Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Tre Maestri- Interrogazione sul tempo di Lorand Hegyi, Schemi e mappe concettuali di Storia dell'arte contemporanea

Tre Maestri- Interrogazione sul tempo di Lorand Hegyi, Electa edizioni Roman Opalka, Ilya Kabakov, Jannis Kounellis

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 28/06/2024

giuse-iannello
giuse-iannello 🇮🇹

1 documento

Anteprima parziale del testo

Scarica Tre Maestri- Interrogazione sul tempo di Lorand Hegyi e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! GIUSEPPA IANNELLO cod. Matr. 40448 Pittura RELAZIONI Storia dell'arte contemporanea I Accademia di Belle Arti Brera Milano Prof. LAURA CHERUBINI A.A. 2019/20 TRE MAESTRI -INTERROGAZIONE SUL TEMPO di L ÓRÁND HEGYI L'autore di questo testo è uno storico, critico d'arte, curatore oltre che scrittore. Nato a Budapest nel 1954, poco dopo l'abbattimento del muro di Berlino del 1989 sceglie di accettare l'invito di un museo viennese e si trasferisce in Austria. Moltri altri spostamente successivi faranno di lui un apolide. Per affrontare una tematica così sfugggente e importante per la vita di tutti, il tempo, seleziona tre artisti, tre grandi Maestri, come li chiama lui, che vi hanno riflettuto con la loro opera artistica e, guarda caso, sono anch'essi apolipi. Quasi coetaeni, Roman Opalka, 1931, Ilya Kabakov, 1933, e Jannis Kounellis, 1936, sono anch'essi apolidi che hanno deciso di emigrare da Polonia, Russia, e Grecia per esprimersi più liberamente. Opalka e Kabakov attraversano la cortina di ferro, Kounellis fugge dalla guerra civile e sceglie Roma per la sua formazione artistica, spostandosi successivaente in tutto il mondo. Il tempo in Roman Opalka è ineluttabile e inarrestabile, strettamente connaturato alla vita, alla sua esistenza.A partire dal 1965, ogni giorno, dipingerà con un pennello 0 su tela nera dei numeri bianchi a partire dal primo. L'obiettivo dei suoi Detail, così 1i chiamava, intitolandoli a partire da "Opalka 1965/1- infinito" era arrivare al numero 7.777.777. Le tele avevano l'altezza dell'artista e la larghezza della porta del suo studio. C'era quindi un'identificazione totale del suo tempo con il tempo oggettivo, e nel tempoo i numeri bianchi ben visibili sul fondo nero diventano bianco su bianco, perchè il colore sul pennello è sempre quello, ma il supportosi schiarisce fino a scomparire. Una metafora forte, dunque, che sostituisce la tela al tempo di vita a disposizione. Dal 1972 Roman Opalka affianca anche un autoritratto fotografico mentre pronuncia il numero appena dipinto, rendendo ancora più evidente l'incedere progressivo e ineluttabile di numero e immagine, fino al definitivo scomparire nel 2011. Ilya Kabakov allestisce installazioni che partono dalla realtà, da un momento storico della realtà, appropriandosi di oggetti comuni nella vita delle persone per trasfigurarli, facendo diventare il tutto un'immagine surrealistica nel solco della grande tradizione surrealistica russa. Anche la scrittura di Hegyi cambia nel descrivere il lavoro di Ilya Kabakov, divenendo poetica e onirica. Di fronte alle grandi domande che Kabakov si pone e pone a tutti noi: dove possiamo creare spazio per noi stessi? Qual è il luogo in cui possiamo vivere? Cosa ci appartiene? Dove siamo liberi? Dove possiamo essere felici?, egli immagina che l'artista sia scomparso attraverso un buco, proiettatndosi con la catapulta presente in basso nell'installazione verso l'infinito. Jannis Kounellis vive artisticamente il Tempo (maiuscolo, come l'ha voluto Hegyi nel suo testo), attraverso la rielaborazione della Storia.Tutti gli oggetti che usa per le sue opere parlano dei grandi cambiamenti dell'Umanità, il carbone della rivoluzione industriale, i sacchi di juta del faticoso lavoro degli operai, i tessuti che da sempre hanno diviso per la loro preziosità i ricchi dai poveri, la pietra che è testimonianza di LUCIANO FABRO Alighiero Boetti dice che l'esperienza collettiva dell'Arte povera si esaurisce nell'arco di due/tre anni, poi ognuno degli Artisti che contribuì a determinarne le caratteristiche seguì un percorso personale; Germano Celant ne aveva definito i contorni nel 1967. Di questo gruppo di Artisti faceva parte anche Luciano Fabro, nato a Torino nel 1936 da genitori friulani, ma ben presto