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Tutto è ritmo, tutto è swing, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto completo monografia di Camilla Poesio "Tutto è ritmo, tutto è swing" utilizzabile per l'esame di storia contemporanea

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Tutto è ritmo, tutto è swing e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! “ Tutto è ritmo, tutto è swing” di Camilla Poesio Capitolo 1: “Il jazz, il fascismo e l’America” Mussolini e l’America, l’America e Mussolini Il rapporto tra Stati Uniti, la cultura americana ed il fascismo fu molto complesso e contraddittorio. Infatti, fin dal primo conflitto mondiale Mussolini fu attratto dall’America in quanto in essa vedeva una nazione giovane, moderna, con una popolazione giovane e, per gran parte, costituita da migranti italiani. Allo stesso tempo, gli americani, come mostrano i giornali statunitense tra il 1926 ed il 1932, gli stessi americani guardarono con interesse all’Italia in particolar modo dopo la Marcia su Roma del 1922 in quanto videro nel paese una possibile guida nel contesto europeo capace di arginare i problemi economici e sociali. Tutti gli anni ’20, infatti, furono caratterizzati da un atteggiamento estremamente positivo nei confronti degli USA in quanto, soprattutto, gli italiani guardavano con ammirazione l’affermarsi delle stelle. Mussolini avrebbe tratto ispirazione anche e soprattutto dai film americani su Roma come “Antonio”, “Cleopatra”, “Spartacus”, “Giulio Cesare” e “Cabiria” (realizzati tra il 1912 ed il 1915) per la creazione della simbologia fascista. Presto, però, già dalla fine degli anni ’20, tutto ciò cambiò e si fece spazio un’immagine di un’America deformata e grottesca tanto che la rivista di Giuseppe Bottai “Critica fascista” parlava di un’americanizzazione contrapposta ai costumi, alle tradizioni, al civismo e alla dignità dell’Europa. A ciò si univano gli ambienti cattolici che esortavano ad abbandonare le mode d’oltreoceano definendoli come barbari o “barbari culturizzati”. Simbolo dell’immaginario comune fu, infatti, una lettera del 1932 di Luigi Russolo che scrivendo al pittore e scultore futurista Fortunato Depero, affermava che a far arrivare in Italia i balli basati sul jazz come il fox-trot, il charleston ed il black-bottom, erano stati proprio i barbari che pur avendo “cambiato nome, continente e metodi d’invasione (…)” rimanevano comunque barbari tanto che, nel 1933, aggiunse che la civiltà americana con le sue “cretine americanate” gli erano diventate insopportabili. Negli anni Trenta, infatti, si impose comunemente l’idea dell’America come il paese dell’individualismo sfrenato, della concorrenza, dei consumi, del benessere materiale, dell’omologazione e della modernità borghese. Nacque, quindi, l’antiamericanismo. Nel 1936, i rapporti, infatti, si inclinarono totalmente a causa della massiccia partecipazione italiana nella guerra civile spagnola. L’immagine dell’America nelle riveste teatrali diventa, dunque, grottesca, volgare, deformata tanto che nella rivista “Americanate” di Angelo Checchelin, nel 1931, nacque lo stereotipo dell’americano milionario che, con i propri soldi, può comprare tutto contrapposto all’italiano focoso e virile attraverso la storia di un ricco americano, Jack Buldog, che grazie al proprio denaro riesce a convincere, attraverso le possibilità del denaro, una donna italiana a tradire il marito. Tutto ciò, ovviamente, avvenne sotto l’occhio vigile della censura che mirava a far rimanere le riviste italiane entro i limiti senza arrivare mai alla vera e propria satira. Anni dopo anche Leopoldo Zurlo, capo dell’Ufficio censura teatrale presso l’ispettorato del teatro, scriveva che quando le riviste toccavano paesi a loro ostili eccedevano nei limiti previsti in quanto gli autori rispecchiavano i sentimenti popolari e patriottici del paese. Il primo impatto del jazz in Italia Il jazz nacque in ambienti umili caratterizzati da gente povera e, soprattutto, da afroamericani nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti durante la schiavitù. Non si conosce, oggi, una data precisa per la nascita dal jazz sebbene alcuni parlino del 1917 ma, con certezza, si può affermare che tale musica fece il suo ingresso a New York con l’Original Dixieland Jazz Band, una band di musicisti bianchi di New Orleans che diede origine al Jazz orchestrato, lo straight jazz. Dal 1925 al 1929, anno del crollo della borsa di Wall Street, il jazz visse in America un periodo d’oro caratterizzato dal charleston, dai capelli alla garçonne e dalle flappers. In particolar modo, in questi anni, il jazz si poteva ascoltare presso il Cotton Club, il più famoso locale nel quartiere afroamericano di Harlem ma riservato ad una clientela ricca e bianca amante di uno stile esotico e che, nel locale, poteva ascoltare musica jazz e vedere attori neri e ballerine mulatte. Era, infatti, solo nei bassofondi del quartiere o nei rent-parties (feste private delle comunità afroamericane) che si potevano ascoltare i veri jazz men. In Europa, invece, il jazz arrivò prima in Inghilterra ed in Francia e si diffuse poi, dopo la Prima guerra mondiale in tutta Europa grazie, soprattutto, ai soldati americani. Fu a questo punto, infatti, che il jazz orchestrato suonato da Paul Whiteman nel 1924 all’Aeolian Hall di New York dirigendo Rapsodia in blu (di George Gershwin), si diffuse. In Italia, però, la diffusione fu più lenta e complessa in quanto il jazz che arrivò tra gli anni 1924 e 1931 fu essenzialmente quello bianco di New York e, solo nei 10 anni successivi, si affermò quello degli afroamericani con la diffusione dei dischi di Duke Ellington, Cab Calloway, Fletcher Henderson e Louis Armstrong. Questo genere, però, si scontrò con la politica razzista di fine anni Trenta e tornò in auge i jazz americano bianco come quello di Benny Goodnman, Casa Loma e Gene Krupa. Fino al 1926, infatti, la stampa italiana mantenne un atteggiamento oscillante nei confronti del jazz ma nel 1928 i giudizi negativi iniziano a parlare di perversione sessuale, barbarie e degenerazione dei costumi e della morale. Alla fine del decennio spiccò il libro “Jazz” di Anton Giulio Bragaglia in cui il genere musicale venne descritto come spregevole. Dalla fine degli anni ’30 e per tutto il periodo del conflitto, poi, il jazz fu considerato “musica ebraica” anticattolico e antinazionale ma parlare di jazz non significava parlare unicamente di musica. La flapper e gli attacchi all’emancipazione femminile In Italia, quando