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Un Medioevo mediterraneo, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto del libro "Un Medioevo mediterraneo" del corso di Istituzioni e Antichità Medievali

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Caricato il 19/12/2021

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massimiliano-ferrarini-2 🇮🇹

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Scarica Un Medioevo mediterraneo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1. L'ETÀ TARDOANTICA TRA POLITICA E RELIGIONE Le ristrutturazioni di un impero mediterraneo La tradizione storica europea ha quasi sempre fissato l’inizio del Medioevo al 476, anno della caduta dell'Impero romano d'Occidente: fu un cambiamento epocale che tuttavia non stravolgeva il panorama politico delle terre affacciate sul Grande Mare. Gli storici preferiscono parlare di una stagione molto lunga, il cosiddetto Tardoantico, che racchiude in sé i fattori di cambiamento e di continuità tra il passato romano e la storia medievale. Per Tardoantico si intende il periodo dalla fine del Ill all’inizio del VII secolo. Una fase densa di novità e cambiamenti, certo non di soggetti storici che “decadono” o spariscono, ma piuttosto piena di fenomeni inediti che cominciano a manifestarsi, sebbene in forma drammatica e con laceranti tensioni. L'Impero romano in età classica è uno spazio geopolitico eminentemente mediterraneo: l'espressione Mare Nostrum rappresenta ben più che un’orgogliosa rivendicazione di predominio. Questo spazio mediterraneo era unito dall’amministrazione, dal diritto, dall'esercito: una rete di strutture pubbliche che tenevano insieme i suoi vastissimi territori. Sarebbe però un errore pensare che l'impero fosse un'entità omogenea, retta da una struttura uniforme e sempre uguale a sé stessa in tutta l’area entro i suoi confini. Gli imperatori romani avevano avuto l’intelligenza di non calare una struttura rigida e uniforme su questo territorio di dominio. | ceti dirigenti delle province, infatti, avevano assimilato alcuni elementi fondamentali dell'identità romana: l’attitudine alla vita pubblica come responsabilità delle élite, l’ossequio per la formazione intellettuale, l'attaccamento a forme di socialità (le terme, il foro, il teatro) e a rituali collettivi che erano propri del mondo romano. L'impero, insieme flessibile e unitario, aveva conosciuto nel corso del Ill secolo una stagione di violenti conflitti interni e quindi di profonda crisi, economica e insieme demografica. Le riforme di Diocleziano (284-305) investirono tutta la compagine dell'impero dai livelli più alti fino alla vita concreta della società. L'imperatore introdusse il sistema della tetrarchia, in cui due Augusti, di fatto co-imperatori, e due Cesari, loro diretti collaboratori e auspicati successori, amministravano le diverse parti dell'impero con un’efficacia impossibile per un solo sovrano, consentendo di gestire la trasmissione dei poteri in maniera ordinata, senza conflitti di successione. Diocleziano introdusse un forte irrigidimento delle categorie sociali, imponendo per legge a una serie di ceti il carattere ereditario delle loro funzioni, in modo da impedire alla mobilità sociale di mettere a rischio la solidità dell’apparato statale. L’opera di Diocleziano fu portata avanti da Costantino (306-337), con il quale l'impero entrò in una nuova fase di fioritura. Un impero più burocratizzato e centralistico, diverso dalla struttura “leggera” e in definitiva decentrata di qualche decennio prima, ma anche molto più solido. Nel 330 Costantino fondò sul sito della città greca di Bisanzio una nuova capitale, Costantinopoli. Qui costituì un “suo” Senato, che affiancava quello romano, ma con una dignità maggiore considerando la prossimità del sovrano. Se fino ad allora la figura imperiale aveva dovuto fare i conti con il consenso del Senato, istituzione veneranda e autorevole fin dai tempi della repubblica, e con il mutevole appoggio dei capi dell'esercito, ora Costantino poteva disporre di un esercito fedele e di un Senato fatto a sua immagine. Dal IV secolo in poi riconosciamo nell'impero un apparato burocratico di controllo dal centro alla periferia estremamente pesante, sia perché impegnava una massa ingente di operatori al servizio dello Stato, sia perché poteva imporre con efficacia le direttive dall'alto applicate alle province. Le nuove esigenze di vita religiosa: il cristianesimo Il secondo fattore di cambiamento molto profondo era stato quello religioso. Nel III secolo si erano radicati dall'Oriente due nuovi culti, a volte percepiti come simili, il cristianesimo e il manicheismo. Il cristianesimo era arrivato dalla Palestina a Roma fin dalla metà del | secolo, e malgrado ripetute persecuzioni violente, motivate soprattutto dal rifiuto cristiano di partecipare ai rituali di culto dell'imperatore, si era fortemente radicato in varie parti dell'impero. Diocleziano fu un accanito persecutore di entrambi i nuovi culti. Costantino, al contrario, scelte di favorire il cristianesimo, che con l’editto di Milano del 313 diventava una religio licita. Il fatto di avere il favore dell’imperatore metteva la nuova religione con i suoi ministri in una posizione di privilegio: le chiese cristiane ebbero una grande crescita numerica e soprattutto cominciarono a diffondersi in maniera capillare in tutto l'impero. L’impero di Costantino poteva contare su una religione che a differenza dei culti pagani aveva un'articolata struttura organizzativa, con figure di “professionisti” incaricate della guida della comunità. Il cristianesimo si prestava a diventare un’ideologia portante per lo stesso potere imperiale, un ulteriore fattore di uniformità e di esaltazione del centralismo del governo dell’impero. Giuliano, passato alla storia come l’Apostata (360-363), ripristinò il paganesimo, ma significativamente cercò di promuovere una riforma della stessa religione tradizionale, fornendo basi dottrinali e organizzative più riconoscibili, in una parola cercando di fondare una “chiesa” pagana che fino ad allora non era mai stata neppure concepita. Il passaggio decisivo avvenne con Teodosio, che in due diversi editti, nel 380 e le 392, riconobbe il cristianesimo come religione di Stato e impose a tutti i sudditi dell'impero l’ossequio a tale fede. La maggiore novità nell’organizzazione politica tra IV e V secolo intervenne alla morte di Teodosio nel 395, con la divisione dell'impero tra i suoi due figli. Arcadio governò l'Oriente, Onorio l'Occidente; il confine passava lungo l’Adriatico, per cui l’Illirico e buona parte della penisola balcanica spettarono alla parte occidentale. La divisione, che aveva ragioni di opportunità politica e di gestione territoriale, segnò profondamente l'evoluzione successiva dell'impero, perché le due parti, diverse per livelli di popolamento, urbanizzazione e strutture economiche, conobbero destini assai diversi. In Occidente nel 404 la sede di spostò a Ravenna, mentre Arcadio regnò prevalentemente da Costantinopoli. Se l'adozione del cristianesimo aveva portato cambiamenti profondi nell'impero, allo stesso tempo anche la nuova fede aveva conosciuto grandi trasformazioni. La struttura degli episcopati, cioè la responsabilità di governo dei diversi “supervisori”, si incardinò nel quadro territoriale dell'impero, ricalcando in larga misura la gerarchia delle città mediterranee. D'altra parte il prestigio e la ricchezza delle chiese cristiane nel IV secolo attraevano anche esponenti del ceto dirigente romano impegnati nella vita pubblica: un fattore decisivo per fondere la “nuova” fede con la cultura e la mentalità della tradizione romana. | vescovi emergevano come figure chiave della rete delle comunità cristiane, insediati di norma nelle città. Assumendo la struttura dell'impero come cornice generale, anche la chiesa finiva con il riflettere le gerarchie di natura amministrativa. l'emergere di un cristianesimo “imperiale” aveva anche un altro effetto sulla fede cristiana, cioè la definizione di un dottrina teologica secondo i concetti della filosofia classica. Il primo e più importante momento di definizione fu il Concilio di Nicea, tenutosi nel 325 nella città anatolica a poca distanza dalla sponda asiatica del Bosforo. L'esito del concilio fu la definizione della dottrina trinitaria, secondo cui Dio è un’essenza (ousia in greco) unitaria di tre persone (hypostasis), Padre, Figlio e Spirito Santo. Il carattere imperiale della fede cristiana faceva sì che queste definizioni teologiche avessero un riflesso pubblico molto forte: le dottrine “erronee”, rifiutata dalla maggioranza dei membri del concilio, erano sanzionate dalle leggi imperiale come attentati all'unità della Chiesa. Non è dunque una coincidenza se proprio nel IV secolo si cominciò a usare il termine “eresia” (dal greco airesis, che significa scelta) per indicare queste versioni “alternative”, e in quanto tali sbagliate e censurabili dalla dottrina cristiana. Accanto al problema della trinità, una questione dottrinale di grande momento per la fede cristiana fu quella cristologica. Nel concilio di Efeso del 431 fu fissata la dottrina della doppia natura di Cristo: il Gesù vissuto, morto e risorto sarebbe da ritenere una sola persona, dotata però di due nature, quella divina e quella umana. Le discussioni intorno ai dogmi trinitario e cristologico furono uno sforzo colossale di adattamento del messaggio religioso cristiano alla cornice filosofica classica, da cui vennero presi in prestito i termini di “natura”, “sostanza”, “essenza”, “ipostasi”. Furono però anche il punto d'inizio di una serie di comunità alternative. Questa nascita di Chiese alternative ai margini o al di fuori dell'impero era anche il segno di un'evoluzione profonda dell'impero tardoantico, cioè la resistenza delle province rispetto all'autorità centrale. L'evoluzione burocratica e centralistica della politica imperiale non era rimasta senza reazioni: le aristocrazie locali, gravate dagli obblighi dell’amministrazione ma mortificate dal centralismo di Costantinopoli, approfittavano volentieri di motivi religiosi per salvaguardare la propria autonomia. tempo dell’imperatore Teodosio Il, e continuarono sul piano politico l’accorta strategia di gestione delle relazioni con i capi delle tribù barbare. Gli imperatori occidentali, pur contando sul controllo dell’Italia, culla dell'impero, governavano territori meno intensamente romanizzati, con una rete urbana investita dai movimenti migratori lungo una frontiera estesa, dal Mediterraneo al Mare del Nord, fino alle lontanissime plaghe della Britannia. In un'area meno densamente popolata e quindi più in difficoltà per il reclutamento dell'esercito, l'equilibrio tra assimilazione dei Barbari e difesa dei confini era molto sbilanciato. Era frequente il caso di capi germanici non solo entrati nell'esercito ma anche assurti ai più alti gradi della gerarchia militare. La difficoltà di gestire il territorio con risorse militari sempre più risicate condusse a una scelta epocale, quella di ritirare sul continente le legione di stanza in Britannia, un territorio troppo remoto e difficile da raggiungere per un esercito che già stentava a presidiare il resto dell'impero. Le sempre più frequenti crisi e accelerazioni dei movimenti intorno al limes, come era accaduto nel 375-378, investivano soprattutto la parte occidentale. L'episodio decisivo giunse alla fine del 406, quando una massa di tribù diverse varcò indisturbata il limes del Reno riversandosi nelle campagne della Gallia, dove giù generazioni di comunità più assimilate avevano trovato i loro spazi di hospitalitas. Le trattative dei capi germanici come il goto Alarico furono difficili. Nella speranza di forzare la mano ottenendo vantaggiose offerte da Ravenna, Alarico condusse i suoi uomini in Italia, dove la situazione precipitò nel 410: Roma stessa venne occupata e saccheggiata dalle truppe dei Goti. La rottura dei 410 non impedì ai Goti di Alarico, morto poco dopo, di trovare comunque un accomodamento con l'impero, firmato nel 419 nella forma di un nuovo foedus: ai Goti era concessa un'intera area imperiale tra la Gallia meridionale e le coste iberiche, centrata sull’antica città di Tolosa. L'obiettivo dei capi barbari era quello di occupare territori con le proprie genti, non di sostituirsi all'impero. Per tutto il resto del V secolo l'impero in Occidente continuò a vivere come una sorta di autorità simbolica intorno alla quale si muovevano capi germanici assunti come ufficiali dell'esercito romano, membri della vecchia aristocrazia senatoria, capi di tribù alla ricerca di spazi. La frammentazione e il disordine politico dei territori occidentali crescevano con l'afflusso dei nuovi gruppi germanici, sotto la spinta delle conquiste degli Unni. Le armate dei Vandali guidati da Genserico, ritenendo rotti gli accordi con l’imperatore occuparono di nuovo Roma nel 455 e misero in atto un saccheggio molto più organizzato e sistematico di quello di quarant'anni prima. Gli eventi del V secolo fondavano una situazione destinata a restare tipica di tutto l’Alto Medioevo. Nella crisi delle strutture imperiali romane i vescovi, spesso reclutati proprio tra le fila della vecchia aristocrazia imperiale, furono i principali punti di riferimento per la popolazione, e assunsero un enorme prestigio come veri e propri simboli della comunità cittadina. Una data dal valore simbolico: il 476 Considerando questo quadro, l’ufficiale estinzione dell'Impero romano d'Occidente nel 476 non fu certo un evento inatteso né un cambiamento epocale. La scomparsa dell'autorità imperiale in Occidente ebbe l’effetto di rendere irreversibile l'insediamento delle popolazioni germaniche all’interno di quello che era stato il limes. Non si trattava più di foederati, ma di dominatori stabili, i cui capi portavano il titolo di rex. Le categorie politiche di questi nuovi soggetto erano spesso molto diverse da quelle antiche. La fiscalità, vero e proprio asse portante della statualità romana, venne sostanzialmente meno: in mancanza di risorse tecniche per gestire un sistema di tassazione, i sovrani germanici governarono in nome di fedeltà etniche e di controllo militare, senza una vera e propria struttura amministrativa. Anche l’esercito, del resto, assumeva un valore differente: non più un servizio prestato all'autorità del sovrano, ma una prerogativa propria della categoria degli uomini liberi, i membri del popolo dominatore che trovavano nelle armi il loro simbolo identitario. Entro queste forme rudimentali di potere il prestigio legato alla sfera religiosa trovava una sua importante funzione, e anche in tal caso le varianti furono notevoli. Per quanto non del tutto inedita la scelta di adesione alla confessione religiosa della gerarchia “imperiale” gettò le basi per una collaborazione intensa tra l'autorità regia e la rete episcopale. A oriente del bacino del Reno, ma anche oltre la Manica, nell'antica Britannia, il cristianesimo non giunse a comporsi con le identità germaniche. l’Italia ostrogota Odoacre non poté beneficiare a lungo del suo dominio sull'Italia. L'imperatore Zenone non intendeva rinunciare alla possibilità di controllare il giardino dell'impero in assenza di un imperatore d'Occidente. Rassicurato dal sostegno di Zenone, Teodorico giunse in Italia con il seguito dell’intero suo popolo, probabilmente intorno a centomila persone di cui solo un quarto uomini atti alle armi. A Ravenna si scontrò con Odoacre, lo sconfisse e uccise, prendendone il posto come dominatore dell’Italia nel 493. Teodorico regnò fino al 526 con il titolo di “patrizio dei Romani”: il re ostrogoto poteva così fare affidamento sull’acquiescenza dell’aristocrazia romana, visto che il vecchio ceto dirigente dell'impero, ancora forte di grandi proprietà fondiarie, era anche depositario di un'esperienza di governo di cui la compagine germanica non poteva fare a meno. Anche sul piano religioso Teodorico si attenne a questa scelta di equilibrio. Volle mantenere, infatti, la confessione ariana delle tradizioni gote, come contrassegno identitario del popolo dei dominatori, ma cercò relazioni positive con il vescovo di Roma. La relativa prosperità del regno ostrogoto dopo decenni di disordini consentì a Teodorico di consolidare la sua autorità anche nella Dalmazia e nell’area della Provenza. Per la popolazione italiana, insomma, il governo di Teodorico poté rappresentare un momento di relativa continuità con il passato romano. Visto dall'imperatore di Bisanzio, il regno ostrogoto era un buon compromesso tra il controllo diretto e l'abbandono nelle mani di capi germanici: un esperimento che, se prolungato, avrebbe potuto creare uno Stato cuscinetto vagamente assimilato alla romanità nei pressi dell’Impero d'Oriente. 3. L'EREDITÀ POLITICA ROMANA TRA RIELABORAZIONI, ASSESTAMENTI E RECUPERI I regni romano-barbari All’inizio del VI secolo il Mediterraneo occidentale aveva conosciuto il passaggio da un vasto impero a una varietà di regni locali, nati dall’insediamento di popoli germanici. Il cambio di dominazione politica non aveva affatto alterato radicalmente la società. Quelle del V-VI secolo sono società romano-germaniche, nel senso che gli usi romani, non più governati dall'impero, permangono nei territori nella forma di consuetudini, affidate solo alla tradizione e all’inerziale conservazione delle popolazioni latine, specie nelle società più dinamiche come i centri urbani, mentre quelle germaniche subiscono a loro volta il fortissimo influsso della romanità, a cui i re si ispirano in forme più o meno semplificate. Un suggestivo segnale di questo carattere è la monetazione. l’esempio più emblematico di questa romanità germanizzata è il regno visigoto. | re visigoti, insediati nella capitale Toledo, si fregiarono dell’appellativo di flavius, ormai privo di contenuti storici ma utile per dare al regno il lustro dell’autorità per eccellenza, quella degli antichi imperatori romani. Nel conio delle monete, nella committenza artistica come nei rituali pubblici, quella di Toledo era una monarchia di imitazione antica, una rota di romanità in tono molto minore. Non si trattava però solo di facciata. Il re Alarico Il emanò intorno al 506 il cosiddetto Breviarium alaricianum, con il quale provvedeva a dare una legge ai suoi sudditi romani: non emanata di sua iniziativa ma adattata a partire dall'originale romano. Questa assimilazione parziale e a distanza delle tradizioni romane vale pure sul piano amministrativo: se è vero che in tutti i regni le strutture dell’amministrazione regredivano a livello di estrema rudimentalità, in quello visigoto del VI secolo vigevano ancora forme di tassazione delle merci di passaggio che non hanno pari in tutto l'Occidente. Alla fine del secolo, nel 589, il re Recaredo decise la conversione del suo popolo al cattolicesimo: una scelta che tra l’altro seguiva l'esempio del piccolo regno degli Svevi, insediato nell'attuale Galizia, già passato al cattolicesimo prima di essere sottomesso dai sovrani di Toledo. A questo elemento di “romanità” la sintesi visigota aggiungeva un fattore originale, perché già dall’inizio del VII secolo i sovrani consolidarono l’abitudine di periodici incontri dei vescovi del regno alla presenza del re. Negli altri regni più lontani dall'area mediterranea la compenetrazione romano-germanica fu molto meno equilibrata e prevalsero dinamiche diverse. Nell regioni del Nord, in particolare, l'impatto delle strutture romane era minimo e assai fragile; molto forte, invece, era nei territori conquistati da Clodoveo nel 507, l’Aquitania, o nella Burgundia verso cui mosse l'espansione franca nel 534. | re franchi succeduti a Clodoveo si affidarono soprattutto alle usanze più tipicamente germaniche. L’ancoraggio all'universo simbolico della romanità, e quindi di un'autorità statale del re, venne soprattutto dalle file dei vescovi, e non per nulla lo stesso Clodoveo si preoccupò di riunire un concilio regionale, quello di Orléans nel 511. Giusi ino Le profonde trasformazioni in atto nella parte occidentale dell'impero prima e dopo il 476 avevano lasciato immune quella orientale, dove il potere imperiale era stato in grado di gestire l'emergenza. Regioni più ricche e floride, più intensamente popolate, avevano dato ai sovrani la possibilità di governare l’esercito senza innescare i meccanismi di disgregazione in atto in Occidente. La storia dell'Impero orientale poté perciò proseguire per un millennio, fino alla sua cessazione definitiva nel 1453. Questa lunghissima stagione, un vero e proprio Medioevo parallelo a quello occidentale, è di solito relegata alla storia dell'Impero bizantino. L'Impero bizantino rappresenta un polo di eccezionale durata e importanza nella storia del Mediterraneo, sia in maniera diretta per le terre soggette all'impero, sia per le sue relazioni tanto con le aree circostanti quanto con il resto d'Europa. Nei suoi caratteri di fondo l'Impero orientale sviluppa l’eredità costantiniana e teodosiana. È una realtà politica con una forte componente religiosa, in cui l'imperatore è altresì il custode e tutore dell'ortodossia, quindi anche supervisore dell'autorità ecclesiastica dei patriarchi. Giustiniano, che salì al trono nel 527, segnò la storia bizantina del suo secolo e oltre. Era un uomo di grandi doti politiche: energico, deciso, capace di visioni di larghissimi orizzonti, fu noto ai contemporanei pure come dominatore di implacabile crudeltà, capace di qualsiasi nefandezza per soddisfare la sua immensa sete di potere. Rimase sul trono per 4. L’ISLAM DELLE ORIGINI TRA ASIA E MEDITERRANEO Maometto e l'Arabia La nascita dell’Islam si colloca in uno spazio geopolitico assai singolare, la penisola arabica. Si trattava di una regione molto vasta, ma in larga parte desertica, specie nelle aree centrali. Le cose meridionali e quelle occidentali, al contrario, non solo offrivano aree ampiamente coltivabili, ma anche possibilità di collegamento marittimo sia verso l'Oceano Indiano e, dunque, l’Estremo Oriente, che verso l’Etiopia e l'Egitto attraverso il Mar Rosso. Mentre nelle aree costiere fiorivano vere e proprie città con un ceto di mercanti in relazione con le zone circostanti, il cuore della regione era attraversato dalle carovane di beduini, allevatori seminomadi, esperti viaggiatori delle proibitive condizioni del deserto, pronti a trasformarsi in temuti guerrieri per razzie e faide tribali. L'appartenenza tribale era il principale collante di queste comunità, che non avevano una struttura statuale vera e propria. Non esisteva una vera e propria unità politica delle tribù: elementi comuni erano la lingua araba, che non aveva tradizione scritta ma solo orale, e la galassia di culti pagani professati dalle tribù; riti vari a seconda dei casi, ma che trovavano una forma condivisa nella venerazione della Kaaba, una pietra meteoritica conservata a La Mecca, una sorta di santuario panarabo. Muhammad-Maometto nacque intorno al 570. La sua posizione famigliare era potenzialmente privilegiata, perché apparteneva al potente clan dei Quraysh, che avevano il controllo del santuario della Kaaba alla Mecca, e quindi potevano beneficiarne sia in termini di prestigio che sul piano economico. Iniziato dallo zio al commercio, nel 610 Muhammad visse un'esperienza religiosa eccezionale, che avrebbe cambiato la sua vita: durante una notte di meditazione nei dintorni della Mecca, ricevette la rivelazione dell’arcangelo Gabriele, che lo indicò come il Profeta, portatore della vera fede nell'unico Dio. Il contenuto essenziale della rivelazione di Maometto è il monoteismo. La nuova fede di Maometto guadagnò subito un piccolo gruppo di amici e familiari, che riconobbe in lui il Profeta. L’essenzialità del messaggio, e anche la sua complessiva vicinanza ai contenuti delle altre fedi rivelate, contribuirà forse ad avvicinargli pure fedeli ebrei o cristiani. Maometto trovò invece una dura opposizione da parte del ceto dirigente meccano, specialmente dal clan Quraysh al quale pure egli stesso apparteneva: il rifiuto di ogni rito pagano o idolatrico era un ostacolo insormontabile, dal momento che proprio la gestione del culto della Kaaba era tra i fattori di potenza dei Quraysh in tutta l’area. Messo a rischio nella sua stessa sicurezza, Maometto decise di abbandonare La Mecca nel 622. Questa migrazione-fuga, detta comunemente hijra-egira, restò un momento cruciale nella storia della comunità dei credenti, tanto da essere in seguito adottata come la data d'inizio del conteggio degli anni dell’era islamica. La comunità di Maometto si spostò allora a Yathrib, un'oasi a quasi cinquecento chilometri a nord della Mecca; la città sarebbe stata conosciuta come “la città del Profeta” - Madinat al-Nabi - dunque come “Medina”. Qui quella che era una ristretta cerchia di fedeli divenne una vera, grande comunità religiosa. Il consolidamento della nuova fede andò di pari passo con la creazione di una rete di alleanze con le altre tribù arabe e con l'avvio di una vera e propria azione politica del Profeta; Maometto e i suoi seguaci poterono far ritorno alla Mecca prima come semplici pellegrini, poi nel 630 come vincitori, una volta ottenuta la sottomissione dei ribelli e la conversione al nuovo credo dell'intero clan Quraysh. In questa fase formativa il credo musulmano andò articolandosi in quelli che successivamente si sarebbero chiamati i “cinque pilastri della fede”: in primo luogo la fede monoteistica e il riconoscimento della missione di Maometto; quindi l'obbligo della preghiera quotidiana in cinque momenti del giorno, con una speciale postura del corpo, rivolto in direzione della Mecca; nel mese lunare di Ramadan era prescritto a tuttii credenti un periodo di digiuno e astinenza, per ricordare la concessione della rivelazione al Profeta; la zakat, ossia l'elemosina rituale per il sostegno alla comunità dei credenti; infine l’hajj o pellegrinaggio alla Mecca, previsto per tutti i musulmani in grado di affrontare il viaggio almeno una volta nella vita. Ai cinque pilastri si aggiungeva un obbligo più generale richiesto a tutti gli osservanti, ovvero lo sforzo per il compimento della fede, sia nella propria vita quotidiana che nelle relazioni sociali: questo sforzo, detto jihad, poteva prendere la forma di una lotta armata, abituale nelle prime generazioni di vita della comunità e di relazioni assai burrascose con le tribù ostili. Il complesso dei contenuti del credo era espresso da Corano: dapprima tramandato solo dal racconto di Maometto, il Corano ebbe una redazione scritta una ventina d’anni dopo la morte del Profeta, avvenuta nel 632. Si tratta di un testo dalla struttura piuttosto complessa. Si compone di 114 capitoli (“sure”), ognuno dei quali noto tradizionalmente con un titolo distinto, e corrispondente alle parole di Dio ricevute da Maometto in un particolare momento della sua vita. Il Corano è il cuore dell’esistenza della comunità musulmana: i suoi testi vengono recitati quotidianamente, spiegati e meditati nella pratica devozionale, usati come riferimento per ogni aspetto della vita sociale. La morte di Maometto nel 632 segnò, come prevedibile, uno spartiacque nella storia della prima comunità islamica. La figura del Profeta era per sua natura irripetibile; d'altro canto, forte era l'esigenza di una personalità che gestisse il governo della comunità, che ormai teneva insieme il frastagliato mondo delle tribù dell’intera penisola arabica. La comunità dei credenti scelte uno dei primi seguaci del Profeta, padre di una delle sue mogli, Abu Bakr, come “sostituto” di Maometto non nel suo carisma religioso, ma nelle funzioni di guida della comunità; il termine “sostituto” in arabo avrebbe dato luogo alla definizione di califfo per tale funzione nei secoli a venire. Una delle principali realizzazioni del periodo dei primi califfi fu la fissazione del testo del Corano. L'altra, più vistosa, fu l'avvio di una straordinaria successione di conquiste al di fuori della penisola arabica. Negli anni Trenta, infatti, le armate islamiche si lanciarono alla conquista dei territori settentrionali verso la Giordania, la Siria e la Mesopotamia. L'impatto con le armate dei grandi imperi ebbe un esito sorprendente: nel 636 le armate di Umar sbaragliarono l’esercito bizantino presso il fiume Yarmuk, tra Siria e Giordania, aprendosi la strada per la conquista della Terrasanta e della Siria; poco dopo fu ancora più spettacolare la vittoria dei Qadisiyya contro l’esercito persiano, perché dovpo aver sconfitto l’imperatore i comandanti islamici poterono procedere fino alla capitale persiana, Ctesifonte, nel 637. Pochi anni dopo, nel 640, l'espansione islamica prendeva la volta dell'Egitto, con la conquista della grande metropoli mediterranea di Alessandria. Un'espansione così rapida ha sempre rappresentato un evento storico difficile da spiegare. Vi furono senz'altro ragioni strettamente militari. Per entrambi gli imperi, poi, valeva un fattore geopolitico ulteriore: i regni tribali di Ghassanidi e Lakhmidi erano stati assorbiti all’interno dei domini bizantini e persiani, ma le rispettive aree geografiche erano rimaste territorio di