altezza fisica, salvo mansioni o qualifiche speciali definite con apposite norme regolamentari. Ultimo aspetto è il divieto di licenziamento per cause di matrimonio. In passato era comune che le donne una volta sposate perdessero il lavoro. Questo implica la nullità delle clausole individuali o collettivi che prevedano la risoluzione del rapporto delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio. Allo stesso modo è nullo il licenziamento per matrimonio. La legge individua un intervallo temporale in cui si presume che il licenziamento sia stato intimato a causa di matrimonio (dalle pubblicazioni a un anno dopo la celebrazione del matrimonio); la stessa sorte tocca alle dimissioni presentate nello stesso intervallo. Eccezione: è ammesso il licenziamento motivato da colpa grave della lavoratrice, cessazione dell’attività, scadenza del termine del contratto. Completiamo l’analisi con l’esame di alcuni casi particolari. È controverso se le tutele contro le discriminazioni per genere o orientamento sessuale possano estendersi a situazioni nelle quali non è direttamente il genere o l’orientamento sessuale a fungere da elemento discriminatorio, ma è una situazione come lo stato matrimoniale, cioè molto vicina al genere o all’orientamento sessuale. Perché è molto vicina? Perché qual ora la legge o un contratto collettivo dovesse prevedere che il godimento di determinati benefici sia condizionato allo stato matrimoniale, esso può risultare precluso a particolari gruppi o categorie, connotate per genere o orientamento sessuale, laddove l’istituto matrimoniale non sia a costoro legalmente accessibile (omosessuali). Nel corso del tempo la giurisprudenza ha sviluppato un approccio evolutivo sulla materia, teso a ricondurre anche le situazioni relative a coppie omosessuali, focalizzandosi sulla ratio delle norme di tutela (che è quella di prevenire qualsiasi atto o comportamento che possa avere l’effetto di stigmatizzare sulla base degli aspetti identitari) e ha guardato sempre di più all’identità di condizione tra i soggetti vittima di discriminazione. La giurisprudenza ha inoltre progressivamente esteso le tutele antidiscriminatorie ai soggetti transessuali. Vediamo i casi particolari. In un primo momento la Corte di giustizia, nel caso Grant, ha ritenuto legittimi il negare al partner dello stesso sesso della lavoratrice di un beneficio economico normalmente riconosciuto dall’impresa ai coniugi o partner eterosessuali dei dipendenti. Perché la Corte ha ritenuto che il diniego al partner omosessuale fosse legittimo? Perché quella policy aziendale non era tesa a discriminare un sesso rispetto ad un altro, è stata un’interpretazione restrittiva. Un piccolo passo avanti è stato fatto con la pronuncia Maruko, nella quali si è ritenuto che fosse illegittimo il diniego, ai sensi di un regime di previdenza complementare istituito da un contratto collettivo, di una pensione ai superstiti al partner di un’unione solidate tra persone dello stesso sesso, quando la legge equipara matrimoni e unioni civili. Il successivo passaggio avviene con la sentenza Hay, nel quale un contratto collettivo che prevede l’erogazione di specifici benefici ai dipendenti in occasione del matrimonio ma lo nega alla situazione di lavoratori uniti in un patto civile di solidarietà. Qui c’è la previsione di una illegittimità di questo diniego anche nel caso in cui la normativa nazionale non consenta alle persone dello stesso sesso di sposarsi. Oggi, in Italia, è in vigore la legge Cirinnà che introduce la clausola di equivalenza; si tratta di una disposizione che prevede che ogni norma di legge, regolamento amministrativo, contratto collettivo faccia riferimento allo stato matrimoniale deve applicarsi anche alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La transessualità può trovare tutela nel diritto antidiscriminatorio per orientamento sessuale? Sì. Ci sono casi in cui la CGUE nel caso P. ha esteso la tutela contro le discriminazioni di genere anche alla lavoratrice che era stata licenziata a seguito del suo cambiamento di sesso, ritenendo sussistere anche in questo caso l’identica finalità (identitaria) di tutela della libertà e della dignità fatta propria dalla legge. Analogamente, è stato riconosciuto come illegittimo il mancato riconoscimento della pensione di reversibilità al convivente di una lavoratrice, il quale, nato femminile, aveva effettuato un cambiamento di sesso che però la legge dello stato membro non riconosceva. Il mancato riconoscimento del nuovo genere aveva determinato la preclusione a contrarre matrimonio. Infine, è stato riconosciuto come illegittimo il mancato riconoscimento della pensione di vecchiaia al raggiungimento dell’età stabilità per le donne (60 anni) alla lavoratrice che sia passata dal sesso maschile al sesso femminile. Video 