si parlava di jazz, si faceva riferimento separatamente a donne e giovani. Il jazz, dunque, era esploso dalla metà dei ruggenti anni Venti americani fino al 1929, anni, questi, caratterizzati da profondi cambiamenti sociali ed innovazioni tecnologiche fino alla svolta del 1927 di Charles Lindbergh con la traversata dell’Atlantico con cui le donne iniziarono ad assumere atteggiamenti anticonformisti. In questo momento in Gran Bretagna esplose, infatti, il fenomeno delle flappers, giovani donne indipendenti, anticonformiste, sessualmente libere, frequentanti locali notturni (in cui si scatenavano a ritmo dei nuovi balli) e vivaci caratterizzate da un taglio di capelli corto (tanto che questo in Italia era definito “alla maschietta”) e da un fisico maschile e un abbigliamento particolare tra cui spiccavano lunghe collane, gonne a metà gamba, calze di seta arrotolate intorno a giarrettiere ecc. Con il film muto di Alan Crosland, poi, uscito in Italia con il titolo “Gli zaffiri di Kim” nel 1925, le flappers arrivarono anche negli USA. Nonostante ciò, alcune delle donne dell’epoca non si riconobbero mai in tali atteggiamenti anticonformisti e non miravano a sfidare i classici ruoli femminili affermando altri valori, quelli delle flappers, come il sesso e la bellezza. Con queste nuove donne nacque, anche, un rilassamento dal punto di vista dei costumi e di un’ascesa sociale che era già iniziata nel 1918 con la conquista del voto in Gran Bretagna e, due anni dopo, anche in America. Tra le flappers più note rientrano Clara Bow e Peggy Guggenheim mentre, a livello letterario, spicca la figura di Lady Brett Ashley, protagonista del libro di Hemingway “The sun also rise” o le protagoniste dei racconti di Francis Scott Fitzgerald raccolti nell’opera “Flappers and Philosphers”. Sono, queste, donne anticonvenzionali come, d’altronde, lo era anche Zelda Fitzgerald, moglie dello scrittore che, a sua volta, aveva scritto, nel 1921, “elogio alla maschietta” in cui molti intellettuali vedono il primo passo per uscire dai canoni tradizionali. Il jazz portò, dunque, in Europa anche una nuova immagine della donna che diventa emancipata, anticonformista e moderna al punto da arrivare a spaventare i conservatori ed i cattolici. Proprio per agosto del 1933 della rivista Fortune Magazine, da spedire all’amico italiano, in cui era contenuto un articolo su Ellington e che aveva reperito tramite l'aiuto di un altro immigrato italiano, un tale Righino, che era solito rivendere a un prezzo maggiorato copie di questa introvabile rivista. Anche Pavese era in contatto con molti emigrati e intrattenne una corrispondenza su musica e letteratura tanto che si faceva inviare i titoli dei dischi americani per reperirli in Italia anche se ciò non era semplice. Le tournée delle grandi orchestre Per chi non ebbe l'opportunità di gustare del jazz dal vivo, l'occasione di conoscere questo nuovo genere musicale si palesò quando esso arrivò in Italia attraverso i grandi orchestre americane in tournée. Nel 1926, infatti, Sam Wooding, musicista afroamericano, si esibì in Germania, Francia Danimarca, Svezia, Gran Bretagna, Turchia e giunse anche a Milano. Nel 1928 tornò in Europa e, in Italia, fece ritorno nel 1936, allargando l'orchestra a musicisti bianchi. Gli italiani, infatti, non ascoltarono solo gli americani in quanto, nel 1929, arrivò in Italia l'inglese Jack Hylton con la sua band. Con Hylton arrivarono in Italia le big dance band britanniche tanto che il musicista viaggiò per tutta Europa ascoltando il jazz che veniva suonato nei vari paesi che visitò. Hylton rimase, infatti, colpito dal jazz in Germania, in Austria, in Belgio e a Parigi mentre trovò quello italiano molto arretrato. A Torino, infatti, fu protagonista di una situazione imbarazzante. Tra il pubblico in teatro vi era il principe Umberto che rimase entusiasta dell’orchestra e continuò ad applaudire anche dopo la fine del concerto. Poiché l'etichetta sanciva che nessuno poteva lasciare la sala prima di un reale, lo spettacolo continuò ad oltranza e la band esaurì tutto il repertorio ed utilizzò anche pezzi molto vecchi. Pochi giorni dopo, a Milano, al teatro Excelsior, il concerto di Hylton ebbe lo stesso successo e fu visto, per ben due volte, dalla famiglia di Mussolini. Tali concerti, poi, furono trasmessi via radio dall' ente italiano per le audizioni radiofoniche. Dall’America e dal Cotton club, inoltre, giunse in Europa anche il “duca” Duke Ellington che sbarcò nel 1933. Nonostante ciò, sicuramente importantissimo fu l'evento di Louis Armstrong che suonò al teatro Chiarella di Torino il 15 ed il 16 gennaio del 1935. La sua venuta in Italia, infatti, fu organizzata da Alfredo Antonino, un appassionato di jazz e fondatore con Charles Delaunay, nel 1932, dell'hot club de France. Allo spettacolo assistette, infatti, una folla immensa ed il successo fu enorme tanto che la cronaca di Massimo Soria sancì, senza alcun dubbio, l'importanza di Armstrong e del suo concerto. Nonostante, infatti, il pubblico italiano non fosse avvezzo al jazz le serate di Armstrong ebbero un successo clamoroso. I nuovi balli: shimmy, tip tap, fox-trot e charleston Per lo storico Eric Hobsbawn, Il successo del jazz sarebbe stato impensabile se non ci fossero stati dei balli, i Fox-trot, ed i loro derivanti come lo shimmy molto popolare in Europa. Infatti, lo stesso Benny Goodman, ammise che il suo pubblico ascoltava la musica jazz soprattutto perché amava ballare. La fine della Seconda guerra mondiale, infatti, con lo stile di vita americano portò in Europa il boogie woogie, e, allo stesso modo, negli anni ‘60, la lotta per i diritti civili portò il rock and roll. Infatti, il jazz non si diffuse solo grazie ai musicisti ma anche grazie ad artisti e ballerini americani che sbarcarono in Europa e mostrarono questo genere attraverso nuovi balli e ritmi. Si moltiplicarono infatti gli spettacoli di varietà che furono forti canali di circolazione del genere jazz. Anche in Italia si affermarono le riviste teatrali musicali ed il varietà con spettacoli leggeri, veloci, che rispondevano alle esigenze del pubblico che, uscito dalla guerra, chiedeva evasione e svago. Con il cabaret parigini scomparve, infatti, la parola jazz. Le riviste teatrali musicali, che conobbero il periodo di massimo splendore alla fine degli anni 30, si svolgevano non solo nei teatri ma anche nei tabarin. Fu, infatti, nel famoso tabarin di Roma, l'Apollo, che il pubblico vide, per la prima volta nel 1915, il Fox-trot. Il jazz si radicò in Italia, infatti, come un fenomeno urbano attraverso le classi più agiate in quanto in tutta Europa, del resto, esso aveva perso il suo carattere proletario ed aveva assunto una connotazione di musica borghese e ricca. La parola jazz, dunque, fu presto associata al ballo e al teatro tanto che entrò in un'opera inedita di Luigi Pirandello del 1929. A questo punto, balli come il cake Walk (una passeggiata ritmata a parodia di proprietari terrieri bianchi) o la tap dance (in italiano tip tap) si affermarono attraverso nuovi ritmi sincopati. Se, infatti, il valzer aveva portato uno sconvolgimento nella morale dell'800 perché la donna e l'uomo erano entrati a contatto fisico, e se il tango aveva offeso la morale comune ad inizio ‘900, il jazz caratterizzò gli anni ‘20 attraverso balli come lo schimmy, il charleston, il lindy hop i vari Animal dances, cioè danze ispirate agli animali. A questo proposito, i più famosi ballerini divennero Irene e Vernon Castle che scandalizzarono l'opinione pubblica con abiti sempre più corti e movenze scomposte. Il tip tap, invece, arrivò in Europa grazie a Louis Douglas che visitò l'Italia numerose volte e che si esibì accanto a Herry Flemming. Un esempio di emulazione fu, poi, l'italiano George Link il cui numero preferito consisteva nel salire su una scala di legno a passo di tip tap, ballarci in cima e, poi, scendere dall'altra parte. Alla fine degli anni ‘30, poi, Link dovete italianizzare il suo nome in Giorgio Linghi. Accanto al tip tap, poi, dopo la Seconda guerra mondiale, sarebbe nato anche il charleston di cui si fecero massimi esponenti Ada Smith e Josephine Baker. Seppur produssero sconcerto, questi balli furono un fenomeno culturale di grande interesse. Alcuni intrapresero veri e propri studi a questo proposito e l’industria, dal canto suo, voleva incentivare nuovi gusti e mode. Per questo, ballare il charleston divenne una cosa nuova ed eccitante, soprattutto per i giovani. A ballare, infatti, non erano solo i ballerini professionisti, ma anche i giovani che si riversarono nelle feste e nelle sale da ballo, facendo diffondere velocemente questi nuovi balli. Fu, dunque, il ballo il mezzo principale con cui il jazz si fece conoscere nelle città, tanto che Leo Alberini su “Radio Orario” si lamentava che questi nuovi balli fossero ovunque. Nel 1931, Maria Damerini, moglie del giornalista Gino Damerini, conosceva tutti questi balli e racconta che i giovani, per far colpo, si facevano applicare piastre d’acciaio sotto le suole delle scarpe. Il numero di musica da ballo trasmessa nelle radio, infatti, aumentò drasticamente negli anni ’30 e le grandi orchestre italiane divennero sempre più importati (vedi nomi pag. 35). Nel 1937, aumentarono le trasmissioni parlate, ma il pubblico continuava a chiedere un’espansione della musica brillante ballata, come quella di Carlo Zeme, Angelini, Ugolini, Kramer, Barzizza, ecc. Nel 1939, l’EIAR, dopo aver chiesto agli abbonati le loro preferenze, aumentò la radio di informazione e divertimento. L’interesse dei musicisti accademici e degli uomini di cultura Parte del mondo musicale accademico, uomini di cultura, scrittori, compositori e musicisti, furono un importante canale di diffusione del jazz. Tra questi compositori di formazione classica, troviamo Alfredo Casella che vedeva, nel jazz, un potentissimo strumento educatore per le masse. Altri, attraverso questo genere, invocavano a una ricerca di una libertà dagli schemi tradizionali e, sottolineavano l’importanza dell’improvvisazione, tanto che, alcuni futuristi, si avvicinavano ai ritmi jazz. Alcuni di questi, apprezzavano il jazz perché legato a balli non convenzionali; Marinetti, infatti scriveva “Noi futuristi preferiamo il cake-walk dei neri, perché vicino a una danza ritmata, disarmonica, anti graziosa, asimmetrica, ecc.” La radio Il mezzo che più di tutti contribuì alla circolazione del jazz fu la radio, un nuovo prodotto di consumo segno di modernità che cambiò le abitudini della gente. Le esigenze di una comunicazione sempre più veloce e la forte spinta tecnologica, infatti, fecero diventare la radio lo strumento simbolo della comunicazione. Inventata da Guglielmo Marconi, arrivò in Italia in ritardo, solo a partire dagli anni ’30 con l’esaurimento degli effetti negativi della crisi economica. La radio, infatti, permise alle classi meno abbienti di comprare un apparecchio che, però, rimase per molto tempo non accessibile a tutti (gli abbonati tedeschi e inglesi superavano di gran lunga quelli italiani). Nel 1934, dunque, si auspicò un abbassamento dei prezzi di vendita delle radio, ma ciò rimase inalterato, come, del resto, l’abbonamento annuale di 81£. Nel 1935 Enrico Rocca su “Scenario”, il mensile di Silvio d’Amico e Nicola de Pirro, denunciava che la radio non doveva essere un bene di lusso, ma una necessità per tutti. Negli anni successivi gli abbonati salirono ma rimasero comunque pochi rispetto ai paesi dell’Europa Occidentale. La scarsa diffusione delle radio dipese anche da una limitata recezione delle onde radiofoniche e dalla mancanza di energia elettrica nelle zone del sud. Per questo, il jazz si diffuse soprattutto al nord dove c’era maggiore possibilità di avere un segnale radio e gli stipendi erano più alti. Anche nelle aree non urbana la radio era pressoché inesistente fino alla creazione della radio rurale, un progetto che consisteva in una diffusione gratuita di apparecchi in alcuni punti di ascolto collettivo. Così, aumentò l’ascolto ma il divario rimase importante, come ci spiega Guglielmo Francini, un contadino di Arezzo, che afferma di aver ascoltato per la prima volta una radio nel 1946. Sempre nelle campagne, i vecchi non furono sfiorati dall’arrivo della radio e anche i giovani, come testimonia Luigi Girola dalla provincia di Como, sentivano poco parlare di grammofoni e radio. L’arrivo delle radio nelle case fu, un evento di grandissima portata che, Danilo Gigli, figlio di un direttore di fabbrica, fu uno dei primi nel suo paesino ad avere la radio in casa e, ascoltarla, diventava quasi un rito. Non tutti, però, videro di buon occhio l’arrivo di questo oggetto, in quanto Francesco Malipiero, compositore molto importante, associava la radio insieme al grammofono e al jazz, al declino della musica concertistica. Allo stesso tempo la stampa cattolica vide nella radio un pericolo insidioso ancora più del cinema, in quanto entrava nelle case ed esponeva i giovani a corruzione e scandalo. Anche il regime era contro il jazz tantoché Zurlo affermò che il pubblico di questo nuovo oggetto era di dubbia moralità e usava un linguaggio troppo spregiudicato. Nonostante ciò, il fascismo capì tardi l’importanza della radio e non fu capace di coglierne l’effettiva potenzialità, tantoché, solo nel 1936, il duce, in occasione della guerra civile spagnola, sembrò comprendere che tale oggetto poteva diventare uno strumento importante di propaganda. Perciò la radio cominciò a essere un prodotto di consumo solo nella seconda metà degli anni ’30 svolgendo anche il ruolo di diffusione del jazz. Il cinema Rispetto alla radio, sicuramente l’acquisto di un biglietto teatrale era molto più facile e alla portata di tutti. Molti, infatti, ascoltarono il jazz davanti allo schermo cinematografico. Con il cinema sono, infatti, il jazz si diffuse in maniera ancora più importante e definitiva. I film furono i principali canali di diffusione del jazz come confermano Enzo Rinaldi e Maria Anna Visani. Gli italiani, infatti, non si perdevano nessun film americano per ammirare la bellezza esotica delle attrici e degli attori hollywoodiani. Negli anni ’20, infatti, il monopolio sul cinema fu americano in quanto il fascismo continuò a interessarsi unicamente ai cinegiornali. Nel 1927, uscì in America “The jazz singer – Il cantante di jazz” di Alan Crosland, il primo film sonoro e parlato inciso su un disco che arrivò in Italia l’anno dopo (1928). N.B. Il primo film sonoro parlava solo di jazz in quanto narrava la storia di un giovane ebreo che, attratto dalla musica afroamericana di Harlem, decide di abbandonare la tradizione di famiglia per diventare un cantante jazz. Sarà perdonato solo quando, diventato un cantante famoso, canterà nella sinagoga. Ne “King of jazz” (Il re del jazz), 1930, il jazz fece materialmente ingresso nel cinema. A Parigi, uscì il film charleston (Sur un air de Charleston), un film muto di Jean Renoir che ritraeva la ballerina Catherine Hessling nei panni di una selvaggia che insegna charleston a un uomo venuto dal futuro. Nel cinema italiano il jazz fu Venezia, faceva riferimento ad un florido commercio di cocaina ai parties di questi aristocratici. Proprio per questo motivo gran parte dei nobili veneziani non voleva confondersi con i ricchi stranieri ed, ad esempio, Annina Morosini dichiarò di non frequentare l'Hotel Excelsior. Il musicista, dunque, ideò una chiatta, o meglio, una dance boat, su cui fu servita una cena per i 150 principali ospiti dell'hotel Excelsior e su cui si ballò al ritmo di una jazz band composta da soli afroamericani. Tutto ciò avvenne il 12 agosto 1926 e tutti veneziani assistettero a questa scena in cui un gruppo di musicisti di colore diffuse le note del jazz nel Canal Grande. Tale notizia fu riportata anche dai giornali stranieri e fece un enorme scalpore. La stravaganza dei coniugi, però, non fu tollerata a lungo perché, nel 1927, dopo un'irruzione della polizia ad una delle tante feste organizzate dai coniugi, fu scoperto un fiume di cocaina ed il Podestà fece allontanare da Venezia il compositore che non vi fece più ritorno. Viareggio Importantissimi, in questo momento, furono anche i luoghi di villeggiatura come, in particolare, Sanremo e Viareggio. Sanremo era, infatti, l'unico centro ligure ad essere frequentato a scopo turistico grazie all'offerta di numerose strutture ricreative come una decina di Grand Hotel ed una discreta realtà jazzista. Importante fu, però, soprattutto Viareggio. In un filmato dell'Istituto Nazionale Luce, del 1927, il jazz compare nel carnevale di Viareggio. Il documentario, infatti, riprende la sfilata dei carri allegorici, delle strade piene di gente che balla e lancia coriandoli, al ritmo di una musica stravagante. Tra tutti i carri, nel documentario, ne spicca uno caratterizzato da una figura di cartapesta che rappresenta un uomo dai lineamenti afroamericani che suona il sassofono. A Viareggio, il cinematografo dava i film americani che, oltre a diffondere le immagini dei divi, spargeva il jazz. Nell’estate del 1941, per conseguenza della guerra, il Ministero dell'Interno indirizzò delle disposizioni per contenere il pubblico e vigilare sulla condotta comune proibendo intrattenimenti pubblici e privati. Nonostante ciò, anche durante la guerra, la cittadina continuò ad ascoltare jazz attraverso dischi con comprati contrabbando. Capitolo 4: “Il jazz ed il mondo giovanile” I giovani Il jazz giunse in Europa dopo la Prima guerra mondiale ed esercitò, da subito, un fascino irresistibile in particolar modo tra i giovani. In Gran Bretagna, ad esempio, questa musica si era diffusa tra la Bringht young people, cioè i figli dell'aristocrazia e dell'alta qualche borghesia inglese che, per motivi anagrafici, non avevano preso parte al conflitto e che, negli anni ’20, cominciarono ad adottare uno stile di vita dedito allo svago e alla ricerca del piacere. Questi giovani, infatti, erano noti per essere vestiti in maniera anticonformista, oltraggiosa ed egocentrica. Lo stile di vita che questi conducevano, dunque, era dedito alla ricerca del piacere alla spensieratezza in quanto erano soliti organizzare feste con droga, alcol e jazz. Il jazz, infatti, era all'epoca considerato una musica antistituzionale ed un simbolo della modernità tanto che questa generazione veniva molto spesso chiamata Lost generation. Queste feste, però, non erano tipiche solo della Gran Bretagna perché anche a Venezia e, soprattutto, a Parigi i giovani creavano parties sfrenati come racconta il poeta americano Harry Crosby che parla di una società “folle” in cui si ballava senza preoccupazioni. Lo swing, infatti, funzionò da calamita per i giovani, in quanto implicava un nuovo modo di ballare e una nuova mobilità fatta su misura per i giovani. John Savage, infatti, afferma che “lo swing era una liberazione ed una nuova forma di emancipazione non solo per i musicisti neri ma anche per i teens, la cui maturità era preannunciata proprio da questa musica”. La relazione fra jazz e generazioni giovanili è, infatti, un dato molto importante anche per il musicologo Stefano Zenni che mette in evidenza come, in America, i programmi di jazz fossero finalizzati ai beni di consumo per le fasce più giovani come, per esempio, prodotti di bellezza, sigarette, profumi e vestiti. Anche in Italia furono i ragazzi e le ragazze appartenenti alla media borghesia urbana quelli che si interessarono maggiormente al genere jazz. Ad esempio, Natalino Otto aveva 18 anni quando iniziò a suonare la batteria nella “Tiziana jazz band”; Pippo Barzizza ne lamenti quando senti il primo disco jazz, Gian Carlo Testoni