trasferitosi a Milano. Nell'opera "Pavimento-Tautologia" del 1967 utilizza un vero e proprio pavimento coperto da fogli di carta di giornale, perfettamente in linea con l'arte povera, ma già nel 1968 inizia "Lo Spirato" in marmo bianco di Carrara, lavorandoci a lungo e presentandolo nel 1973. Quindi dall'utilizzo tautologico di pavimento e carta, rievocazione dell'ambiente domestico friulano, quando le donne della sua famiglia coprivano il pavimento cerato di fresco, passa direttamente al marmo, materiale classico e nobile nella storia della scultura occidentale. L'attenzione ai materiali non lo abbandonerà mai, scegliendo di usare i più adatti e preziosi quando necessario. Questa fusione di classicità e contemporaneità è forse la sua cifra stilistica più evidente. Se ne "Lo spirato" il riferimento è alla Cappella San Severo con la scultura di Giuseppe Sanmartino, nei vari baldacchini il richiamo è al Vaticano con Gian Lorenzo Bernini. Il baldacchino è una forma che si ripeterà spesso nell'opera di Luciano Fabro, metafora del cielo. Il cielo, che insieme alle carni del corpo umano costituisce un tema costante, assume la sembianza di rame (mura Aureliane, 1982) o di tessuto, oppure ancora diventa cielo di specchi dell'emisfero sud nell'opera "Giardino all'italiana" a Basilea, contornato da colonne che sono filari di vitigno friulano ma anche misura e simbolo del corpo umano immerso nella natura. "Prolungare il proprio corpo in tutte le cose del mondo" diceva Luciano Fabro, e questa misura antropica e personale diventa il riferimento di molte opere, dall'"In cubo" a "Io- l'uovo", la prima misura delle sue braccia aperte, la seconda la circonferenza dell'Artista in posizione fetale. In questa opera è particolarmente rilevante la comunicazione non verbale che Fabro riesce a instaurare con il suo pubblico, tanto da diventare performance. "Io- L'uovo" viene immerso nel liquido amniotico della Fontana della api di Bernini, in una Roma resa spettrale dal rapimento di Aldo Moro del 1978 e l'episodio ci viene direttamente descritto da Laura Cherubini che faceva parte della mistica processione di artisti e amici che seguì- eseguì la "performance". L'uovo, in bronzo brunito, oltre a essere misura del corpo dell'artista in posizione fetale, contiene all'interno l'impronta della mano. Luciano Fabro, come si è detto, ritiene indispensabile partire dalla tradizione per proiettarsi nella contemporaneità: in un'intervista dice di appartenere a quella generazione in cui si era pensato a che cosa si doveva eliminare e che cosa tenere, ed è prioprio per tramandare la tèchne, il fare carico di tradizione classica, che ritiene giusto insegnare per vent'anni all'Accademia di Brera, nonostante fosse ormai un artista di caratura internazionale. Insieme a Jole de Sanna e a Nagasawa fonda la Casa degli Artisti, luogo di incontro tra generazioni di artisti a Milano. L'aspetto maieutico della personalità di Fabro subisce solo qualche incrinatura verso la fine della sua esperienza, quando nel '98 rifiuta di far parte della Commissione per l'attribuzione di borse di studio a giovani artisti italiani da parte del PS1, l'ala contemporanea del Moma. Dimostra lo stesso rifiuto nei confronti del sistema dell'arte contemporaneo, nonostante fosse ormai coccolato e osannato da tutti i luoghi della grande arte, da New York a Madrid al Centre Pompidou di Parigi. Durante una lunga intervista di Augusta Eniti spiega che degli artisti giovani che frequenta non condivide l'interesse quasi ossessivo per il "punto di svolta", ossia il momento in cui un artista comincia ad avere successo, poichè lui ritiene più interessante analizzarne il periodo più fecondo. Questo porta i giovani a produrre opere secondo la ricerca del mercato, facendo venire meno il lavoro di ricerca, a scapito della qualità dell'opera. Nei confronti del sistema dell'arte critica l'attuale tendenza a fare del museo non più un luogo che raccoglie le opere d'arte, ma un'opera d'arte esso stesso, che tollera a mala pena le intrusioni, "meno opere ci sono meglio è". Si arriva all'apice di questa tendenza con il Guggenheim Museum, dove l'architettura è così avvitata da non lasciar valutare l'equilibrio di una composizione, rendendo perfino difficoltosa la vista per quel continuo guardare in alto, così egli dice. Il