20. Specifici fattori di discriminazione. Età. Un inquadramento preliminare è necessario. Le discriminazioni per età godono di una tutela più mite rispetto ad altri fattori di discriminazione. La legge infatti concede più ampi margini di giustificazione per deroghe basate sul perseguimento di specifiche finalità relative al mercato del lavoro (cioè della condizione occupazionale dei lavoratori appartenenti alla fascia d’età giovani o anziani) o sull’idoneità allo svolgimento di determinate mansioni. Qual è il quadro generale delle giustificazioni previste dalla legge alle deroghe lavoratore avrebbe dovuto esprimere con i suoi comportamenti esteriori un determinato orientamento ideologico. Applicata uniformemente a tutti i lavoratori, senza porre distinzioni tra fedi e ideologie, non è qualificabile come discriminazione diretta. Tuttavia, la Corte ha lasciato aperto l’ipotesi che in ciascun caso specifico anche una politica di questo tipo possa integrare una discriminazione indiretta qualora si dimostri, anche con prove statistiche, un impatto sproporzionato su una specifica categoria (nella specie: donne musulmane). In alcuni casi, una condotta datoriale, pur limitando l’espressione delle convinzioni personali può non costituire discriminazione secondo il giudice. Cass 24414/21: la sanzione intimata ad un docente in seguito al suo rifiuto di mantenere esposto il crocifisso durante le lezioni, come ordinato da un ordine di servizio del dirigente, non ha carattere discriminatorio. Perché la Cassazione ha ritenuto che non ci fosse discriminazione ai danni del docente? Perché a monte del provvedimento del dirigente c’era stata un’assemblea degli studenti che si era espressa a favore di affiggere il crocifisso. Per la Cassazione questo caso non andava deciso con le norme relative al divieto di discriminazione e parità di trattamento nei luoghi di lavoro, perché trattandosi di un simbolo “passivo” la sua sola presenza non impedisce al docente di esprimere le proprie condizioni anche antitetiche rispetto a quanto il simbolo religioso esprime. E nemmeno di limitare la sua libertà di insegnamento. Non c’è quindi discriminazione! Tuttavia, la sanzione intimata a questo docente non era legittima perché l’ordine di servizio, invece di recepire la decisione dell’assemblea degli studenti, avrebbe dovuto ricercare una soluzione di compromesso tra le diverse opinioni (momentaneo spostamento del crocifisso o esposizione contestuale di altri simboli). Finora abbiamo visto gli aspetti inerenti alle convinzioni religiose, vediamo adesso cosa dicono le norme rispetto alle convinzioni personali. Secondo la Corte di giustizia le convinzioni personali comprendono le opinioni filosofiche e spirituali, mentre quelle politiche sono coperte da altre norme. Dal punto di vista del diritto del lavoro, ci può interessare perché c’è una linea di confine molto sottile fra opinioni personali e politiche nella quale si deve collocare il tema delle opinioni sindacali. La domanda è: le discriminazioni legate a motivi di affiliazione sindacale possono essere ricondotte al concetto di convinzioni personali e dunque di godere delle tutele offerte dalla legge? L’art 15 dello Statuto dei lavoratori protegge già dalle discriminazioni per motivi sindacali (solo discriminazioni dirette), mentre il dlgs 216/03 (attuativo del diritto europeo) offre una tutela più forte perché comprende anche le discriminazioni indirette. Vediamo infine il problema delle giustificazioni; l’abbiamo visto, nelle discriminazioni indirette è possibile presentare giustificazioni rispetto ad un provvedimento discriminatorio. Torniamo al caso della politica aziendale di assoluta neutralità che imponeva il divieto di esibire ed indossare simboli religiosi sul lavoro: può essere legittima? - Rispetto alla Legittimità la CGUE nelle cause Wabe e Muller ha ritenuto che rientri nella libertà d’impresa del datore di lavoro, protetta anch’essa dalla Carta CDFUE. - C’è il problema della Proporzionalità. Rispetto all’obiettivo di mantenere buoni rapporti con la clientela la Corte dice che può essere proporzionato un divieto generale che si rivolga soltanto ai dipendenti che devono entrare in contatto con i clienti. Non sarebbe giustificato un provvedimento finalizzato ad accontentare la clientela ma che colpisca dipendenti che non entrano in contatto con i clienti. - La giustificazione deve avere l’Oggettività, cioè che derivi da un’esigenza reale che il datore di lavoro deve dimostrare, non da proprie impressioni. Ad esempio, provando che in assenza di una tale politica di neutralità politica, filosofica e religiosa, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui esse si inscrivono, egli subirebbe conseguenze sfavorevoli. In questo caso si trattava di un’istituzione scolastica e stante la particolarità