ne aveva 24 quando fondò il primo jazz hot di Milano nel 1936 e, inoltre, anche Massimo Mila e Cesare Pavese furono appassionati di questo jazz fin da giovani. Inoltre, anche Piero Umiliani, che anni dopo sarebbe diventato un musicista e compositore per la radio, non aveva compiuto 14 anni quando scoprì il jazz. Nel 1944, infatti, suonava il pianoforte nei jazz club americani ed inglesi nella Firenze liberata dagli alleati. Era stato, infatti, il suo maestro, un certo “signor Gigino”, ad incoraggiarlo a scrivere delle canzonette e a fargli amare quella musica che lo stesso Umiliani definisce “ritmo, ritmo, ritmo, orecchiabile e allegra”. La scoperta del jazz in giovane età, infatti, è un dato che ricorre in varie e diverse testimonianze ma che, allo stesso tempo, venne fortemente osteggiato dalla chiesa cattolica che temeva fosse un mezzo di corruzione nel processo di educazione giovanile. Per questo, nel 1926, il Ministero dell’Interno vietò, con un decreto, la chiusura dei Tabarin poiché luoghi “di nessuna moralità, fonte di corruzione e vizio ed un serio pericolo per i giovani”. Lo stesso Antonio Gramsci, fondatore del Partito comunista d’Italia, infatti, vide nel jazz un profondo pericolo per i più giovani tanto che, mentre si trovava in detenzione politica, espose le sue idee in una lettera alla cognata Tatiana Schucht (27 febbraio 1928) affermando di essere preoccupato per il diffondersi dei ritmi sincopati tra i giovani in quanto questi erano espressione di una realtà primitiva, lontana ed estranea. La preoccupazione di Gramsci era, infatti, quella secondo cui il jazz fosse un fenomeno capace di appartare cambiamenti radicali al costume tradizionale. Il ritmo marcato del jazz, infatti, dava la sensazione di libertà e l’illusione di una perfetta indipendenza che piaceva ai giovani ma che non era veritiera. Tra questi giovani rientravano, inoltre, anche quelli che partecipavano alla guerra d’Etiopia in quanto a loro il jazz arrivò grazie a Natalino Otto, ad Aldo Fabrizi, un attore comico, e a Renato Rascel, un altro attore, attraverso una tournée di varietà creati per far svagare le truppe. Il jazz, poi, arrivò anche all’interno dei gruppi universitari fascisti (GUF) in cui il futuro jazzista Umberto Cesari, scappato alla chiamata militare, aveva iniziato a suonare ritmi swing tra il 1941 ed il 1942. La moda, gli “zazou” e i “gagà” Mentre le autorità politiche e gli ambienti conservatori italiani non approvavano ascolto del jazz, l'industria, in particolar modo quella giovanile, punto proprio su questo genere grazie a prodotti di cosmetica, vestiti e nuova musica che diventarono la nuova frontiera nel campo dei beni di consumo. Lo stesso Alfredo Casella, in un articolo del 1930 a difesa del jazz, sottolinea proprio questo aspetto affermando che il dopoguerra aveva creato una nuova umanità con tre nuovi successi quali “sottane corte, capelli corti e il jazz”. Effettivamente, il jazz era collegato all’American way of Life, implicando un nuovo modo di vestirsi e comportarsi che influenzò la società moderna e contemporanea. In un documentario dell'istituto luce, “Volubile dea”, sul tema della moda si cambia di tono, che diventa sempre più spregiudicato, solo quando si inizia a fare riferimento alla musica d’oltreoceano mentre i toni tornano normali quando si ricomincia a parlare di moda italiana sottolineandone l’autarchia. Sul fenomeno della moda jazz si espresse anche il giornalista fascista Pietro Solari che scrisse un’invettiva contro lo stesso jazz. L'attacco del giornalista era diretto agli Stati Uniti, l'Inghilterra e alla Francia di cui denigrò i prodotti ed i costumi. Si delineò così, in questo momento, lo “zazù”, il giovane appassionato di swing a partire dal 1941. Gli “zazou” erano, infatti, giovani appartenenti alle classi medio-alte caratterizzati da un abbigliamento singolare (per i maschi: lunghe giacche a quadri fino alla gamba con profonde tasche, camicie lunghe fino a coprire le mani, anelli, pantaloni ampi, calzini sgargianti, scarpe pesanti, ombrello e capelli impomatati/ per le donne: maglioni a collo alto, soprabiti scamosciati, spalline molto ampie, scarpe basse, capelli raccolti in chignon davanti tinti di biondo, unghie e labbra rosse, braccialetti, catene, orecchini ed occhiali da sole). Questa moda, odiata dai nazisti, era, infatti, un misto di moda britannica, americana e continentale. Anche Solari delineò il ritratto del tipico giovane appassionato di swing rifacendosi ad un giovane abbigliato come i tipici zazou per i quali l’unico rimedio era il manganello. Il 10 marzo 1943, in quest’ottica, lo stesso Mussolini affermò il dovere di proteggere i giovani dalle influenze e dalle mode straniere. In Italia quest’abbigliamento sui generis fu definito come quello dei “gagà” caratterizzati da scarpe da tip tap, sciarpa azzurra, cintura a vita alta, brillantina sui capelli, sempre senza soldi e dediti a bere alcolici vari. Questi erano, dunque, un pericolo per le famiglie e le tradizionali distinzioni tra ruoli maschili e femminili. Il grammofono, i dischi e le canzoni Sulle abitudini della gente influirono, poi, i nuovi prodotti di consumo come il grammofono che, arrivando nelle case, cambiò la vita degli italiani. Avere un grammofono significava, infatti, avere dei dischi, degli oggetti che cambiarono i gusti musicali e le dinamiche sociali. In quest’ottica, nelle feste si cominciò a ballare al suono dei dischi e non più a quello delle orchestre. Proprio per questo si può affermare che i dischi ebbero un contributo importantissimo nella diffusione del jazz. Il primo disco fu inciso in America, nel 1917, da Nick la Rocca grazie alla casa discografica “Original Dixieland Jazz Band” e che fu riprodotto da Renzo Forcellini con il clarinetto in quanto, con il tempo, tali dischi divennero introvabili. Il direttore dell’orchestra dell’EIAR, Pippo Barzizza, ascoltò il jazz per la prima volta grazie al violinista Armando De Priamo che aveva portato tornando da un lungo viaggio su un transatlantico e che era rimasto sconvolto dalla musica jazz. Anche Gaetano Gimelli, che avrebbe suonato nel 1930 nell’orchestra Angelini a Torino e, nel 1939, per l’EIAR, ascoltò per la prima volta il jazz di ritorno da un viaggio in nave. Divoratore di questi dischi da 78 giri era, poi, Cesare Pavese che si recava spesso da Mila per ascoltare nuovi dischi e fare a cambio. Anche Ivano Cipriani ascoltò per la prima volta Armstrong grazie ad un disco ed affermò che “non capivamo una sola parola ma ci lanciavano segnali ed allarmi da terre lontane” e che, pertanto, li preferiva ad i ritmi della famosissima orchestra Angelini. Tramite i dischi si diffusero le canzoni che diventano mezzi di comunicazione di massa come, ad esempio, “Tulilem Blem Blu”, “Maramao perché sei morto”, “La bisbetica domata” ecc. Queste canzoni erano ritenute sciocche e superficiali tanto che il trio Lescano, Natalino Otto e Gori Kramer non erano tenuti in considerazione. Secondo Marco Peroni, infatti, l'atteggiamento degli italiani di fronte a questo nuovo genere era snobistico. Inoltre, questi testi leggeri e talvolta privi di senso furono il segno di un’epoca che cercava leggerezza e svago e quindi era impossibile non prenderli in considerazione e non contestualizzarli. Il jazz, infatti, puro o annacquato che fosse, diede un'accelerazione importante all' evoluzione del costume italiano offrendo un quadro di come i contemporanei vedevano, o volevano che fosse vista, la società di allora. Alcune donne, infatti, inneggiarono ad una figura diversa e, nel 1939, le sorelle Lescano arrivarono a definire una nuova figura femminile emancipata, alcolizzata e sorridente, totalmente anacronistica per l’epoca. Già nel 1938, nella canzone “Ma le gambe”, si era lodato il corpo femminile, soprattutto le gambe, intaccando la morale dell'epoca. Questa nuova musica leggera cambiarono le abitudini femminili come possiamo vedere in “Uh…uh… signorina Novecento”, canzone di Fausto Tommei e del Trio Lescano, suonata dall’orchestra Angelini nel 1940, che introduceva il fumo e la sigaretta. Queste nuove canzoni, poi, introdussero termini diversi come “swing, slow, tip tap, fox-trot, one step ecc.”. Queste canzonette furono, dunque, veri agenti di storia perché contribuirono ad influenzare il registrati. La lettera di dimissioni gli arrivò il 31 agosto e Bampton dovette lasciare l'Italia senza avere la possibilità di reperire i dischi che lui stesso aveva inciso negli ultimi giorni. Il “giazzo” Tra il 1937 ed il 1939, l’Italia pensò alla costituzione di un ente nazionale per la musica sinfonico vocale che avrebbe dovuto contrastare il dilagare di musiche esotiche e selvagge e cercare di riunire e custodire, in un apposito archivio musicale, le opere dei più grandi artisti italiani di tutti i tempi. Per fare ciò si cercò di incoraggiare, con l'assegnazione di premi e borse di studio, i giovani musicisti con particolari doti. Nel 1938, iniziò la campagna contro i nomi stranieri e furono eliminate le Parole straniere dai testi delle canzoni. Nonostante ciò, non era facile rinunciare al jazz perché ciò andava contro gli interessi economici delle case discografiche. Perciò si cercò di tollerarlo mascherandolo e mimetizzando come jazz italiano. L’esterofobia in ambito musicale e la politica autarchica del 1938, pertanto, ebbero come effetto l'incentivazione della nascita della canzone italiana. Intanto, nel 1936, nacque il primo circolo Jazz hot di Milano che portò alla nascita del jazz italiano. Si iniziò, quindi, a parlare di “Giazzo”. Anche Cesare Paglia, avverso al jazz, comprese che opporsi al nuovo giazzo italiano sarebbe stato controproducente e, perciò, si dimostrò favorevole a tutto ciò. Agli inizi del 1939, le EIAR, che da tempo applicava le direttive autarchiche, costituì una commissione incaricata di analizzare la produzione, l'importazione e l'esportazione delle canzoni mettendo a punto la programmazione della musica straniera che, in quest’ottica, fu ridotta al 20% mentre fu eliminata quella di autori ebrei e negri. Nel 1940, nacque un circolo di concerti di musica ritmica affidata al maestro Alberto Semprini che, nonostante fossero chiaramente jazz, non lo dicevano apertamente. La campagna nazionalistica musicale italiana contro il jazz si espresse anche, e soprattutto, dal punto di vista linguistico poiché, anche in Italia, al posto di “jazz” vennero usate altre perifrasi come “musica ballabile, musica ritmica, ritmo sincopato eccetera” alcune di queste, però, come l'espressione “giazzo” (equivalente di jazz in italiano), risultarono ridicole. Con l'entrata in guerra degli Stati Uniti, l'8 dicembre 1941, il rifiuto delle parole inglesi si accentuò ed i termini tradotti divennero sempre di più. Nel 1942, poi, vennero eliminate le musiche e le canzoni ballabili provenienti da autori e paesi nemici. L’arrivo dei Victory-Dics e degli alleati Più la politica di nazionalizzazione musicale non riuscì, però, ad evitare l'arrivo dei Victory-discs, i dischi incisi per le truppe americane sbarcate in Italia, che diffusero maggiormente la musica jazz. Questi dischi, infatti, diedero l'opportunità di ascoltare il vero e proprio swing americano anche agli europei e, secondo alcuni, fu così che l'Europa conobbe il jazz vero e proprio. Il programma dei V- discs era iniziato nell’ottobre del 1943 e fu chiuso nel maggio del 1949, dopo la fine delle ostilità, dal segretario della difesa Johnson. In quegli anni furono distribuiti numerosi dischi che servivano per intrattenere le truppe al fronte e per il personale militare che era rimasto in patria. Inizialmente il contenuto dei dischi era registrato dalla radio ma, poi, venne registrato dal vivo ed il principio su cui questo programma si basava era quello di produrre delle registrazioni solo per il personale militare che non avevano, quindi, uno scopo commerciale e che non potevano essere venduti. Infatti, proprio in quest’ottica, dopo la fine della guerra, la gran parte di questi dischi andò perduta in quanto fu distrutta dall’esercito stesso mentre, la parte restante, fu conservata alla National Archives di Washington D.C. e fu, poi, nel 1967, trasferita nella biblioteca del Congresso. Con i soldati angloamericani, quindi, arrivarono in Italia i dischi di musica jazz e, soprattutto, questi si diffusero nell’Italia meridionale e nelle zone liberate dagli angloamericani. Questi dischi, infatti, vennero trasmessi tra un notiziario e l'altro nelle radio dei paesi liberati e la musica jazz fu utilizzata anche dei servizi segreti americani, l'Office of Stretegic Service (OSS), nel quadro di un programma di propaganda a sostegno dello sforzo bellico angloamericano. Alla luce di una politica di soft Power che mirava a creare consenso intorno all’American way of Life, poi, nelle città liberate dagli eserciti, si era creata una sempre più importante diffusione della cultura americana e, in particolar modo, della cultura jazz. Come ricorda, infatti, Renzo Forcellini, un giovane padovano con la passione per il jazz, egli aveva fatto incetta dei di dischi