conquista, occupate dall’esterno. L'arrivo delle armate arabe non venne sentito come un’intrusione: per alcuni versi era un cambiamento favorevole rispetto al dominio di Bisanzio o Ctesifonte. Giocava a favore dell'espansione islamica anche un atteggiamento particolarmente moderato nei confronti dei territori conquistati. Le comunità locali, cristiane ebraiche o zoroastriane in Persia, non erano soggette ad alcuna prescrizione religiosa, ma potevano mantenere le proprie usanze in cambio della formale sottomissione al governo del califfo. Questo consentì l’assestarsi abbastanza pacifico di un immenso impero abitato in grandissima parte da cristiani, ma governato da una piccola minoranza di dominatori musulmani. La fitna e il califfato omayyade l'autorità dei sostituti del Profeta era minata da conflitti interni per una successione che non era mai stata fissata con regole certe: quasi tutti i califfi morirono per congiure o assassinati da sicari. Questa incertezza interna esplose soprattutto dopo la morte di Uthman nel 656, che aprì una fase di torbidi detta fitna, ovvero la lotta di partiti interna alla comunità. Un gruppo più vicino ad Alì, espressione degli stretti familiari del Profeta, si contrappose a una coalizione di tribù arabe di credenti vicini a Uthman. Alì stesso, divenuto califfo, venne assassinato nel 661, e le redini della comunità furono alla fine prese da Mu'awiya, governatore della Siria. Mu'’awiya, come di consueto per tutti i califfi, apparteneva al medesimo clan di Maometto, ma era discendente di un ramo diverso dalla complicata genealogia delle tribù, i Banu Umayya: il suo regno avviò così il periodo detto della dinastia omayyade. La fazione che aveva sostenuto Alì, tuttavia, non accettò la successione califfale, ritenendo che il titolo spettasse di diritto a un membro della famiglia del Profeta, quindi a uno dei figli di Fatima: nacque al shi-at Alì, il “partito di Alì”, un vero e proprio movimento politico-religioso alternativo al governo califfale. Risale a questo periodo, dunque, la divisione di fondo del mondo musulmano tra una maggioranza “sunnita”, vale a dire legata alla tradizione (sunna) del califfato, e un’agguerrita minoranza sciita. Per contro, un partito alternativo a quello di Alì ma altrettanto ostile alla successione califfale ufficiale furono i Kharigiti, diffusi soprattutto in Africa settentrionale. l’unità religiosa dell'Islam era rotta, insomma, già pochi decenni dopo la morte del Profeta: le divisioni non sarebbero passate attraverso questioni di natura teologica, ma dall’interpretazione del problema della successione califfale, che a sua volta risaliva alla funzione di Maometto come ultimo Profeta. La presa del potere di Mu’awiya segnò la fine della prima fitna, ma anche un cambio di passo notevole dei caratteri dell'impero. Il nuovo califfo scelse come sua residenza non più La Mecca o Medina, ma Damasco: la capitale del grande impero si spostava così nel cuore del Medio Oriente bizantino. Il governo dell'impero spostava il suo baricentro al di fuori del mondo arabo, in un contesto nel quale non era possibile non sentire l'influsso profondo della storia bizantina. Dopo una prima fase di governo dei familiari di Mu'awiya, una sollevazione militare sconvolse di nuovo l'impero finché riuscì a emergere come dominatore di tutto l'impero Abd al-Malik, un membro del medesimo clan omayyade. L’impero di Damasco stava cambiando forma. Innanzitutto i guerrieri arabi che avevano accompagnato i primi califfi nella stagione gloriosa delle conquiste si erano stanziati nelle città. | Califfi omayyadi assecondarono questo processo di separazione della sfera civile da quella militare, costituendo un esercito stabile di professionisti, che era meglio manovrabile e più stabile. Il dominio arabo di urbanizzava, adattandosi alla rete dell’urbanesimo tardoantico ereditata dall'Impero bizantino. Nei primi decenni del nuovo dominio vennero create alcune città-fortezza, riservate ai dominatori arabi distinti dalle popolazioni locali. Ma visto che la linfa della vita economica passava attraverso quelle metropoli, anche la struttura dell'impero si adattò al modello cittadino. Quello omayyade, specialmente nell’VIII secolo, era insomma un impero di grandi città. Le chiese e i luoghi di culto continuarono a essere frequentati e mantenuti senza particolari traumi. L’amministrazione dello Stato, d'altra parte, impiegava molto spesso quadri di funzionari locali cristiani o ebrei, già abituati alla gestione della cosa pubblica al tempo del dominio bizantino. Almeno per buona parte del VII secolo le pratiche amministrative rimasero così continue a quelle romane che persino la lingua greca continuò a essere usata negli uffici pubblici. In questo dominio greco-islamico i successori di Adb al-Malik ripristinarono altresì il sistema di tassazione romano, pur con importanti novità. Dall’VIII secolo al pagamento di un tributo per teste sui sudditi non musulmani si aggiunse quello della tassa fondiaria, che gravava sui proprietari senza distinzione di appartenenza religiosa: una grande novità per gli Arabi, ma una tradizione consueta per i Romani. Queste riforme amministrative impiantarono una struttura centralizzata in quello che ancora era rimasto un impero in formazione, e consentirono, inoltre, di rilanciare le campagne di conquista. In Occidente le armate califfali occuparono Cartagine nel 698 e si spinsero fino al Maghreb; nel 711 poterono varcare le Colonne d'Ercole e dilagare nella penisola iberica. Di nuovo il massimo dell'espansione dell'impero fu raggiunto pure nella parte settentrionale, dove un primo, infruttuoso assedio a Costantinopoli fu tentato nel 674-678; l'impresa fu ripetuta nel 717-718. Il fronte con il mondo bizantino e quello islamico si arrestò nell'Anatolia meridionale, dove le montagne del Tauro erano una linea di difesa dall’esercito imperiale. Spettacolare su l'espansione verso oriente, che arrivo oltre il Lago d’Aral, alle porte delle grandi vie di comunicazione dell'Asia centrale verso Samarcanda e Bukhara, e nella regione del Sing, dalla quale i califfi potevano guardare all'orizzonte del subcontinente indiano. Bisanzio di fronte all’Islam La fulminea espansione araba inghiottì in tempi straordinariamente rapidi il Medio Oriente e l'Egitto, cioè alcune delle regioni più ricche dell’Impero bizantino. Ad affrontare l'emergenza, più che Eraclio, morto nel 641, fu Costante Il (641-668) che dedicò i suoi sforzi a contenere l'avanzata araba da sud ma anche quella longobarda da nord. Il protagonista della salvaguardia di Costantinopoli, in particolare nel secondo assedio califfale, fu Leone III Isaurico (717-740). La sua politica fu tutta centrata sulla protezione delle frontiere orientali, a favorì per vari motivi il distacco delle province dell'Occidente, principalmente l’Italia, dall’effettivo controllo di Bisanzio. Allo stesso tempo il prestigio dell'imperatore accompagnò pure una nuova compilazione legislativa nel 741, al cosiddetta Ecloghè (“Selezione”), che costituiva una sorta di versione semplificata del grande Corpus giustiniano. Nel medesimo periodo fu riformata l’organizzazione dell'esercito, per cui il sistema dei temi venne integrato dall'inserimento dei tagmata, reparti di soldati a cavallo, professionisti a servizio dell’imperatore, molto più mobili e meglio equipaggiati, che permettevano di far fronte a emergenze e necessità strategiche complesse. La dimensione religiosa, simbolo della grazia divina sul basileus, fu uno strumento usato con decisione. Già Eraclio aveva promosso la dottrina del monotelismo. Questa interpretazione, che venne percepita dai critici come una forma di monofisismo attenuato, fu rifiutata in Occidente. A seguito di una serie di censure imperiali, il vescovo di Roma, papa Martino |, venne fatto arrestare nel 653 perché ostile alla dottrina teologica dell’imperatore, e fu condannato all’esilio nella remota Cherson in Crimea, dove morì poco dopo. La Chiesa di Roma si adattò a questa umiliazione ricomponendo il dissidio con l’imperatore, ma il segno di una distanza e di un crescente sospetto reciproco tra la Chiesa lativa e quella greca era molto netto. In queste prese di posizione così aspre l’imperatore non poteva sempre contare sull’appoggio della Chiesa greca. In Occidente la politica religiosa di Bisanzio è stata spesso definita “cesaropapismo”, un concetto di derivazione moderna che suppone la sovrapposizione dei poteri religiosi e civili nella medesima figura del sovrano, il Cesare. Di nuovo nel contesto delle minacce all'impero, sorse sotto il regno di Leone IIl una nuova e più aspra controversia, quella sul culto delle immagini. Nel 726, infatti, l'imperatore isaurico prese pubblicamente le difese della dottrina iconoclasta, romano si erano divaricata in aree sempre più depresse e aree in piena fioritura, e l’arrivo islamico avrebbe solo accentuato il fenomeno. La crisi della fiscalità Le regioni occidentali come l’Italia, la penisola iberica e la Gallia sentirono profondamente gli effetti del cambiamento. Il più profondo cambiamento non riguardò direttamente le attività economiche, bensì la struttura politica, e consisté nella scomparsa del sistema fiscale. Il fisco è un fattore economico di primaria importanza, perché consente una circolazione della ricchezza trasformata dallo Stato in attività militare, edilizia, di infrastrutture, di mantenimento del ceto di governo. è d’altra parte una funzione che richiede livelli raffinati di organizzazione e competenze tecniche. Il fatto che i sovrani non potessero confidare nella riscossione di imposte costringeva loro ad affidarsi alla proprietà fondiaria: “fisco regio” diventava sinonimo di demanio, di terre che il re possedeva e delle quali viveva come avrebbe vissuto qualsiasi altro privato, solo più estese. Allo stesso tempo le aristocrazie che davano corpo al suo governo vivevano anch'esse di grandi proprietà fondiarie. | re germanici, quindi, erano grandi proprietari di terra che controllavano il territorio grazie alla fedeltà di un'aristocrazia militare di altri proprietari terrieri. Se e quando i re intendevano uscite questo circuito, si riferivano a una gerarchia, quella sì, tipicamente romana, cioè le strutture ecclesiastiche, che del resto possedevano anch'esse vaste estensioni di terra. Questi caratteri dell'Europa occidentale sono il più importante elemento storico di diversità dai territori orientali. Tanto nelle terre di Bisanzio quanto in quelle islamiche i poteri pubblici poterono sempre contare su un sistema di tassazione della proprietà. | califfi omayyadi furono molto rapidi nell’assimilare la tradizione tardoromana grazie ai loro funzionari cristiani o ebrei delle grandi città mediterranee, e si trovarono al vertice di un impero con vaste risorse fiscali. In ogni caso una fase di declino dei proventi del fisco dopo la perdita dell'Egitto e della Siria venne superata con la riorganizzazione del sistema di tassazione nel corso del IX secolo, che permise anche di rilanciare l'economia monetaria dal momento che le tasse erano un fattore potente di circolazione del denaro. In definitiva uno Stato con un sistema fiscale può permettersi di pagare l’esercito e, dunque, di non dipendere solo dalla buona volontà delle aristocrazie. Le entità statali formatesi in Occidente, invece, dovevano necessariamente alimentare la fedeltà di famiglie di nobili guerrieri e assecondare le loro aspettative, perché non avrebbero avuto altri mezzi per far funzionare gli apparati di potere. La peculiarità delle fonti scritte Questo aspetto dell'importanza della proprietà della terra ha un effetto decisivo anche sulle fonti, quindi sull'immagine che possiamo avere del passato. Un sovrano e un’aristocrazia che vivono essenzialmente delle rendite della proprietà fondiaria tendono a produrre documentazione scritta sulla sua gestione. | traffici commerciali si possono documentare se esistono sistemi di registrazione dei passaggi, ma dal momento che in Occidente simili strumenti di annotazione a fini fiscali non esistevano, la nostra capacità di vedere nelle fonti la dinamica economica degli scambi è molto ridotta. l’effetto è probabilmente una distorsione, per cui abbiamo di questi secoli un'immagine in cui manca la componente commerciale, non perché non esistesse ma perché la debolezza dei poteri pubblici ci ha privato delle fonti per poterla vedere. La fine dell'impero in Occidente fu altresì la fine dell’amministrazione pubblica, e pertanto di un ceto di governo con competenze tecniche nella cosa pubblica. Il quadro generale vede la scomparsa della formazione letteraria dei laici e il globale spostamento della cultura e dell'uso della scrittura nelle sedi religiose. Nei secoli dell’Alto Medioevo la scrittura trova spazio essenzialmente negli ambienti religiosi. Questo porta con sé un altro fattore di distorsione delle fonti scritte. La quasi totalità dei documenti che sono arrivati fino a noi giungono da archivi ecclesiastici. Di conseguenza il mondo che possiamo ricostruire a partire da quei documento è in un certo senso quello visto dal monastero. Un mondo prevalentemente rurale, perché i centri religiosi sono perlopiù rurale e comunque vivono di proprietà della terra; un mondo di frequente raccontato in termini di disfacimento e abbandono. l'economia delle campagne Se dall'ambiente delle città ci spostiamo nelle campagne, il quadro diventa ancora meno leggibile. In generale possiamo dire che gli effetti della destrutturazione dell'impero e del crollo della popolazione si fecero sentire pure negli ambienti rurali. L'economia basata sulle ordinate colture dei cereali e sulla viticoltura, prodotti tipicamente adatti all'esportazione nei mercati più lontani, conobbe una contrazione a vantaggio di sistemi da ambiente silvo-pastorale, dove l'allevamento brado o semibrado e la raccolta dei frutti dell’incolto giocavano un ruolo decisivo. Nel mondo romano esisteva un modello alimentare che era sia economico che culturale, che sarebbe stato ereditato dal cristianesimo: la civiltà del pane, dell’olio, del vino e dei formaggi, condivisa con tutto il bacino mediterraneo dall’Anatolia alla Spagna. Gli usi alimentari delle popolazioni germaniche, abituate al pascolo seminomade degli animali in ambienti silvestri, avevano nella carne un elemento tipico, insieme alle forme di bevande fermentate simili alla birra, al miele e al burro. Il lavoro dei contadini aveva conosciuto per secoli il sistema della villa romana: un complesso di proprietà terriere vaste o molto vaste, lavorate prevalentemente con l’impiego di manodopera servile. Il nuovo ceto dirigente dei regni romano-germanici subentrò ai proprietari del periodo precedente, e con ogni probabilità ne ereditò i modi di conduzione della terra. Il mondo rurale del VI e VII secolo poteva godere dei vantaggi e degli svantaggi di un'economia di più corto respiro e senza una struttura statuale. Il vantaggio era l'assenza di un'imposta fondiaria; non essere tassati allentava la pressione sui piccoli proprietari, e anzi si può pensare che i primi secoli del Medioevo fossero un periodo relativamente dignitoso per i lavoratori della terra. Il problema più grave dal punto di vista dei proprietari era quello della manodopera, perché la popolazione era diminuita e soprattutto le condizioni dell'Occidente non permettevano più quella servile a basso costo. L'Impero romano aveva drenato masse di schiavi dall'esterno grazie alle sue campagne militari, ma ora che l'Occidente era in piena decrescita, gli schiavi dovevano essere acquistati, a un costo elevato. Per questo il lavoro agricolo nel periodo altomedievale impiegò sempre meno schiavi e sempre più manodopera in parte libera. Il vecchio sistema della villa doveva essere rimodulato per poter funzionare. Nell’VIII secolo se ne descrive una buona variante, soprattutto nell’area franca. In Italia si usa l’espressione “sistema curtense”. Si trattava di un’organizzazione, con molte differenze locali, che comparve nella Gallia dell’VIII secolo e che si diffuse proprio grazie alle conquiste carolingie. In sostanza la grande proprietà veniva gestita distinguendo la cosiddetta “riserva”, “demesne” o “parte dominica”, lavorata tramite schiavi, e la “parte massaricia”, divisa in piccole porzioni su cui venivano insediate famiglie di agricoltori. In linea di massima le terre divise in mansi potevano essere il doppio o più per estensione di quelle della demesne. | contadini insediati nei mansi erano soggetti al pagamento di un censo al proprietario, in denaro o in natura, e abitualmente anche a servizi di lavoro in momenti di particolare necessità di manodopera. Di solito i contadini dei mansi erano liberi; a ogni modo, la distinzione puramente giuridica tra servo e libero tendeva ad appannarsi in una zona grigia di semilibertà e semidipendenza, il cosiddetto servaggio, per cui il contadino, teoricamente libero, era nel contempo vincolato, nei movimenti e nell’uso del suo lavoro, agli obblighi del rapporto con il proprietario. Il sistema curtense è, come detto, caratteristico del territorio franco, e nel IX secolo si diffuse pure nell’Italia centro-settentrionale e in Catalogna. AI di fuori dell’area franca, invece, nella penisola iberica, nei regni anglosassoni e nell'Italia meridionale, continuò a prevalere la piccola proprietà rurale oppure, come in Sicilia, si mantenne più a lungo il latifondo delle villae. E’ plausibile che in quei territori le condizioni dei contadini fossero migliori, meno condizionate dagli interessi dei grandi proprietari. Ma il vantaggio per così dire politico di un paese con una proprietà molto concentrata era che la grande aristocrazia potesse contare su rendite molto ricche, e fosse perciò in grado di muovere senza difficoltà clientele armate a servizio del re. Questo fattore sarebbe stato decisivo per la storia del dominio carolingio. 6. LA POLITICA VISTA DA ROMA Il vescovo di Roma Nel panorama dell'Europa impoverita e frammentata dei regni del VI secolo, uno dei fenomeni più comuni era stata la crescita di prestigio e autorità delle sedi episcopali, eredi della cultura dei ceti dirigenti romani e punti di riferimento della popolazione in assenza di poteri pubblici forti. nella parte occientale dell'ex impero nessuna sede ebbe maggior peso di quella di Roma. | vescovi di Roma, che avevano ereditato dalla liturgia imperiale il titolo di pontifex maximus e si fregiavano dell’appellativo di papa, erano a pieno titolo parte della dominazione imperiale in Italia, interlocutori diretti dei sovrani di Bisanzio, e allo stesso tempo attori molto intraprendenti della politica verso le terre dei regni germanici. Figura emblematica di questo periodo fu Gregorio Magno, che resse la Chiesa di Roma dal 590 al 604. Quando da monaco e diplomatico divenne pontefice, Gregorio si trovò ad essere un perfetto interprete di una Chiesa “romana” non in senso municipale, ma come erede della dimensione dell'Impero romano mediterraneo. Durante il suo breve e intenso pontificato Gregorio, oltre a promuovere il consolidamento delle gerarchie in Italia, nelle regioni sconvolte dalle conquiste degli ariani Longobardi o in aree poco evangelizzate come le zone interne della Sardegna dei “Barbaricini”, condusse una politica di attenzione e dialogo con la corte longobarda di Pavia. A proposito di vita religiosa, Gregorio fu autore di molte opere di teologia e ammaestramento o guida per i pastori. A più vasto raggio Gregorio concepì l'invio di una missione di evangelizzazione nell'estremo Nord del mondo conosciuto, in Britannia. La missione fu affidata a un monaco di fiducia, Agostino, e ottenne uno straordinario risultato con la conversione del re del Kent, Eterlberto, e la fondazione della prima grande sede episcopale nell'isola, quella di Canterbury, a partire dalla quale si avviò il processo di cristianizzazione del territorio. L’evangelizzazione della Britannia conferì un prestigio fondamentale al papato romano, anche perché conseguito in autonomia e lontano dalla sfera di influenza dell'imperatore di Bisanzio, ben al di là di quel bacino mediterraneo in cui si svolgeva ancora tutto l'orizzonte della cristianità romana. San Benedetto Nel corso del VI secolo prendevano forma anche le esperienza religiose più originali del cristianesimo latino del primo Medioevo e fu in Italia che prese forma la versione più fortunata di monachesimo occidentale, quella elaborata da Benedetto, un giovane proveniente dalla cittadina di Nursia, che dopo varie esperienze eremitiche creò un cenobio a Montecassino. Per inquadrare la vita religiosa della sua comunità Benedetto redasse una Regola, per la quale attinse alle regole orientali conosciute in Italia ma soprattutto alla codiffetta Regola del Maestro, un testo molto ampio ispirato al modello del cenobitismo orientale. Benedetto elaborò una norma alquanto stringata, tutta volta a descrivere l’atti quotidiana del monaco fra officio divino, lettura e lavoro manuale. La regola benedettina delineava una comunità ordinata, dedita al servizio divino ma allo stesso tempo organizzata con ruoli ben definiti, primo fra tutti l'abate, che è la guida indiscussa dei suoi monaci ed è liberamente scelto con i voti dei componenti della comunità. Il cenobio di Benedetto ebbe una storia tormentata, anche perché nel 577 Montecassino venne saccheggiata dai Longobardi e la comunità abbandonò la sede originaria, dove sarebbe tornata solo nell’VIII secolo. Anche per questo motivo non nacque nulla di simile a un ordine monastico, una rete di comunità rette organicamente. Il vantaggio di cui però poté godere la regola benedettina era legato alla fama del suo fondatore, a sua volta effetto della risonanza a vasto raggio del secondo libro dei Dialogi di Gregorio Magno, che aveva diffuso con l'autorevolezza del pontefice la vita di Benedetto come un modello per tutti i monaci. Roma e l'Occidente: il regno longobardo Gli anni di Gregorio Magno e dei suoi successori furono un momento cruciale per la storia del regno longobardo. Quando Autari salì al trono nel 584 dalla sua corte di Pavia cominciò a costruire una vera compagine politica e a dare corpo a un senso di appartenenza comune a un medesimo popolo, anche grazie alle prime narrazioni storiche quali la Origo gentis langobardorum. Allo stesso tempo ini sulla spinta di Gregorio, un percorso di avvicinamento al 7. DUEIMPERI: CAROLINGI E ABBASIDI Carlo Magno e il suo regno Alla morte di Pipino nel 768 il regno franco passò ai suoi due figli Carlo e Carlomanno. La figura di Carlo, universalmente nota come Carlo Magno, fu centrale non solo per il territorio franco ma per tutta la storia dell'Occidente medievale. Forte della legittimazione che gli veniva dall’unzione e dall’appoggio del papa, Carlo fu un sovrano straordinariamente attivo, e in particolare i primi trent'anni del suo regno furono un’impressionante serie di campagne militari in ogni direzione. Una delle prime fu quella avviata già nel 772 contro i Sassoni, una popolazione pagana che abitava le foreste a est del fiume Elba. Nel frattempo Carlo aveva attuato altre due decisive spedizioni belliche. La prima avvenne nel 774, quando papa Adriano |, attivando le clausole dell'accordo di Quierzy, chiese l'intervento di Carlo per difendersi dalle mire territoriali del re longobardo Desiderio. Carlo pose l'assedio a Pavia, la capitale dei Longobardi, e si impadronì di tutto il regno assumendo la corona dei re dei Longobardi. Inizialmente Carlo mantenne un controllo indiretto sui nuovi territori, lasciando immutati gli equilibri locali dell’aristocrazia longobarda, ma dopo una rivolta del 776 intervenne direttamente assegnando i ducati italiani ai suoi fedeli. In questo modo era integrata nel dominio carolingio tutta la parte centro-settentrionale dell’Italia. Molto meno propizia fu la spedizione dell’esercito di Carlo in un’altra area mediterranea, la penisola iberica. La spedizione si tradusse in una rovinosa disfatta subita nel 778 a Roncisvalle nei Pirenei, sotto i colpi di un agguato delle popolazioni autoctone basche. Negli anni Novanta, mentre continuavano le periodiche campagne contro i Sassoni, Carlo riuscì in un'ulteriore impresa: l'attacco al popolo degli Avari. Dopo una prima campagna vittoriosa nel 791, nel 795-796 Carlo arrivò a saccheggiare il Ring, cioè l'accampamento-capitale degli Avari sul Danubio; un'immensa quantità di ricchezze, specialmente in metalli preziosi depredati per anni dagli Avari nelle loro imprese, fu convogliata verso la corte di Carlo. Successi di questo tipo erano particolarmente preziosi per il re franco, soprattutto a motivo della particolare struttura del suo potere. Nell’VIII secolo, infatti, il sovrano carolingio non poteva contare su un organico sistema fiscale di imposte per finanziare lo Stato. La potenza del suo dominio era tutta centrata sulla fedeltà delle aristocrazie guerriere, che gli assicuravano la disponibilità di soldati ben armati ed esperti. Per ottenere questa fedeltà Carlo non attingeva a un criterio astratto di dovere pubblico verso lo Stato, ma alla relazione di lealtà personale con il re da parte dei “suoi” uomini. Una forma rituale di cameratismo, alimentata dallo scambio di doni e dalla distribuzione del bottino, in termini di terre, cavalli e oggetti di valore. Le conquiste erano in sostanza la linfa del regno: grazie a esse il re guadagnava e nutriva le reti di fedeltà, e accresceva altresì le sue proprietà personali, dalle quali traeva il necessario per il mantenimento della corte. I domini carolingi erano divisi in comitati, affidati ciascuno a un conte - dal termine latino comes, cioè “compagno” dell’imperatore - o a un marchio (“marchese”) per i territori di frontiera, detti appunto marche. | conti erano i funzionari pubblici sul territorio, incaricati di esercitare la giustizia e di presiedere all’organizzazione dell'esercito. La caratteristica peculiare del governo carolingio è però che i conti, funzionari pubblici a pieno titolo, non erano “dipendenti” o stipendiati: si trattava nella maggior parte dei casi di uomini vicini al re, a lui legati da un rapporto di amicizia e fedeltà personale. Nel linguaggio dei documenti carolingi la figura di chi offre a un superiore quest’amicizia da guerrieri prendeva spesso il nome di vassus, all’origine del termine “vassallo”. Ciò che concretizzava la fedeltà, il dono rituale e insieme il pegno dell'amicizia dal senior al suo vassallo, era detto beneficium: ossia “ciò che è ben fatto”, o il “beneficio”, nella sostanza una dotazione di beni, normalmente fondiari, che davano corpo alla relazione. Questa pratica alimentò alla lunga un cortocircuito tra i legami personali e la funzione pubblica. Quando un vassus del re diventava comes, cioè un ufficiale pubblico, si trovava ad avere dal re tanto il suo beneficium in quanto vassus quanto gli honores connessi alla sua funzione, e dal momento che entrambi erano di fatto terre, era molto facile che i piani si confondessero e che l’uso di quelle terre, l'amicizia con il re e l'esercizio della dimensione pubblica diventassero tutt'uno. Carlo imperatore Al culmine di questa stagione di grandi conquiste giunse una svolta memorabile per il dominio di Carlo. Il re si era recato a Roma nell’800, per rinnovare l’unzione propria e dei figli e sostenere le sorti di papa Leone III, invischiato in un’oscura vicenda di controversie giudiziarie con l'aristocrazia romana. Per ricompensare Carlo dell'intervento risolutore, Leone compì un atto di grande portata simbolica: pose sulla sua testa la corona di imperatore. La cerimonia, tenutasi nella chiesa di San Pietro nella notte di Natale dell’anno 800, è considerata la data d'inizio del Sacro romano impero (il termine “Sacro” verrà usato soltanto molti secoli dopo), una denominazione che comprendeva tutti i territori sotto il dominio di Carlo, dal vecchio regno franco alle vaste regioni di recente conquista. Era nella sostanza un insieme di territori tenuti insieme dalla fedeltà verso un capo militare di eccezionali doti e carisma. Gli stessi provvedimenti legislativi di Carlo, i Capitolari, non erano propriamente leggi, ma disposizioni particolari articolate per punti che si limitavano ad aggiornare o integrare le consuetudini preesistenti dei vari territori. Il titolo di imperatore fungeva così soprattutto da riconoscimento onorifico speciale e non molto di più; a trarne i maggiori vantaggi fu in definitiva il papa, che si auto attribuiva la facoltà di conferire la corona imperiale. Quello che contava per Carlo era soprattutto l'aspetto religioso del titolo. Le sue conquiste avevano avuto anche un risvolto religioso e di certo lo ebbero le campagne militare dell'ultima parte del suo regno. Anche le forme della sua corte tradivano questa volontà di accentuare la natura sacrale del potere regio, già prima dell'assunzione del titolo di imperatore. La capitale Aquisgrana, un piccolo insediamento dove Carlo risiedeva nei brevi periodi di quiete tra una campagna militare e l’altra, era incentrata sulla Cappella palatina, una sala del trono a forma circolare che imitava esplicitamente la chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Nel 789 Carlo emanò l’Admonitio generalis, un grande programma di governo che enfatizzava soprattutto la correttezza dei riti religiosi, la cura del clero, il rispetto delle norme culturali, considerate indispensabili per il mantenimento della pace. Anche al di fuori dei confini l’imperatore promosse la conformità al cristianesimo romano, ad esempio favorendo le iniziative contro presunte deviazioni eretiche nella Chiesa iberica sotto dominio islamico. In un approccio del genere pure il cristianesimo bizantino non poteva non sembrare un obiettivo polemico. | rapporti con Bisanzio furono sempre segnati da grande ambiguità e imbarazzo. Visto da Costantinopoli, Carlo restava il re di un popolo barbaro, che usurpava un titolo non suo; d’altro canto ad Aquisgrana l'Impero bizantino suscitava sospetto, specie durante l’inusitato regno di un’imperatrice, Irene. Quello di Carlo, dunque, fu da una parte l’evoluzione di un dominio tipicamente germanico nei suoi fondamenti. Dall'altra fu un impero “biblico”, cioè animato dall’intento dell'imperatore di fungere da custode della retta fede e del corretto culto divino. La missione di uniformità religiosa intrapresa da Carlo aveva innanzitutto bisogno di libri e di cultura. L'imperatore, quindi, incoraggiò l'afflusso di libri verso la capitale del regno, e la copia di opere di cultura negli scriptoria dei grandi monasteri imperiali. L’ambizione di Carlo di costituire una cristianità occidentale in competizione con Bisanzio aveva, inoltre, ragioni di natura economica. Innanzitutto il Mediterraneo non esauriva le possibilità di scambi commerciali significativi per l’Europa. Già al tempo degli ultimi re merovingi si era consolidata una rete di relazioni tra alcuni centri franchi sul Mare del Nord e i mari settentrionali, come l’Inghilterra e la Scandinavia. Questo sistema settentrionale dall’VIII secolo era sempre più strettamente connesso con l’Italia, anche grazie alla politica carolingia, e da qui i mercanti ebrei o delle città come Venezia, Amalfi e Pisa o dai porti meridionali viaggiavano sempre più spesso verso le città africane, l'Egitto e Costantinopoli. In questa riattivata rete commerciale, Carlo poté introdurre, intorno al 795, al sua riforma monetaria, tutta basata sull'uso di un unico metallo prezioso, l'argento. Il denaro era una sottilissima moneta d’argento, ma il suo contenuto di metallo pregiato era maggiore rispetto alle monete transitate fino ad allora, segno della volontà di mettere in circolazione una moneta “pesante” e credibile. l'apparente assestamento dell’impero Alla morte di Carlo Magno, nell’814, l'impero sembrava godere di ottima salute, tanto più che, per puro caso e non per disegno dell’imperatore, non si presentavano problemi di successione, perché il suo quartogenito, Ludovico, ben presto detto il Pio, era l’unico sopravvissuto dei figli di Carlo. Divenuto imperatore, Ludovico, affiancato da Benedetto di Aniane, esaltando gli aspetti mistici della concezione imperiale ereditata dal padre, stabiliva con l'Ordinatio imperii dell’817 l'indissolubilità dell'impero, decidendo inoltre che il titolo imperiale dovesse passare al suo primogenito Lotario con effetto immediato, mentre gli altri due figli Pipino e Ludovico avrebbero ottenuto rispettivamente la corona di due territori decentrati, seppur importanti, quali l’Aquitania e la Baviera. Nell'823 Lotario si recò a Roma, dove fu consacrato imperatore e l'anno dopo emanò la Constitutio romana, che vincolava l'elezione del pontefice a un giuramento di lealtà all'imperatore; si inseriva perfettamente nel disegno, tracciato da Ludovico il Pio, di un impero destinato a esistere per proteggere tutta la cristianità, a partire dal pontefice. L'Impero abbaside Proprio negli stessi anni in cui emergeva la dinastia dei Pipinidi-Carolingi, si concludeva la storia dei califfi omayyadi. In particolare le comunità sciite, diffuse in tutta la parte orientale dell'impero, tramavano per rovesciare una dinastia ritenuta illegittima, e per questo intercettavano anche l’appoggio di gruppi di potere locali intenzionati a sostituirsi ai califfi. Esplose così la ribellione militare nel Khorasan che nel 750 portò sul trono di Damasco un membro di un altro ramo del clan di Maometto, Abu Abbas, iniziatore della dinastia detta degli Abbasidi. Seguendo una modalità già adottata dai predecessori, i califfi abbasidi scelsero di spostare la capitale dell'impero, avvicinandola all'area geografica dove gravitavano i loro legami di potere più saldi. Questa volta si trattò di una città del tutto nuova, Baghdad, detta Madinat al-Salam (“la città della pace”). | califfi abbasidi non modificarono la tradizionale appartenenza sunnita, in questo deludendo il movimento sciita che ne aveva favorito l'ascesa. Introdussero, tuttavia, uno stile di governo molto più incentrato sull’appartenenza religiosa, attribuendosi con orgoglio il ruolo di custodi della fede. Questa connotazione più apertamente religiosa non era soltanto un fattore confessionale, ma anche l'interpretazione dei cambiamenti sociali che avevano investito la società dell'impero. Una parte consistente delle vecchie aristocrazie locali bizantine o persiane si era convertita all'Islam, andando a costituire la categoria dei mawali, cioè dei nuovi credenti ammessi in una condizione di clientela rispetto alle famiglie arabe. Dal momento che la comune appartenenza religiosa consentiva facilmente il matrimonio tra mavwali e famiglie dei primi conquistatori, nel corso dell’VIII secolo si era costituito un ceto di grandi proprietari di origine etnica mista, accomunati dalla fede islamica. Ecco, quindi, che per i califfi abbasidi era necessario accentuare l’importanza dell’elemento religioso, che era rimasto l'unico vero collante di un impero ormai non più arabo ma etnicamente cosmopolita. | due secoli circa dopo la fondazione di Baghdad furono un periodo di eccezionale fioritura culturale e materiale. In parte si trattò di un lavoro orientato in senso religioso. La fioritura, però, interessò anche le scienze profane, perché non soltanto a Baghdad vissero uomini di cultura versati in tutte le discipline, filosofi, medici e scienziati, ma nel corso del IX secolo si assisté a un vero e proprio movimento organizzato di sistematica traduzione in arabo delle opere di scienza e filosofia degli antichi greci. Questo enorme travaso di cultura dal greco all’arabo faceva del califfo l'erede dell’antichità classica, il vero continuatore della tradizione antica, in concorrenza con l’altro imperatore erede della classicità, vale a dire quello di Bisanzio. Il confronto con l'Impero bizantino fu molto interno nel IX secolo; dallo scambio di messaggi minacciosi e ambascerie diplomatiche si passò di frequente a campagne militari in piena regola, nelle quali i califfi non esitarono a usare l'arma del jihad contro i nemici della comunità islamica: uno strumento che esaltava la funzione del califfo come capo dell’umma e guida dei credenti, ma che condusse pure a risultati militari concreti lungo il confine anatolico. Dal punto di vista economico il periodo abbaside fu una stagione particolarmente florida. Se l'Occidente aveva conosciuto una forte contrazione dei traffici commerciali, nel Mediterraneo orientale questo non avvenne nei secoli dall'origine dell'Islam. L'Egitto continuò a produrre i suoi famosi fogli di papiro, importati verso la Gallia nel VII secolo e verso l’Italia anche fino all’XI, e a esportare il vino nelle anfore romane nel IX secolo. Materiali di una società opulenta, come vasellame in ceramica o in vetro lavorato, viaggiavano dalla Cina e dall’Asia sud-orientale fino al Medio Oriente e viceversa. | legami commerciali guardavano pure a nord, verso i vasti territori del bacino del Volga abitati dai Bulgari, dai Kazari e dai sudditi della Russia di Kiev, dove i mercanti potevano rifornirsi di schiavi, cera, ambra e pellicce. Già nel corso del IX secolo i califfi dovettero comunque affrontare crescenti difficoltà politiche. A parte le lotte di potere interne, la vastità dell'impero e il suo carattere etnicamente molto composito rendevano arduo mantenere il controllo della capitale. Se già alle origini della dinastia il territorio di al-Andalus aveva preso una via politica indipendente, nel IX secolo alcuni governatori di grandi regioni, che si fregiavano del titolo di emiri, costruirono un dominio semindipendente, pur mantenendo l’ossequio formale per l'autorità del califfo. La necessità di pagare in maniera rapida e soddisfacente l’esercito aveva poi condotto a escogitare sistemi innovativi, dei quali il più rilevante fu l’igta. In sostanza il fornitore di soldati diventava un riscossore delle imposte, sebbene militarizzato. gradi della corte fino al colpo di mano che lo vide prendere il potere. Sul piano della politica religiosa Basilio portò avanti l'impresa bulgara già avviata dal predecessore, ma fu anche impegnato in una lunga controversia con Roma. Con il papato romano, retto dall’energico Nicola |, la corte di Bisanzio era in contrasto per una questione teologica, il dissidio sul filioque. Per anni le ambasciate romane a Bisanzio animarono il dibattito, acuito dalla personalità controversa di Fozio, un brillantissimo intellettuale diventato patriarca di Costantinopoli nell’858 e deposto nell’867 sotto la pressione di papa Nicola |. Nell’877 Basilio riuscì a far di nuovo nominare Fozio come patriarca: l'equilibrio con Roma era stato ristabilito ma le distanze tra i due patriarcati erano accresciute. Basilico condusse altresì una vasta impresa di riconquista territoriale verso l’Italia. Nei primi anni di regno collaborò con Ludovico Il nella spedizione per la riconquista di Basi in mano saracena: la caduta della città arrivò nell’871, ma quasi soltanto grazie alle forze di terra dell'imperatore carolingio. Queste imprese militari bizantine si collocano tutte nel versante ionico della penisola. Per la flotta e per la stessa attività diplomatica di Costantinopoli il Tirreno era diventato una spazio troppo remoto, specie dopo la caduta in mano islamica delle basi navali siciliane e africane. Il X secolo fu un periodo di grande fioritura per Bisanzio. Sotto l'impero di Leone VI il Saggio si colloca un trattato noto come il Libro dell’eparco, in cui si descrivono i regolamenti delle arti attive a Costantinopoli sotto la supervisione del funzionario imperiale, appunto l’eparco. La produzione della seta, manifattura di enorme valore le cui tecniche erano tenute scrupolosamente segrete, il commercio e la trasformazione dei metalli preziosi e in generale l'abbondanza e la varietà dei prodotti di tutto il mondo conosciuto che transitavano da Bisanzio nel racconto del libro sono una testimonianza della forza di questa grande capitale posta al crocevia dei rapporti commerciali tra Mediterraneo, Asia centrale e Medio Oriente. Altrettanto emblematico, per un periodo di poco successivo e nell’ambito di governo, è il trattato De administrando imperio composto nientemeno che dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito, che voleva essere una sorta di testamento politico per l'istruzione del figlio sui valori e sui caratteri del dominio imperiale: è, tuttavia, pure una magnifica descrizione del governo dell'impero. | sovrani del periodo macedone, però, erano principalmente grandi guerrieri. Niceforo Il Focas occupò nel 965 Tarso in Cilicia e riprese pieno possesso di Cipro, una base navale fondamentale a lungo esposta al dominio dei califfi. Nel 969 una grande campagna verso la Siria portò alla riconquista di Antiochia e di Aleppo. Il successore di Niceforo, Giovanni Zimisce, si spinse ancora più a sud verso le coste del Libano: immaginare il recupero di Gerusalemme poteva essere un obiettivo non impossibile. Anche perché il potere dei califfi di Baghdad faceva molta fatica a uscire dall'ambito della Mesopotamia. Il lungo regno di Basilio Il (976-1025) può essere davvero il punto d'arrivo di un secolo di fioritura. Nelle preoccupazioni politiche dell’imperatore, tuttavia, c'era un altro territorio di recente cristianizzazione, il regno bulgaro. | Bulgari avevano adottato il cristianesimo, promosso il monachesimo e protetto la gerarchia ecclesiastica locale, ma questo non aveva impedito loro di condurre una politica molto energica verso i confini dell'impero, specialmente verso sud. Tra la fine del X e l’inizio dell'XI secolo Basilio affrontò con inaudita durezza questa ravvicinata minaccia, meritandosi il titolo di Bulgaroctono (“il massacratore dei Bulgari”). L'atto finale si compì nel 1014, quando l’imperatore condusse l’esercito attraverso il passo di Kleidon, nel cuore della Macedonia, sorprendendo e annientando l’esercito nemico. Spostandosi poi all'estremità orientale del suo dominio, Basilio condusse una vittoriosa spedizione con cui riuscì a sottomettere l'Armenia di re Giovanni Vaspurakan. Basilio Il morì nel 1025. Negli oltre cinquant’anni di regno non si era mai sposato, e quindi non aveva discendenza. Lasciava l'impero, però, in una condizione di cui mai aveva goduto dai tempi di Eraclio. Non solo l'amministrazione imperiale poteva stendersi tra Occidente e Oriente, dalla Calabria fino all’Armenia, inclusi tutti i Balcani ormai strappati ai Bulgari, ma anche al di fuori dei confini popolazioni straniere come i Rus’ del Nord o i Georgiani del Caucaso potevano rientrare nella sfera d'influenza religiosa, politica e culturale di Bisanzio. 9. GLI OTTONI, BISANZIO E IL CRISTIANESIMO DEI CONFINI l'Europa postcarolingia Durante il regno di Ludovico il Pio l’Impero carolingio sembrò raggiungere il suo apogeo. In realtà già solo i meccanismi di trasmissione del potere erano un fattore di grande debolezza. Sarebbe bastata la nascita di un figlio di seconde nozze a Ludovico il Pio, Carlo, poi detto il Calvo, per far crollare tutta l’impalcatura successoria e la progettualità unitaria di Ludovico che, con l’obiettivo di riservare pure la quarto figlio un ambito di potere, metteva mano all’Ordinatio imperii dell’817, suscitando sia la ribellione dei figli di primo letto, sia dei vescovi, che non riconoscevano più in lui il garante della pace. Il mancato sostegno dell’episcopato, che contendeva alla politica di Ludovico la dignità sacrale, fu uno dei motivi che resero l’imperatore vulnerabile nello scontro con le diverse coalizioni guidate dai figli. Alla sua scomparsa, del progetto universalistico imperiale restava solo l'aspirazione, perché la realtà andava verso un definitivo frazionamento delle terre dell'impero, mentre i tre figli superstiti, Lotario, Ludovico e Carlo, lottavano tra loro. Nell’841 Ludovico e Carlo, alleati, sconfissero Lotario e l’anno seguente a Strasburgo pronunziarono una promessa di aiuto reciproco nelle due lingue parlate dai popoli dei loro regni. Nell’843 il Trattato di Verdun stabiliva la pace e riconosceva la divisione definitiva delle terre imperiali. La storia dell'Impero carolingio dopo l'accordo di Verdun è alquanto complessa: i territori conquistati da Carlo non solo furono spezzati in tre grandi aree, ma altresì segnati da un profondissimo scollamento tra i sovrani e il territorio. Il IX secolo, invece, fu per l'Occidente soprattutto un periodo di incursioni militari. Innanzitutto si trattò dell’ondata degli “uomini del Nord”, abitanti pagani della Scandinavia, i Normanni, che sapevano alternare l'esercizio del commercio con la pratica del saccheggio, e in effetti già nel corso dell’VIII secolo erano comparsi gruppi di pericolosi razziatori nei porti settentrionali dell'impero. | Normanni non si muovevano per conquista, ma per saccheggio: la disponibilità di oggetti preziosi e di derrate alimentari permetteva loro di attivare un circuito di scambi commerciali dall'Europa settentrionale fino al cuore della Russia. Abituati alla vita sulle coste della Scandinavia, i Normanni disponevano di un'eccellente tecnica navale, che consentiva loro di risalire i fiumi e compiere razzie nei centri abitati o negli insediamenti religiosi. Nel continente le autorità pubbliche lasciarono gli abitanti del tutto inermi di fronte alle razzie, anche perché in più di un'occasione i Normanni furono usati come armi esterne nelle contese tra i membri della famiglia imperiale. In una situazione del genere erano i grandi aristocratici, titolari di titoli comitali o marchionali, ad approfittare per rendere stabili i propri privilegi. Questo fenomeno di disgregazione agì in maniera diversa a seconda delle zone. Nel cosiddetto regno dei Franchi occidentali, grosso modo l’antica Gallia, la discendenza carolingia dei sovrani continuò fino all’inizio del X secolo. Ma nella sostanza il regno era un guscio vuoto, mentre a controllare di fatto il territorio erano le famiglie aristocratiche che avevano creato entità politiche autonome come l’Aquitania, la Borgogna, la stessa Normandia. l’Italia conosceva una situazione simile. Presto i due blocchi, a nord e a sud delle Alpi, presero destini separati. Ad accentuare le difficoltà italiane contribuiva una seconda ondata di incursioni esterne, quella dei Magiari o Ungari. | pochi episodi di salvaguardia efficace video protagonisti soprattutto i vescovi, che assunsero la direzione delle difese cittadine. Spesso, anzi, furono gli stessi sovrani a concedere loro poteri speciali. Una cessione di poteri che poteva aver senso solo in un contesto di sostanziale incapacità di azione da parte di coloro che portavano il titolo di re. La ricostituzione imperiale in Germania l’area dell'impero in cui più forte fu la continuità con il passato carolingio fu la Germania. Già negli anni 896-899 un marchese carolingio, Arnolfo di Carinzia, aveva portato il titolo imperiale. Dopo di lui si interruppe pure nella parte orientale dell'impero la discendenza carolingia. Gli aristocratici di area tedesca, invece, elessero loro re nel 919 il duca di Sassonia Enrico. Era l’inizio di una vera e propria dinastia di re sassoni. Enrico riuscì a recuperare la fedeltà della Borgogna e della Lotaringia, quindi a negoziare un accordo di buon vicinato con il re dei Franchi occidentali, Carlo il Semplice. L'acquisto della Lotaringia era importante anche sul piano simbolico perché includeva la vecchia capitale Aquisgrana. E fu in effetti qui che nel 936 Ottone I, figlio di Enrico, fu incoronato re di Germania. Ottone fu un re di grande energia. Trasformò la Germania da una coacervo di territori sconnessi in un insieme di feudi fedeli al re. Già nel 951, poi, Ottone era sceso in Italia per sottomettere il re locale, Berengario Il; qualche anno dopo, nel 962, varcò di nuovo le Alpi, consolidò il suo potere e ottenne dal papa la corona di imperatore. La conquista del regno d'Italia era innanzitutto un grande acquisto territoriale e la conferma di un rapporto speciale di Ottone con il papato. Ottone negoziò un matrimonio del figlio omonimo con una principessa bizantina, Teofano, nipote del basi/eus, che giunse proprio a Roma nel 972. | riferimenti all’antichità romana come fonte del prestigio imperiale furono usati a piene mani da Ottone Il e soprattutto da Ottone Ill. Quest'ultimo crebbe immerso nel segno di una ricostituzione dell'impero antico, una renovatio imperi Romanorum. Concretamente, dietro al rinnovamento della romanità dell'impero stava soprattutto l’immagine del sovrano come voluto da Dio a difesa della cristianità: la Roma degli Ottoni era essenzialmente la Roma di Costantino e dei papi. E come gli imperatori bizantini vivevano in una complessa simbiosi con il patriarcato, così i sovrani sassoni riservarono un'attenzione speciale alla relazione con i pontefici. Già nel 962 il primo imperatore della dinastia aveva emanato un privilegio, detto Ottonianum, in cui concedeva speciali attribuzioni al vescovo di Roma, riservando però a sé stesso la facoltà di intervenire sull’elezione del papa. Dopo la morte di Ottobre Ill nel 1002, mancando figli dell’imperatore, i magnati tedeschi scelsero Enrico II, della regione della Baviera. Anch’egli dedicò un'attenzione speciale all'Italia, alla scelta dei papi e all'impiego di vescovi leali nelle sedi episcopali dell'impero. Il cristianesimo latino nell’Europa orientale La stagione ottoniana e la storia tedesca fino al primo XI secolo furono cruciali anche nei rapporti con i popoli al di fuori della cristianità. Nel giro di pochi anni le terre dell'ex Impero carolingio si trasformarono da margine estremo dell’Occidente cristiano esposto a paurose incursioni dei nemici pagani, a cuore di una rete di fedeltà sotto il segno di un cristianesimo missionario. | punti di partenza di questa diffusione furono soprattutto l'arcivescovado di Amburgo e quello di Magdeburgo. | vescovi di Amburgo i loro religiosi guardavano in primo luogo alle popolazioni scandinave dell’estremo Nord. Un primo grande obiettivo fu raggiunto con il battesimo del re dei Danesi, Harald Denteazzurro, nel 960; nei decenni successivi il cristianesimo iniziò a penetrare nei territori del regno di Norvegia. Nella parte orientale dell'impero, a Magdeburgo, si formò Adalberto, un nobile di famiglia boema, che nel 983 fu nominato vescovo di Praga. La Boemia era territorio cristiano fin dai tempi del duca Venceslao (907-929), e l’opera di Adalberto fu dedita per anni a cercare di diffondere la nuova fede nei territori circostanti verso nord e verso est. Molto più lineare fu, invece, la vicenda della Polonia. Il principe Mieszko si fece battezzare intorno al 966, anche su spinta della moglie, figlia di un principe boemo cristiano. la sua scelta, e ancor più di suo figlio Boleslao (992-1025), fu però quella di un ingresso nella sfera politica dell’Impero sassone. Forse per effetto della clamorosa vittoria sugli Ungari del 955 la figura dell'imperatore Ottone aveva guadagnato un'aura di speciale autorevolezza presso le popolazioni slave settentrionali. Nel frattempo pure gli Ungari, sconfitti da Ottone e costretti a trasformarsi in popolazione stanziale, si avviavano rapidamente al cristianesimo. Tutti questi passaggi dal paganesimo al cristianesimo, per quanto diversi nel loro svolgersi, hanno in comune la connessione con l'Impero germanico specialmente nel periodo degli Ottoni: sia perché furono sedi episcopali germaniche a indirizzare le iniziative missionarie, sia perché le dominazioni delle nuove dinastie cristiane assumevano un rapporto di diretta dipendenza politica dall'impero: esplicita nel caso dell'Ungheria e della Boemia, più sfumata in quello della Polonia. Qualcosa di simile stava succedendo anche nella parte occidentale, con la conversione dei Normanni di Rollone dopo l'insediamento e la nascita del ducato di Normandia nel 911: il dominio stanziale dei Normanni, infatti, era vincolato a un giuramento di fedeltà vassallatica al re Carlo il Semplice. Questo fenomeno era legato alle scelte delle aristocrazie e delle famiglie eminenti dei popoli settentrionali, che vedevano nelle consuetudini di origine carolingia uno stile di governo attraente. Per questo, paradossalmente, entrare nell'orbita ecclesiastica e secolare dell’imperatore germanico era una conquista per i capi locali, non certo una diminuzione delle loro ambizioni, a patto che una sede episcopale autonoma, non soggetta direttamente a un altro vescovo, fosse riconosciuta all’interno del nuovo regno. Il Meridione Il ducato e poi principato longobardo di Benevento, dopo un processo espansivo ai danni dei territori bizantini che aveva prodotto un'entità politica estesa dal nord dell’Abruzzo fino al nord della Calabria, subì nel corso della prima metà del IX secolo spinte disgregatrici a opera di conti e gastaldi, sempre più veri signori dei propri potentati territoriali e, quando iniziò una vera e propria guerra civile fomentata dagli aristocratici che detenevano le cariche centrali, il ducato di frammentò. Nell'849 da Benevento si separò il principato di Salerno, comprendente Taranto, parte della Campania interna con Capua, e le zone longobarde della Calabria. La tendenza alla frammentazione caratterizzava del resto anche l’Italia bizantina, specie nel versante tirrenico. Tagliate fuori dal contatto diretto con la capitale, le aristocrazie di origine bizantina conobbero un tutto l’Alto Medioevo una profonda trasformazione. In questa parte dell'impero il blocco territoriale più importante era il ducato di Napoli, nominalmente soggetto al controllo dello stratego di Sicilia. Con l'avanzata islamica nell'isola gli strateghi persero una capacità di intervento in Campania, e le aristocrazie dei funzionari bizantini si trasformarono rapidamente in dinastie di autocrati locali. A Napoli i duchi agirono in piena autonomia, e allo stesso tempo concentrarono i propri interessi sulla città, peraltro molto vasta e con un fiorente entroterra rurale. Nel frattempo a Gaeta una famiglia di origine greca, i Docibile, trasformavano il titolo funzionariale di ipatos in una specie di fregio familiare trasmesso per eredità come simbolo di indipendenza. Altrettanto indipendente si rese Amalfi, una città molto piccola e protetta da un ristretto territorio costiero, ma i cui mercanti mostrarono per secoli un'incredibile vitalità attraverso il Mediterraneo. Nell’estremità occideltante degli antichi domini bizantini, la Sardegna aveva perso già con la caduta di Cartagine nel 698 un effettivo legame con l'amministrazione bizantina. Per quanto le fonti siano avare per i secoli altomedievali, i quattro “giudicati” perpetuarono in forme molto semplificate gli stili di amministrazione dell'estrema provincia imperiale, tanto che ancora nell'XI secolo i caratteri dell’alfabeto greco venivano usati per documenti in lingua volgare e gli usi liturgici orientali erano rimasti a testimoniare un legale culturale, sebbene ormai non più suffragato dalla dipendenza politica. Nel panorama dell’Italia bizantina si deve includere Roma. Nel IX secolo, specialmente dopo la seconda ondata iconoclasta, furono i papi ad appropriarsi dei titoli ufficiali imperiali e della responsabilità di cura della città e dei suoi dintorni. Leone IV fu l'artefice della costruzione di una nuova cerchia di mura: la cerchia leonina, eretta dopo la traumatica spedizione saracena dell’846, consentì ai papi di proteggere la zona intorno alla basilica di San Pietro e alla vicina sponda del Tevere, e allo stesso tempo di disegnare uno spazio urbano su misura per la figura del papa. Quando poi Ottone | giunse a Roma, la sua politica di romanizzazione dell'impero ebbe come effetto anche una germanizzazione del papato. Un caso estremamente peculiare di sviluppo locale di un territorio sul limitare del mondo già carolingio è quello della laguna veneta. La storia di quella che sarebbe diventata Venezia nacque come lento popolamento della laguna da parte degli abitanti di vari centro dell’immediato entroterra, decisi ad abbandonare le vecchie sedi diventate insicure. Gli abitanti lagunari, che si riconoscevano in un dux di tradizione bizantina, oscillarono a lungo tra la fedeltà all'Impero di Costantinopoli e il legame con i sovrani carolingi. Furono molto precoci, però, nel costruire una propria identità locale, a cui contribuì in maniera decisiva il furto delle reliquie dell’evangelista Marco, portate nell’828 da Alessandria d'Egitto e Rialto, il nuovo centro dell'abitato di Venetia, dove dall’810 circa aveva preso residenza il “doge” (la versione veneta del termine dux). La marineria veneziana subentrava a quella bizantina nei traffici lungo il corso del Po e nell’alto Adriatico verso la Dalmazia, sia in tempo di pace che nelle spedizioni militari. All’inizio dell’XI secolo, al tempo del doge Pietro Il Orseolo, le navi di Venezia erano in grado di combattere contro i pirati saraceni fino alle coste pugliesi: l'Adriatico si avviava a diventare il Golfo di Venezia. La proliferazione dei poteri signorili nel X e XI secolo In molte aree dell’Italia, ma anche del resto nell'antico Impero carolingio, si assisté già nel corso del X secolo alla proliferazione di centri fortificati. L'osservazione di fondo dello storico Toubert era che nei territori dell’Italia centrale del X secolo a un linguaggio del potere legato all'esercizio di funzioni pubbliche era subentrata una logica di controllo di centri fortificati, che venivano concessi a “signori” locali in cambio di fedeltà e appoggio militare. La stessa evoluzione è stata osservata dagli studiosi nell’area franca, che hanno parlato per il tardo X secolo di una “mutazione feudale”. La mutazione consiste nel fatto che, mentre nella tarda età carolingia i sovrani e i conti potevano far valere la propria autorità come detentori di un potere pubblico su una certa area, a partire dal X secolo l’unica forma di autorità riconosciuta divenne quella dei possessori di castelli, dic olo che in virtù di una pura forza violenta sullo spazio controllato potevano contare di farsi ubbidire. | castelli, dunque, erano la veste materiale e lo strumento della cosiddetta “signoria di banno”. La formazione di poteri di questo tipo aveva effetti rilevanti anche per il abitanti delle campagne. La signoria di banno assegnava al dominus una serie di attribuzioni che andavano oltre l'elemento patrimoniale: prestare servizio militare nel castello del signore, portare il proprio grano al mulino del signore e sottostare alle sue decisioni per le cause giudiziarie divenivano esperienze comuni per gli abitanti delle aree soggette alla signoria di banno. Detentori di queste signorie territoriali erano talvolta membri di vecchie aristocrazie comitali, che sceglievano di declinare in senso localistico il prestigio un tempo goduto all’interno delle strutture dell'impero. Il senso della “mutazione”, quindi, era da una parte spaziale (dal territorio uniforme a una galassia di microsignorie), dall'altra sostanziale, perché al linguaggio del pubblico subentrava quello del privato, della detenzione di capacità di comando come beni patrimoniali. Di tutto questo gli emblemi erano sia i castelli, sia l'esercizio della guerra, l’uso delle armi e il combattimento a cavallo, che divenne il simbolo di questo variegato ceto di signori territoriali e delle loro bande di scherani. Il termine miles aveva significato fin dall'antichità il soldato che presta ubbidiente servizio all'autorità precostituita. Ora al contrario, in un tempo di armi private, miles era sinonimo di individuo in grado di combattere a cavallo, principalmente per sé stesso, e per esercitare con la forza il suo controllo sugli uomini. Pure nelle terre di Bisanzio, per non parlare dei territori dei califfati islamici, l’uso delle armi e la capacità di combattere erano sempre più un fattore decisivo nelle identità politiche. Ciò che però caratterizzava la versione occidentale di questo processo è che in Europa i milites non avevano solo una posizione di vantaggio politico o di privilegio fiscale: erano anche in grado di “distringere”, di esercitare la giustizia sui propri sottoposti, perché il potere centrale, a differenza di quanto accadeva nel mondo islamico o bizantino, era ormai così debole e distante da non poter far valere localmente le proprie funzioni essenziali. Sarebbe sbagliato comunque immaginare l’Italia e l'Europa del tempo come il teatro di un’anarchia militare; esistevano relazioni strette di fedeltà, rituali di amicizia, scambi di sostegno reciproco tra aristocratici grandi e piccoli. | legami vassallatici si diffondevano soprattutto come effetto della dissoluzione dell'impero, tipico di una società senza Stato, in cui l'Occidente si allontanava sempre più dal modello degli imperi mediterranei fondati sulla fiscalità. “Feudo” era una parola germanica che andò a indicare il contenuto patrimoniale del rapporto tra il senior e il suo uomo. Ora i poteri sugli uomini, il districtus o banno, diventavano un bene patrimoniale, quasi che le funzioni di controllo sugli uomini fossero “attaccate” al territorio, e quindi potevano essere concesse “in feudo”. Le relazioni feudali costituivano un meccanismo di riti e di tradizioni con cui le aristocrazie grandi e piccole legittimavano il proprio potere. Il definirsi di questo sistema di riti in una forma riconoscibile e sempre meglio codificata è ciò che si può correttamente definire come feudalesimo. La relazione tra l'uomo e il suo senior divenne una pratica diffusa nella società, una circostanza che rientrava nei rapporti ordinari, che generava consuetudini e richiedeva regole specifiche. Tale processo vedrà il suo compimento con la Constitutio de beneficiis prodotta dall'imperatore Corrado Il nel 1037, per contingenze del tutto politiche, ma che in sostanza decretava che anche i feudi minori, cioè le concessioni di terreni ai piccoli milites della campagne, si intendessero come ereditarie. Il feudo, una concessione che a rigore poteva essere revocata dal senior, tendeva sempre più a essere assimilato al bene allodiale, proprietà perpetua del vassallo. Il feudalesimo non fu mai, nonostante le convinzioni degli storici successivi, un sistema diffuso uniformemente in tutta l’Europa. In altre parole non è il feudalesimo il carattere comune delle evoluzioni dell'Occidente tra X e XI secolo. Lo è, invece, la diffusione di poteri locali, e allo stesso tempo la proliferazione dell’uso della forza armata come connotato della preminenza sociale. Entrambi questi fattori avrebbero avuto importanti evoluzione nel contesto dell’XI secolo. 