dell’attività svolta riteneva di dover avere un atteggiamento di assoluta neutralità in modo che qualsiasi famiglia si sentisse accolta nell’istituzione. Video 22-23. Specifici fattori di discriminazione. Disabilità. La normativa in materia di tutela del lavoro dei soggetti disabili si è evoluta nel tempo, passando da un approccio esclusivamente antidiscriminatorio a una modalità di tutela che ha incorporato ulteriori strumenti. C’è stato un per perfezionamento della nozione di disabilità e l’integrazione delle tradizionali regole di condotta omissive (non discriminare) con specifici obblighi di attivazione in capo al datore di lavoro. Vediamo le tappe di questa evoluzione. Innanzitutto, la nozione di disabilità non coincide con quella di semplice malattia. La CGUE nella pronuncia Chacon Navas ha definito la disabilità come “l’insieme di minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacolano la partecipazione della persona alla vita professionale”. Cosa distingue la malattia dalla disabilità? Nella disabilità la limitazione della capacità di lavoro deve essere di lunga durata. Nella pronuncia CGUE Ruiz Conejero il licenziamento di un lavoratore causato dall’accumularsi di assenze intermittenti per malattia è stato definito discriminatorio qualora le malattie siano imputabili alla disabilità del lavoratore. Qui c’è un altro profilo, dove la disabilità causi una sequenza di assenze per malattia: in questo caso c’è la natura discriminatoria sulla base della disabilità del lavoratore. Ci possono invece essere condizioni di disabilità che però non rilevano ai fini della normativa sulla parità di trattamento e sulle discriminazioni sul lavoro perché non si riflette sulla capacità lavorativa; nel caso Z. una donna aveva fatto ricorso alla procreazione assistita, in quanto incapace di procreare, aveva chiesto un congedo di maternità ed era stato negato perché non c’era stato il parto. Il diniego è stato definito legittimo, per il principio che l’incapacità di procreare non interferisce sulla capacità lavorativa. Nel corso del tempo, la definizione è stata arricchita recependo sempre più i contenuti della convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del dic. 2006. Nel definire la disabilità, oltre a riprendere gli aspetti già detti prima, si aggiungono elementi di tipo relazionale: - Il primo è interazione con barriere di diversa natura. Cioè ostacoli che interagendo con la condizione di menomazione possono contribuire a limitare l’effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale. L’idea è che può non essere la menomazione in quanto tale a ostacolare la partecipazione alla vita professionale, ma che questo effetto limitativo si verifichi tramite barriere di diversa natura (non solo architettoniche, anche organizzazione del lavoro, progettazione degli spazi) - L’altro elemento relazionale è la partecipazione alla vita professionale sulla base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Continuiamo le definizioni dello stato di disabilità. La nozione di disabilità è compatibile anche con una menomazione limitata e non assoluta della capacità lavorativa (CGUE, HK Danmark). L’obesità costituisce un fattore di discriminazione in quanto tale? No, ma può essere ricondotta alla discriminazione per disabilità (quindi essere protetta dalle norme in materia di discriminazione per disabilità) quando l’obesità stessa si traduca in menomazioni fisiche durature. Nel caso CGUE Kaltoft, un lavoratore obeso era stato licenziato dopo 15 anni di servizio e aveva impugnato questo licenziamento dicendo che era dovuto alla condizione di obesità. Però questa condizione preesisteva al licenziamento e non aveva mai costituito un impedimento alla sua attività lavorativa, per la Corte non poteva essere la causa reale del licenziamento (non è stato considerato discriminatorio). Per concludere gli aspetti definitori, prendiamo un tema già accennato, cioè il principio che le tutele antidiscriminatorie possono applicarsi anche alla persona non disabile sfavorita a causa della disabilità altrui (discriminazione per associazione). Nella pronuncia Coleman la lavoratrice era stata licenziata a causa delle assenze maturate per assistere il figlio disabile. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento e ha rivendicato le tutele contro la discriminazione per disabilità che hanno trovato applicazione quindi anche nel caso di questa lavoratrice non disabile. Questo perché la ratio della norma, secondo la Corte, non è quella di tutelare la categoria dei disabili, ma è quella di combattere le discriminazioni basate sul fattore della disabilità. Adesso spostiamo l’attenzione dagli interventi di tipo difensivo agli interventi attivi per promuovere l’inserimento lavorativo dei soggetti disabili. L’ordinamento giuridico ha individuato uno strumento apposito per favorire l’inclusione dei soggetti disabili che è quello degli accomodamenti ragionevoli (dlgs 216/03). Il dlgs impone ai datori di lavoro privati e pubblici di adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. Di accomodamenti ragionevoli tratta anche la Convenzione ONU dic. 2006 che designa, nell’ambito del lavoro, le modifiche e gli aggiustamenti strutturali e organizzativi dei luoghi e dei processi di lavoro necessari affinché la persona disabile possa esercitare i propri diritti in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori. Con accomodamento si intende un intervento di modifica nel modo di lavorare, ad esempio escludendo barriere strutturali, o apportando modifiche ai processi organizzativi rendendoli più inclusivi. SLIDE: l’accomodamento ragionevole equivale alla rimozione delle “barriere di diversa natura” che ostacolano la partecipazione lavorativa dei disabili. Omettere in modo ingiustificato di adottare un accomodamento ragionevole equivale ad avere posto in essere in modo attivo un comportamento discriminatorio (e ci sono le conseguenze sanzionatorie). Quando possiamo dire che il datore di lavoro abbia adottato un accomodamento ragionevole che la legge considera idonei per favorire l’inclusione dei disabili? In HK Danmark la CGUE ha ritenuto che la riduzione dell’orario di lavoro potesse costituire, nel caso di specie, un accomodamento ragionevole. Nel periodo emergenziale anti-Covid è stato introdotto il “diritto al lavoro agile” a favore di alcune categorie di soggetti vulnerabili. La domanda è: può essere concepito come strumento di accomodamento ragionevole? Sì, ma solo quando non comporti un mero decentramento della prestazione, ma quando la modalità agile si inserisca in un cambiamento organizzativo più generale che favorisca l’utilità della prestazione lavorativa agile. Quando può ritenersi esonerato un datore di lavoro dall’accomodamento ragionevole? Quando non deve imporre un onere sproporzionato al datore di lavoro (la valutazione di proporzionalità non attiene al mero costo economico ma al rapporto tra fini e mezzi). Secondo la Cassazione il giudizio di proporzionalità rispetto all’intervento dovuto dal datore di lavoro deve andare a contemperare, da un lato, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro idoneo alla sua condizione psico-fisica, dall’altro anche a mantenere un margine di utilità della prestazione lavorativa all’impresa. Non basta tuttavia dimostrare, per esempio, l’indisponibilità di posizioni organizzative alternative in cui il disabile possa essere impiegato. Il datore deve fare ogni sforzo, compreso quello di creare una nuova posizione, sempre che permanga un margine di utilità ossia che il lavoratore non sia lasciato del tutto improduttivo. Video 24. Le sanzioni e la tutela giurisdizionale contro le discriminazioni sul lavoro. L’ordinamento giuridico offre alle vittime di discriminazione strumenti di tutela giurisdizionale semplificati e rafforzati, in considerazione delle peculiari caratteristiche e situazioni di contesto in cui maturano i fenomeni discriminatori. Ad esempio, la vulnerabilità delle vittime pone il soggetto in una condizione più debole e comporta una sorta di impedimento psicologico nel provare la discriminazione subita. Infine, spesso la discriminazione subita ha la connotazione di gruppo: colpisce una generalità non sempre precisamente determinabile di lavoratori o lavoratrici (come quella religiosa che abbiamo visto). Quali sono in questi casi gli strumenti dell’ordinamento giuridico? Partiamo dalle discriminazioni individuali. La legge prevede degli strumenti di rappresentanza in giudizio dei singoli che abbiano subito la discriminazione. I singoli possono agire in giudizio singolarmente ma possono anche scegliere di delegare a degli organismi di rappresentanza privatistico collettivo o istituzionale. Questi soggetti possono essere i sindacati o associazioni rappresentative dell’interesse leso (per le minoranze etniche, per le donne…) oppure i consiglieri/e di parità appositamente creati dalla legge (dlgs 198/06), in riferimento alle discriminazioni di genere, con funzioni di rappresentanza in giudizio. La tutela giudiziale opera anche nei casi in cui la vittima abbia subito un pregiudizio per ritorsione contro le azioni intraprese per ottenere la parità di trattamento (tutela della vittimizzazione). C’è poi un terzo tipo di intervento, che è un obbligo imposto dalla legge alle aziende che superano 100 dipendenti di redigere un rapporto sulla situazione del personale. Deve essere redatto ogni due anni e ha ad oggetto la situazione del personale maschile e femminile dell’azienda, riguardo a molteplici condizioni occupazionali (assunzioni, mobilità, passaggi di categoria, licenziamenti, pensionamenti, andamento