delle truppe angloamericane che furono poi trasmessi, dal maggio del 1945 fino al giugno del 1946, su radio Padova libera, un'emittente fatta solo di autoparlanti e non legata alle onde radio ed organizzata dai giornalisti veneti che, come Forcellini, volevano richiamare l'attenzione dei passanti sulla musica jazz. Forcellini, poi, continuò la sua opera attraverso radio università. La presenza degli angloamericani nelle zone liberate fu, infatti, un fattore determinante per la trasmissione della loro musica e cultura come, d’altronde, racconta anche Giordano Barbari. Molti italiani, infatti, impararono a suonare grazie al contatto con gli americani e sperimentarono nuovi modi di suonare e strumenti. In particolare, quando i tedeschi si ritirarono, la popolazione italiana si trovò a contatto con le truppe alleate e, lo stesso Giordano barbari, detto Nando, fu invitato a suonare la fisarmonica per gli americani. L'amicizia tra i soldati americani e gli italiani andò avanti tanto che Nando ricorda un episodio in cui suonò con un afroamericano prima che questo venisse richiamato nel conflitto. Per questo, la contaminazione musicale della guerra fu essenziale, soprattutto, a Napoli che fu invasa da questa nuova musica nuova cultura. Lucio Macchiarella, giovane appassionato di musica leggera, dopo aver tentato invano di trasmettere alla radio le proprie canzoni, finì per suonare in vari posti di Roma frequentati dalle truppe alleate e, grazie ad un tale Ronald, riuscì a strumentare la sua “Stella mia”. Poi, grazie agli americani che frequentavano l'hotel Bernini-Bristol a Roma, poi, il pianista Umberto Cesari riuscì a farsi conoscere e, negli anni a seguire, creò il Crystal trio per la radio americana. Infine, la Bufala round up, l’orchestra dell’armata, formata da musicisti afroamericani, lasciò un'impronta importante in Italia tanto che, in questi anni, fu fondato il primo Hot club di Genova. Capitolo 6: “Il gez, un avvilimento della razza: jazz e razzismo” Il jazz e la musica dei primitivi In Italia il nazionalismo sfociò il razzismo contro i negri grazie ad una difesa ad oltranza della musica italiana e bianca che aveva messo in atto una vera e propria crociata a favore di cui si erano schierati chiesa, stampa e governo. Poco dopo l'arrivo in Italia, infatti, il jazz cominciò ad essere considerato in termini negativi in quanto questo genere non rientrava nella tradizione musicale italiana. Fino al 1926, infatti, la stampa italiana bene una posizione variabile ed oscillante ma, a partire dal 1928, il jazz fu associato situazioni barbare e perverse. Il razzismo nei confronti del jazz, infatti, era alla base di qualsiasi discorso letterario in quanto questa musica derivava da origini barbare di popoli non civilizzati e, quindi, secondo le idee del fascismo, tali popoli potevano tranquillamente essere soggetti a colonizzazione. Secondo gli italiani, infatti, il jazz portava a danze epilettiche tanto che per il compositore e rappresentante del sindacato fascista dei musicisti Adriano Lualdi, il jazz era un travisamento snob del primitivismo musicale dei negri. Musicisti, compositori e locandine, quindi, usavano termini aggressivi e dispregiativi nei confronti di questo genere. Alle definizioni razziste, nel 1927, seguirono i fatti in quanto le “orchestrine negre” furono vietate e la musica afroamericana fu esclusa dai più grandi repertori. Tra il 1930 ed il 1935, nonostante il jazz fosse ormai popolare, i toni razzisti divennero sempre più forti e duri perché era ritenuto, dalla maggior parte, primitivo, privo di morale, selvaggio e barbaro. Nel 1932, un servizio giornalistico dell'istituto luce sulla Nuova Zelanda mostrava una jazz band che eseguiva un pezzo musicale dal ritmo sincopato ma orchestra di bianchi avevano il volto scurito dal trucco e delle vesti di fantasiosi gonnellini di rafia. La maggior parte dei compositori era contro questo genere ma alcune voci si levarono fuori dal coro come quella di Alfredo Casella, un musicista che aveva vissuto per molti anni fuori dall'Italia e che riconobbe il jazz una forte dignità artistica che corrispondeva all' esigenza del popolo di svagarsi. Gli elogi di Casella al jazz erano, però, isolati tanto che, nel 1937, Augusto Caraceni, tra i primi in Italia a scrivere una monografia sul jazz, fece riferimenti, attraverso commenti razzisti, proprio al fenomeno del jazz nella penisola. Sicuramente, poi, l'impresa coloniale del fascismo incentivò e radicalizzò il razzismo all'interno della società italiana perché l'africano, in quanto barbaro ed inferiore, era visto come legittimato ad essere colonizzato. I discorsi razzisti sul jazz divennero, quindi, funzionali alla politica coloniale e, nel 1936, il censore Zurlo scrisse al direttore della casa editrice musicale “Ricordi” che lo spettacolo “La Setta negra” non poteva andare in scena. La situazione, come spiega anche Alceo Toni, che si schierò con Giuseppe Mulè e Ennio Porrino contro il modernismo musicale, peggiorò con la guerra d’Etiopia. Contro il jazz si scagliarono anche Pietro Mascagni e Filippo Tommaso Marinetti che, con Bruno Corra, firmò il “Manifesti contro il teatro morto. Contro il romanzo analitico. Contro il negrismo musicale”. A volte, poi, nonostante fosse mascherato in termini apparentemente positivi, il razzismo era presente anche in spettacoli dell’Hotel Excelsior di Venezia in cui venivano rappresentati barbari neri. La piovra musicale ebraica Nel 1937, Benito Mussolini dichiarò che non aveva alcuna antipatia contro il jazz e che, al contrario, lo trovava un ballo divertente tanto che anche il figlio romano afferma che in casa loro era normale ascoltare questo tipo di musica. A livello ufficiale, però, il regime fascista, in particolar modo con l'avvicinamento a quello nazista e con le leggi antisemite, cercò di limitare questa musica in Italia. Nel 1937, trovare uno spazio su alcuni giornali delle esternazioni antisemite espressione di alcuni musicisti molto vicini al regime fascista come Ennio Porrino, Arturo della Porta e Francesco Santoliquido. Il bersaglio di questa campagna fu, in particolar modo, Alfredo Casella, uno dei più grandi sostenitori della musica jazz in Italia. Alcuni musicisti, invece, costituirono una campagna antisemita proprio contro Casella in quanto questo era visto come sostenitore della musica ebrea moderna. Tutto aveva avuto inizio il Terzo congresso nazionale dei musicisti indetto dal sindacato dei musicisti a Cagliari quando Ennio Porrino fece un attacco a Casella ma, in realtà, si