11. I NEMICI INTERNI ED ESTERNI (X-XI SECOLO) I monaci, i pellegrini, i guerrieri Anche se l’unità del dominio carolingio andò perduta abbastanza presto, i regni e i principati del IX-X secolo raccolsero il messaggio del ruolo speciale riservato al monachesimo nella società cristiana. Tanto i sovrani, quanto i conti e i membri di famiglie della grande aristocrazia postcarolingia fecero a gara nel fondare monasteri, sia per rispondere ai propri scrupoli religiosi, sia per avere un luogo visibile della propria dignità e del proprio prestigio. Questo aveva ovviamente delle conseguenze nella vita interna della comunità, perché di norma la scelta dell’abate, al contrario della decisione collegiale prevista nella Regola, finiva per essere più o meno esplicitamente assunta dalla famiglia dei patroni/Fondatori del cenobio. In questo quadro c'erano pure grandi novità. La più notevole è costituita da un monastero fondato nel 910 a Cluny in Borgogna da un grande principe territoriale, il duca d'Aquitania Guglielmo III il Pio. Nella carta di fondazione, che si è conservata, il duca attribuiva alla comunità la libertà di scegliere il proprio abate, e consegnava tutti i beni alla protezione della Chiesa romana di San Pietro. Questa originalità fondativa sarebbe probabilmente rimasta un'eccezione, se la comunità di Cluny non fosse rapidamente cresciuta come un monastero modello per l'intera Europa. A Cluny era adottata la regola benedettina, ma con una serie di integrazioni e aggiustamenti che sbilanciavano la vita del monaco nel senso della preghiera. Questo insieme di rigore, eccellenza spirituale e suggestione per la liturgia, in un mondo in cui l'efficacia dei rituali aveva una capacità comunicativa potente presso i fedeli, fece la fortuna della vita monastica cluniacense. | suoi abati nel corso del X secolo vennero chiamati più volte a “riformare”, cioè a riordinare, la vita religiosa di comunità più antiche. Con Cluny si costituiva una famiglia monastica distesa su buona parte dell'Europa, nella quale la figura paterna dell’abate faceva ben valere la propria autorità centrale. Questo successo di Cluny, però, non viveva tutto all'interno dei monasteri, anzi era visibile soprattutto presso la società laica, tra i principi e i potenti che arricchivano l'abbazia con le loro donazioni pur di essere ricordati nelle preghiere di monaci. La rete che l’aristocrazia della preghiera dei monaci cluniacensi aveva creato includeva semplici fedeli, signori grandi e piccoli e sovrani. In una situazione di grande frammentazione dell'Europa, in cui l’unità del cristianesimo imperiale era finita da tempo, si consolidava una forma nuova per tenere insieme l'identità cristiana dell'Occidente. Cluny divenne ben presto meta di un intenso flusso di pellegrinaggio. Il fatto che la comunità fosse sotto la protezione della Chiesa di Roma, e che almeno dal 981 la chiesa abbaziale ospitasse frammenti di reliquie di san Pietro e san Paolo, ne faceva anzi un “sostituto” di Roma stessa. Quello del pellegrinaggio è un tema molto fortunato nell'Europa dell’XI secolo. Gerusalemme, anche sotto il dominio islamico, aveva continuato ad attrarre pellegrini ed era ancora tutto sommato parte di quell’unità mediterranea rimasta in vita dall’età tardoantica. Roma coni suoi innumerevoli martiri lo era altrettanto, sebbene a lungo il suo prestigio fosse stato appannato dalla storia non sempre edificante dei suoi vescovi. A questi si era aggiunto, proprio sul finire del IX secolo, il santuario di San Giacomo di Compostela, in Galizia, dove erano state rinvenute nell'802 le presunte reliquie dell'apostolo Giacomo. La circolazione di persone stimolava la riorganizzazione dei luoghi di culto lungo i percorsi, amplificava la fama delle località toccate dai viandanti, diffondeva culti e devozioni e allo stesso tempo spronava la creazione di strutture e servizi di un autentico indotto economico dei viaggi religiosi. Con il pellegrinaggio Cluny ebbe un rapporto speciale, perché nel circuito delle vie che univano il mondo della Francia postcarolingia, l’Italia e la Spagna, la regione cluniacense era cruciale e molti monasteri della sua famiglia erano snodi delle vie di transito. Speciale era poi il legame con la Spagna; legame che attivò un circuito molto originale tra le vie di pellegrinaggio, il prestigio di Cluny e la lotto contro i principali islamici della penisola iberica. La spedizione di al-Mansur che nel 997 giunse a saccheggiare il santuario di Santiago alimentò ancora di più questo intreccio: Santiago divenne il matamoros, il protettore della lotta dei principi cristiani contro il nemico islamico. Il camino di Santiago era altresì una rete di insediamenti cristiani da cui partivano le spedizioni militari verso sud, in una successione di conquiste che giunse nel 1085 a recuperare l’antica capitale regia, Toledo. La rete di amicizie spirituali dei monaci, fatta in larga parte di aristocrazie guerriere, prendeva così sempre più un’inclinazione militante, di lotta per la cristianità. Quella di Cluny non era una militanza antislamica: era, piuttosto, una comunione di intenti per un nuovo ordine cristiano, di guerrieri riconciliati con Dio grazie alla devozione per i monaci e in nome delle buone opere. Il principale nucleo di quest'ordine era la grande assente dell'Europa del tempo: la pace. Se dalla disgregazione dell'assetto imperiale era uscita una società instabile, in cui l’uso della violenza era il 12. I NUOVI POPOLI E LE NUOVE CULTURE I Turchi selgiuchidi Molti dei cambiamenti della storia mediterranea dell’XI secolo sono legati alla comparsa di un nuovo soggetto politico nel mondo islamico orientale, quelli dei Turchi selgiuchidi. Le relazioni tra i centri urbani dell’Impero califfale e queste popolazioni sono una variante di una vicenda che attraversò tutta la storia islamica: quella delle interazioni tra la società stanziale, cittadina e dei poteri pubblici civili, che costituitva l'Islam dell'età classica, e la società dei guerrieri nomadi, legati da identità tribali, da consuetudini guerriere, dallo spazio non urbanizzato del deserto o delle steppe. Per come erano strutturate le società e i poteri islamici del tempo, il mondo stanziale percepiva i nomadi come una minaccia per la loro abitudine al saccheggio, ma anche come una risorsa, specialmente per l’inesauribile necessità di uomini per l’esercito, oltre che per i collegamenti commerciali con le aree più lontane. | Selgiuchidi emergono dalle fonti all’inizio dell’XI secolo, quando comparvero come tribù di confine di recente islamizzazione: probabilmente fino a poco prima avevano aderito all’ebraismo, forse per influsso del vecchio Impero kazaro. Da lì si inserirono nelle lotte di potere della dominazione duwayhda, dirigendosi con il capo carismatico Tughril Beg prima verso la Persia, poi in Mesopotamia. Nel 1055 Tughril prese possesso della capitale Baghdad, cacciando i governatori buwayhdi e ponendosi con il titolo di sultano quale protettore del califfo. Si costituiva così un impero assai singolare, che aveva una sostanza etnico-linguistica persiana e in parte araba, ma sotto il controllo politico-militare di una minoranza di guerrieri turchi. Il califfato rimase in vigore e le varie figure di califfi continuarono a succedersi secondo la tradizione, sempre all’interno dei discendenti del clan del Profeta. Fino al 1258 il califfo restò una sorta di simulacro, venerato e allo stesso tempo privato di ogni potere politico effettivo, nella mani del sultano e dei suoi collaboratori selgiuchidi. Questi ultimi, percepiti dai raffinati ceti dirigenti arabo-persiani come rozzi combattenti delle steppe, si legittimavano soprattutto usando l’unico elemento che li univa, cioè la religione. Una volta diventati dominatori stabili, i sultani selgiuchidi si fecero promotori dell'identità religiosa dell'impero. Innanzitutto contro i nemici della fede più vicini, ossia gli eretici sciiti: i sultani Alp Arslan e Malikshah spinsero il loro slancio di conquista verso Occidente strappando all’Impero fatimide buona parte della Siria. La stessa Gerusalemme era caduta in mano turca ed era stata poi riconquistata dagli Egiziani nel 1098. Alp Arslan fu anche protagonista della storico scontro con un altro esercito di nemici della fede, quello dell’imperatore bizantino Romano IV Diogene, che venne sconfitto a Manzikert nel 1071; in questo modo le armate selgiuchidi si spinsero fino nel cuore dell'Anatolia, dove l'espansione islamica non era mai arrivata prima. La politica di espansione nel nome della vera fede islamica aveva anche risvolti meno cruenti: Nizam al-Mulk fu ministro (visir) dei primi sultani selgiuchidi e in quanto tale fu grande sponsor della creazione di scuole religiose, le madrase. La madrasa era una moschea-collegio, in cui la pratica ordinaria della preghiera si sviluppava in un vero e proprio programma di studi religiosi. L'insegnamento religioso aveva come base lo studio del Corano e degli hadith. Dal momento che gli hadith erano migliaia, ognuno originato da una catena di trasmissione diversa, il loro senso poteva essere contraddittorio e oscuro, perciò necessitavano di una lettura globale. Emersero allo alcune “scuole” di interpretazione che portavano avanti criteri differenziati. Le inclinazioni interpretative dei vari maestri connotavano i vari centri di insegnamento, e sono rimaste tuttora la ragione delle sfumature che l'Islam conosce nelle diverse regioni del mondo. Il sistema delle madrase ebbe una rapida espansione in tutto il mondo islamico, si venne a creare così una rete di scuole diverse, tra le quali i maestri potevano circolare in un’unità sostanziale di metodi da al-Andalus a Timbuctu nel Mali fino alla Persia e alle estreme propaggini orientali verso l’India. Il papa e Costantinopoli La metà dell’XI secolo fu un momento delicato anche nelle relazioni tra la Chiesa romana e Bisanzio. Nel 1053 in particolare una qualificata missione diplomatica papale era arrivata a Costantinopoli. La discussione fu particolarmente accesa sull'uso del pane non lievitato per la consacrazione della messa, che in Occidente era comune e in Oriente era considerata una pericolosa deviazione “giudaizzante”. Nonostante i tentativi dell'imperatore, molto interessato a mantenere buoni rapporti con l'occidente, la delegazione romana finì per scomunicare il patriarca, che fece lo stesso con il papa di Roma nel 1054. La data sarebbe rimasta a segnare l’inizio del cosiddetto scisma d'Oriente, cioè la separazione, fino a oggi mai più superata, delle due Chiese di Roma e Costantinopoli, in gerarchie diverse. Operò nella scissione un’estraneità di fondo nella cultura e nel modo di pensare la funzione patriarcale. Il papato di Roma, nel pieno di una intensissima stagione di riforma, si stava identificando con il centro della cristianità. Dal canto suo il patriarca di Costantinopoli stava assumendo un prestigio e una capacità politica inaudita, che lo rendevano poco incline a cercare l'accordo. Si potrebbe dire che la rottura giunse proprio nel momento in cui sia a Roma che a Bisanzio i vertici ecclesiastici percepivano di poter prendere decisioni pur senza il sostegno e la protezione di un imperatore. A Roma questa situazione si sarebbe protratta a lungo, mentre a Bisanzio la forza di Michele Cerulario ebbe vita breve. La figura culturale dominante fu Michele Psello, un intellettuale straordinariamente dotto e versato negli studi classici, cultore di Platone, che l’imperatore Costantino Monomaco aveva nominato “console dei filosofi”, vale a dire sovrintendente di tutte le scuole della capitale, e che tornò a essere la figura più influente della corte dopo la scomparsa di Cerulario. Quello di Psello fu un vero e proprio umanesimo, non solo per l'impiego vastissimo delle fonti classiche ma anche per la sua concezione dell'essere umano. Il suo era un messaggio di predilezione per la conoscenza della natura dell’uomo e del cosmo che avrebbe raccolto seguaci pure in Occidente. Considerando queste affinità culturali ancora vive nell'XI secolo, forse la temperie degli anni dopo la morte di Cerulario avrebbe potuto favorire un riavvicinamento con Roma, e in effetti un evento drammatico sembrò andare in tal senso. L'espansione selgiuchide dall'area centrale del califfato verso occidente venne presto a contatto con il territorio bizantino. | Bizantini furono drammaticamente sconfitti e l’imperatore stesso, catturato e fatto prigioniero, fu costretto a una disastrosa resa. Le truppe selgiuchidi potevano dilagare in tutta l’Anatolia fino quasi all’Egeo, così che la regione per secoli considerata il cuore dell'impero cadeva quasi interamente nelle mani dei conquistatori turchi. La Prima crociata Nel 1096 papa Urbano II, un monaco di Cluny asceso ai sommi gradi della Chiesa romana, si trovava a Clermont nella regione francese dell’Alvernia, non molto lontano dal grande monastero. Il papa volle rivolgere un appello ai laici, e in particolare ai cavalieri. Secondo le testimonianze successive, il papa rimproverò loro le violenze e i soprusi di cui si macchiavano quotidianamente, e li invitò a rivolgere le proprie armi altrove: non contro i cristiani, ma piuttosto per un'impresa degna e meritoria. Nella migliore tradizione cluniacense, il papa intendeva orientare la violenza delle aristocrazie laiche convogliandola verso un nemico. Nell’immediato la funzione di avversari per eccellenza fu attribuita per comodità ai Saraceni. Quest’originale appello del papa era del resto in linea con le aspettative dell'imperatore di Bisanzio, che sperava di trovare in Occidente fresche schiere di mercenari per difendere l’Anatolia dalla minaccia selgiuchide. L'esito dell'occasione di Clermont fu però un coacervo di ambiguità e malintesi. Il primo riguardò gli stessi partecipanti all'impresa. Nei primi mesi dopo l’appello del papa si formò una composita armata di semplici fedeli, non organizzati militarmente ma guidati da un predicatore itinerante, noto come Pietro l'Eremita, determinati a raggiungere la Terrasanta. L'idea della crociata aveva intercettato una fascia di popolazione abituata all'idea del pellegrinaggio e animata dallo stesso, confuso ma pressante desiderio, di una santità di vita per i semplici fedeli, che era in un certo senso il frutto della riforma della Chiesa. Di quella riforma i “crociati” avevano assimilato anche l’inclinazione all'odio per il diverso, che si tradusse in sconsiderate violenze contro le comunità ebraiche nelle città tedesche e in Boemia. Una parte della schiera arrivò accidentalmente in territorio bizantino, dove tuttavia fu allontanata con disprezzo dall'imperatore che certo non aveva nulla da guadagnare dalla presente di un esercito di tal fatta. Nel frattempo nel 1097 si era costituita una spedizione che rispondeva ai veri intendimenti del papa. Un gruppo cospicuo ed eterogeneo di aristocratici europei di provenienza, tedesca, lorenese, fiamminga, normanna e provenzale. Quanto i crociati arrivarono a Costantinopoli si palesò un nuovo malinteso: l’imperatore Alessio Comneno intendeva inquadrare i nuovi arrivati nelle proprie attività militari, mentre l’esercito occidentale era partito solo con l'intento di prendere Gerusalemme. Superati comunque con un compromesso i contrasti iniziali, i crociati ripresero la marcia attraverso l’Anatolia, fino a raggiungere la Siria. Qui i guerrieri occidentali si trovarono in un ambiente inatteso, abitato pacificamente da importanti comunità cristiane sotto il governo islamico, ma soprattutto beneficiarono del vantaggio di agire in un teatro politico molto diviso al suo interno, frammentato tra aree dell'estrema periferia selgiuchide in mano a signori della guerra turchi semindipendenti. Circostanze così fortunose permisero di raggiungere la Città santa. Nel 1099, finalmente, Gerusalemme fu assediata e conquistata in un pauroso bagno di sangue. | residenti musulmani ed ebrei furono massacrati, e per alcuni anni ai loro correligionari fu impedito di risiedere nella Città santa. Con la proclamazione a re di Gerusalemme di Goffredo di Buglione (che però declinò l’invito) sulla costa mediterranea dell'Asia nasceva una costellazione di Stati cristiani, determinando un ampliamento imprevisto della cristianità occidentale in territori lontani e abituati, pur se tra guerre e nascite e morti di imperi, a una convivenza complessivamente tollerante tra popolazioni di religioni diverse. lente tra XI e XII secolo La grande vitalità religiosa dell’XI secolo vide la nascita di nuove esperienze monastiche. Bruno di Colonia fondò nel 1084 l’esperienza dei certosini. Di fronte alla scintillante liturgia delle preghiere cluniacensi, che si tenevano nel teatro grandioso di immense chiese romaniche piene di luci e decorazioni, lo stile di vita cistercense era quello di monaci tutti dediti alla fatica materiale del lavoro nei campi e alla semplicità apostolica. Il periodo tra XI e XII secolo vide in Occidente, come accadeva anche nel mondo islamico e bizantino, un'intensa evoluzione delle forme di insegnamento e cultura. | luoghi di insegnamento erano stati per secoli essenzialmente i monasteri e le chiese cattedrali, che avevano attività di formazione annesse funzionali alle esigenze del clero cittadino. Anche in questi ambienti religiosi, però, specie quelli più aperti verso il “mondo” come le scuole cattedrali, nel XII secolo emersero tendenze nuove. Tra queste il naturalismo, cioè l'interesse per il cosmo e le sue leggi naturali, che non sono contrarie alle leggi divine ma possono essere conosciute al di fuori dei testi sacri. Emblematica in particolare l’esperienza della scuola cattedrale di Chartres, i cui maestri si dedicarono a una riflessione sulle relazioni tra il macrocosmo (l'universo naturale) e il microcosmo (l'essere umano). Accanto al naturalismo di Chartres il secondo elemento di novità fu rappresentato dall'opera di Pietro Abelardo, un maestro di filosofia parigino molto noto per essere stato il primo a porre il problema della critica dei testi religiosi. La figura di Abelardo fu molto controversa e subì processi e condanne, ma la necessità da lui sollevata passò nel mondo culturale, soprattutto perché rispondeva alle esigenze pratiche della cultura rispetto alla realtà politica e sociale del tempo. Nell’Europa dell’XI secolo la circolazione delle persone e l’iniziativa dei sovrani per far valere il proprio governo nella società richiedeva una cultura dinamica, in grado di risolvere problemi, di escogitare nuove idee. Questo incontro tra cultura e società si tradusse principalmente nella nascita delle università. L’universitas degli studenti o dei docenti nacque come un'associazione di persone che si accordano per l'erogazione dell’insegnamento. A volte si trattava delle medesime persone che lavoravano nelle scuole cattedrali; altrove, come a Bologna, si trattò dell'aggregazione di pratiche di insegnamento privato nell'ambito del diritto. In ogni caso l'università non era un luogo, ma un associazione. Come tutte le associazioni, prevedeva o auspicava il riconoscimento di uno status privilegiato ai propri membri, da far riconoscere ai sovrani. La costituzione di una forma associativa degli studi fece sì che si strutturasse un curriculum e un metodo di insegnamento abbastanza omogeneo. Con il consolidarsi della pratica le diverse università acquisirono specializzazioni prevalenti. Come era il metodo educativo. Si partiva dalla lectio, cioè il confronto con un testo autorevole per poi svolgerne l’analisi con il sistema della quaestio, vale a dire l'articolazione di domande e risposte sul significato del testo, sempre nella forma di opzioni alternative che dovevano essere sviscerate e risolte. A conclusione del percorso di studi una serie di esami pubblici e una sorta di dissertazione aperta nella modalità della disputatio coronavano l'alta formazione per una ristretta cerchia di laureati, che in possesso della licentia ubique docendi potevano a loro volta iniziare un'attività di insegnamento. Le università, luoghi di cultura e vita intellettuale, avevano un immediato interesse per i poteri pubblici. Usare bene gli universitari, approfittare dell’indotto economico della loro presenza in città (servizi di riproduzione libri, alloggi, svaghi più o meno leciti) e impiegare i frutti della loro formazione nel governo dello Stato divenne una preoccupazione comune per i sovrani. Federico Il di Svevia fu il primo a istituire di propria iniziativa un'università “statale”, quella di Napoli, nel 1224, ma l'esempio sarebbe stato seguito da altri sovrani. L’Occidente cristiano, che non poteva più contare su un potere dominante, ritrovava il suo universalismo, dunque, nella sfera della cultura. La crociata del 1147 (la seconda) era guidata addirittura dal re di Francia, Luigi VII, e dall'imperatore Corrado III. Dopo non poche difficoltà, soprattutto per le truppe tedesche, malviste dalle popolazioni slave e dall'imperatore bizantino nella loro marcia verso Oriente, mentre il re di Francia poteva giovarsi del sostegno delle navi delle principali repubbliche marinare, lo slancio della crociata si arenò sotto le mura di Damasco, nella consapevolezza che solo uno sforzo probabilmente insostenibile e dagli esiti assai incerti avrebbe eventualmente consentito di conquistare la città siriana. Il 4 luglio 1187 il fiore della nobiltà cristiana fu disastrosamente sconfitto nella battaglia di Hattin a opera dell’esercito guidato dal sultano d'Egitto e Siria, Saladino. La sconfitta cristiana consentì all'esercito del sultano di porre l'assedio a Gerusalemme; i cristiani si arresero a Saladino, a patto di avere salva la vita pagando un riscatto. Nel 1187 la tragedia di Gerusalemme compattò molto velocemente i migliori principi della cristianità, Filippo Il Augusto, re di Francia, l’imperatore Federico | Barbarossa, il re d’Inghilterra Riccardo |, detto Cuor di Leone e, addirittura Guglielmo II, il re di Sicilia che inviò una flotta che ottenne l'unico vero successo della crociata, impedendo la presa di Tripoli da parte del Saladino. Per il resto il contingente tedesco ben presto si arrestò e tornò indietro dopo che Federico | Barbarossa era morto nel 1190; il re di Francia, dopo una nutrita serie di incomprensioni con quello d'Inghilterra, preferì abbandonare l'impresa nel luglio 1191, mentre Riccardo Cuor di Leone si limitò a strappare Cipro ai Bizantini, poi venduta alla dinastia dei Lusignani, prima di lasciare la Terrasanta nel 1192. Il fallimento della terza crociata fu particolarmente grave, e impose una ristrutturazione della strategia cristiana in Terrasanta; un certo impeto crociato era ormai venuto meno, come avrebbe dimostrato la quarta crociata, quella del 1204, il cui bersaglio sarebbe divenuto in corso d'opera l'Impero bizantino, o la crociata del 1229 guidata da Federico Il di Svevia, che fu un successo dal punto di vista diplomatico perché l'imperatore riuscì a ottenere mediante un trattato la presenza dei pellegrini cristiani a Gerusalemme. Alle iniziali ispirazioni forse si possono ricondurre le due crociate guidate dal re di Francia Luigi IX il Santo, entrambe partite da Aigues Mortes. La prima svoltasi tra il 1248 e il 1254, indirizzata contro l’Egitto ayyubita che, dopo la conquista di Damietta nel 1249, in pratica si concluse con la battaglia di al-Mansurah, nel corso della quale i crociati furono decimati e Luigi IX catturato, dovendo poi pagare un riscatto per tornare in Francia. Molto peggio andò la crociata successiva, nel 1270, indirizzata, per motivi sui quali ancora si dibatte, contro Tunisi. Il re santo vi trovò la morte per dissenteria, e per un lungo periodo non si parlò più di crociate per recuperare Gerusalemme che, come ben sappiamo, non sarebbe mai più tornata alla cristianità. A partire dal Quattrocento si sarebbero moltiplicate, invece, le crociate, tanto per via di terra quanto per mare, finalizzate vanamente a bloccare l'avanzata turca. Gli or ‘avallereschi e l'espansione cristiana nella penisola iberica Nel corso del XII secolo si erano andate moltiplicando delle associazioni caratterizzate da finalità insieme religiose e militari, formate da membri che vi aderivano prendendo i voti e che seguivano le regole dei principali ordini monastici. Si trattava dell'evoluzione di associazioni dedite in principio esclusivamente alla cura di malati e pellegrini, convertite alla difesa dei luoghi santi. Sono i cosiddetti ordini cavallereschi, il primo dei quali fu quello di San Lazzaro, mentre verso il 1020 veniva fondato l’ordine degli ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme che poi, a causa dello spostamento della sua sede dovuto all'avanzata islamica, sarebbe diventato l'ordine degli ospitalieri di Rodi e, in età moderna, di Malta. Come si può arguire dai nomi o dalle dedicazioni è evidente che funzione precipua di questi ordini era quella assistenziale. Le cose sarebbero cambiate ed evolute a partire dalla conquista di Gerusalemme e dalla necessità di combattere per difendere gli Stati latini d'Oriente. Nel 1118 nacque così l'ordine dei templari, mentre intorno al 1179, quello del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Nel frattempo il modello dell'ordine cavalleresco prendeva piede in altre zone caratterizzate dalla lotta tra cristiani e musulmani, e in particolare nella penisola iberica. Molti altri ordini cavallereschi sarebbero poi stati fondati nei secoli a venire, compresa l'età moderna, ma ci soffermeremo in breve solo su quelli che ebbero un ruolo preminente in Terrasanta, e cioè gli ospitalieri, i templari e i teutonici. Per quanto riguarda i primi, l'ordine fu forse in origine fondato dagli Amalfitani, saldamente presenti per le loro attività commerciali in Terrasanta. Nel 1154 l'ordine ottenne un privilegio che lo svincolava dal clero secolare e lo pose in diretta dipendenza dal papa. La dimensione bellica dell'ordine fu esemplata su quella dei templari, fondati a Gerusalemme intorno al 1114 da Hughues da Payns. Si trattava di associazioni di guerrieri laci che offrivano la loro protezione militare a dei santuari, ottenendo in cambio preghiere e benefici spirituali. Nel 1129 i templari ricevettero una regola fondata su quella benedettina con influssi di quella agostiniana. | cavalieri del tempio facevano voto di povertà, obbedienza e castità, e venivano divisi in due categorie: i milites veri e propri, di origine nobile, e i servientes, alle loro dipendenze, di estrazione sociale meno elevata. Ottennero come propria sede un'ala del palazzo reale di Gerusalemme e vari privilegi dai pontefici nel corso del XII secolo, alla fine del quale l'ordine templare diverrà ricchissimo e potentissimo. Troppo potente forse, visto che, mutati i tempi, verrà eliminato con la forza dal re di Francia Filippo il Bello, con il sostengo dei pontefici del tempo, all'inizio del Trecento, dopo un processo per eresia ai capi dell'ordine passato alla storia. | cavalieri teutonici nacquero da un gruppo di cavalieri distaccatosi dal seguito del Barbarossa durante la terza crociata. Nel 1199 Innocenzo III istituì ufficialmente quest'ordine che diventò piuttosto potente, con possedimenti sparsi in tutta Europa e nel Mediterraneo, specie in Sicilia. Il connubio tra componente militare e religiosa che sta alla base dell'evoluzione degli ordini cavallereschi in Terrasanta ha, come si è detto, origine nell'ambiente della Francia meridionale e, in modo particolare, della penisola iberica dove, già dal X secolo, ma con una decisa accelerazione dall’XI, i piccoli regni cristiani del Nord, approfittando della fine del califfato omayyade di al-Andalus, iniziarono un movimenti di espansione verso sud, comunemente definito Reconquista. Ma più in generale il contributo degli ordini cavallereschi, tanto nella pensiola quanto in tutta Europa, andò oltre la mera funzione militare e si espresse piuttosto nel rappresentare un'etica di virtù guerriere declinate in senso cristiano, che al di là delle vicende dei singoli ordini influenzò a fondo le stesse consuetudini e i sistemi di valori dell’aristocrazia europea. 