museo ha acquisito la sacralità delle cattedrali, punto massimo dell'espressione egoica degli architetti a discapito dell'arte che dovrebbero contenere. Critica con forza la tendenza a velocizzare la fruizione dell'opera non mettendo neppure una sedia, mentre invece sarebbe giusto osservare con i propri tempi l'arte esposta, "per un quarto d'ora, un'ora, due ore". La radice umanistica di Luciano Fabro si sviluppa pienamente anche nel suo lavoro di scrittore, che attraverso il filtro della filosofia ci parla dell'arte. "Arte torna Arte, lezioni e conferenze 1981-1997" è il suo titolo più famoso. Nella scrittura unisce l'amore per la sofia, la conoscenza, alla passione per il fare, quella tèchne classica che ha ispirato tutta la sua opera, profondamente immersa per altri versi nella contemporaneità e freccia indicante il futuro del fare artistico. Fu un uomo equilibrato e, come egli stesso dice, "realista, che non vuol dire pragmatico", e un artista coraggioso. GINO DE DOMINICIS Nessuno più di Gino De Dominicis si può definire artista contro corrente. Per lui furono irrilevanti le mode e le correnti artistiche, che anzi osteggiò irridendole, All'arte concettuale nel 1970 dedicò, con grande ironia, l'opera "Mozzarella in carrozza": aveva materializzato un modo di dire, facendo il percorso inverso del concettuale che trasforma la realtà in parole. E pensare che Joseph Kosuth lo stimava moltissimo! Gino De Dominicis era fermamente convinto che il disegno, la pittura e la scultura non fossero "forme di espressione tradizionali, ma originarie, quindi anche del futuro." Nel primo periodo della sua attività artistica, più o meno fino alla fine degli anni '70 si servì anche dell'installazione, che lui chiamava opera tridimensionale, e della performance. Girò perfino dei brevi video in cui cercava di formare dei quadrati gettando un sasso nell'acqua o tentando un volo con il solo movimento delle braccia. Nonostante credesse fermamente che la massima manifestazione artistica nel proprio lavoro stava nel solco della tradizione italiana, il disegno e la pittura a tempera su tavola, Gino De Dominicis è ricordato più per la prima parte della sua carrierra, forse in questo penalizzato dal fatto che odiava la fotografia, sostenendo che un'opera deve essere vista dal vero (l'aura di cui parla anche Walter Benjamin), e la sua riproduzione per mano di un fotografo è, appunto, da attribuire più al fotografo che all'artista. Ne consegue che esistono pochissimi cataloghi e documentazione cartacea della sua produzione, ma anche dell'Artista stesso, che si fece fotografare rarissime volte, di cui una da Elisabetta Catalano e tenne questa foto come un alter ego, utilizzandola al posto di sè stesso in un altro scatto. L'opera forse più famosa di Gino De Dominicis ebbe in effetti vita brevissima, e di essa ci rimane un'unica fotografia che immortala Paolo Rosa, un ragazzo down, immobile e seduto, mentre una visitatrice passa davanti all'opera inforcandosi gli occhiali. Proprio perchè si era sparsa la voce della partecipazione di questo ragazzo con handycap, fu organizzata una violenta contestazione all'apertura della Biennale del 72 che la ospitava. I manifestanti entrarono con con lunghi bastoni e tentarono di far cadere Simone Carella, issato a parecchi metri di altezza. Gino De Dominicis decise quindi di chiudere immediatamente l'esposizione. La cosa ebbe anche uno strascico giudiziario e l'Artista venne difeso dai maggiori artisti e scrittori dell'epoca, finendo alla fine assolto. Si tratta di "Seconda soluzione di immortalità- l'universo è immobile" e seguiva idealmente la "Lettera sull'immortalità del corpo", lo scritto che inizia con il celeberrimo "Cara, io credo che le cose non esistono", in cui teorizzava che tutti siamo tentativi della natura, ipotesi di vita. Sempre riflettendo dul tema della morte, centrale nella sua poetica, arriva a pensare che si può raggiungere l'immortalità con la staticità (il movimento conduce alla morte), con la non consapevolezza di essere mortali (per questo motivo scelse Rosa come protagonista della performance, in quanto down viveva in un eterno presente inconsapevole) e con la vittoria sulla forza di gravità. La sala prevedeva la presenza del Giovane e del
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved