Scarica Un elefante su cui farli viaggiare (Paola Tabet) e più Dispense in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! “UN ELEFANTE SU CUI FARLI VIAGGIARE”
n questo testo le idee di base che seguirò saranno queste:
* Che l’idea di razza, l’idea che è la base stessa del razzismo, non è un’idea ncu-
tra che si può usare così tranquillamente, a volte bene a volte violentemente, ma è
nella sua essenza l’idea di una diversità e disuguaglianza naturale dei gruppi
umani. Come tale si accompagna allo sfruttamento e discriminazione degli altri, c
ha come esiti finali, c storicamente sperimentati, forme di apartheid e di elimina-
zione.
e Che l’idea di razza è un costrutto sociale databile, c che possiamo seguire come è
stato creato. Questa idca infatti non è universale, cioè non è presente in tutte le +
società e tutti i tempi; c anche nella stessa cultura curopea non è presente da sem-
pre.
* Che possiamo dunque dire che il razzismo è una costruzione storica particolare,
specifica e propria di certi momenti, presente in alcune circostanze storiche e non
in altre. Nell'ottica che scguo il razzismo è innanzitutto un rapporto sociale, dove
un gruppo ha potere sull’altro e non è solo rappresentazione distorta degli “altri” o *
ideologia.
Sosterrò dunque che il razzismo non è qualcosa di innato, né, come dicono alcuni,
l’espressione di una aggressività istinriva di fronte agli “altri”.
Che il razzismo non è un fatto di ignoranza ma qualcosa che impariamo dalla nostra
cultura e prodotto dai rapporti sociali di cui siamo parte.
Il razzismo
Prendiamo un discorso banale e tante volte sentito: “Da noi razzismo? Ma fino a “Da noi
ora non c’era, non c'è mai stato. È chiaro... solo ora noi li conosciamo, prima non li razzismo?”
conoscevamo. Non è come negli altri Paesi dove “loto” ci sono da tanto tempo come
immigrati”. Ebbenc, con questo semplice comune discorso si hanno due risultati con
un colpo solo: si rimuove e annulla la nostra storia, così noi siamo fuori causa, c il
razzismo, quasi senza accorgercene, viene addebitato a loro: sarebbero “loro”, la loro
PAOLA TABET
presenza, che inevitabilmente, naturalmente, generercbbero disagio, paura, comun-
que ostilità. Il razzismo viene visto come per natura legato a “loro”.
La rimozione di quello che è stata la nostra storia è abbastanza straordinaria. Si
dimentica in primo luogo quella coloniale dell’ottocento e del novecento, in secondo
luogo si rimuove specificatamente il razzismo fascista, infine ci si dimentica del raz- ©
zismo antimeridionale.
Rimozione del passato coloniale italiano. L'Italia non è stata un grande Paese coloniale, però ha
avuto colonie e con esse ha certo esercitato una dominazione su altre popolazioni. Ma questa
dominazione è stata mitizzata, ne è stata data una versione edulcorata € distorta, insieme una
legittimazione del proprio modo di essere colonialisti e una forma di autoincensamento: vi
sarebbero stati buoni rapporti con i popoli colonizzati, minore violenza di dominazione e mino-
re distanza gerarchica nei rapporti. Insomma si ha lo stereotipo che tuiti conosciamo degli “ita-
liani brava gente”. Questi clementi, che sono ancora quelli che vengono ripetuti e fanno parte
di un'immagine positiva di “noi” conservata fino ad oggi, fanno del colonialismo italiano un
colonialismo all'acqua di rose, ma purtroppo non sono assolutamente confermati dagli studi
storici. Gli italiani anzi, secondo quanto emerge con assoluta chiarezza da oltre vent'anni di
ricerche storiche (di Del Boca, Rochat, Labanca e molti altri) hanno manifestato ben altri com-
portamenti: costanti del colonialismo italiano sono, primo, una scarsissima conoscenza delle
realtà locali (a differenza del colonialismo francese c inglese, ad esempio) e la tendenza all’im-
provvisazione; poi per quanto riguarda la presunta tolleranza italiana, c’è stata invece la forte
presenza di tribunali militari anziché civili e in periodo fascista di una legislazione di tipo
apartheid, pratiche di genocidio rispetto alle popolazioni soggette, fino all’uso, nelle guerre di
Etiopia c di Libia, di gas nervini già Vietati dalla convenzione di Ginevra. Infine la coloni
zione italiana ha avuto pochissima cura dello sviluppo delle regioni sottoposte, în particolare
non ha realmente promosso l'istruzione, anzi l’ha fortemente limitata e non ha favorito la for-
mazione di una classe intellettuale locale (quando non ha addirittura eliminato, come mostra
l'esempio dell'Etiopia, quella che già esisteva). Tanto che alla fine della dominazione italiana è
assolutamente irrisorio il numero di persone con titoli di istruzione superiore. Il periodo lasci-
sta, con la legislazione sulla razza, incrementa c teorizza e istituzionalizza il razzismo con tutte
le sue manifestazioni di superiorità dei bianchi c di disprezzo e discriminazione delle popola-
zioni locali, già ben presenti fin dall’ottocento.
Dopo la guerra il discorso razzista sembra abbia un periodo di latenza. Ma ciò è vero soprat-
tutto per quanto riguarda gli “altri” per così dire esterni. Negli anni del boom economico il
discorso razzista si concentra infatti sugli “immigrati interni”, sui lavoratori meridionali arriva-
ti nel nord e serve a appoggiare e legittima di nuovo un trattamento differenziato, discriminato-
rio. Questa ideologia (che già nell’ottocento aveva sviluppato l’idea che i meridionali costituis-
sero una ra7 anche Teti 1993) diviene dunque un fattore di organizzazione sociale nei rap-
porti tra cittadini italiani.