levò un coro di solidarietà al musicista oltraggiato. La campagna antisemita continuò sul “Popolo d’Italia” e con la creazione, nel 1938, del “Manifesto degli scienziati razzisti”. Il sistema normativo persecutorio contro gli ebrei, infatti, toccò anche il settore della musica, del teatro e del cinema sia per quanto riguarda gli operatori sia per le opere al punto che, nel 1940, fu bandita la razza ebraica dal teatro. Nel 1939, si decise di eliminare la musica ebrea e negra e le esternazioni antisemite, come quelle del giornalista Santi Savarino, tornarono ad avere un’importanza sempre maggiore. Il caso del Trio Lescano Un caso emblematico di antisemitismo è costituito dal caso delle sorelle Leschan, conosciute con il nome di trio Lescano. Il trio, infatti, composto dalle tre sorelle Leschan di origine olandese- ungherese Alexandrine Evelyn (Sandra), Judith (Giuditta) e Katharina (Kitty o Caterinetta) che furono famosissime e popolari nella penisola tra il 1935 ed il 1942, anno in cui ottennero la cittadinanza. Le tre sorelle erano figlie della cantante olandese Eva Leeuve e di un musicista ungherese. Sandra e Giuditta arrivarono in Italia come ballerine nel 1935 ed intrapresero un lavoro presso il teatro Maffei di Torino grazie a Carlo Prato che le aveva scoperte. Sempre nel 1935 le sorelle chiesero di prolungare il loro permesso di soggiorno di 6 mesi per motivi lavorativi e, dopo l’arrivo della sorella minore Kitty, formarono un vero e proprio trio che, seppur dopo un iniziale finalmente, esibirsi nel 1932 ma, dopo un breve giro artistico, notando la clamorosa accoglienza del pubblico, le autorità fasciste diedero l'ordine di far smettere la tournée della Baker che non tornò mai più in Italia. Il regime non demorde: provvedimenti censori Negli anni ‘30 ha preso avvio, per la prima volta nella storia d'Italia, una politica statale in campo dello spettacolo. Il regime fascista, infatti, operò attraverso sovvenzioni, finanziamenti, calendarizzazioni, legislazioni, tournée, premi ed iniziative cercando una convergenza con le politiche del fascismo. Nella primavera del 1935, infatti, fu creato l'istituto per l'ispettorato per il teatro, dipendente dal sottosegretario per la stampa e la propaganda, con il compito di gestire gli enti lirici e sinfonici e fu posto sotto la direzione di Nicola de Pirro, nominato lo stesso Galeazzo Ciano. Alla censura teatrale fu incaricato Leopoldo Zurro. E, dal 1931 al 1943, l'ispettorato fu uno strumento di controllo e di censura che, dal 1935, fu elevato al rango di ministero e diviso in sezioni (per il cinema, per il turismo, per la radio). L'ispettorato rispose alle sanzioni economiche della società delle Nazioni, dopo l'aggressione italiana l'Etiopia, censurando le musiche dei paesi sanzionisti. Contemporaneamente, nel 1935, si radicalizzò la campagna contro i balli stranieri come il tip tap, il charleston e lo shimmy perché basati su movimenti del corpo troppo audaci e scomposti che portavano, anche, ad una ridefinizione del ruolo della donna che assumeva atteggiamenti lontani da quella classica e cattolica. Divieti e proibizioni furono emessi contro la musica da ballo con ritornelli cantati in inglese e, successivamente, su tutta la musica da ballo. I prefetti, poi, impedirono e gli intrattenimenti in cui comparivano i nomi stranieri ed i locali i proprietari dei locali con nomi stranieri furono obbligati a cambiarli con nomi italiani. Il critico musicale Gaianus, del Resto del Carlino, e sostenitore del nazionalismo musicale si scagliò contro le “canzonette idiote” e si rammaricava del non intervento forte del fascismo che, secondo lui, doveva essere più decisivo. Il 16 agosto 1940, poi, entrò in vigore la repressione dell’ascolto clandestino in quanto furono vietate anche le trasmissioni musicali di provenienza anglosassone. L’EIAR, in seguito, abolì la musica da ballo nelle sue trasmissioni e ridusse il numero di quella leggera. Nonostante questo divieto, però, i balli sui ritmi neri continuavano ad essere presenti nelle case discografiche che continuavano a produrre un repertorio di brani da ballare. Nel 1941, si ebbe una restrizione del divertimento e dello svago nelle stazioni di villeggiatura in quanto il regime fascista condannava i perditempo che affollavano questi luoghi e a cui ritirava la tessera del partito fascista. Il ballo, infatti, era diventato, per il fascismo, un cancro. Con l'entrata in guerra degli Stati Uniti, l'8 dicembre 1941, furono rimosse le parole straniere dai testi delle canzoni e sostituite. La musica jazz, poi, fu classificata come “ritmo moderato” o come “canzone Fox” come “gez” o “giazzo”. Nel gennaio del 1942, poi, fu ufficialmente annunciata eliminazione dai programmi radiofonici della musica sincopata o di origine anglosassone e fu vietata la vendita di dischi americani. Alcuni musicisti, poi, come Natalino Otto, subirono una censura personale perché non iscritti al partito fascista. Divieti e ascolto clandestino Secondo il consigliere nazionale Raul Chiodelli era forte il rischio che le proibizioni spingessero il pubblico a cercare l'ascolto di musica leggera stazioni estere. Per questo la legge del 27 Aprile 1942, la legge numero 608, inasprì la dura repressione dell’ascolto clandestino delle stazioni radio dei paesi nemici o neutrali. Per questo, la norma dispose tre anni di reclusione, una multa da 4000 a 40.000 lire ed un mandato di cattura contro gli imputati senza alcuna possibilità di sospensione dell'esecuzione della pena. D'altro canto, la legge 19 Aprile 1942, la legge numero 615, disciplinò la diffusione dei dischi e la vigilanza sulla produzione e la diffusione sia di quelli italiani sia di quelli stranieri. Una terza legge, poi, la legge 517 del 19 Aprile 1942, escluse gli ebrei dallo spettacolo sia come singoli sia come società. Fu, inoltre, vietato l'utilizzo di dischi ed opere riconducibili ad autori o esecutori ebrei. Nonostante ciò, tali proibizioni e divieti, non impedirono l'ascolto clandestino di radio estere e l’acquisto di dischi proibiti. Allo stremo, il regime, quando era nella sua ultima fase nella Repubblica di Salò, utilizzo il jazz per i propri scopi, come dimostra l'esperienza di Radio Tevere, una stazione creata nel 1944 che era sotto il controllo della Repubblica Sociale italiana. Per attrarre gli ascoltatori e diffondere le notizie in difesa di Salò contro gli alleati, infatti, si trasmetteva molto jazz, quello stesso genere che i fascisti avevano denigrato.
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