14. IL DECOLLO DELLE CITTÀ Ancora e di nuovo le città A partire dall'XI secolo l'Europa cristiana conobbe un periodo di eccezionale fioritura della vita cittadina. Le città sono i primi beneficiari di quel generale moto di crescita che investe l'Europa almeno a partire dall’XI secolo, e per i secoli a venire diventano anche i luoghi di elezione della vita politica. Accanto all'aumento demografico e all'espansione urbana che abbiamo già incontrato, dall'XI secolo si moltiplicano i segni di una vera identità urbana, del senso di appartenenza a una comunità che può agire per proprio conto e avere un ruolo nel rapporto con il sovrano, con la Chiesa o con lo spazio circostante. Il Basso Medioevo è quindi anche il periodo delle città come soggetti politici. Nella storia dell'Occidente dal X-XI secolo i poteri si ricompongono a partire da dominazioni locali e la città porta in questa dinamica alcune caratteristiche peculiari. Ci dobbiamo innanzitutto chiedere cosa sia una città. Si potrebbe adottare una soglia di dimensioni, ma la rilevanza demografica non è sempre la stessa che ci si trovi in un’area molto densamente popolata o in uno spazio quasi vuoto di abitanti. Le fonti medievali, almeno quelle italiane, usano spesso il nome di civitas come titolo riservato ai centri di sede vescovile, negandolo invece agli abitati senza un vescovo: ma pure in questo caso basta varcare le Alpi affinché il criterio perda di senso. E’ più utile un criterio funzionale, che riconosce nella città un centro abitato con un elevato livello di articolazione sociale e varietà di funzioni economiche. Bisogna considerare il fenomeno urbano, insomma, come un tema storico molto vario, nel quale però grande spazio ha la capacità dei cittadini di sentirsi tali, di agire collettivamente. Si potrebbero distinguere alcune tipologie di città nello spazio mediterraneo: 1. Le città antiche: ancora nell'XI secolo molte delle grandi città mediterranee erano gli stessi centri fioriti al tempo dell'Impero romano. Per l'Occidente questo è vero soprattutto in Italia, e ciò vale per tutto il bacino mediterraneo. 2. Le città fondate dai sovrani, create per un'iniziativa dall'alto: questa situazione l'abbiamo vista operare di frequente nella storia islamica. Durante l'avanzata della conquista era stata una scelta consueta fondare centri di presidio militare distinti dalle vecchie popolazioni. Più significativi i casi di fondazioni “politiche”, per rimarcare la forza di una dinastia: Baghdad o Samarra sono esempi grandiosi. Quello che si riscontra in Occidente già nel IX secolo è il caso dei centri di popolamento nati in territori di confine, o al limite di aree poco sicure. Questi sorgevano come piccoli insediamenti fortificati, magari con funzioni linsieme di controllo e di inquadramento religioso di un’area di confine. A partire dal XII secolo pure in Europa occidentale ricomparvero esempi di vere proprie città di nuova fondazione. Alcune grandi dinastie signorili germaniche scelsero la costituzione di un centro urbano per convogliare la popolazione e consolidare il proprio dominio. 3. | centri nati spontaneamente, come punti di coagulo di attività commerciali: spesso si trattava di piccoli castelli, di villaggi o agglomerati intorno a una chiesa abbaziale, ma che la fortuna di trovarsi lungo vie di terra o d'acqua importanti fece crescere fino a dimensioni urbane. Queste varietà di origine compongono un panorama urbano molto denso in tutta l'Europa. Le diverse origini urbane, però, portavano con sé peculiarità socioeconomiche. Le città antiche non erano strutturalmente separate dal territorio circostante. Avevano un popolamento più concentrato rispetto alle campagna ma sul piano giuridico l'esterno e l'interno dell'abitato non erano così diversi: questo è un carattere che resterà costante nelle città del Mediterraneo orientale. In Occidente le città medievali di origine antica si erano sovente ripiegate su sé stesse, chiudendosi all'interno delle mura, ma non avevano perso la capacità di proiezione verso l'esterno. Nei centri di nuova fondazione, o nelle città cresciute intorno a piccoli castelli, invece, era molto forte la separazione tra dentro e fuori, tra città e campagna. Una separazione pure sociale: il luogo del mercato e quello dei castelli, la società degli artigiani e dei mercanti e quella dei cavalieri. L'affermazione “l’aria della città rende liberi” non era etica ma giuridica, dal momento che la residenza in città per almeno un anno rendeva una persona esente dai diritti di dipendenza o servitù nei confronti di un signore fuori dalle mura. Le mura cittadine, in altre parole, erano un diaframma tra due mondi sociali del tutto differenti. Questo era in sostanza il quadro politico delle città di buona parte dell'Europa: essere riconosciuti dal sovrano per poter dialogare con lui in una sede ufficiale. Le città e la cultura Questa crescita delle città aveva potuto beneficiare altresì di un fenomeno di storia della cultura, vale a dire la rinascita di uno studio sistematico del diritto romano. Rimasti quasi dimenticati per molti secoli, i testi del Corpus giustinianeo cominciarono a esser fatti oggetto di un'indagine accurata nel corso dell’XI secolo. Si trattò di un ritorno dei tecnici del diritto alla consultazione e all'analisi dei testi del diritto romano come riferimento necessari alla pratica dei tribunali. In breve tempo si diffuse da Bologna verso l’Italia del Nord e la Francia meridionale un sistema di lettura, interpretazione e discussione analogo a quello che stava maturando per la teologia e il diritto canonico. Nel caso del diritto romano, però, la ricadute pratiche erano ancora più rilevanti. Ma dall’insegnamento universitario non uscivano soltanto grandi insegnanti: nelle aule di Bologna si formavano schiere di giudici che poi passavano la vita nei tribunali dei podestà. La giustizia, il funzionamento delle assemblee, la gestione degli uffici dei comuni podestarili crebbero così assimilando la mentalità del diritto romano e traducendone poi i concetti nei documenti comunali come gli statuti. Una cultura nuova - ma in realtà figlia di una tradizione molto antica - aveva trovato al di fuori dei vecchi ambienti religiosi e nel vivo della dialettica politica uno spazio in cui agire profondamente nella società. 15. LA SOCIETÀ DELLA PERSECUZIONE: LA CHIESA ROMANA FINO AL XIII SECOLO La nuova Chiesa occidentale La lunga controversia di Gregorio VII con Enrico IV, che continuò poi in forme meno cruente ancora per decenni, ebbe tra i suoi effetti quello di spingere la Chiesa romana a raccogliere una grande messe di materiali, documenti di natura diversa e non ultimi veri e propri falsi storici per accreditare le posizioni della Curia contro quelle degli imperatori. Nel 1122 si chiuse ufficialmente il periodo della lotta per le investiture, con la firma del cosiddetto Concordato di Worms tra il papa Callisto Il e l’imperatore Enrico V: il conferimento del ministero pastorale del vescovo veniva separato dalla cerimonia di attribuzione delle investiture secolari, i diritti pubblici connessi alla specifica funzione del vescovo nella città. Le due cerimonie venivano affidate l’una al legato papale a l'altra a quello imperiale, e potevano avvenire con un ordine variabile. Il che doveva rassicurare anche l'imperatore sulla possibilità di mantenere una voce decisiva nella scelta della persona. l'enorme armamentario di argomenti giuridici accumulato negli anni stimolò la raccolta di grandi compilazioni del diritto della Chiesa, il diritto canonico. Di gran lunga la più importante è quella composta nel 1140 a Bologna da Graziano (il Decreto di Graziano), che fu così il testo base per lo studio del diritto della Chiesa, una sorta di parallelo del Corpus iuris che esprimeva la maturità della gerarchia come ordine autonomo di ogni potere secolare. All'indomani del Concordato di Worms iniziò anche una nuova stagione di concili. Non è un caso che in meno di un secolo si fossero tenuti quattro concili a Roma. Dopo la lotta per le investiture e la rottura con la CHiesa di Bisanzio i papi portarono avanti con decisione una concezione della Chiesa in cui il vescovo di Roma era il vertice della cristianità. La grande capacità di creare relazioni in tutta Europa fece sì che da tutta la cristianità occidentale il vescovo di Roma fosse visto come un interlocutore privilegiato per le questioni religiose. Il vescovo di Roma, da secoli considerato una figura prestigiosa ma non gerarchicamente superiore agli altri patriarchi, ora si affermava in maniera esplicita come vertice di una vera e propria monarchia papale estesa su tutta la cristianità. Uno degli effetti di questa crescita della Chiesa come gerarchia fondata sul diritto fu la nascita di una vera e propria dottrina giuridica della crociata. La Prima crociata era nata in circostanze particolari, ma sarebbe stato solo negli anni successivi, dopo la conquista di Gerusalemme del 1099, che la Chiesa avrebbe precisato ciò che ai crociati si prospettava come guadagno spirituale. Il motivo di questa precisazione era anche pratico: il regno di Gerusalemme era un'acquisizione gradita, per certi versi inaspettata, ma straordinariamente fragile. Il regno aveva bisogno di un continuo ricambio di forze militari, e dato il numero esiguo di combattenti occidentali stabiliti in Terrasanta questi potevano arrivare soltanto da fuori. Il XII secolo fu così il tempo della fioritura della letteratura crociata, in cui l'epopea del regno d'oltremare era una sorta di sogno aristocratico per l’intera Europa, e insieme promuoveva l'invio di nuovi armati per sostenere l'impresa. L'esigenza si fece drammatica quando nel 1144 la caduta di Edessa giustificò gravi preoccupazioni sul futuro degli insediamenti crociati. Il papa Eugenio Ill lanciò quindi l’appello alla crociata, sotto la spinta e l'iniziativa pressante di Bernardo di Chiaravalle. Lo stesso Bernardo fu poi molto efficace nel proporla anche alle aristocrazie guerriere europee, perché volle promuovere con grande decisione gli ospitalieri di San Giovanni e i templari, che aggiungevano ai voti tradizionali quello dell'impegno alla difesa armata del regno di Gerusalemme. Bernardo promosse la diffusione in Europa dei templari con un trattato, il De laude novae militiae. La definizione degli impegni del crociato era ora più chiara. Ciò che si prospettava a chi intraprendesse la crociata per almeno un anno era l’indulgenza, cioè la cancellazione di una parte delle pene ultraterrene per i propri peccati. Oltretutto, specie nelle crociate dalla fine del XII secolo, ai sovrani che si impegnavano a partecipare era concessa la possibilità di riscuotere una parte dei contributi richiesti a tutte le chiese della cristianità, quella che alla fine del XII secolo si sarebbe chiamata la “decima del Saladino”. La crociata era così una prospettiva suggerita soprattutto ai principi e sovrani. La Chiesa e gli eretici La partecipazione alla lotta contro il clero concubinario aveva visto emergere i gruppi di fedeli laici come attori in prima persona delle vicende della Chiesa. Questa possibilità si chiuse molto presto, perché le strutture ecclesiastiche una volta passata la stagione gregoriana ribadirono con chiarezza come non fosse lecito ai laici giudicare il clero. Nel corso del XII secolo lo stesso movimento riformatore avere molto enfatizzato la necessità di imporre al clero comportamenti adatti al proprio status, nettamente separati da quelli dal laicato anche nella vita quotidiana. Ideali di questo tipo furono al centro della predicazione di Arnaldo da Brescia, che si mise a capo di un movimento prevalentemente di laici, che traeva le conseguenze dello spirito della riforma: se i chierici devono tenersi lontani dalla corruzione del mondo per essere riconosciuti dai fedeli, allora la Chiesa di Roma deve rinunciare al suo potere temporale sulla città e non può chiedere l'obbedienza ai cittadini in nome di un dominio terreno. Arnaldo fu così l'ispiratore della nascita del Comune di Roma nel 1143, un'istituzione apertamente ostile al potere del papa. Il successo della predicazione di Arnaldo presso gli uomini del Comune di Roma è anche un segnale di come presso i laici nel corso del XII secolo si stesse diffondendo una speciale sensibilità nei confronti della povertà come stile di vita necessario alla perfezione cristiana. Nell’Europa fino al X secolo, la ricchezza era associata soprattutto al potere e alla gloria, più che a un fattore di natura eminentemente economica, quindi era sembrato naturale che le chiese fossero ricche. La mentalità dei laici tra XI e XII secolo era cambiata: in un mondo in crescita la ricchezza era ora associata all'immagine del mercante, e così quegli stessi oggetti e paramenti sacri un tempo sentiti come riflesso della gloria divina nella Chiesa erano ora visti come una deviazione della Chiesa verso l'avidità dei mercanti. Cresceva alla stesso tempo l'esigenza di trovare forme di vita lontane da questa pericolosa opulenza. Uno dei casi più interessanti fu quello dei Poveri di Lione con il loro fondatore Pietro Valdo (o Valdesio). La posizione ufficiale della Chiesa nei loro confronti fu ambivalente. In un primo tempo, in occasione del terzo Concilio lateranense del 1179, vennero ammessi, con la raccomandazione di non predicare senza l'autorizzazione del vescovo locale. Nel 1184, però, il papa Lucio III nella celebre bolla Ad abolendam li tacciò apertamente di eresia vietando ogni forma di comunità ispirata al modello valdese. Ma dopo il 1184 i papi, specialmente Innocenzo III, affiancarono la repressione a una certa forma di recupero, per cui alcune porzioni delle comunità valdesi e gran parte di quelle umiliate vennero reintegrate nella Chiesa sotto speciali clausole di garanzia e controllo. Con l'avvicinarsi al XII secolo, questa galassia di forme religiose alternative si precisò, ed emerse una categoria di eretici alquanto riconoscibili dai documenti: i catari. In questo caso si trattava di una vera e propria Chiesa parallela, che giungeva in Occidente dai Balcani, in particolare dalle comunità bogomile che a loro volta si ispiravano a comunità religiose ancora più orientali, provenienti dall'Armenia. Professavano una religione dualistica, secondo la quale tutto l'universo sarebbe stato il frutto dell’azione di due forze eterne e opposte: bene e male, luce e tenebre, spirito e materia. | catari, termine greco che significa “i puri”, erano appunto la comunità di coloro che seguendo l'insegnamento di Cristo praticavano la mortificazione della carne, la separazione dal mondo e, infine, il ritorno al principio del bene spirituale. Il catarismo ebbe una grande diffusione in Occidente, specie in Italia e nella Francia meridionale: in Italia nel XII secolo vi furono intellettuali catari e figure eminenti delle aristocrazie urbane aderenti alla Chiesa. | mezzi repressivi, dalla Ad abolendam in poi, furono molto duri. Il passaggio fondamentale si compì con il papa Innocenzo Ill che nel 1199 emanò la bolla Vergentis in senium, secondo la quale il peccato di eresia, riconosciuto dai tribunali ecclesiastici, era equivalente al reato di lesa maestà, cioè al crimine di attentato allo Stato già presente nel diritto penale romano come una colpa gravissima. Tanto era più grande la maestà divina che gli eretici offendevano di quella dei sovrani terreni! Per questo il papa invitava tutti i sovrani del tempo a punire gli eretici con i loro mezzi di repressione, in particolare con il fuoco del rogo previsto per il crimine di lesa maestà. Innocenzo Ill La figura di Innocenzo III è il punto di snodo di tutta la storia della Chiesa occidentale nel XII secolo, sia quanto alla vita religiosa, sia per l'organizzazione politica. Sul piano della repressione dell’eresia Innocenzo scelse la via più sanguinosa. Dopo l'assassinio nel 1208 di un emissario papale in loco, Pietro di Castelnau, lanciò un appello alla crociata contro gli eretici. La crociata contro gli albigesi si svolse in una successione di campagne di conquista, portate avanti dal re Filippo Il Augusto e dalla nobiltà della Francia settentrionale contro gli eretici ma anche contro gli uomini del conte di Tolosa, che avevano ostacolato l’opera dei legati papali. Dopo anni di violenze, l’intera Francia meridionale venne assoggettata all’ortodossia sul piano religioso, e su quello politico sottomessa al re di Francia. Nel corso di tutto il XII secolo l'autorità dei vescovi di Roma si era dispiegata in una fittissima corrispondenza, tenuta grazie a un sistema di cancelleria molto raffinato. Le lettere della Cancelleria più significative, le decretali, assumevano 16. GLI IMPERI E | REGNI MEDITERRANEI: TRADIZIONE E INNOVAZIONE I Normanni nel Mezzogiorno e in Sicilia Ciò che portava gli abitatori del Nord verso l’Italia era la consuetudine del pellegrinaggio via mare attraverso il Mediterraneo in direzione di Gerusalemme e la necessità di crearsi un patrimonio per i molti cadetti di nobili famiglie troppo numerose. Alcune delle grandi imprese della Reconquista iberica giunsero proprio grazie all'appoggio procurato dai pellegrini normanni diventati con naturalezza guerrieri al soldo dei sovrani cristiani. In Italia accadde qualcosa di simile, salvo che il quadro politico della penisola era ancora più complicato, perché alla divisione religiosa tra la Sicilia musulmana e il continente cristiano si univa la frammentazione dell’area tra Napoli e lo stretto di Messina in una serie di potentati longobardi e bizantini spesso in guerra tra loro. | primi Normanni arrivarono alla spicciolata intorno al 1000, e trovarono facile impiego come mercenari al servizio dei vari belligeranti del Mezzogiorno. Un passaggio decisivo fu la decisione del duca di Napoli, Sergio IV, di conferire nel 1030 a uno dei capi normanni, Rainulfo Drengot, la signoria della città di Aversa con il suo territorio. Nel 1042 un altro capo normanno, Guglielmo di Altavilla, divenne conte di Apulia. Appoggiandosi su queste vere e proprie signorie i Normanni iniziarono ad agire in autonomia invece che al servizio dei poteri bizantini e longobardi, approfittando delle debolezze di entrambi si ritagliarono porzioni di territorio sempre più vaste. Ciò suscitò al preoccupazione del papa, che decise di agire militarmente contro i nuovi arrivati: l'impresa si risolse in una umiliante sconfitta dell'esercito di Leone IX. | Normanni, in particolare il più carismatico dei loro leader, Roberto d'Altavilla detto il Guiscardo, negoziarono un accordo con il nuovo papa Niccolò II, firmato a Melfi nel 1059. Secondo l'accordo il Guiscardo si riconosceva vassallo della Santa sede, e riceveva dalle mani del papa l'investitura di duca di Puglia, Calabria e Sicilia, mentre a Riccardo Drengot era confermato il titolo di principe di Capua. Nel giro di pochi anni, dal 1060 al 1064, Roberto poté completare l'espansione sottomettendo Reggio e Taranto, mentre nel 1061 i suoi uomini e quelli guidati dal fratello minore Ruggero si erano impossessati di Messina, approfittando della debolezza delle forze khalbite e dell'appoggio della popolazione greca. Di fronte alle difficoltà di una conquista dell'intera Sicilia, le forze normanne si divisero: Roberto riprese le sue campagne nel continente, culminate con la conquista di Bari nel 1071. Nel 1081 azzardò anche un’impresa oltremare con la conquista dell'isola di Corfù, forse con l'intento di attestarsi lungo la via Egnazia e sognare l'avanzata verso Costantinopoli. L'ascesa al trono di Bisanzio di Alessio | Comneno bloccò l'avanzata e Roberto dovette far ritorno in Italia, per poi morire nel 1085. Nel frattempo suo fratello Ruggero continuava la spedizione siciliana che seguì essenzialmente la via che Troina, sua “capitale” nell'isola, portava a ovest. Palermo, che già nel 1064 aveva subito un saccheggio da parte di una flotta pisana, cadde in mano normanna nel 1072. Ruggero proseguì poi lentamente nella parte centrale e meridionale dell'isola fino alla conquista di Noto nel 1091, considerato il momento finale della presa della Sicilia. A questo punto buona parte dell’Italia meridionale era in mano normanna, sebbene ciò non comportasse la creazione di un dominio unico. Solo il figlio di Ruggero, Ruggero II, avrebbe cinto una vera e propria corona, intitolandosi a Palermo re di Sicilia il 25 dicembre 1130. Tempi così lunghi erano forse l’effetto delle caratteristiche della conquista, | Normanni, pure nella stagione più florida in cui poterono contare su parenti e alleati giunti dalla madrepatria, non furono mai più di qualche migliaio. Di fatto il loro dominio passava attraverso l'accettazione delle aristocrazie e delle comunità locali, che una volta riconosciuta la sottomissione continuava a vivere in sostanza come prima. D'altro canto le diverse famiglie mormanne non avevano mai avuto un disegno comune al di là delle ambizioni personali, quindi non avevano nessuna inclinazione per la creazione di un vero regno. L'occasione arrivò molti più tardi, quando il figlio di Ruggero di Sicilia Ruggero II, intorno al 1127 si trovò abbastanza forte per sottomettere i diversi signori normanni del Mezzogiorno. Quella nata nel 1130 era una monarchia assai composita sul piano non solo territoriale, ma anche culturale. L'incarico di amministrare il territorio fu affidato a giustizieri sottoposti direttamente al re, sul modello di una simile istituzione normanna del Nord, inviati nella decina di province che componevano il regno: allo stesso tempo i baiuli gestivano la riscossione dei proventi del fisco regio nelle città. La fedeltà dei baroni fu assicurata dopo la promulgazione delle Assise di Ariano del 1140, l'assemblea dei maggiorenti del regno alla presenza del sovrano, che nella forma molto feudale del raduno dei vassalli introducevano, però , una legislazione centrale nettamente ispirata al diritto romano. Nella capitale, Palermo, Ruggero mise a frutto l'esperienza dell'amministrazione islamica mantenendo la dohana de secretis (dall'arabo diwan), ufficio centrale trilingue (latino, greo e arabo) al quale venivano convogliate le rendite delle imposte di tutto il territorio. Davvero mediterranea era l'estensione del regno, perché oltre alle isole siciliane il re normanno ebbe il controllo di Malta e, dopo una brillante operazione condotta dal grande ammiraglio siriano Giorgio di Antiochia, pure di alcune città tunisine tra cui Djerba e Mahdiyya. Ruggero dovette affrontare l'ostilità sai degli imperatori tedeschi, mai del tutto rassegnati alla perdita delle terre meridionali, sia di quelli bizantini, ai quali Palermo aveva sottratto il ruolo di ago della bilancia nel Mediterraneo occidentale. La paventata invasione comune non avvenne, e il regno passò ai discendenti di Ruggero, Guglielmo | e Guglielmo Il. Entrambi contribuirono a fare della Sicilia uno dei regni più ricchi dell'Europa del tempo. Nel 1186 si era celebrato il matrimonio tra Costanza d'Altavilla, l'ultima figlia di Ruggero, e il giovane Enrico di Germania, figlio dell’imperatore Federico. Quando Guglielmo morì trentacinquenne nel 1189, la discendenza legittima passò alla famiglia di Costanza: un evento che avrebbe cambiato le sorti del regno. I Comneni a Bisanzio La sconfitta di Mazinkert nel 1071 aveva rappresentato un colpo terribile per la presenza bizantina in Anatolia. | destini dell'impero vennero raccolti da un giovane comandante dell’esercito, Alessio Comneno, che nella primavera del 1081 con un colpo di Stato militare si impossessò della corona. Contando sull’appoggio della flotta di Venezia l’imperatore riuscì innanzitutto a respingere l'avanzata normanna, facilitato peraltro dalla morte di Roberto il Guiscardo nel 1085. Allo stesso tempo le campagne militari contro i Peceneghi riuscirono quantomeno a mettere in sicurezza i confini balcanici. Molto più lento fu il recupero dei territori in Asia Minore; la frammentazione di questa parte periferica dell'Impero selgiuchide favorì la politica di Alessio, che approfittando della spedizione della Prima crociata riuscì a recuperare almeno una porzione dei territori perduti dopo Manzikert. Per affrontare l'emergenza Alessio introdusse una serie di novità nell'amministrazione imperiale. Il nuovo imperatore ridistribuì dignità e cariche soprattutto a membri della sua famiglia, andando a creare un blocco di potere e di fedeltà personali mai visto a Costantinopoli. Allo stesso tempo, approfittando anche di una controversia dottrinale che aveva investito il patriarca Giovanni Italo nel 1082, mise sotto più stretto controllo la figura patriarcale. Per consolidare il territorio l’imperatore fece ampio uso di un metodo già sperimentato anni prima, quello della pronoia, cioè la concessione di terre e diritti di origine fiscale a individui che si impegnavano al servizio militare. Si è parlato di un inizio di “feudalesimo bizantino” ma in realtà si trattava di una forma più simile all’igta dell'Impero abbaside, perché comportava solo uno scambio tra concessione dell’imperatore e servizio militare, non era ereditaria e soprattutto non comportava la cessione della giurisdizione imperiale sui territori concessi. Tutta l'Europa occidentale era comunque bacino di reclutamento di guerrieri, a cui l'Oriente bizantino prometteva prospettive di ricchezza e gloria al servizio del basileus. Quando Urbano Il nel 1096 lanciò agli aristocratici dell’area franca l'appello a combattere in Oriente, Alessio sperò di usare la campagna della Prima crociata proprio nell'ottica di un recupero di territori in Oriente grazie a una qualificata élite di guerrieri forestieri. Alessio inaugurò una stagione di grande vicinanza con le potenze marittime italiane, specie Venezia. l'appoggio fornito dalle navi veneziane alla difesa dei Balcani contro i Normanni fu subito ripagato dalla Crisobolla del 1082, un privilegio eccezionale che consentiva ai mercanti veneziani di trasportare le proprie merci da e per i porti dell'impero senza pagare il commerkion, l'imposta imperiale sul transito dei beni. Alla morte di Alessio gli successe il figlio Giovanni; la trasformazione della corte di Bisanzio in un entourage familiare consentì ai Comneni di costituire una vera e proprio dinastia. | Comneni tennero ininterrottamente l’impero per oltre un secolo, attraverso i lunghi regni di Giovanni e di Manuele e quello breve e disastroso di Andronico. | successori di Alessio non riuscirono a portare molto avanti la riconquista dell’Anatolia. L'ambito di maggiore attenzione politica fu al contrario l'Occidente. Manuele in particolare ingaggiò un duraturo e infruttuoso conflitto con i re normanni, con ripetute campagne militari verso la Puglia. Nel 1155 la flotta imperiale prese possesso del porto di Ancona. Queste iniziative italiane suscitarono l’ostilità di Federico Barbarossa. Manuele appoggiò così il papa Alessandro III nell’annoso conflitto con il Barbarossa, ma le sue speranze furono deluse quando i due trovarono una pacificazione nel 1177 che non lasciava spazio al basileus nel teatro politico italiano. Le forze militari e le risorse di Manuele si trovarono perciò impegnate soprattutto nel fronte italiano, finché una nuova impresa selgiuchide porto l’esercito imperiale nel 1176 di nuovo a una tremenda sconfitta, che sanciva ormai definitivamente l’incapacità di recuperare il controllo dell’Anatolia in mano turca. Il bilancio della dinastia comnene è di sicuro controverso. Certamente Alessio e i suoi successori furono protagonisti di una notevole capacità di recupero dell'impero dai rovesci di Manzikert. Lo sguardo a Occidente si rivelò in definitiva fallimentare, perché costoso e alla fine improduttivo. Decisiva fu poi la scelta di favorire in maniera spropositata gli operatori commerciali italiani, che paradossalmente godevano di privilegi maggiori di quelli dei sudditi stessi dell'impero. L'iniziativa degli spregiudicati mercanti italiani conquistò in fretta il monopolio del mercato imperiale. Gli eventi del 1204, che videro Bisanzio saccheggiata a opera dei crociati occidentali condotti da Venezia, erano stati preparati proprio da questo retroterra storico. Saladino e gli altri: effimeri imperi islamici nel Mediterraneo Nell’XI e XII secolo la parte Occidentale del Dar al-Islam conobbe trasformazioni altrettanto profonde, non di rado legate di nuovo all'impatto con i nomadi del deserto. Nell’Africa settentrionale, ad esempio, furono i beduini nomadi dell’area a est del Delta del Nilo a dilagare, provocando l'ennesima destabilizzazione dell'area e forse anche l’avvio di un declino profondo all'agricoltura stanziale in quelle aree a lungo così floride. Il Vicino Oriente nel XII secolo era la periferie dell'Impero selgiuchide: lontana da Baghdad e troppo vicina ai confini dell'Impero fatimide, era uno spazio politico perfetto per governatori intraprendenti o avventurieri che costituivano principati semi-autonomi rispetto al potere del centro. La presenza dello Stato crociato dava una doppia possibilità a questi principi e signori della guerra turchi. Da una parte la riattivazione dei traffici commerciali dall'Occidente verso i porti di Acri, Tiro e Antiochia rappresentava un obiettivo allettante di conquista. In secondo luogo i principi turchi potevano usare l'arma della guerra religiosa contro i crociati presentandola come jihad, e quindi guadagnando il prestigio e l'autorevolezza di difensori della fede in imprese che altrimenti sarebbero state motivate solo dall’ambizione personale. Protagonista di questa strategia su Zengi, che strappò ai crociati la città di Edessa nel 1144, il che innescò in Occidente la reazione papale e il bando della Seconda crociata. Morto Zengi nel 1146, l'eredità del suo dominio siriano passò al figlio Nur ad-Din. Un emiro di Nur ad-Din, il curdo Shirkuh, insieme con il nipote Yusuf ibn Ayyub Salah ad-Din (letteralmente “roccia della fede”, il celebre Saladino) attaccò nel 1169 l'Egitto e ottenne la sottomissione del califfo del Cairo. Per alcuni anni Saladino governò come una sorta di plenipotenziario di Nur ad-Din in Egitto, ma dal 1174 il suo prestigio, per essere stato colui che aveva riportato l'Egitto all’obbedienza del califfo sunnita di Baghdad, gli consentì di ereditare un dominio molto vasto che univa la Siria e l'Egitto. Saladino approfittò dello strumento del jihad contro i crociati, e nel 1187 sbaragliò le truppe del regno di Gerusalemme. Poco dopo la Città santa, incapace di difendersi, cadde nelle sue mani. l’arrivo dei crociati dall’Occidente nel 1190 impedì a Saladino di completare la conquista, ma l'accordo stipulato nel 1192 gli consentiva comunque di essere il dominatore di tutta la regione. Con lui nasceva un nuovo Stato sunnita, fedele al califfo di Baghdad, retto dai suoi discendenti e centrato sulle città del Cairo e Damasco, nonché sulla regione del Mar Rosso e i luoghi santi dell’Islam. 1204: una crociata particolare La Quarta crociata, lanciata da Innocenzo III già nei primi anni del suo pontificato, ebbe una storia molto particolare. Una vasta coalizione di grandi aristocratici europei concordò con le autorità di Venezia l'affitto di una grande flotta, che avrebbe fornito il supporto logistico indispensabile per la spedizione verso l'Egitto. Nelle difficoltà organizzative, però, alla data fissata giunse a Venezia un esercito molto più piccolo di quanto programmato, e di certo non in grado di pagare l'enorme costo della flotta allestita nell’arsenale veneziano. Le autorità della Serenissima accettarono di effettuare comunque il trasporto delle truppe crociate, ma con l'accompagnamento del doge in persona, e con l'impegno di sostenere alcune imprese militari collaterali al servizio di Venezia. La prima fu la riconquista di Zara in Dalmazia, già ribellata al dominio veneto. A Zara la spedizione si incontrò con le vicende politiche dell'Impero bizantino. L'obiettivo del giovane Alessio era di spodestare l'omonimo zio e di riprendere la corona di Isacco. Un cambio di vertice a Bisanzio sembrava alle cancellerie europee una buona prospettiva per la causa della crociata, per la possibilità di estendere l'autorità papale verso oriente, per soddisfare le ambizioni dei regni occidentali. La decisione della spedizione crociata, con la benedizione del doge Dandolo, fu allora quella di dirigersi a Costantinopoli, dove in effetti nel 1203 i crociati si accamparono e consentirono al giovane Alessio di spodestare lo zio e diventare imperatore con il nome di Alessio IV. | problemi, tuttavia, restavano gravi, perché il nuovo basileus aveva preso impegni molto gravosi con i crociati, a loro volta Eleonora d'Aquitania, la ex moglie di Luigi VII di Francia con cui contrasse matrimonio nel 1152. Non stupisce quindi che Enrico Il, e il suo successore Riccardo, trascorressero gran parte del loro tempo in Normandia o comunque nel continente e non sull'isola, che era la parte più periferica e anche meno salda del loro dominio. Forte di questa posizione di grande favore Enrico condusse, inoltre, una decisa politica di riordino amministrativo volta a impiantare una vera giustizia e fiscalità regia sulle consuetudini del regno. Trovò però un durissimo, e inaspettato, oppositore in Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury. Nel pieno di un aperto contrasto politico l'arcivescovo venne assassinato nella sua chiesa nel 1170. L'assassinio fu addebitato alla responsabilità almeno indiretta del re, che per ottenere il perdono papale dalla scomunica dovette impegnarsi solennemente a contribuite alla crociata. Gli anni finali del regno di Enrico Il furono funestati dai conflitti con i figli, in particolare Riccardo, che gli successe alla fine nel 1189. Uno dei primi atti di re Riccardo fu la decisione di intraprendere la crociata, per rispondere all'impegno preso già nel 1188, anche visto che il papato aveva istituito la decima di Saladino, un contributo straordinario di tutte le chiese della cristianità, e la sua esazione era affidata ai principi disponibili a prendere la croce nel loro regno. In Terrasanta Riccardo si guadagnò la fama di guerriero valoroso assicurando al regno cristiano una stretta fascia costiera di città. Le circostanze degli ultimi anni di Riccardo sono emblematiche dei caratteri di un regno che non era ancora affatto insulare, ma viveva della complicata articolazione tra domini al di qua e al di là della Manica. Il fratello minore di Riccardo, Giovanni, si trovò proprio nella condizione di mantenere il controllo della Normandia senza subire troppo l'intervento del re di Francia. La sua politica in questo senso fallì, e dovette accettare la perdita della regione del 1204. Negli stessi anni si aprì un conflitto altrettanto infelice con il papa, che aveva fortemente voluta la nomina a vescovo di Canterbury di Stefano Langton, e dovette accettare un accordo con Innocenzo III nel 1213. Quando poi Giovanni uscì sconfitto dalla battaglia di Bouvines, la sua posizione diventò precaria anche nei rapporto con l'aristocrazia dell’isola e si giunse, quindi, alla stesura della celebre Magna charta libertatum nel 1215. In essa il re si impegnava per il futuro a non violare i diritti delle chiese, a non arrestare o perseguire alcun suddito contro le tradizioni e le consuetudini del regno, e soprattutto a sottoporre le proprie scelte alla consultazione dei baroni, qualora si trattasse di entrare in guerra, stipulare la pace o introdurre nuove imposte. La versione scritta degli impegni regi, confermata in una seconda stesura del 1216, gettò le basi per una struttura politica basata sulla consultazione, che si sarebbe ulteriormente sviluppata nei decenni successivi. Alla fine dell’XI secolo la Spagna cristiana, attestata nella parte settentrionale della pnesiola iberica, era composta da cinque regni diversi: Castiglia e Leòn nella parte centrale, inclusa Toledo conquistata nel 1085, Portogallo nell'estremo occidente intorno a Coimbra, Navarra nei territori baschi e Aragona nell’area dei pirenei. La presa di Toledo nel 1085 era stato un acquisto importantissimo, ma aveva innescato anche una svolta politica all’interno del mondo islamico. Il punto di partenza furono le regioni del Sahara occidentale, dove a metà dell'XI secolo comparve il movimento religioso detto degli al-murabitun, cioè gli “uomini del ribat”, noti in Occidente come Almoravidi. Il movimento assunse un carattere politico quando venne adottato da una tribù berbera guidata da Yusuf ibn Tashfin per iniziare un'espansione del movimento politico-religioso verso il Marocco. Nel 1070 nacque la capitale del dominio Almoravide, Marrakech e dal 1083 gli Almoravidi cominciarono ad affacciarsi nella sponda europea oltre Gibilterra. | re delle taifas colsero subito la possibilità di impiegare questi guerrieri rozzi e fanatici ma molto valorosi negli scontri di confine. Da alleati esterni gli Almoravidi si trasformarono presto in conquistatori, e negli anni Novanta praticamente tutta al-Andalus era nelle loro mani, insieme alla vasta dominazione sul Marocco e l'Africa nord-occidentale. l'espansione cristiana, che avevo conosciuto un passaggio decisivo nella presa di Toledo nel 1085, si fermò per decenni, ma alla lunga la mano degli Almoravidi cominciò ad essere poco gradita alla stessa popolazione musulmana. La loro presenza in al-Andalus era tollerata più che altro in nome della difesa contro i cistiani: quando i regni settentrionali ricominciarono l'espansione verso sud, il dominio almoravide iniziò a vacillare tra discordie interne e velleità autonome dei signori locali. Nella successione delle conquiste cristiane il primo episodio importante risale al 1118, quando il re d'Aragona Alfonso | detto el Batallador riuscì a prendere Saragozza, la città più importante di al-Andalus nel Nord. La conquista era stata possibile da una vera e propria campagna crociata bandita dal papa a favore di tutti coloro che si prestassero a combattere con gli infedeli in Spagna. La componente “franca” ebbe tra l’altro un ruolo decisivo del fenomeno del ripopolamento dei territori diventati cristiani. Nel momento della conquista, infatti, i sovrani iberici distribuivano le terre confiscate ai vecchi proprietari dividendole tra i propri seguaci: spesso il ripopolamento era altresì l'occasione per concedere carte di diritti. Questo lento avanzamento di regni cristiani consentiva anche il loro consolidamento interno. Nel 1147 Alfonso conquistò addirittura Almeria nell'estremo Sud della penisola. La dinastia tribale venne però travolta soprattutto dagli avversari in Marocco, perché nel 1147 la capitale africana venne conquistata da un altro gruppo rivale, gli Almohadi. Questi, stabilite le loro basi marocchine a Rabat e Marrakech, curarono soprattutto l'espansione verso oriente e riuscirono a creare un impero con tanto di titolo califfale, fino all’Algeria e alla Tunisia. In Spagna si limitarono dapprima a raccogliere la fedeltà dei potentati islamici residui, e solo saltuariamente organizzarono spedizioni armate; le loro capacità di difesa di fronte a un assalto in forze dei regni cistiani rimasero sempre limitate. L'avanzata almohade pose un freno temporale alla riconquista, e anche Almeria cadde in mano almohade nel 1157. Non si fermò, invece, l'evoluzione interna degli Stati cristiani, che andavano sperimentando forme di governo concordato tra aristocrazie e sovrani. Fu celebre l'assemblea di Leòn nel 1188, in cui le Cortes, la riunione dei ceti privilegiati del regno agirono come soggetto riconosciuti in collaborazione con il re. Il momento decisivo arrivò nel 1212 con la battaglia di Las Navas di Tolosa presso Toledo. La preparazione della campagna fu una sintesi di tutti itemi della storia iberica del periodo: l'appoggio diretto di papa Innocenzo III, l'afflusso in Spagna di aristocratici e avventurieri di mezza Europa, l’azione congiunta dei sovrani di Castiglia-Leòn, Navarra e Aragona. La battaglia si tradusse in un trionfo per le forze cristiane: l’esercito degli Almohadi non fu più in grado di affrontare uno scontro aperto. Negli anni successivi le conquiste cristiane si ripeterono rapidamente. Le trasformazioni politiche della Spagna del XIl e XIII secolo non avevano però completamente eliminato le comunità islamiche. Sebbe in qualche caso, in occasione di assedi particolarmente difficili, tutta la popolazione di fede musulmana fosse stata ridotta in schiavitù, la situazione più comune fu quella di un cambio nel ceto dirigente e una redistribuzione della proprietà a vantaggio dei conquistatori, delle chiese e dei grandi ordini cavallereschi: i musulmani rimasero una minoranza tollerata, spesso circoscritta in spazi riconoscibili delle città o nei villaggi rurali; l’effetto generale fu quello di una contrazione del popolamento delle città, anche se tavolta i sudditi di fede islamica trovarono impiego nell’artigianato. La Spagna cristiana del XIII secolo continuava, insomma, a essere un territorio multireligioso, in cui il predominio cristiano non aveva cancellato le presenze ebraiche e musulmane. 18. LA CASA DI SVEVIA E LA PARABOLA DELL’UNIVERSALISMO IMPERIALE Federico | Barbarossa: aspirazioi iversalistiche dell’Impero germanico Il 4 marzo 1152 il giovane duca di Svevia, Federico di Hohenstaufen, veniva eletto re di Germania, risolvendo il problema della successione al trono che era sempre segnata dalle rivalità tra la casata dei duchi di Svevia (ghibellini) e la casa di Baviera (guelfi). Il giovane Federico, soprannominato in Italia Barbarossa, risultava gradito a entrambi i fronti perché, pur essendo svevo e nipote dell’imperatore Corrado III, era anche figlio di Giuditta di Baviera. Questa felice congiuntura permise a Federico di tentare di dare piena attuazione alle prospettive politiche imperiali., In Germania lo strumento fu quello della pace territoriale, di fatto un incontro dei grandi aristocratici che si impegnavano con il giuramento al rispetto dell'ordine e della pace, secondo il modello della pax Dei. La pace di Federico, redatta nel 1152 in venti articoli, rappresentava il primo nucleo del diritto dell’imperatore al di sopra delle consuetudini locali. Qualcosa di simile volle fare Federico nella discesa in Italia del 1154, primo di cinque viaggi attraverso le Alpi durante il suo lungo regno. Era indispensabile rinnovare le prerogative sulla penisola italiana, che gli avrebbero consentito di giocare un ruolo da protagonista in un'area cruciale, ora che la proiezione mediterranea dell'Europa andava intensificandosi. Prima di essere incoronato re d’Italia a Monza nel 1155, Federico aveva già indetto a Roncaglia, nei pressi di Piacenza, una dieta, ovvero un'assemblea dei suoi sudditi italiani, dalla nobiltà ai rappresentanti dei comuni. Nella dieta si affermarono gli iura regalia, volgarmente detti “regalie”, emblemi dell’identità dell’imperatore come continuatore della politica imperiale romana. Questo recupero ideologico poteva entrare in conflitto con il papato. Intanto però Federico, recandosi a Roma, assecondava la volontà del pontefice, Adriano IV, rifugiatosi a Tivoli, catturando l’eretico Arnaldo da Brescia. Subito dopo, il 18 giugno 1155, Federico ottenne l’unzione dal pontefice e conseguì il titolo imperiale in una Roma profondamente ostile alle truppe tedesche. L’incoronazione imperiale e il giuramento a essa connesso erano soggette a due letture di ven diverso valore da parte di Adriano IV e di Federico |. Il papa riteneva di aver concesso all'imperatore un beneficio di tipo feudale, mentre Federico considerava l'atto pontificale semplicemente il tramite della volontà divina, l’unica alla quale egli dovesse rispondere delle sue azioni. Non è un caso, infatti, che dal 1158 l'impero della nazione germanica inizierà a essere connotato con l’espressione Sacrum imperium, evidente manifestazione di una sacralità che non aveva bisogno della mediazione papale. Questa reciproca polemica incomprensione avrebbe ben presto prodotto uno scisma: nel 1159, morto Adriano IV, divenne papa Alessandro III, fiero sostenitore della politica ierocratica del papato, cui Federico contrappose un antipapa a lui fedele, Vittore IV, cui sarebbero succeduti altri due antipapi, Pasquale Ill e Callisto III, producendo una rottura che sarebbe durata fino al 1177. Alessandro Ill avrebbe così consolidato il ruolo di naturale guida degli oppositori italiani dell’imperatore che, con le iniziative e le decisioni prese durante la seconda Dieta di Roncaglia, avrebbe creato i presupposti definitivi per creare un fronte di comuni a lui ostile. La Dieta di Roncaglia può considerarsi un momento di svolta non solo della politica imperiale, ma anche delle vicende italiane nel loro complesso, a cominciare dai rapporti tra impero e realtà comunali. Il prodotto fondamentale della dieta sarebbe stata la cosiddetta Constitutio de regalibus, una serie dettagliata di rivendicazioni di diritti spettanti all'imperatore in quanto re d'Italia in materia fiscale, ma anche di definizione del suo ruolo di pacificatore e regolatore delle controversie fra i singoli e, soprattutto, le città, contro ogni tentativo di autonoma aggregazione dei comuni tra loro. Dietro la Constitutio de regalibus bisogna in primo luogo riconoscere il contributo decisivo dei grandi giuristi della scuola di diritto dell’Università di Bologna, nel segno di una riscoperta e di una riflessione sistematica e scientifica della tradizione del diritto romano, pienamente recuperato anche grazie all'apporto del mondo bizantino. Veniva così teorizzato il primato del “diritto comune”, frutto dell'incontro tra diritto romano e canonico sopra la molteplicità di diritti locali e consuetudini che si erano andati sviluppando nei secoli precedenti. A tale sistematizzazione dei rapporti di potere, però, faceva da contraltare l'evoluzione storico-politica dell’Italia centro settentrionale, in cui le istituzioni comunali erano ormai abituate a gestire autonomamente la propria politica e la propria fiscalità, in una dipendenza sempre più nominale dalla lontana figura imperiale. Alla luce di tali premesse lo scontro tra l’imperatore e i comuni a lui fedeli e quelli dissidenti sostenuti con interessato vigore da Alessandro III incrinò quasi immediatamente la utopistica pacificazione proclamata a Roncaglia nel segno della sacralità imperiale. l’imperatore marciò contro Milano nel 1162, facendo radere al suolo le mura. Tale drastico atteggiamento, unito a una politica fiscale piuttosto esosa, favorirono il costituirsi di leghe antimperiali. Prima, nel 1164, la Lega Veneta, poi nel 1167 il nucleo fondativo, destinato ad ampliarsi, della Lega Lombarda, con l'appoggio, decisivo ai fini della legittimazione del fronte comunale, di Alessandro Ill. 19. IL XIII SECOLO E LA RINASCITA DELLA POLITICA | poteri regi, la vita religiosa e la cultura La politica dei regni europei dai primi decenni del XIII secolo prende forme nuove rispetto al passato. Nel XII secolo la dignità del re veniva sostenuta soprattutto dalla rete delle fedeltà personali,d alle vittorie in battaglie dal prestigio. Ora questi valori restano una componente essenziale del potere regio, ma sono accompagnati da fattori più recenti: la forza del diritto scritto, che prende in vari casi la forma di legislazione sovrana, la competenza degli ufficiali formati attraverso lo studio, la capillarità delle istituzioni pubbliche, il ruolo delle città, la promozione della ricchezza mercantile. In un certo senso vediamo nascere in questo secolo la politica così come oggi la conosciamo. La Francia Il XIII secolo francese è dominato dalla figura di Luigi IX, che regnò dal 1226 al 1270. Il suo regno poté innanzitutto beneficiare degli effetti della crociata contro gli albigesi, a cui avevano contribuito direttamente suo nonno Filippo Il e suo padre Luigi VIII. La guerra aveva avuto soprattutto l’effetto di indebolire moltissimo la potente casata di Tolosa. Nel 1229 Raimondo di Tolosa aveva di fatto subìto il matrimonio della figlia e unica erede, Giovanna, con il fratello di Luigi, Alfonso di Poitiers, che poté ereditare la contea. Nel 1259 le clausole del Trattato di Parigi videro Enrico III d'Inghilterra riconoscere a Luigi la piena sovranità sulla Normandia, il Poitou e l’Angiò. Il regno di Luigi, però, fu segnato da un’altra questione, che il sovrano visse per tutta la sua esistenza come una vera e propria ossessione: quella della crociata. Intorno al tema della spedizione per liberare Gerusalemme ruotavano tanti argomenti diversi: il senso di un dovere religioso del sovrano, la necessità dell'appoggio del papato sempre più presente nelle dinamiche politiche europee, il bisogno di impegnare le aristocrazie in un'impresa nobile e nel contempo abbastanza gravosa per distoglierle da pericolose ambizioni interne, e non ultima la possibilità di attingere alle risorse delle decime che il re crociato poteva sperare di incassare. Luigi partì per due volte in crociata, entrambe con esiti disastrosi sul piano militare. Il ritorno in patria dopo un'esperienza tanto drammatica fu vissuto da Luigi come una vera e propria prova di penitenza. Convinto che l'esito della crociata fosse l’effetto dei peccati suoi e del suo popolo si impegnò in un’opera di moralizzazione dei costumi, introducendo norme severe sull’eresia, sull'usura, sulla bestemmia, sulla prostituzione e su tutti i comportamenti ritenuti indegni della virtù cristiana. Risale proprio a Luigi IX il primo embrione di quello che sarà nel secolo successivo il Parlamento di Parigi, una sorta di tribunale centrale di appello per tutte le cause contro gli ufficiali del regno. A conclusione di questo lungo periodo, Luigi poté finalmente organizzare una seconda crociata. Ammalatosi all'arrivo sulle coste tunisine, il re morì nel maggio 1270. Il primo successore di Luigi, Filippo III, regnò solo fino al 1285. Suo nipote, Filippo IV detto il Bello (1285-1314), rappresentò il culmine della storia dei Capetingi. Al tempo di Filippo fiorirono uomini di studio e di governo, come Guglielmo di Nogaret, professore di diritto all'Università di Montpellier, e Philippe de Beaumanoir: sue sono le Consuetudini del Beauvaisis, una raccolta di norme consuetudinarie commentate che prendevano spunto dalle consuetudini di una regione a nord di Parigi per offrire una specie di manuale per l'ufficiale regio, tara tutela del diritto e fedeltà al sovrano. Filippo, al pari dei suoi contemporanei inglesi, fu afflitto dalla necessità di denaro. Fu anzi tra i sovrani più attivi nell’escogitare sistemi per raccogliere risorse per le sue campagne militari senza perdere il consenso dell’aristocrazia. Famose furono le sue speculazioni finanziarie e svalutazioni della moneta, così come i contributi straordinari imposti alle comunità ebraiche, che nel 1306 conobbero l'espulsione di massa dal regno e la confisca di tutti i beni. Pesanti ma non altrettanto crudeli furono i provvedimenti per i mercanti stranieri; proprio a quegli stessi mercati Filippo ricorreva per ingenti prestiti per tamponare le esigenze più impellenti; spesso le medesime figure di uomini d'affari italiano entrarono nel cuore della vita della corte. l’altra fonte di finanziamento, grande bacino di ricchezza, era la Chiesa. Quando Filippo iniziò a introdurre provvedimenti contro le immunità giurisdizionali e finanziarie del clero, il papa Bonifacio VIII reagì con grande durezza, minacciando scomuniche. Il re, tuttavia, si era assicurato l'appoggio dei ceti privilegiati e della stessa Chiesa, grazie alla convocazione dei cosiddetti Stati generali nell'aprile 1302. Forte di questo sostegno generale, poté inviare in Italia una commissione per mettere sotto accusa il papa stesso. Il momento più drammatico si svolse presso il palazzo del pontefice ad Anagni, dove il papa fu arrestato dalla commissione regia. La sommossa esplosa in città portò alla liberazione del papa, che comunque mo l'anno dopo, lasciando Filippo vincitore del conflitto. Negli ambienti della corte regia l’esperienza del diritto romano, l’aristotelismo filosofico e anche una lunga tradizione di venerazione religiosa per il re alimentava una dottrina che si sarebbe detta regalista, secondo cui il sovrano è per natura e volontà divina responsabile del bene del regno, e la stessa gerarchia della Chiesa dentro il regno soggetta alla sua protezione. Come amavano ripetere i giuristi regi, “il re è un imperatore nel suo regno”, ovvero dispone all’interno dei suoi confini di tutta la maestà della dignità imperiale romana. Molto più volgarmente finanziari erano stati i motivi dell'altra impresa memorabile di Filippo, la soppressione dell'ordine dei templari nel 1307. L'ordine, cha aveva da tempo la responsabilità del tesoro del regno, venne annientato grazie a un'efficace macchinazione giuridica, che adoperò accuse infamanti di sodomia ed eresia con l’impiego sistematico della tortura. L'ultimo maestro generale morì sul rogo nel 1314, mentre le risorse dell'ordine passavano in parte nelle casse regie e in parte nelle proprietà dell'ordine degli ospitalieri. L'Inghilterra Anche il regno d'Inghilterra conobbe come la Francia un sovrano particolarmente longevo, Enrico III, che successe al padre nel 1216 e regnò fino alla morte nel 1272. Enrico si trovò innanzitutto l'ingombrante eredità della Magna Charta che aveva definito un nuovo assetto dei rapporti tra il re e i baroni. La Charta, con un aggiornamento nel 1215, assumeva così la forma definitiva di testo base della Costituzione del regno Enrico tende una politica prudente nei confronti dell'aristocrazia, evitando di richiedere contributi fiscali particolarmente impegnativi. Questo atteggiamento conservativo si ritrova nel Bracton, un trattato sul governo del re, ispirato alla necessità della giustizia della legge per governare la comunità e agli obblighi del re di fronte al bene del regno. Nella sua maturità Enrico si trovò ad affrontare una fase di grandissimo pericolo. Gli ambigui accordi con il papa per una possibile spedizione in Italia contro Manfredi portarono il re ad aumentare la pressione finanziaria sul clero e sui baroni del regno, e questo, Unito alla scarsa abilità del sovrano nel manovrare le ambizioni della grande aristocrazia a corte, innescò una reazione molto dura. Nel 1258 si riunì il Parlamento, una grande convocazione di baroni per discutere dei sussidi finanziari al re. In quella occasione l'assemblea si trasformò in una sede per mettere sotto accusa la politica regale. Dal Parlamento uscirono le cosiddette Provvisioni di Oxford, che imponevano la creazione di un consiglio di quindici membri (in gran parte baroni) incaricato di gestire la convocazione tre volte l'anno dell'assemblea parlamentare. In questo modo il Parlamento si trasformava da momento di incontro tra il re e l'aristocrazia in un'istituzione stabile; il re era sostanzialmente privato del potere di decisione per sua volontà sul governo del regno. Le tensioni divennero di lì a poco conflitto aperto, con la cosiddetta Seconda guerra dei baroni dal 1263 al 1265, che si concluse quando Montfort cadde in battaglia ed Enrico poté riprendere l'effettivo controllo del regno. Il suo successore, Edoardo |, si dedicò soprattutto all'espansione territoriale, giungendo alla conquista definitiva della Scozia e del Galles. Durante il suo regno l'istituzione parlamentare trovò un assetto stabile come istituzione ordinaria del regno. Nel corso del secolo alle assemblee dei baroni cominciarono a partecipare anche i rappresentanti delle contee, quindi con l’estensione a figure non nobili, che nei secoli successivi sarebbero state formalizzate come Camera dei Comuni. Nel 1295 il recitò per la prima volta una massima derivata dal diritto romano, per cui “ciò che tocca tutti da tutti deve essere approvato”. La negoziazione diventava insomma la forma normale di governo del regno. Questa attenzione al meccanismo del consenso aveva un motivo molto concreto, cioè la necessità dell’assenso dei ceti privilegiati del regno per nuove imposizioni fiscali. Per far fronte a questo limite Edoardo | usò vari mezzi: uno, sperimentato pure dal suo contemporaneo Filippo IV, fu lo sfruttamento delle comunità ebraiche, che dovettero pagare a caro prezzo la protezione regia in un contesto sociale sempre più ostile alla diversità religiosa. Ma Edoardo fu soprattutto il primo sovrano a ricorrere in maniera sistematica al prestito da parte dei grandi mercanti italiani. Si venne così a creare un circuito tra interessi sovrani e profitti dei mercanti italiani che sarebbe stato decisivo in seguito, nel bene e nel male. La penisola iberica La storia della cosiddetta Reconquista aveva già visto nel 1212 il momento cruciale. | cinquant'anni che seguirono furono una successione di conquiste dei re di Castiglia e d'Aragona, riducendo il dominio islamico al territorio di Granada e Malaga, governato dalla dinastia dei Nasridi, di fatto sotto protettorato castigliano. | cambiamenti in corso nella politica dei regni iberici non riguardarono così tanto la dimensione territoriale, quanto piuttosto la struttura e i modi di governo. La figura centrale di questo periodo in Castiglia è Alfonso X detto il Saggio, che governò il regno dal 1252 al 1284. La sua figura è legata soprattutto alla composizione di un grande codice di diritto noto come Libro de Jas siete partidas, composto intorno al 1260, nel quale tutte le parti del diritto civile e canonico secondo l'insegnamento universitario venivano compendiate e diffuse nella lingua volgare, espressione dell'identità linguistica del regno. Un'impresa legislativa colossale, che si rivelò inapplicabile perché troppo lontana dalle consuetudini del regno stesso e, infatti, non entrò mai in vigore: più fortunato fu invece il Fuero real, anch'esso realizzato per ordine di Alfonso X, che più modestamente riordinava in un unico codice tutte le antiche consuetudini del regno confermate anche dai sovrani precedenti. Questa decisa politica di legislazione regia incontrò comunque fortissime resistenze nell’aristocrazia. Come era accaduto in Inghilterra, pure qui la resistenza si coagulò nella convocazione del Parlamento, la Cortes di Valladolid del 1282, nelle quali i nobili appoggiarono il principe ribelle Sancio come candidato la regno. Gli ultimi anni di Alfonso furono così guastati dalla ribellione del figlio, che alla sua morte gli successe con il nome di Sancio IV (1284-95). Il vortice italiano La storia dei regni europei conosce dopo il 1250 un fenomeno di fortissima attrazione verso le sorti dell’Italia, che finisce per condizionare profondamente anche le circostanze interne di quegli stessi regni e la loro successiva evoluzione. L'evento centrale in questo senso è la fine della dinastia sveva, con la morte di Federico Il nel 1250 e quella di suo figlio Corrado nel 1254. Questa data apriva un doppio vuoto di potere, in Germania e nel Regno di Sicilia, dove il figlio naturale di Federico II, Manfredi, non era stato riconosciuto dal papa. | pontefici furono in effetti i protagonisti di questo vortice politico italiano, perché per entrambe le corone vollero cercare in Europa candidati graditi: in Sicilia in virtù del rapporto vassallatico instaurato al tempo di Roberto il Guiscardo nel 1059, in Germania per il diritto papale di incoronare l'imperatore. Il papa Alessandro IV cercò innanzitutto candidati per una campagna militare in Sicilia, che scacciasse Manfredi per instaurare un regno amico. Il primo individuato nel 1255 fu Edmondo, il figlio del re inglese Enrico III. Il re volle accettare la proposta ma si dovette scontrare con le enormi spese che l'impresa comportava. Il costo gravò soprattutto sulla Chiesa inglese, e comportò, inoltre, la richiesta di contributi straordinari al Parlamento. l'esplosione della crisi che avrebbe portato alle Provvisioni di Oxford del 1258 era in buona parte proprio l’effetto di quest pericoloso sogno mediterraneo del re inglese. Di fronte a simili difficoltà, il papa si risolse a trovare un secondo candidato, nella persona di Carlo d'Angiò, il fratello del re Luigi IX già titolare della contea di Provenza. In questo caso il principe francese fu in grado di riunire un esercito, che dopo alcuni anni giunse a conquistare l’intera Italia meridionale nel 1266. Dagli anni Sessanta in poi la dinastia angioina rappresentò il principale alleato della politica papale non solo in Italia. Nel frattempo il papa era altrettanto impegnato sul fronte imperiale. Per scongiurare la scelta di un candidato poco gradito, il pontefice appoggiò la decisione di alcuni principi tedeschi di eleggere re dei Romani Riccardo di Cornovaglia, il fratello del re inglese, nel 1256. Nel caso della Germania i progetti papali e il coinvolgimento di principi stranieri non ebbero un esito duraturo. Dopo la morte nel 1272 di Riccardo di Cornovaglia, i principi tedeschi accordarono il loro favore a Rodolfo d'Asburgo, che divenne re dei Romani nel 1273. La Germania e i regni orientali All’ascesa al trono di Rodolfo d'Asburgo il panorama dei regni tedeschi era molto diverso da quello delle altre monarchie europee. Il regno di Germania non aveva mai conosciuto un vero principio dinastico, e la fine della successione degli Svevi esaltò l’indipendenza dei grandi principi secolari ed ecclesiastici, che potevano negoziare la scelta di un candidato gradito usando pure l'intervento papale come abbiamo visto. | suoi poteri restavano molto limitati, e agiva più come un coordinatore che come un sovrano. Oltretutto all’intraprendenza dei principi si univa quella delle grandi città. Segnale eloquente di questo carattere mai compiuto dell'impero come regno era l'assenza di un diritto condiviso in tutto il territorio tedesco. La Germania conobbe la redazione di vari codici di consuetudini scritte, ma sempre per singoli principati e non per il regno intero (Specchio dei Sassoni nel 1255 e Specchio degli Svevi nel 1270). l’altro grande evento per l'impero è l'evoluzione verso oriente. Nel 1198 il duca di Boemia era stato riconosciuto come re, ammesso a sedere nella Dieta imperiale con gli altri principi tedeschi. Non faceva parte dell'impero, invece, ma era poteri universali in lotta, l'impero e il papato. Nessuno dei due era in grado di esercitare un dominio politico efficace sui “propri” territori italiani. Di fatto per stendere le mani sulla vita politica delle città italiane sia il papa che l'imperatore avevano bisogno di appoggiarsi su figure fidate in loco. La logica della fazione finiva così per essere anche il senso profondo dell’azione politica del papa e dell’imperatore, e della lotta di fazione si assumeva uno dei criteri, vale a dire la valorizzazione dell’uomo forte. Di figure di questo tipo ne emersero molte nel campo imperiale, tutti personaggi che grazie all'appoggio imperiale e a solide reti di alleanze locali seppero affermarsi come domini, cioè signori riconosciuti nelle rispettive città, con poteri che mettevano nelle loro mani il funzionamento delle istituzioni del comune. In campo guelfo in molti casi ad assumere il titolo di dominus fu non un esponente locale, ma il re di Sicilia in persona, quel Carlo | d'Angiò che da conte di Provenza era diventato all'ombra dei progetti papali il più importante sovrano italiano. Fin dal 1260 Carlo collezionò una serie di titoli di signoria in molte città. Per tenere insieme questa fittissima tessitura di città “dominate” Carlo si serviva ovviamente di vicari. In questo modo le istituzioni comunali locali, politicamente colorate dal guelfismo papale-angioino, erano sottoposte a una tutela politica esterna. Il sistema politico basato sulle signorie angioine non ebbe lunga durata, perché la Guerra del Vespro obbligò Carlo a rivolgere tutte le sue cure al regno; ma con uno dei suoi successori, il nipote Roberto, riprese in grande stile all'inizio del Trecento questa politica verso le città, andando così a connotare un'intera stagione di storia dell’Italia cittadina. Il pieno Duecento si caratterizza per la comparsa di esperienze di dominio signorile, anche al di fuori di una diretta dipendenza dall'imperatore o dalla coalizione angioina. La provenienza e la traiettoria politica di questi precoci signori era molto varia. La famiglia degli Este a Ferrara, o su Milano la famiglia Visconti, che assunse il potere sul comune nel 1277 grazie all’intraprendenza di un suo membro allora arcivescovo della sede ambrosiana, Ottone; fu una signoria connotata dalla fede ghibellina, contrapposta all'orientamento guelfo della famiglia rivale dei Della Torre. In un’altra grande città signorile, Verona, la lotta per il potere vide l'emergere di una famiglia di origine non particolarmente illustre, i della Scala, partendo dal predominio sulla Domus mercatorum, l’istituzione che riuniva i ceti mercantili di una città assai vivace in questo senso. Questa sovrapposizione fra “uomini forti” e istituzioni popolari o mercantili è abbastanza comune: a Parma si era già manifestata a metà secolo, con la figura di Giberto da Gente. Questa origine molto varia dei signori cittadini portava anche con sé stili di governo assai diversi: se in qualche caso la concessione del titolo di dominus venne formalizzata dagli statuti, altrove il “signore” aveva semplicemente i poteri di un podestà o di un capitano del popolo a vita, e comunque non cancellava il funzionamento ordinario delle vecchie istituzioni comunali. In altre parole, l'ascesa di un leader carismatico o di una dinastia egemone fungeva da terza componente di quella complicata geometria della lotta politica. La civiltà comunale italiana conosceva nel XIII secolo una fase di profonda maturazione, specie riguardo agli strumenti di governo. Crescevano le capacità organizzative e amministrative dei poteri pubblici: la diffusione di palazzi testimonia questa maturità del comune come luogo della vita politica per eccellenza; allo stesso tempo le imprese pubbliche per l'ampliamento delle mura, il miglioramento delle condizioni igieniche e stradali, gli stessi cantieri delle grandi cattedrali erano emblemi dell’intervento del comune nella vita cittadina. Sul piano della pratica di governo sono rimaste celebri alcune misure. A Bologna nel 1256 o più tardi altrove vennero deliberati provvedimenti di liberazione dei servi delle campagne, riscattati dai loro signori rurali e trasformati in liberi sudditi della città: una decisione che univa l’intento ideale di eliminazione dei vincoli di servitù con quello pratico di consolidamento dei rapporti con le campagne, tanto più indispensabili per i bisogni alimentari di centri urbani che erano anche grandi centri di consumo. Importanti anche gli ordinamenti antimagnatizi, elaborati nella seconda metà del secolo per marginalizzare la vecchia aristocrazia cittadina con limitazioni all'accesso alle cariche o penalizzazioni giudiziarie. In particolare nell’ambito dei tribunali cittadini il Duecento, e soprattutto il contesto dei regimi di popolo, fu l’ambiente ideale per la diffusione del cosiddetto processo inquisitorio, una forma di procedura penale che valorizzava l'intervento della pubblica accusa, condotta direttamente dai giudici comunali: in questo modo la conformità ai valori e agli stili di vita ritenuti “adeguati” alla vita cittadina diventava altresì un criterio per valutare la credibilità e la rispettabilità dei singoli in tribunale. Sul piano più strettamente politico le pratiche di governo delle città popolari accentuarono la componente partecipativa, anche per effetto di una proliferazione di consigli. Le città nell'Italia della monarchia L'italia meridionale conobbe una storia della civiltà urbana molto differente. A lungo le città sono state un soggetto trascurato o ritenuto secondario nella vicenda storica del Mezzogiorno, centrata sul ruolo della monarchia. Tuttavia i centri urbani furono luoghi di elaborazione di forme di autogoverno e coscienza collettiva, per quanto diverse dal peculiare caso comunale. Fu Federico Il a sancire una divaricazione definitiva dall'esperienza del Nord Italia. Nel Liber augustalis il sovrano vietò esplicitamente alle città del regno anche soltanto di usare termini quali “console” o “podestà”, che potessero richiamare le forme di autogoverno dell’Italia comunale. Il provvedimento di Federico era drastico e interrompeva uno sviluppo già presente in qualche caso, specie nelle città campane come Napoli o Gaeta, verso l'assimilazione di modelli settentrionali. | centri urbani venivano quantomeno riconosciuti come universitates, un termine che nel linguaggio giuridico del tempo indica la collettività organizzata, capace di esprimere rappresentanti per agire di fronte al sovrano. Nel quadro del regno svevo e soprattutto di quello angioino tra Due e Trecento le università mantennero una loro visibilità politica, perché il sovrano era comunque nella necessità di chiedere il sostegno dei dinamici ceti cittadini. Molti centri urbani avevano per privilegio o consuetudine la possibilità di sottoporre al sovrano nomi di candidati “graditi” alle funzioni di baiulo e a volte anche di capitano. Tra centro e periferia si instaurare va così un circuito di interessi e favori che risultava vantaggioso per le città stesse. A Napoli il governo angioino consolidò una specie di consiglio ristretto di sei giurati, incaricati delle cause di interesse municipale. L'accesso a questa carica era filtrato attraverso il sistema dei sedili, cioè aggregazioni di famiglie prevalentemente nobili, che controllavano i diversi quartieri della città. L'Aquila vide l'affermazione di un regime abbastanza simile ai governi di popolo, con una magistratura di membri delle corporazioni, i Cinque. Sotto la dominazione Aragonese le città siciliane poterono conoscere una vitalità politica anche Maggiore. Il re d'Aragona era giunto sull'isola grazie all'appoggio dei ceti dirigenti di alcuni grandi centri urbani, e quindi era legato al sostegno di quegli ambienti così cruciali. Allo stesso tempo l'inserimento nella corona d'Aragona portava in Sicilia una serie di usi istituzionali tipicamente iberici: l'importanza del parlamento come sede di rappresentanza aperta alle città, nonché il modello di organizzazione del municipio catalano. Il modello giurati-consiglio ripeteva in sostanza l'uso comune per le città catalane e consentiva ai ceti più attivi della cittadinanza una presenza consistente nella vita pubblica luoghi di discussione possibilità di nomine e incarichi. Una situazione peculiare fu quella delle città sarde nel corso del XIV secolo punto si trattava in questo caso di centri urbani più ridotti di dimensioni, ma di ruolo strategico nei traffici marittimi dalla penisola iberica verso il Mediterraneo centrale. Cagliari e Alghero, in particolare, ebbero una struttura perfettamente esemplata sul modello del municipio catalano, con un consiglio ristretto di cinque giurati e un'assemblea di cinquanta consiglieri. La Sardegna fu anche la sede di una diversa forma di identità politica municipale: nell'estremo Nord dell'isola il comune di Sassari si strutturò prima sotto il dominio di Pisa, poi dal 1294 sotto tutela genovese come una sorta di comune settentrionale trapiantato in Sardegna. Le trasformazioni tra Italia e impero Il mondo cittadino dell'inizio del quattordicesimo secolo fu profondamente investito dalle vicende della grande politica dei sovrani germanici e angioini. l'Italia tornò a essere il teatro di un'intensa lotta per l'egemonia politica tra i papi il cui braccio militare erano i conti di Provenza e re di Napoli angioini, e le diverse figure di re dei Romani, intenzionati a rinnovare la dignità imperiale anche sulla penisola. Il primo ad avviare un'impresa del genere fu Enrico VII di Lussemburgo, sceso in Italia nel 1308 per ricevere l'incoronazione imperiale. Enrico non riuscì a ripristinare un amministrazione ordinaria dei diritti dell'impero, e si scontrò soprattutto con il sovrano del regno angioino di Sicilia Roberto D'Angiò, contro il quale emanò un famoso provvedimento di condanna e deposizione in nome della suprema autorità dell'imperatore. L'inefficacia della sanzione era l'emblema del fallimento dell'impresa di Enrico. Qualche anno più tardi il re Ludovico IV raggiunse a sua volta la penisola nel 1327. Pure in questo caso la discesa dell'aspirante imperatore sul sito l'ostilità del papa e dei suoi alleati angioini. Ludovico si fece comunque incoronare a Roma da sciarra colonna, il leader della fazione ostile al pontefice avignonese Giovanni XXII. Roma, prima del Papa, manteneva la sua forza simbolica, e per certi versi recuperabili in maniera più chiara la sua funzione di emblema della maestà degli imperatori antichi, ormai liberata dall'ipoteca papale. Ludovico si circondò di figure intellettuali di primo piano, primo fra tutti Marsilio da Padova. Nelle dottrine di Marsilio il sovrano terreno, beneficiario dell'obbedienza dei sudditi costituiti in corpo civile, è altresì custode del bene comune, e ha quindi attribuzioni anche nella sfera della vita religiosa, ad esempio nella scelta dei chierici o nella giurisdizione sul vincolo matrimoniale. Oltre a elaborare un ambizioso programma ideologico, Ludovico seppe coordinare una varietà di soggetti politici italiani, che si fecero portatori delle istanze Imperiali nelle rispettive aree. In tutta risposta Giovanni XXII impostò una politica altrettanto aggressiva, centrata sull'appoggio delle città guelfe sotto tutela angioina e sull'operato dei legati pontifici nei territori dell'Italia padana. Il momento di maggior tensione fu il 1328, quando Ludovico tentò il colpo definitivo con l'elezione di un papà “alternativo” nella persona del francescano Pietro di Corvara, che prese il nome di Niccolò V. Ma la rete di alleanze pontificie si rivelò in definitiva più efficace, e Ludovico, come nella tradizione degli imperatori germanici, si vide costretto a tornare nei suoi territori a nord delle Alpi, mentre l'antipapa veniva deposto e supplicava il perdono di Giovanni XXII nel 1330. Questa intensissima stagione di lotte di potere in Italia portò stravolgimento nel panorama politico specie nell'ottica dei comuni cittadini. Le città si trovavano a gestire relazioni diplomatiche ad alto livello, e giunsero quindi ad affinare i propri strumenti politici: a questo periodo datano le testimonianze più chiare di vere e proprie cancellerie cittadine. Questa crescita nei mezzi della cultura cittadina si tradusse anche in una divaricazione sempre più profonda tra i comuni di tradizione popolare e quelli precocemente evoluti in forma di governo signorile. Nei primi i riferimenti a un sistema di valore repubblicano si fecero insistiti, e divennero le parole chiave di un linguaggio della libertà e della partecipazione. Allo stesso tempo le città con dinastie signorili più consolidate cominciavano a costruire non soltanto istituzioni di governo, ma pure modi di rappresentazione simbolica principeschi. Venezia nella predominanza commerciale della città e di veniva il sostegno marittimo per eccellenza del rinato impero. La rinnovata alleanza del 1268 era fondamentalmente in funzione antiangioina, in quanto in quegli anni Carlo | d'Angiò, divenuto re di Sicilia nel 1266 con la battaglia di Benevento, aveva intrapreso una pericolosa politica imperialistica proiettata verso l'Oriente mediterraneo e finalizzata alla ricostituzione dell'Impero latino d'Oriente. Genova ottenne la concessione di altri porti strategici. Veniva così a crearsi un sistema di equilibrio tra Genova e Venezia, che manteneva quanto aveva ottenuto con la quarta crociata, e in particolare Creta. Non mancarono nemmeno in questa fase scontri violenti ma in definitiva questo equilibrio sarebbe durato fino alla fine del Medioevo, quando la conquista turca di Costantinopoli nel 1453 avrebbe cancellato la presenza genovese, mentre Venezia avrebbe saputo resistere, pur dovendo continuamente perdere posizioni, per buona parte dell'età moderna. Lo snodo mediterraneo del Vespro: fallimento franco-angioino e ascesa catalano-aragonese Dopo la morte di Federico Il era finito per sempre il sogno di un impero germanico che fossi in grado di recuperare la dimensione mediterranea “romana”. Ciò non interruppe però l'interesse delle monarchie e delle aristocrazie europee verso la frontiera meridionale del mondo cristiano. Le crociate di Luigi IX il Santo, per quanto disastrose, fornirono la prova indiretta di un sempre maggior coinvolgimento del regno capetingio nel Mediterraneo. L'elemento propulsore per eccellenza di questa politica mediterranea dei Capetingi fu il fratello minore di Luigi IX, Carlo d'Angiò. Nel 1265 fu Carlo a essere scelto come campione della causa papale per la conquista del regno Svevo di Sicilia, di cui prese possesso dopo aver sconfitto è ucciso Manfredi. Giunto in Italia in nome di un'impresa tutta papale contro gli eredi dell'anticristo Svevo, Carlo giocò con spregiudicatezza alla sua immagine di campione della causa guelfa. Nel complesso il re francese ebbe in realtà l'abilità e l'intelligenza politica di governare il suo nuovo regno nel solco dell'amministrazione di Federico Il. Di questi adottò in pieno la legislazione. Dal Regno di Sicilia Carlo | ereditava poi una componente di politica estera di lunga durata: la proiezione verso il Mediterraneo orientale. Tale componente si innestava, come si è visto, nel solco del più complesso movimento crociato e di quello che abbiamo definito interesse capetingio nei confronti del Mediterraneo. Nel 1266, dopo aver vinto a Benevento, Carlo si impadronì pure delle terre e dei titoli greci che lo sconfitto Manfredi aveva ottenuto sposando Elena d'Epiro. Nel febbraio 1267 l’angioino concludeva un trattato di alleanza con Guglielmo de Villehardouin. Il re di Sicilia si impegnava ad assoldare e mantenere per un anno duemila cavalieri per riconquistare le terre perdute dell'impero latino d'Oriente, e in particolare Bisanzio, facendosi perciò riconoscere oltre ai beni già sottratti a Elena d'Epiro, la sovranità sull’Acaia, su parecchie isole dell'arcipelago Egeo e su un terzo a sua scelta delle terre riconquistate. Non potendo immediatamente attaccare Costantinopoli, nuovamente fortificata come capitale dell'impero, Carlo intraprese un'intensa opera diplomatica e con un'accorta e fortunata politica matrimoniale iniziò a gettare le basi per la nascita di una dinastia angioina nel regno di Ungheria, che costituiva un indispensabile testa di ponte per il successo nella frammentata area politica dell'Europa sud-orientale ed egea. Nel 1272 la morte del despota d'Epiro permetteva a Carlo | di diventare effettivo padrone dell'Albania, della quale assunse la corona. Sebbene l'autorità angioina sul regno fosse precaria, Carlo era ormai anche un monarca balcanico, con il quale i potentati dell'area erano costretti a rapportarsi direttamente. Nel 1277 l'ambizioso re di Sicilia ed Albania rese ancora più solide le sue mire orientali garantendosi la corona del regno di Gerusalemme, che rimarrà il maggior titolo dei sovrani angioini. Non appena assunto il titolo, l'angioino inviò in Siria, con una squadra di sette galere, Ruggero di Sanseverino per governare un regno di Gerusalemme ridotto ormai a un'esigua estensione territoriale. Ma i fatti ben presto ne avrebbero frustrato le velleità imperialistiche, non solo perché l'ultimo caposaldo cristiano nell'area, San Giovanni d'Acri, sarebbe caduto nel 1291, ma anche perché Carlo dovete fronteggiare pericoli interni molto più gravi. Il 30 marzo 1282 a Palermo si scatenò una rivolta contro il sovrano che contagiò immediatamente tutta la parte occidentale dell'isola. Decisivo, sul finire di aprile, fu il sostegno di Messina ai rivoltosi, città che, a differenza di Palermo, avevo ottenuto molto dal nuovo sovrano, trovandosi in posizione strategica per i commerci tra Mediterraneo Occidentale e Orientale. L'adesione messinese era eminentemente legata al desiderio di parte del ceto dirigente cittadino di sbarazzarsi della famiglia egemone dei De Riso. | funzionari e le guarnizioni angioine superstiti al massacro abbandonarono l'isola, mentre agli insorti si unirono in una federazione di città modellata sui regimi comunali dell'Italia centro-settentrionale, la Communitas Siciliae, invocando la protezione del pontefice. Urbano IV, però, francese e saldamente legato alla dinastia angioina, rifiutò le richieste e si schierò con inconciliabile durezza a sostegno di Carlo |. Pietro Ill d'Aragona, capo dei fuoriusciti Ghibellini e filo Svevi del Regno di Sicilia, era impegnato in una crociata in Tunisia, senza l'esplicita autorizzazione papale. La circostanza, molto probabilmente tutt'altro che fortuita, indusse i rivoltosi a offrirgli la corona di Sicilia. La presenza del sovrano Aragonese in Tunisia, a due passi dalla Sicilia, è un elemento che rafforza la tesi che dietro la rivolta siciliana debba intravedersi il convergere occulto e non necessariamente preordinato degli sforzi dei molti nemici di Carlo, da Pietro Ill d'Aragona a una certa parte della curia romana all'imperatore bizantino. In seguito all'adesione messinese al Vespro, infatti, l'imponente flotta preparata da Carlo per l'imminente spedizione tesa a conquistare Bisanzio, alla fonda nel porto di Messina, venne distrutta, vanificando la possibilità di ricostituire un impero latino d'Oriente con capitale Costantinopoli, cioè quel trionfo Mediterraneo di Carlo d'Angiò che, se si fosse concretizzato, avrebbe trasformato il mare in un lago franco-angioino. Pietro III veniva così Incoronato re di Sicilia a Palermo e la Sicilia iniziava di fatto a entrare nell'orbita della monarchia aragonese, mentre nell'isola si trasferiva un numero significativo di famiglie della nobiltà iberica. Pietro III fu subito scomunicato da Urbano IV, e dovette impegnarsi contro la potenza angioina, vigorosamente sostenuta dalla regno di Francia, mentre lo scenario di guerra si allargava anche al confine franco-aragonese. Nel 1285 ascese al trono aragonese il primogenito di Pietro III, Alfonso III, alla cui morte, nel 1291 diventò re d'Aragona il secondogenito Giacomo Il. Questi, contravvenendo ai patti, non lasciò la corona siciliana e nominò suo luogotenente in Sicilia il fratello minore Federico. Il pontefice e gli Angioini si opposero con particolare vigore a questa scelta e Giacomo, ritenendo troppo oneroso lo sforzo per mantenere il controllo diretto dell'isola, accettò nel 1295 la pace di Anagni: la Sicilia sarebbe tornata agli Angioini, mentre Giacomo veniva investito dal pontefice del Regno di Sardegna e Corsica. Si trattava di una soluzione molto equilibrata che, nel mantenimento dell'egemonia Angioina su tutto il Regno di Sicilia, riconosceva l'accresciuto peso politico della corona Aragonese. Scontentava, però, il ceto dirigente isolano, che infatti si oppose a tale soluzione, offrendo la corona a Federico, il quale dal 1296 si proclamò re di Sicilia, scatenando un conflitto che vedrà il fratello Giacomo e il re Angioino Carlo II alleati contro di lui. Federico, peraltro, si faceva portatore del retaggio di bellino che ereditava dalla madre costanza di Svevia. Soddisfaceva, in tal modo, le esigenze di molti ghibellini, non solo siciliani, ma anche italiani, che videro in lui il prosecutore della lotta contro il sistema papale guelfo che, benché tra dissidi, controllava gran parte della penisola. Per questo motivo varie famiglie dell'aristocrazia ghibellina dell'Italia centro-settentrionale emigrarono in Sicilia, dove svolsero un ruolo fondamentale per tutto il Trecento. Il mancato rispetto della Pace di Anagni da parte di Federico IIl impose l'inedita Alleanza tra Giacomo | e Carlo Il contro il ribelle neo re di Sicilia. Nel 1302 le potenze belligeranti scelsero di stipulare un accordo detto Pace di Caltabellotta. Alla fine Bonifacio VIII fu costretto a ratificare il trattato, che le metteva in gioco tutti gli assetti da lui accortamente creati con la pace di Anagni, imponendo, però, quello che quello isolano si chiamasse regno di Trinacria. Nei fatti, intanto, con la rivolta del Vespro e le sue conseguenze, inibito il piano egemonico di Carlo | d'Angiò, una nuova potenza, quella catalano-aragonese, si stava affacciando prepotentemente sul Mediterraneo, ponendo le basi di un dominio che, come vedremo, si sarebbe concretizzato tra Trecento e Quattrocento sul Mediterraneo Occidentale. 