Negli anni °80 con la ripresa economica, l’Italia smette di essere un Paese che
esporta forza lavoro. Il benessere cambia le condizioni di vita. Non si accettano più
certi tipi di lavoro, certe occupazioni, € quindi si creano le condizioni per una poten-
ziale domanda di lavoratori disposti a farli. Dall’esportazione di forza lavoro si passa
all'importazione di forza lavoro. A questo punto, tutto l'immaginario sui neri che si
era formato in un’altra situazione storica (giacché li “conoscevamo” un tempo) si riat-
tiva, viene riadattato, e riparte. Viene recuperato un discorso ideologico già ben strut-
turato e i cui elementi si formano non solo in periodo fascista ma dall’ottocento: è
infatti un carattere specifico dell’ideologia razzista, quello di poter essere per così dire
riciclato e adattato, come strumento di creazione di differenza. E in particolare tutto
_SUN ELEFANTE SU CUI FARLI VIAGGIARE”
ra mia). E si tratta invece di un perfetto, seppure ingenuo e inconsapevole, calco del modello di
neorazzismo diflerenzialista (vedi L. Gallissot e A. Rivera 1997). Quello in voga nella destra
europea: diversi e separati.
Un inciso. È importante soffermarsi su un sviluppo ulteriore che consegue all’idea
di razza come gruppo chiuso e non comunicante: se siamo diversi per natura a que-
sta differenza corrisponderà, nella visione comune, una naturale ostilità e aggressi-
vità. Ma l’idea del razzismo come aggressività, una intolleranza naturale per i “diver- Rapporti.
i”, ostilità istintiva, non si limita a quanti sostengono esplicitamente che i gruppi ORI Ù
umani siano diversi per essenza, cioè la divisione in razze. Questa spiegazione natu- sociali?
ralistica o biologistica è spesso diffusa anche tra chi si ritiene antirazzista. In questa
ottica appunto vi è una aggressività, una intolleranza naturale, che si scatenerebbero
istintivamente di fronte ai “diversi” (ma chi definisce in primo luogo chi è diverso e
quale diversità sia da considerare e quale altra non sia pertinente?), qualcosa di sel-
vaggio e originario che si tratterebbe di controllare. Occorrerebbe frenare o educare
questa violenta natura animale nell’uomo, come si controllano altre pulsioni naturali
(non si insegna ai bambini il controllo degli sfinteri? a fare pipì e cacca nei posti
acconci, o il controllo sessuale?). Fermiamoci un momento perché questo discorso è
assai comune e ha delle implicazioni su cui riflettere.
Primo: se noi vediamo il razzismo come comportamento prodotto dalla natura
umana, se pensiamo che noi ci distrugg amo perché è la natura umana che crea rap-
porti negativi tra i gruppi, siamo già all’interno del discorso prodotto dal razzismo;
siamo già dentro l’ottica razzista, perché vediamo i rapporti sociali come un fatto pro-
grammato geneticamente. Che i rapporti sociali siano rapporti naturali e come tali sta-
biliti geneticamente, biologicamente, è esattamente il cuore della dottrina razzista. È
proprio questo il pensiero razzista come sistema percettivo o ordine del mondo
(Guillaumin 1972). Nella sua forma “classica” è la costruzione dell’idea che gli esse-
ri umani sono diversi per essenza e per sempre diversi: questa irriducibilità della
diversità in quanto diversità “naturale” è il nocciolo duro del razzismo. Ma l’idea di
naturalità può investire i rapporti anche da quest'altro punto di vista, non si tratta di
gruppi esplicitamente definiti come naturalmente diversi ma di gruppi che natural-
mente reagiscono alla diversità (qui non definita esplicitamente, lasciata arguire, con-
siderata troppo evidente? da qualche parte qualcuno l’avrà definita o si tratterebbe di
diversità fiutata animalescamente anche qui?). Ne consegue che, se noi vogliamo esa-
minare che cos'è il razzismo, non possiamo trascurare l’analisi dell'uso dell’idea di
natura per definire rapporti sociali, quale che sia la formulazione che questa idea
prende e l’ambito a cui si riferisce.
Lo spostamento nell’interpretazione dei rapporti sociali che consegue a questa riduzione natu-
ralistica diventa eclatante se proviamo a descrivere altri rapporti sociali, ad esempio rapporti
che hanno una lunga tradizione di analisi politica e sociologica, applicandovi le stesse catego-
rie tra psicologiche, sociobiologiche ccc.., Come sc usassimo categorie interpretative quali
aggressività, avidità o ansia di possesso “tipiche della-specie umana”, per descrivere i rapporti
tra operai e padroni, ad esempio una contrattazione sindacale o uno sciopero e così via.
Difficilmente questi sentimenti verrebbero in quest'ambito considerati fattori pertinenti per l’a-
nalisi dei rapporti o per la descrizione stessa degli eventi.
Tramite l’idea di natura invece certi gruppi sociali, classificati come gruppi di razza, cioè defi-
PAOLA TABET
Una nozione
che si impara
niti biologicamente, vengono posti in qualche modo fuori delle categorie del sociale. Infatti già
con la stessa definizione di “rapporti razziali” i rapporti tra i gruppi in questione non vengono
interpretati come rapporti politici, economici, ma attribuiti a dati biologici (reali o supposti)
interni ai gruppi e alle persone. Diviene allora importante chiedersi che funzione può avere oggi
questa naturalizzazione dei rapporti che ne rimuove il carattere sociale e politico, fa piazza
pulita dei fattori economici e delle responsabilità, eliminando con ciò stesso ogni reale possibi-
lità di azione sul razzismo e innanzitutto ci si può chiedere come e quando si formi questa inter-
pretazione naturalistica.
Riprendiamo il filo del discorso. Partiamo dall'idea di razza che non possiamo dare
per scontata, perché questa idea appartiene al razzismo stesso. Quello di *
concetto la cui messa in discussione è fondamentale.
Innanzitutto che base ha questo concetto? La razza si apprende dalla percezione?
Si può considerare qualcosa di naturalmente appreso? Sarcbbe allora qualcosa di uni-
versale presente in tutti i tempi e in tutte le socictà. Si può mostrare che non è così.
Per quanto riguarda l'apprendimento naturale o meno, ricerche di psicologia e antropologia
cognitiva mostrano che i bambini arrivano a conoscere la categorizzazione razziale, imparano
la “razza”, dal linguaggio e non dalla percezione: la “loro conoscenza della razza come cate-
goria verbale, precede la loro comprensione della razza come fenomeno visivo”. Ossia “i bam-
bini piccoli all’inizio non vedono la razza, la odono” (Hirschfeld 1996, sottolineatura mia). Il
concetto di razza in essi, e negli adulti del resto, non è dunque legato all’esperienza visiva. Anzi
si vede ciò che si conosce, la percezione deriva dall’idea di razza, e non viceversa. Così i bam-
bini già dai quattro cinque anni “conoscono”, hanno un'idea dei membri di altre “raz ”, nel
nostro caso sanno chi sono i “neri” (e potranno essere neri, per i bambini della scuola dell’ob-
bligo, anche gli albanesi o i bosniaci o gli iracheni, cfr. Tabet, La Pelle Giusta), possono pro-
vare verso di loro antipatia, paura 0 altro secondo quanto viene indicato c trasmesso loro dal-
l’ambiente intorno, senza avere mai visto le persone rispetto alle quali vengono educate ad
avere questi sentimenti.
Per quanto riguarda l’universalità o meno del concetto di razza. L'importanza così essenziale
data a caratteri biologici, in particolare il peso determinante che viene dato oggi ai fenotipi, visti
come elementi costitutivi e differenzianti dei gruppi sociali e della persona, non appartengono
a tutte le culture e neppure all’intera storia culturale dell’occidente 0 europea. Dati somatici
quali il colore della pelle o altri potevano eventualmente essere menzionati in altre epoche se
inconsueti per chi li nominava. Ma non c’era in alcun modo quell’insistenza ossessiva che oggi
li fa percepire come segno di cterogeneità di un gruppo rispetto all’altro, di una persona rispet-
to all'altra e perciò non erano sentiti come gli clementi da indicare in via prioritaria. Marco Polo
ad esempio non sottolinea gli “occhi a mandorla” 0 il colorito “giallo” dei cinesi 0 dci tartari;
si veda la sua descrizione di Kublai Khan, tipica descrizione che un cortigiano può fare del suo
signore, e per nulla improntata all'idea di “differenza” che ora sarebbe data per così ovvia:
Lo Grande Signore de’ signori, che Coblai Kane è chiamato, è di bella grandezza, né pi
né grande, ma è di mezzana fatta. Egli è carnuto di bella maniera (di complessione giusta);
è troppo bene tagliato di tutte membre; egli à lo suo viso bianco e vermiglio come rosa, gli occhi
neri e begli, lo naso bene fatto e be Îli siede (bene posto rispetto al viso) (Marco Polo, Il
Milione, Adelphi, Milano 1975).
Vi sono culture per le quali i caratteri che definiscono l'identità, l'appartenenza a un gruppo e
la differenza dei gruppi tra loro non sono questi di tipo somatico così cari, come elementi
“drammatici” di distinzione, alla nostra cultura attuale. Vi sono culture che costituiscono la per
sona e il gruppo sul fare, sul rapporto con il territorio, sul conoscere e assorbire da esso, e non
sul “sangue”, sulla biologia o la discendenza. È il divenire che struttura la persona: la persona
è ciò che fa, e “altra gente fa altre cose” come mostrano ad esempio gli antropologi J. Watson
per società della Nuova Guinea c R. Astuti per i Veso del Madagascar.
“UN ELEFANTE SU CI
La “razza” non è dunque né un'idea spontanea, naturale, derivante dalla percezione, né qualco-
sa di ovvio, universale e perciò proprio a tutte lc culture. È solo una particolare modalità cul-
turale di costruzione della differenza di potere tra gruppi, connotata da rapporti storico-sociali
definiti.
Se l’idea di razza non è dunque una costruzione culturale universale, non è un’i-
dea naturale ma sociale e propria di alcune culture, si tratta di rintracciarne l'origine
e la storia.
Nelle scienze naturali viene mostrata l’inconsistenza dell’idea di razza. Biologi,
cematologi, genetisti hanno già da tempo messo in discussione questa nozione come
qualcosa di scientificamente non valido. La razza dunque non esiste sul piano biolo-
gico. Sulla base della “razza” sono avvenuti massacri, sono state uccise milioni di per-
sone, e la “razza” ha avuto e ha un peso enorme nel mondo. Eppure la “razza” non
esiste. Non esiste infatti come entità naturale, esiste come entità sociale e storica di
pura creazione sociale. La razza, “invenzione sociale di una categoria naturalistica”
(secondo la definizione di M. O°Caslaghan e C. Guillaumin 1989) è stata a lungo la
base di classificazioni sociali, ha stabilito e legittimato la collocazione sociale degli
individui e dei gruppi, la disuguaglianza, il diverso accesso alle risorse, lo sfrutta-
mento e la discriminazione, il genocidio. Una violenta esistenza non come fatto natu-
rale ma come fatto sociale: “Sì la razza esiste: No, certo, non è ciò che si dice che essa
è, ma è tuttavia la più tangibile, reale, brutale delle realtà”, scrive in un bel testo
Colette Guillanmin (1992). Quando e come è stato creato questo concetto di così
drammatica portata politica?
Nelle scienze sociali viene da anni c da studiosi di valore messo in rilievo che si
tratta di un concetto costruito di cui si può seguire la storia. Questa storia, la storia
dell’inizio del razzismo, è una storia interessante e forse per molti inattesa, L'inizio,
e con esso la costruzione dell’idea moderna di razza, si situa proprio al momento in
cui, con la modernità europea e con il trionfo della borghesia tra sette e ottocento,
apparentemente si affermano altri valori, si afferma la cittadinanza universale. Le
disuguaglianze e i privilegi di nascita si aboliscono, si crea l’idea di uguaglianza uni-
versale. Ma non tutti si vogliono uguali. Ci sono popolazioni dominate, c’è l’asservi-
mento delle popolazioni “senza storia”, ci sono le donne da tenere in posizione sotto-
messa, ci sono una serie di rapporti sociali che potrebbero essere messi in discussio-
ne dall’idca di uguaglianza. Siamo nell’epoca dello sviluppo dei rapporti coloniali e
di massimo sviluppo della tratta degli schiavi - ‘l’era dei negrieri” - c la ricchezza e
crescita industriale europea hanno alla loro base proprio le colonie e il ben noto traf-
fico triangolare.
Quelli dell’uguaglianza e dei diritti universali sono però concetti con grande capa-
cità di propulsione. Le rivolte continue degli schiavi nelle colonie americane dei
Caraibi lo dimostrano: alcune si ispirano proprio ai principi della rivoluzione france-
se. Come tenere sotto controllo allora la diffusione di idee così pericolose? Come fre-
nare allora la loro possibile capacità di sovversione? Si deve cercare dunque un altro
fondamento su cui costruire le disuguaglianze. È necessario cercare una giustifica-
zione potente che possa contrastare questi principi universali, la “nuova idea della cit-
tadinanza virtualmente illimitata, universale. È in questo contesto progressivo che
diviene urgente (...) la costruzione di strutture teoriche potenti a giustificazione dei
Una storia
interessante
2
PAOLA TABET
È ciò che una psicologa statunitense Ricky Sherover Marcuse, nei suoi numerosi workshop, sul
“disimparare il razzismo”, considera il punto di partenza dell’assorbimento di idee razziste:
“Nel lavorare con un campione molto vario di euro-americani ho trovato che senza eccezione i
bianchi ricordano di avere inizialmente ricevuto disinformazione su persone di colore come uno
shock e una penosa contraddizione, una contraddizione rispetto ai loro precedenti atteggiamen-
ti verso gli esseri umani in genere e rispetto alla credibilità degli adulti (0 dei bambini più gran-
di)” che li inducono a questo nuovo atteggiamento. Per disimparare il razzismo è allora “neces-
sario sciogliere il groviglio formato dalla disinformazione e dall'esperienza dolorosa dell’im-
posizione di questa disinformazione e pregiudizio” (Sherover Marcuse, s.d.).
Quello della scuola materna di Milano non è un caso unico neppure come man-
canza di consapevolezza. Una volenterosa studentessa toscana, indagando sull'idea di
diversità tra i suoi allievi di scuola materna si è trovata in modo “inconsapevole” a
instillare o în ogni caso a rafforzare in questi bambini di 3-4 anni il senso di una dif-
ferenza produttrice di paura. Ha portato ai bambini (che all’inizio non facevano caso
al fatto che i bambini di alcune foto che l'insegnante mostrava loro, fossero neri e che
vedevano la differenza tra loro stessi e questi altri bambini in termini di situazioni, di
oggetti diversi posseduti) delle immagini di neri sempre più drasticamente “diversi”,
per povertà, nudità ccc., fino a mostrare loro un fotomontaggio peraltro bellissimo.
Era un viso intensamente nero, su fondo nero, con denti e fondo degli occhi di un
bianco abbagliante, reso più spettacolare dalla forte pittura facciale e da lunghi ciuffi
di peli di animale sotto il mento: “un lupo cattivo”, hanno detto alcuni dei bambini.
L'impressione di una “differenza” invalicabile era stata raggiunta. Si è trasmessa così
attraverso immagini una informazione già segnata, distorta. Non è un’informazione di
cosa è l’Africa, di come vivono gli africani, o altre popolazioni. È un’informazione
che tende a imprimere l’idea di un solco, di una diversità fondamentale.
A questo arrivano tanti altri mezzi, ad esempio l’informazione prodotta dalla TV per
quanto riguarda i lavoratori stranieri: si parla infatti pochissimo della loro vita quoti-
diana, della loro vita di lavoro o di relazione, delle loro competenze e cultura e anche
delle diverse nazionalità. Viene piuttosto fatto un blocco e in esso viene data molta
enfasi alla microcriminalità, e agli altri elementi che diversificano, la miseria ad esem-
pio, e a tale insieme viene data un’accentuazione totalizzante: divengono così tutti
uguali, tutti miserabili, tutti senza casa, tutti drogati o spacciatori (vedi l’analisi di
Maneri 1998 per la costruzione, da parte del discorso politico, istituzionale e dei media,
della figura dello straniero come criminale e fonte dell’insicurezza delle città). Di tutto
ciò si hanno i riflessi chiari nei temi e anche nella vita quotidiana. E da essa e dai temi
si vede quanto è precoce l'apprendimento del discorso razzista nci suoi stereotipi.
Autunno 1997. Un ragazzo italo-scnegalese si trova a una festa. C'è un bimbetto di quattro anni
che lo guarda sorridendo. Vede poi che con un accendino si accende una sigaretta. Il bimbetto
si aggrotta e di corsa si rivolge al papà: “Babbo, dove hai l’accendino? “Boh, non lo so...” “Ma
dai cercalo!” Il padre si fruga in tasca, tira fuori l’accendino, il ragazzino sorride rassicurato: “
Ah, meno male. Vai, rimettilo in tasca”.
Il padre è fortemente imbarazzato e per togliersi d'impaccio comincia a armeggiare intorno ad
alcuni oggetti. Tutti hanno capito quello era passato nella mente del bambino ossia all'incirca
questo: “è nero, è povero, ruba, l’accendino non l’avrà mica fregato a mio padre?” In forma
meno logica forse 0 consequenziale ma certo il binomio nero-ladro era già, a quattro anni, nella
sua mente. (Tabet note, 1997)
“UN ELEFANTE SU CUI FARLI VIAGGIARE”
Anche nei temi abbiamo questo binomio: ad esempio in un tema di un ragazzo di Cosenza “A
‘me le persone negre fanno paura perché la maggiorparte dei ladri sono di colore nero ...”
la di via Milelli, IV elementare), e in tanti altri.
Ho potuto mostrare in La Pelle giusta (e vedi anche Tabet 1997b) come la paura sia complessa
e stratificata, abbia molti aspetti, da quelli legati alla simbologia religiosa cattolica del nero
come colpa, diavolo, inferno (vedi ad esempio Makaping, qui p. 00), ad altri come la paura dello
zingaro ruba-bambini o del barbone, e inoltre ossessivi pressoché allucinatori.
La paura dunque è oggetto di apprendimento, viene trasmessa e insegnata in vario
modo, a tratti forse senza accorgersene, a tratti certo volutamente: “Attento, traversa,
c’è un negro” o “Scansati ci sono degli zingari”, sono frasi non rare e riferite, come
dette da nonni o altri adulti, anche nei temi dei ragazzi. Questa paura si struttura attra-
verso un tipico procedimento di categorizzazione (Guillaumin 1972: 161 ss.) per cui
le persone del gruppo minoritario “razzizzato” non sono individui, persone con tutte
le specificità e caratteristiche del singolo, ma frammenti del gruppo, e perciò tutti
uguali e con i soli caratteri insieme fisici e psichici attribuiti al gruppo.
In linea generale si impara la paura rispetto a una categoria socialmente definita e
nominata prima che vista e percepita. O per dirla altrimenti i “neri” fanno paura non
perché venga spontaneamente paura alla vista della pelle scura, ma a priori, in quan-
to già definiti tramite il linguaggio come parte di una categoria, detta razza, i “neri”,
i “negri”. La paura viene proprio costruita rispetto alla “categoria” che è creata innan-
zitutto tramite la designazione: i “negri”, gli “zingari”, gli “extracomunitari”, ecc.
E ciò varrà per altri sentimenti che come la paura sono oggetto di apprendimento, Si impara
l'orgoglio e il senso di superiorità come il disprezzo 0 ancora ad esempio lo schifo, Tosohito +
potente mezzo di condizionamento culturale.
Lo schifo costituisce uno strumento di primaria importanza “per la interiorizzazione dei divieti
culturali, è cioè un mezzo importante di socializzazione”. Si tratta di una socializzazione nega-
tiva. TI disgusto è infatti “una potente forza culturale che trasforma l'attrazione în repulsione”
Rozin, Haidt, McCauley 1993, sottolineatura mia). È ciò che per esempio avviene, come è noto,
nell’apprendimento delle regole igieniche: con la lunga pressione esercitata su di loro i bambi-
ni înteriorizzano queste regole c passano dall’attrazione per feci, 0 anche secrezioni nasali ecc.
(con cui spesso se lasciati liberi giocano), allo schifo verso di es
Il disgusto si impara e, fatto fondamentale per un discorso sulla responsabilità
anche individuale, lo si insegna, di proposito o senza consapevolezza precisa. Il
disgusto inoltre si riproduce per condizionamento sociale. I bambini osservano nelle
circostanze più varie le reazioni di schifo degli adulti e innanzitutto dei genitori e
fanno proprie, letteralmente incorporano, queste reazioni. Esse diventeranno così le
loro risposte immediate - “viscerali”, si dice - a situazioni, cose o persone. E tra le rea-
zioni osservate e apprese, come testimoniano i temi stessi dei bambini, vi sono le rea-
zioni di schifo e di disprezzo verso persone e gruppi visti come inferiori: “Se i miei
genitori fossero neri e io bianco sarebbe disgustoso stare vicino a loro” (Fano, Pesaro,
Ill elementare, c vedi sezione su schifo e vergogna in Tabet 1997a). Che “quelli”,
“loro”, i neri, gli albanesi, i marocchini, ecc. ecc., fanno schifo è frase frequentemen-
te ripetuta. Gli “altri”, viene detto spesso e con disgusto appunto, sono diversi, si com-
portano “come animali”, anzi “sono animali”.
PAOLA TABET
Ossia si
creano
gli “altri”
Non è solo un modo di dire. È il segnale di una separazione totale, di una barriera
che stabilisce il confine tra i gruppi, tra i “noi”, veri esseri umani, e gli “altri”, “loro”,
posti fuori dall’ordine non solo della società ma in qualche modo della specie umana.
Lo schifo infatti è un sentimento frequentemente presente nei rapporti tra gruppi
segnati da diseguaglianze economiche e politiche, e si manifesta con forza nei riguar-
di del gruppo dominato. E, come ben si sa o si dovrebbe sapere, esso si manifesta non
solo a livello psicologico e di comportamento individuale e collettivo: leggi, regola-
menti possono rendere istituzionale la barriera tra i gruppi. Il disgusto sembra assol-
vere una precisa funzione nei rapporti di potere tra i gruppi. Sul piano sociale questa
funzione si appoggia alla costruzione di categorie specifiche “naturali”, nel nostro
caso la categoria della “razza”, che stabiliscono la diversità fondamentale, per natu-
ra, dei gruppi.
Ossia si creano gli “altri”. Altri proprio in quanto per natura non sono “come noi”.
L’induzione dello schifo trova così un terreno fertile, già preparato. Lo schifo è
indotto non rispetto a fatti o comportamenti individuali ma a una categoria di perso-
ne, prodotta dal processo di razzizzazione. Per certi periodi - periodo nazista e fasci-
sta ad esempio, ma sono ben lontani dall’essere i soli - si può seguire la produzione
di odio e disgusto nella propaganda e nel discorso comune come nell’elaborazione
teorica, e la loro messa in atto nella prassi e nelle leggi. Qui lo schifo si salda, si può
dire, col processo di razzizzazione. Lo schifo diviene così l’interiorizzazione e in
qualche modo la legittimazione sul piano psicologico individuale e collettivo di una
costruzione politica. Un sentimento tanto più potente e inattaccabile in quanto per
assurdo viene creduto un fatto naturale e istintivo, “e allora cosa ci vuoi fare, io la
sento così”.
L’immaginare gli “altri” come animali (e l’animale che disgusta se non serve viene schiaccia-
to), il gettarli fuori dal sociale e dall’umano, vanno viste come possibili tecniche che fornendo
una giustificazione anche su un piano individuale profondo permettono lo sfruttamento c l'eli-
minazione. I lager nazisti lo dimostrano (come è stato più volte sostenuto): il rendere gli altri
diversi da sé e oggetto di schifo, il tentare di distruggere la loro umanità, è un passo preparato-
rio alla loro soppressione. E con ciò il razzismo, l’idea di razza come insanabile differenza di
essenza, giunge alla sua conclusione.
L'apprendimento del razzismo avviene seguendo allora un percorso sia cognitivo
che emotivo, con un grosso peso di quest’ultimo che fa sì che l’idcologia razzista
venga interiorizzata come costruzione della differenza e quindi anche dell’identità
propria, ossia dell’“io” e “noi” rispetto agli “altri” (vedi anche Angioni qui p. 000). In
questo percorso di apprendimento troviamo una disinformazione sistematica, prodot-
ta insieme dall’assenza di informazione c dalle distorsioni dell’informazione stessa. E
la disinformazione, agevolmente riproposta nelle sue varie forme, diviene una base
importante per la riproduzione del razzismo.
Mi è capitato tra le mani un libretto rivolto ai bambini più piccoli, per insegnare
loro a disegnare. Si chiama Pazzipastelli, è di una buona casa editrice per bambini. È
un libro per bambini penso di quattro-cinque anni, forse anche per più piccoli, un libro
da colorare e ritagliare. Si tratta di un testo fatto senz'altro con buone intenzioni e
buona volontà, amichevole per così dire. Le cose si possono presentare infatti in modi
“UN ELEFANTE SU CUI FARLI VIAGGIARE”
La chiusura dell'orizzonte conoscitivo e la disinformazione, viste nei temi che parlano
dell’Africa, vengono fuori anche riguardo alla vita dei neri in Italia. I neri di gran parte dei temi
sì immaginano appena usciti dalle caverne di un’ Africa preistorica. Rappresentati come primi-
tivi, poveri e ignoranti i neri portano incollati su di sé questi attributi. Però i neri non vengono
dalla sola Africa ma da molti paesi, giacché - e questo è un dato importantissimo - Africa è un
concetto sociale e non solo geografico (e i bambini considerano frequentemente “negri” i
bosniaci o in genere gli ex-jugoslavi gli albanesi 0 i marocchini) e anzi come scrive un bambi-
no del crotonese: “I negri nascono di tre razze di pelle, negra gialla e bianca”. Ma non sono solo,
secondo molti ragazzi (e adulti), poveri e ignoranti: viene loro attribuita anche un’altra caratte-
ristica, quella della violenza e della criminalità, frutto anche dell’assidua produzione di discor-
so e alla diffusione di stereotipi sugli immigrati da parte dei media. Viene svolto dai media un
continuo lavoro di “formazione delle opinioni che si esplica, essenzialmente, attraverso tre pro-
cessi: 1. enfatizzazione del fatto criminale o deviante; 2. rappresentazione miserabilista delle
condizioni di vita degli immigrati; 3. cancellazione della loro dimensione quotidiana” con il
risultato di ingigantire gli aspetti di povertà e delinquenza (Balbo e Manconi 1992: 62 ss.), ed
è un lavoro che lascia tracce nel discorso e nel sospetto quotidiano c tocca pesantemente anche
i ragazzi. I neri sarebbero dei delinquenti - fanno di tutto dallo spaccio, al l'urto, all’assassinio -
in più sarebbero cattivi come genitori e addirittura brutali nei riguardi dei bambini stessi: “Se i
miei genitori fossero neri io non sarei contento, perchè credo che la gente nera uccide i bambi-
ni, quindi avrei paura che mi uccidessero o mi abbandonassero” scrive un bambino, di III cle-
mentare di Copparo (Ferrara).