retributivo). Tutto ciò per vedere se ci sono politiche aziendali eque e dare pubblicità alle dinamiche relative alla parità di genere nei luoghi di lavoro (stimolando discussioni e cambiamento culturale). Questo rapporto deve essere trasmesso alle RSA e ai consiglieri di parità per favorire la funzione di controllo. Abbiamo visto come possono operare queste azioni positive, tuttavia queste operazioni hanno un costo: se queste azioni sono volontarie e hanno un costo serve un incentivo. Per promuovere e sostenere gli interventi di riequilibrio, la legge prevede apposite misure di sostegno economico a progetti di azioni positive finanziati con appositi bandi ministeriali (iniziative di formazione, servizi di supporto alla conciliazione vita-lavoro, flessibilità oraria, interventi di progettazione organizzativa). È importante notare che c’è un criterio preferenziale per l’assegnazione dei fondi a favore dei progetti che i datori di lavoro a livello aziendali abbiano concordato con le organizzazioni sindacali: c’è un sostegno forte a soluzioni negoziate, col metodo delle relazioni industriali. Video 25b. Strumenti di promozione della parità di genere. Ci occupiamo di strumenti e tecniche di promozione della parità di genere che ovviamente non sostituiscono l’approccio prescrittivo, che invece caratterizza tutti gli strumenti visti operare finora (divieti di discriminazione, la tutela attiva a favore di alcuni gruppi sottorappresentati come le azioni positive, accomodamenti ragionevoli). Questi strumenti incidono sulla convenienza per il datore di lavoro a adottare politiche di parità di genere (non usano la prescrizione/divieto ma sull’incentivo). Il primo di questi strumenti è il rapporto sulla situazione del personale, disciplinato dal dlgs 198/06 (codice pari opportunità) ma la legge 162/2021 ha modificato in modo sostanziale. La legge 162 modifica la norma che riguarda l’obbligo di redazione: prima su aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti e adesso anche con più di 50 dipendenti. Inoltre, autorizza, la facoltà di redazione volontaria per le imprese con <50 dipendenti. L’oggetto del rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile riguardo a: assunzioni, formazione, passaggi di categoria, licenziamenti, pensionamenti, retribuzioni. Per quanto riguarda l’oggetto, l’obiettivo è vedere se ci sono punti di criticità che danno luogo a disparità di condizioni tra uomini e donne. Questo rapporto deve essere trasmesso alle RSA e messo a disposizione dei Consiglieri di parità che elaborano le informazioni che si traggono da questo documento. La legge 162/2001 ha poi precisato quali siano le tipologie di informazioni che il rapporto deve avere: - Mercato: numero lavoratori occupati, per genere. Numero lavoratori assunti nell’anno per genere. - Retribuzione: differenziali retributivi, per genere. Importi delle distinte voci retributive (componenti accessorie, indennità di risultato, benefit). Distribuzione contratti a tempo pieno e parziale, per genere. - Politiche: informazioni su processi di selezioni e reclutamento e su criteri di avanzamento di carriera. Informazioni su strumenti e misure di conciliazione vita-lavoro. Informazioni di politiche aziendali di inclusione. Un altro strumento che è una novità della legge 162/2021 è la certificazione della parità di genere (art 46- bis dlgs 198/06). Questa certificazione è uno strumento di attestazione pubblica delle politiche di parità adottate dall’impresa per ridurre il divario di genere su: opportunità di crescita in azienda, parità di salario a parità di mansioni, politiche di gestione delle differenze di genere e tutela della maternità. Come si attua il sistema di certificazione della parità di genere? Intanto redigere il documento per ottenere la certificazione non è un obbligo, ma è una facoltà. Attraverso un decreto ministeriale vengono definiti dei parametri minimi attinenti a retribuzione, opportunità di progressione di carriera, conciliazione vita-lavoro. Qualora questi parametri minimi vengano soddisfatti dall’impresa permettono il rilascio di questa certificazione. I soggetti attuatori di questo sistema sono: - L’ente per il rilascio della certificazione: il Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere presso il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. - Le RSA e Consiglieri di parità sono coinvolti nella verifica dei parametri di certificabilità. Sempre la legge 162/2021 si occupa della premialità di parità; alle imprese in possesso di certificazione di parità è concesso per l’anno 2022 un parziale esonero dagli obblighi contributivi. Un’altra forma di incentivo, questo a tempo indeterminato, è la corsia preferenziale ai fini della aggiudicazione di appalti e finanziamenti pubblici.
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