“La specie più diffusa di extracomunitari sono i “vu cumprà” che percorrono molti chilometri
a volte per vendere soltanto un portafoglio” (Copparo, Ferrara, V clementare). Il lavoro di miseria
ambulante o di lavavetri c la richiesta diretta di elemosina, sembrano l’unico tipo di lavoro dei
neri. Così secondo un ragazzo di III di Certaldo (Firenze): “Essere neri vuol dire andare a giro
a chiedere alla gente: Signori comprare accendini - andando alle case a dire alla gente - volere
tappeto? Se io fossi nero verrei dall’ Africa con vestiti strappati c bucati. Io sto bene come sono
e non verrò mai negro.” Questa rappresentazione torna spesso anche nei disegni dei bambini:
toppe, borsoni, vestiti strappati.
E certo questa rappresentazione miserabilista totale come le idee diffuse tra bambini e adulti dei
neri come criminali e violenti sono da ricondurre anche ai discorsi e al continuo riciclaggio di
stereotipi che ci propongono i media. Lo esprime direttamente un’altra bambina di Certaldo
(Firenze) di V clementare: “Certe volte vedo alcune immagini alla televisione che davvero
fanno venire la pelle d’oca e così credo che comporterebbe molte difficoltà avere una mamma
ed un babbo di razza nera. Io proprio non mi sento una bambina razzista, alcune volte passo
davanti ai negri li sento balbettare e davanti a loro mi sento impotente , ho un po’ paura mi ven-
gono alla mente tutte le cose che sento alla T.V. Parlano a proposito dei negri e dicono che ruba-
no c tante altre cose; è per questo che provo questa sensazione.”
Il quadro di primitività, miseria e delinquenza, viene completato infine dalla discriminazione
e emarginazione da parte degli altri: “Che cosa ho commesso di male per essere un bambino
Africano povero?” si chiede allora un ragazzo cosentino di V elementare (scuola di via
Milelli).
Visti come privi di capacità e strumenti culturali che possibilità avrebbero i neri di affrontare
l’ambiente e costruirsi una vita adeguata? Sono “creati poveri”. Insieme al colore della pelle
anche la povertà sembra decisa dall’alto per ragioni misteriose: “To mi chiedo perchè Cristo gli
ha creati poveri. Secondo me non hanno fatto niente, ma se Cristo ha deciso così, lo sa lui quel-
lo che deve fare” (Monastir, Cagliari, V elementare). Si ha così un ribaltamento della realtà e
una reificazione dei rapporti sociali. La miseria non appare come prodotta dai rapporti sociali,
ma diviene qualcosa di congenito, essenza costitutiva del gruppo o della “razza” e dunque una
caratteristica di tutti i neri. Rimossi lo sfruttamento, il dominio, la storia coloniale passata e i
rapporti attuali di egemonia economica dell’occidente, obliterati dunque i rapporti politico-eco-
nomici che creano la povertà, rimane in piedi solo la povertà stessa, illimitata e inspiegabile.
PAOLA TABET
paternalismo
Per i bambini c non solo per essi il colore nero diviene la spiegazione e la causa del rapporto
sociale, del rifiuto e dello sfruttamento (Tabet 1997a: 79 ss.).
Ne consegue che i neri, considerati poveri per essenza, quasi geneticamente senza cultura, non
potranno avere qui che aiuti più o meno paternalistici. Questa idea di una incapacità organica
dei neri è un elemento che mina allora anche i discorsi di uguaglianza dei bambini come degli
adulti. Visti come non persone, la impossibilità dei neri di misurarsi con la “vita civile” sarà
totale se non vengono aiutati e educati dai bianchi, all'occorrenza dal bambino stesso,
L'idea dell’Africa prevalente quasi al 100% nei testi dei ragazzi che ho raccolto è
dunque che in Africa non ci siano città ma solo villaggi, non case ma solo capanne
(ciò che è risultato anche nel gioco di simulazione qui presentato, cfr. pp.00). E come
ho detto è un’idea assai frequente anche tra adulti. Ma, fatto grave, ad essa a volte
sembrano tenere particolarmente persino degli educatori ben intenzionati e che vor-
rebbero far conoscere la vita e la cultura degli “altri”.
Un caso: una signora senegalese faceva interventi nelle scuole in una città dell’Ttalia settentrio-
nale. Era nata a Dakar, la capitale del Senegal, e prima di venire in Italia era vissuta sempre in
questa città. Tornando a casa in vacanza, è andata nei villaggi a fare foto e documentarsi: “Se
parlo a scuola della vita e della cultura a Dakar e non faccio vedere i villaggi, non interessa c
non mi chiamano più a parlare e lavorare con i ragazzi”. Non si tratta di caso isolato, tengo a
precisare.
E dunque rieccoci al problema di partenza: chi trasmette il razzismo, chi trasmet-
te una immagine stereotipata e distorta degli altri c quando avviene questa trasmis-
sione. Moltissimi ne sono i canali e la trasmissione avviene prestissimo, a tratti in
forma apparentemente innocua, Così è chiaro che chi ha fatto îl libretto dei pastelli
che abbiamo visto era immerso in questa atmosfera come chiunque di noi, ha credu-
to di fare una cosa carina e amichevole, non ha creduto di mettere i semi di una rap-
presentazione disastrosa dell’ Africa, la rappresentazione che considera l'Africa un
continente immerso nella preistoria, che porta gli immigrati a esscre visti come esse-
ri saltati non si sa come fuori dalla preistoria e ce li ritroviamo qui e, dicono i bambi-
ni, gli va insegnato tutto. Ovvio che se uno ha solo l'elefante, lo scudo e la lancia e
mangia banane, quando arriva qui bisogna insegnargli tutto e ci si può disperare: “Sc
i miei genitori fossero neri piangerei tanto, perchè dovrei insegnare loro tutto”
(Ferrara, scuola Bombonati, II elementare). Una ragazzina un po’ più grande si preoc-
cupa di quanto sarebbero maldestri:
“Prima di andare a scuola, insegnerei a mia mamma e a mio papà dov’è il dottore; poi telefo-
nerci a mia zia e le chiederei se potesse venire a casa nostra finchè torno da scuola. Potrebbero
combinare dei malanni per esempio far cadere dei vasi, oggetti di vetro e molti altri sopram-
mobili. Beh, insomma sarebbe una vita molto difficile,” (Marcon, Venezia, scuola Marconi, IV
elementare).
Abituati con gli elefanti certo il soprammobile non lo vedono. C'è dunque una
costruzione che qui descrivo magari in modo comico ma non è affatto comica: ha
come risultato una idea che si insedia nelle menti lentamente ma sicuramente, Videa
che noi dobbiamo civilizzarli. Il paternalismo ha largo campo in molti testi dei ragaz-
zi che con ciò pensano di mostrarsi buoni e disponibili e magari di esserlo. Con ciò
tra l’altro i bambini si rivelano portatori di una idea di sé e della propria superiorità
(ben disposta s’intende) che è elemento forte che informa la loro identità. Rispetto a
loro, ragazzi europei bianchi, dei neri possono apparire non come soggetti autonomi
a pieno diritto ma quasi come esseri incapaci, o bambini da aiutare a divenire adulti,
a cui insegnare, come dice un altro ragazzo, la vita degli esseri umani. Fondamental-
mente i ragazzi si può dire incorporano un senso di differenza abissale, quasi o del
tutto invalicabile tra noi e loro. Su questo si costruisce e rafforza un senso di sé come
bianchi e occidentali.
Quanto sia centrale rispetto al senso di sé (e già formata in ragazzi di 9-10 anni se non prima)
questa identità di bianchi viene fuori da un testo di IV elementare (Ferrara, scuola E. Mosti) su
come gli extraterrestri descriverebbero i neri e i bianchi. Vengono trasportati su Marte, per esse-
re studiati, un bianco e un nero: “i/ bianco parlava per il nero perchè gli extraterrestri non capi-
vano la sua lingua”. Solo il bianco ha dunque una lingua interplanetaria ossia davvero “uni-
versale” e può rispondere alle domande degli extraterrestri. E solo lui rappresenta la specie
umana nella sua evoluzione: “7 bianco gli spiegò che i neri non erano umanizzati come loro
per cui avevano vestiti minimi” (sottolineatura mia).
Idea che viene ribadita da un altro bambino di Ferrara (scuola Giovanni Pascoli,
IV elementare): i neri sono “non completamente umanizzati come noi”. Si può arri-
vare dunque a una idea non solo di sviluppo diseguale ma di umanizzazione disegua-
le e che in alcuni sarebbe incompleta. Ma “loro”, in quest'ottica, appartengono a una
razza diversa o sarà magari addirittura una specie diversa?
Non sarebbe una idea nuova nella teorizzazione della disuguaglianza: nel periodo positivista
Mantegazza (cfr. Villa 1985, Babini, Minuz e Tagliavini 1989) per sostenere la differenza “natu-
rale” della donna la descriveva come appartenente a una specie o persino un genere (nel senso
delle classificazioni naturali ordine genere specie ) diverso. Ossia una differenza basilare, tota-
le, di natura.
Il razzismo si insegna. Si insegna attraverso infiniti canali e proprio perché sono
infiniti è difficile sfuggirci e esserne immuni. Un esempio banale: il fumetto.
Sembra che anche in questo tipo di produzione valga la regola caratteristica del trattamento pro-
prio di una percezione razzista, quella della categorizzazione. Gli “altri” sia sul piano linguisti
co che iconografico sono oggetto di un trattamento diverso da quello del gruppo “noi”: in primo
luogo non sono individui ma gruppo. Piccoli ma importanti indizi in taluni fumetti lo possono
ribadire: frequentemente solo gli appartenenti al gruppo “noi” hanno nome proprio, gli “altri”
non hanno nome (analisi di F. Sinigaglia), altro clemento del processo di individualizzazione,
dell’essere persone a cui gli appartenenti ai gruppi “razzizzati” o dominati non hanno accesso.
Essi sono dunque tutti uguali o ben poco differenziati tra loro, anche sul piano visivo (cosa che
potrebbe sembrare sorprendente, questa regola sembra valere anche per fumetti d’autore come
Corto Maltese, analizzati da M. Fabbrini); tanto da sembrare cloni uno dell'altro e tipicamente
vi è una forte zzazione degli elementi somatici. Nel linguaggio corrente questa visione
degli altri si ritrova nella frase ripetutamente sentita: “I cinesi non si riconoscono uno dall’al-
tro, sono tutti uguali, I neri non si riconoscono” ecc. L’idea è che noi bianchi occidentali siamo
dotati di una nostra potente, riconoscibile identità individuale, e tutti diversi tra noi, ognuno con
carattere diverso, aspirazioni diverse, vita, lavoro, aspetto diverso e abbiamo accesso a tutte le
possibilità umane. “Loro” no, sono tutti uguali, sono il gruppo e ciascuno di loro non ha che i
caratteri del gruppo e solo quelli. Tutti le stesse facce, tutti le stesse caratteristiche, negative o
positive che siano (“la musica nel sangue” o “l’indolenza” per i neri, “l’astuzia” o “l’impene-
“UN ELEFANTE SU CUI FARLI VIAGGUIRE
umani/non
umani