22. | MONGOLI, | MAMELUCCHI E IL MEDITERRANEO ISLAMICO L’Impero mongolo Tra la fine del XII e il XIII secolo una nuova confederazione di tribù, nota come Mongoli, acquistò l'egemonia sulle genti dell'Asia centrale, grazie all’eccezionale carisma e alle doti militari di un giovane leader destinato alla fama con il nome di Gengis Khan. Forte di un esercito non particolarmente numeroso ma molto mobile, che usava cavalli rapidissimi e l’efficace arma dell’arco con le frecce, Gengis Khan riuscì a portare i suoi uomini a un'incredibile espansione in tutte le direzioni: verso est giunse a sottomettere tutta la Cina settentrionale e la Manciuria, inclusa la città che sarebbe stata nota come la capitale del Nord, Pechino. Verso occidente i Mongoli attraversarono tutta la regione delle steppe e tra il 1219 e il 1223 arrivarono ad assoggettare le due grandi città carovaniere islamizzate di Samarcanda e Buchara. | Mongoli, pur essendo venuti a contatto con varie religioni, da quelle monoteistiche a quelle orientali del buddhismo e del taoismo, professavano una fede fatta di culti pagani, incentrati sulla figura del Dio del cielo Tenggeri; il culto passava attraverso le figure degli sciamani. Alla morte di Gengis Khan il potere passò al figlio Ogodei, che fu il primo imperatore mongolo il quale l'Occidente venne direttamente a contatto. Partendo dalla regione del Volga, già investita dall’espansione del padre, il khan si spinse verso le pianure ucraine, e travolse il principato di Rus': la stessa città di Kiev venne del tutto data alle fiamme e abbandonata dalla popolazione. Il singolare principato slavo-variago, passato al cristianesimo orientale con la conversione del 988, scompariva così sotto la dominazione dei conquistatori pagani. Rotto l’argine del principato di Kiev, le truppe dei Mongoli continuarono la loro avanza in Polonia e in Ungheria, dove a lungo non trovarono una difesa efficace. Sembrò anzi che ai sovrani cristiani non restasse altra via che la fuga verso Occidente. Una parziale eccezione fu la battaglia di Liegnitz nel 1241. Sarebbe stato però solo un argine provvisorio, se l'anno stesso non fosse morto Ogodei, ponendo così la necessità per i Mongoli di tornare a Oriente per un nuovo Quriltai. In questo caso la questione della successione si rivelò problematica, e si aprì un interregno durato alcuni anni. Al cuore del suo immenso territorio stava Karakoum, nell’attuale Mongolia: una città-accampamento, che fungeva da base temporanea per i rari momenti in cui il khan non era impegnato in spedizioni di conquista, ma che era soprattutto il centro dell'amministrazione e il luogo di raccolta di mercanti e artigiani, le cui attività erano particolarmente promosse dal governo mongolo. Dopo il breve regno del khan Guyuk, nel 1251 il Quriltai riconobbe come gran khan Mongke. Sotto il suo regno avvennero le due conquiste decisive per tutta la storia mongola. Il fratello minore Kubilai portò le sue truppe verso la Cina centrale e meridionale, riuscendo a inglobare l'Impero cinese della dinastia Song: nacque un “Impero cinese mongolo”. Allo stesso tempo un secondo fratello, Hulagu Khan, spinse l’esercito verso la Mesopotamia, e giunse a conquistare Baghdad nel 1258: la città, scrigno di inestimabili tesori, subì uno spaventoso saccheggio, e lo stesso califfo venne giustiziato. Finiva così l'istituzione stessa del califfato, che per più di sei secoli aveva rappresentato l’asse portante dell'identità dell'Islam sunnita. Dal 1260 circa in poi l’area mongola si trovò divisa in alcuni grandi regni, uniti dall’affinità familiare ma ormai ciascuno con le proprie politiche. L'espansione mongola suscitò una grandissima impressione nel mondo dei grandi imperi, come attestano le fonti occidentali, islamiche e cinesi con tratti di vero e proprio terrore. Con i nemici che rifiutavano la sottomissione i khan attuavano una reazione implacabile. Questa politica del terrore era accompagnata da un atteggiamento assai flessibile per chi accettasse la sottomissione senza combattere. l'Egitto l’altra grande novità della storia islamica del XIII secolo venne dall'Egitto, che con Saladino era tornato nell’alveo delal comunità sunnita. La dominazione degli eredi di Saladino poté resistere senza troppe difficoltà alle spedizioni militari occidentali dell'inizio del Duecento, che avevano avuto proprio il Delta del Nilo come teatro. Non molto rilevante, nella prospettiva del sultano, inoltre, fu l'accordo stipulato nel 1229 con l’imperatore Federico II, che concedeva il libero accesso a Gerusalemme. | problemi che i sultani d’Egitto dovevano affrontare erano piuttosto legati alla tradizionale difficoltà del reclutamento militare. Il nerbo delle armate del sultano era costituito, infatti, da chiere di schiavi, acquistati di norma nei mercati del Mar Nero e provenienti dalle terre della Transoxiana e dell'Asia, di etnia perlopiù turca. Questi schiavi guerrieri, denominati mamluk, al plurale mamalik, che vuol dire appunto “acquistati”, avevano un peso strategico importante per la società egiziana, perché la mancanza di libertà personale era compensata dalla 23. IL TRECENTO: ECONOMIA E SOCIETÀ La crisi del Trecento: un sistema instabile Il XIV secolo segnò per l'intera Europa e per buona parte dell'area mediterranea un'inversione di tendenza, inizialmente impercettibile poi drammatica a causa dell'epidemia di peste nera, della crescita demografica che era iniziata intorno al X-XI secolo. Una delle prime e più eclatanti evidenze materiali di questa involuzione è consistita nel l'abbandono o nel riassetto insediativo dei piccoli centri rurali. In alcuni contesti specifici, tra i quali spicca il caso siciliano, a partire dall'inizio del XIII secolo, dove l'isola fu segnata dalla scomparsa degli abitanti di religione islamica. Il saldo demico fu in parte bilanciato dall'immigrazione da varie zone d'Italia e in particolare dalla Toscana. Non è un caso che l'Italia sia l'area nella quale per prima si sarebbe diffusa la peste nera e dalla quale si sarebbe irradiata al resto d'Europa: era la regione caratterizzata dalla maggiore presenza di centri abitati urbani, benché distribuiti in maniera disomogenea sul territorio. Ad un certo punto l'evoluzione del popolamento delle campagne iniziò a discostarsi da quella cittadina, e già dalla metà del XIII secolo abbiamo i primi segnali di stasi e regresso nella popolazione rurale. Questo spopolamento iniziale era soprattutto l'esito di un travaso dalle campagne verso le città, favorito dall'eccessivo sfruttamento della terra in aree sovrappopolate rispetto alla produttività della terra, dalla diffusione di nuove forme di conduzione agricola che penalizzavano in primo luogo i contadini più poveri. Quasi impercettibilmente iniziò a prodursi uno squilibrio tra popolazione urbana e popolazione rurale, evidenziato dalla difficoltà di reperire adeguate quantità di derrate alimentari. La forte domanda cittadina di cereali incentivò la diffusione di pratiche colturali redditizie solo a breve termine, ma disastrose su periodi più lunghi, dalla coltivazione del grano su terre marginali a rotazione intensive che isterilivano il suolo. Dall'inizio del trecento cominciò a rallentare pure la crescita urbana, per poi avviarsi verso una tendenza alla diminuzione della popolazione. L'Italia, nel frattempo, fu colpita da ripetute carestie generali. Il sistema integrato città-campagna era per sua natura inadeguato a fronteggiare queste crisi congiunturali, perché il numero dei produttori era di gran lunga inferiore a quello dei consumatori, perché le rese agricole erano basse, non potevano essere migliorate e furono anzi deteriorate dalle avverse condizioni atmosferiche, e perché il controllo sempre più centralizzato dei contadini spostava in città la ricchezza prodotta in campagna. Tanto nelle campagne quanto nelle città, il numero di tumulti e tensioni scatenati da gente affamata e favoriti altresì dal malcontento prodotto da una probabile stasi delle dinamiche di ascesa sociale, andò crescendo su tutta la penisola, come pure nel resto d'Europa, innescando una serie di rivolte. Secondo Thomas Malthus nel caso specifico dell'Europa tardomedievale le tecniche agricole assai rudimentali rendevano impossibile un aumento della produzione, per cui diventava pressoché inevitabile un corto circuito con la crescita della popolazione, da cui il moltiplicarsi di carestie e crisi alimentari. Alle spiegazioni neomalthusiane si contrappongono quelle marxiste classiche per le quali la crisi del trecento era considerata la manifestazione di un drammatico momento di svolta tra il "sistema di produzione feudale" e quello capitalistico. Bisogna considerare, infine, il ruolo svolto dalle condizioni climatiche globali. Si è ormai appurato, infatti, che i decenni precedenti la peste nera furono caratterizzati da un abbassamento delle temperature medie e soprattutto da una maggiore piovosità estiva, che influirono negativamente sui raccolti e causarono svariate carestie. Va aggiunto, inoltre, che ormai gli epidemiologi hanno constatato che prima di una pandemia si verificano consistenti epizoozie come, nel nostro caso, quella che decimò i bovini dell'Europa centro-settentrionale tra il 1316 e il 1325. La svolta della peste nera La pestilenza che esordì con ogni probabilità nelle steppe della Cina settentrionale intorno al 1345, era caratterizzata da una virulenza e da una mortalità elevatissime, quali in Europa non si riscontravano da parecchi secoli, cioè dai tempi della peste giustinianea del 541-543. Nel giro di pochi anni la peste nera avrebbe notevolmente ridimensionato la popolazione europea, e sebbene sia difficile avere stime sicure dell'effettiva consistenza del crollo demografico, è assodato che la diminuzione media della popolazione non fu inferiore al 30% e forse sfiora il 50%, pur se in maniera disomogenea nelle varie aree del continente. Questa pandemia implica considerevoli trasformazioni in campo economico, sociale e culturale. La porta di ingresso della peste nera in Europa fu Messina, uno degli snodi principali di tutti i traffici mediterranei del tempo. In breve tempo la pandemia toccò le principali aree commerciali della sponda Europea del Mediterraneo. Va notato che i centri di diffusione della prima fase pandemica furono sempre dei porti. Fu proprio per cercare di bloccare la contaminazione che i veneziani escogitarono la quarantena, obbligando gli equipaggi delle navi tra i quali vi erano soggetti infetti a non sbarcare prima di quaranta giorni. Una misura, però, come si è visto, tardiva. Gli uomini del tempo non avevano nessuna cognizione scientifica che consentisse loro di identificare origine e veicolo della pestilenza. Non mancarono eziologie di tipo religioso o astrologico che identificavano nella pandemia una punizione divina o l'esercizio di malefici sabotaggi attribuiti alla volontà degli ebrei di sterminare cristiani avvelenando sorgenti e pozzi con non meglio identificati fluidi e polveri. Ciò comportò una serie di massacri perpetrati ai danni della popolazione di religione ebraica, in particolare nell'Europa centrale, e un intensificarsi dell'antisemitismo che da almeno un secolo aveva iniziato a diffondersi nel continente. Concludendo, intorno al 1353 quasi tutte le città europee avevano visto diminuire in maniera impressionante la loro popolazione, mentre interi insediamenti rurali si erano del tutto svuotati. La rarefazione insediativa del Trecento non può attribuirsi unicamente alla pestilenza che piuttosto agì da detonatore, portando al parossismo problemi già esistenti nelle strutture economiche e sociali. Le risposte alla congiuntura Gli effetti della pestilenza furono assai complessi e talvolta sorprendenti. La diminuzione improvvisa della popolazione aveva certamente rallentato le attività di produzione e circolazione delle merci nel breve periodo, ma non aveva distrutto le risorse materiali. Di conseguenza il mondo del lavoro aveva necessità di manodopera accresciute rispetto alla disponibilità di braccia dei lavoratori, e ciò conduceva alla possibilità per questi ultimi di chiedere salari più alti. Ragione in più per l'insorgere di una lunga stagione di conflitti per il lavoro e per le tasse. Si trattava di sollevazioni nelle quali ceti inferiori contavano di far valere la propria forza contrattuale in una congiuntura favorevole. Le risorse materiali, per effetto degli stravolgimenti della proprietà con la scomparsa di intere famiglie, ebbe un momento di circolazione molto più intensa del solito. La peste, in altre parole, aveva contribuito ad alimentare una mobilità sociale che ai primi del secolo si era tendenzialmente fermata. In questo cambiamento finivano per essere penalizzati soprattutto i detentori di grandi proprietà fondiarie. Il crollo demografico sconvolti in primo luogo gli ambienti rurali. Lo spostamento dalle aree meno produttive a zone più fertili ma svuotate della mortalità assunse dimensioni impressionanti. Molte terre, inoltre, furono le convertite dalla poco redditizia produzione di cereali a coltivazioni più specializzate e remunerative, oppure adibite a pascolo, come in vaste regioni della penisola iberica e del mezzogiorno d'Italia. Lo stesso regime alimentare poté contare su usi più variegati. Un esito rilevante piuttosto duraturo della crisi seguita alla pandemia, soprattutto in ambito Mediterraneo, deve ravvedersi nella contrazione della piccola e media proprietà agricola: il crollo delle rendite costrinse molti a vendere le proprie terre, con la conseguente concentrazione dei beni fondiari, e quindi della ricchezza di essi prodotta, nelle mani di un numero minore di proprietari. | nuovi proprietari preferivano affittarli o creare nuove forme di conduzione agricola, come quella di colonia parziaria molto studiata e sulla quale molto si è dibattuto, nota come mezzadria. La mezzadria si basava su una modalità di contratto fondata sulla concessione da parte del proprietario al socio colono di un podere fornito di abitazione e idoneo alla produzione agricola, con la divisione al 50% delle spese di gestione e degli utili tra conduttore è proprietario. La mezzadria offriva una buona opportunità tanto ai proprietari quanto ai conduttori. Ai primi perché potevano controllare maggiormente la produzione e perché si garantivano la dipendenza dei conduttori anticipando credito per le loro iniziative; ai secondi perché i proprietari partecipavano alle spese correnti e appunto fornivano quel credito che era fondamentale per superare momenti difficili come i cattivi raccolti o la moria di animali. Un caso molto diverso di riorganizzazione della rendita agricola è quello siciliano. In Sicilia la piccola proprietà agricola sarebbe stata capace di sopravvivere alla crisi portata dalla peste perché tanto nelle terre demaniali quanti in quelle feudali si strutturò in un sistema integrato di produzione del grano il cui prezzo, considerata la sua qualità, era molto alto sui mercati interregionali e garantiva utili significativi, o di colture locali specializzate, con un decisivo appoggio della monarchia al libero commercio interno e di esportazione. Poco dopo il 1340 un'impressionante sequela di fallimenti a catena aveva colpito le compagnie mercantili-bancarie fiorentine in quello che fu il più vistoso momento di crisi della grande finanza internazionale, con ogni probabilità causata dall'improvvisa insolvenza del re d'Inghilterra. Per alcuni anni gli effetti dei fallimenti generarono il panico nei mercati europei. Nella seconda metà del secolo però il trauma fu superato con una drastica selezione e ricambio degli operatori, che penalizzava i soggetti più piccoli a vantaggio dei grandi uomini d'affari, italiani ma ora anche catalani. Nel campo mercantile e finanziario la ristrutturazione fu profonda, anche grazie ad innovazioni tecniche come la contabilità a partita doppia e la lettera di cambio che facilitava i pagamenti a distanza e fungeva da strumento creditizio. Nelle carte del XIV secolo si trovano anche le prime assicurazioni marittime. Furono introdotte forme di associazione di capitale tra compagnie che permettevano la partecipazione di estranei al nucleo familiare originario, nonché la creazione di filiali dei banchi commerciali. In luogo di un sistema accentrato della compagnia si strutturavano associazioni di filiali diverse in modo da ridurre il rischio di crolli bancari a catena, tali da rovinare del tutto una compagnia. Anche nel campo manifatturiero i decenni successivi videro diffuse innovazioni, con il decollo di nuove produzioni, soprattutto con l'apertura di nuovi mercati regionali o nuove vie commerciali. A partire dal 1329 Venezia costituì il sistema dell'affitto ad armatori privati dei convogli delle galere grosse. Se, dunque, il paesaggio materiale umano del Mediterraneo era stato pesantemente multato dalla peste, le dinamiche economiche del periodo avevano superato il trauma. Uno spazio particolare nella varietà della vita religiosa del Trecento spetta alle figure femminili. Il XIV secolo è soprattutto un tempo di donne capaci di vivere la propria esperienza cristiana al di fuori delle strutture degli ordini religiosi, fino ad allora l'unico modo ammesso per la fede femminile. Molte furono le donne che nella condizione di vedove o in quella di un nubilato fuori dal convento scelsero di vivere nella solitudine della propria casa o in piccole comunità, dedite a un cristianesimo di totale unione con l'umanità di Cristo. Le comunità ebraiche Gli ebrei erano diffusi un po' dappertutto nell'Europa bassomedievale:i in alcune aree si trattava di gruppi consistenti anche dal punto di vista numerico. Abitualmente gli ebrei delle città medievali erano dediti ad attività molto varie: la legislazione pontificia dal 1215 aveva introdotto elementi di distinzione nel vestito, nella residenza e nelle possibilità professionali, ma comunque senza dare luogo a una vera e propria persecuzione. Le circostanze cambiarono molto dagli ultimi anni del Duecento ai primi del Trecento. Innanzitutto le comunità ebraiche erano sottoposte alla pressione finanziaria dei sovrani. Il fatto che si trattasse di componenti in qualche modo diverse le rendeva vulnerabili sia alle esplosioni di xenofobia della popolazione sia ai ricatti dei sovrani. Esposti a questa pressione di natura religiosa e ideologica, gli ebrei erano poi facile bersaglio di esplosioni di violenza collettiva nel caso di carestie, di crisi politiche o di momenti di esaltazione religiosa. L'impero germanico, specialmente nella regione del Reno dove le comunità ebraiche erano antiche e numerose, fu teatro di molti episodi brutali dagli anni 80 del Duecento fino a metà Trecento. Episodi del genere raggiunsero il culmine negli anni 1348-50, quando la paura ossessiva del contagio esploso con la peste nera portò molte città europee a trovare un facile capro espiatorio nelle comunità ebraiche in Francia e Germania: a questi avvenimenti si applica abitualmente il nome di pogrom, una parola russa coniata proprio per definire le violenze antisemite di età moderna. La vicenda più sanguinosa fu però quella del 1391, quando a Siviglia l'effetto congiunto della predicazione mendicante, dei conflitti sociali e delle paura per il diverso fece esplodere un movimento di violenza inaudita. Si può accostare a questo ricorrere di intolleranza religiosa l'emergere di un altro fattore tipico della fine del Medioevo, cioè l'ossessione per il demoniaco e la presenza di forze oscure. Nel corso del pieno Trecento, però, le fonti cominciano a definire una sorta di modello negativo, che univa l'ossessione ecclesiastica per la donna e per il suo corpo peccaminoso, senso di minaccia di poteri occulti e presenza del demonio nella vita presente. Nasceva così l'immagine della strega. In questo caso non si trattava, come per le comunità ebraiche, di demonizzare una realtà presente conosciuta, ma piuttosto di immaginare un'oscura minaccia dietro a sospetti e pregiudizi, che normalmente colpivano figure irregolari di donne ai margini per ragioni sessuali o per maldicenze o per l'uso di pratiche di cura non convenzionali, tanto più in tempi di pestilenza e di contagi. Lo scisma d’Occidente La fine del periodo avignonese condusse a una rottura profonda nella storia del papato. Gregorio XI ritrasferì stabilmente la Curia a Roma nel 1377. Alla sua morte, pochi mesi dopo, nell'urbe si aprì il conclave. Il collegio dei cardinali faticò molto a trovare un candidato gradito, ma sotto la minaccia della folla romana che chiedeva a gran voce un papa italiano, venne scelto il vescovo di Bari Bartolomeo Prignano, con il nome di Urbano VI. Qualche mese dopo l'insoddisfazione dei cardinali per i primi atteggiamenti del pontefice e insieme i dubbi sulla regolarità dell'elezione portarono una parte dei cardinali a revocare la decisione e a eleggere in sostituzione Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. Si aprì quello che è passato alla storia come lo Scisma d'Occidente. In questo caso non si trattava di una divisione di natura dottrinale, ma di una controversia puramente giuridica sulla validità delle due elezioni. Clemente VII, che si trasferì ad Avignone, ebbe subito il sostegno della monarchia francese; l'imperatore e sovrani italiani appoggiano invece urbano Sesto, come fece il re in inglese, al tempo in guerra con quello francese. Paradossalmente erano proprio il prestigio e l'autorità papale, cresciuti nel corso del periodo avignonese, a rendere lo scisma una questione insolubile: nessuna autorità terrena, infatti, aveva la facoltà di giudicare il pontefice. Lo spettacolo di una divisione del genere a livello più alto della cristianità era ovviamente sentito come un grande scandalo, e contribuiva ad alimentare il senso di smarrimento dei fedeli. | sovrani furono in grado di negoziare con il “proprio” papa condizioni favorevoli, ad esempio nella scelta dei vescovi nel proprio territorio, perché potevano ricorrere all'arma politica della sottrazione dell'obbedienza. Con il passare degli anni emerse negli ambienti secolari e in molti prelati la convinzione che l'unico modo per risolvere lo scisma forse le cose detta via concilii, cioè la convocazione di un concilio di tutti i vescovi delle due obbedienze per arrivare una scelta condivisa. A Pisa nel 1409 si arrivò alla deposizione dei due papi e alla nomina di un candidato del concilio, Alessandro V. Ma i papi in carica si rifiutarono di accettare la decisione conciliare; quindi si aprì un breve periodo con la paradossale presenza di tre papi, ciascuno con le proprie obbedienze. A Costanza nel 1414, per volontà dell'imperatore Sigismondo, sarebbe uscita restaurata l'unità della chiesa occidentale, ma anche un'inedita versione di idee per scongiurare future cadute di questo tipo. 25. IL DIALOGO DEI POTERI NELL’EUROPA DEL TRECENTO L’età dei conflitti: Francia e Inghilterra in guerra Il XIV secolo è per tutta Europa un periodo di grandi conflitti. Da una parte si trattava di eventi che manifestavano le nuove forme di governo del territorio da parte dei sovrani. Allo stesso tempo la guerra era un contesto tutto sommato favorevole a mantenere l'equilibrio tra monarchia e aristocrazie. Nelle guerre di conquista o nelle condizioni di emergenza del regno il rapporto tra sovrano e aristocratici trovava forme di accomodamento, e perciò favoriva l'equilibrio di una contraddizione di interesse altrimenti insolubile. La lontana origine dei contrasti tra re di Francia e d'Inghilterra risale almeno all'inizio del Trecento, negli anni di Filippo IV, quando lo scontro di questi con le città fiamminghe aveva visto direttamente coinvolto il re d'Inghilterra, interessato a rapporti positivi con i centri urbani delle Fiandre. Alla preistoria della guerra dei cent'anni si possono ascrivere anche gli eventi dell'inizio del Duecento, con la fallimentare spedizione inglese del principe Luigi di Francia per profittare dei disordini dopo la concessione della Magna Charta da parte di Giovanni Senzaterra. Alla base di tutto stava l'antica origine del regno inglese dalle conquiste del duca di Normandia e l'eredità del celebre matrimonio di Eleonora d'Aquitania. In virtù del quale ancora all'inizio del XIV secolo il re inglese era signore feudale di una parte del territorio francese, quella dei territori dell'estremo Nord verso la manica (il Ponthieu) e delle regioni Sud occidentali della Guienna, un'area non vastissima ma cruciale per la posizione strategica dei suoi porti, Bordeaux e La Rochelle. La monarchia capetingia aveva via via trasformato le sue forme da quelle del “semplice” regno feudale a qualcosa di nuovo e più ambizioso. La fondazione del parlamento di Parigi aveva costituito una solida istituzione di governo dei rapporti tra centro e periferia. Le strutture del regno erano, insomma, più compatte e solide, e rendevano più stridente la situazione di un re vassallo rispetto ad un altro re. La circostanza che fece conflagrare il conflitto fu molto banalmente dinastica. Nel 1328 morì il re di Francia Carlo IV e il candidato che ottiene la successione fu Filippo di Valois, che era figlio di Carlo di Valois, fratello del vecchio Filippo IV il Bello. Il sovrano inglese, Edoardo III, volle tuttavia rivendicare a sé i diritti della corona, in virtù di una discendenza non meno nobile: sua madre infatti era Isabella, l'unica figlia superstite di Filippo IV, del quale quindi era l'erede più diretta. Quando si trattò di prestare al nuovo re l'omaggio feudale per la Guienna e le altre terre sul continente, Edoardo si rifiutò di compiere un atto ritenuto non dovuto verso un sovrano di dubbia legittimità, e in tutta risposta quest'ultimo deferì Edoardo al parlamento come vassallo infedele, avviando il processo per la confisca dei suoi feudi. Le forze militari inglesi poterono agire su diversi fronti: quello navale a nord e quello terrestre. Alle spalle dell'impresa militare vi era un colossale sforzo finanziario, che il re sostenne non solo grazie all'impegno diretto dell'aristocrazia, ma anche con il ricorso massiccio al credito, specie degli uomini d'affari fiorentini ben radicati nel regno. Questo aveva il pregio di attivare un canale di finanziamento alternativo a quello tradizionale dello scacchiere, che era soggetto al delicato meccanismo di approvazione del parlamento; i soldi dei mercanti, invece, arrivavano direttamente nelle casse del re. Si giunse all'accordo nel 1360 con la cosiddetta Pace di Brétigny. Giovanni si impegnava a riconoscere al re inglese, oltre a un colossale esborso di tre milioni di scudi d'oro e un terzo dei territori del regno, tutta la parte della Francia occidentale. Il regno francese era così territorialmente menomato e umiliato, anche perché lo stesso re Giovanni morì comunque prigioniero a Londra nel 1364, dove si era riconsegnato ai nemici in pegno dell'ottemperanza degli impegni presi. Le redini del regno furono prese dal figlio di Giovanni, Carlo V, noto come il “re saggio”. Carlo evitò di riaprire palesemente le ostilità su vasta scala, ma dal 1369 iniziò una serie di operazioni militari locali, azioni di guerriglia e fortificazioni di confini per indebolire la presenza inglese sul continente. Il re inglese fu costretto a ritirarsi progressivamente: alla morte di Carlo V nel 1380 i confini erano tornati grosso modo alla situazione dell'inizio della guerra quarant'anni prima. Suo fratello Filippo, detto l'Ardito, che aveva ricevuto come principe cadetto la signoria feudale della Borgogna, grazie a un fortunato accordo matrimoniale si impossessò anche della Contea di Fiandra. | possessi del duca di Borgogna avrebbero rappresentato un punto di riferimento sempre più cruciale nella storia politica europea. La penisola iberica Nel pieno XIV secolo i grandi conflitti non passavano dallo scontro con le potenze musulmane, bensì dal complicato equilibrio di poteri tra i diversi regni iberici, in particolare i due più grandi, quello di Castiglia e la Corona d'Aragona. | due grandi regni, al di là dei confronti militari, erano anche due realtà politiche molto diverse, che ben rappresentano l'evoluzione dei poteri nell'Europa che hai già del tempo. La Castiglia conobbe non solo la guerra con l'Aragona, ma possibile la monarchia per far crescere il ruolo politico della Borgogna come una sorta di nuovo Regno. In questa situazione di gravissima crisi interna, le circostanze erano favorevoli al regno d'Inghilterra per la ripresa delle ostilità della Guerra dei cent'anni. 26. L’ITALIA DEL TRE E QUATTROCENTO I regni e le città Al centro della storia politica dell'Italia del Trecento, e punto di transizione tra la grande politica mediterranea e l'originale ambiente delle città-stato comunali, si trova la vicenda del regno angioino. Il lungo regno di Roberto D'Angiò (1309-43) fu per molti versi la fase dell'apogeo, per il prestigio universale del sovrano, le sue memorabili imprese artistiche e culturali, per la prosperità anche economia della sua capitale. Per una serie di circostanze fortuite, unita al manifestarsi di questioni strutturali più profonde, la morte di Roberto poi una fase complicatissima per il regno. Fortuiti furono sicuramente gli eventi naturali, tra cui il grande terremoto che proprio nel 1343 sconvolse l'area campana comportando tra l'altro la distruzione totale dell'antico, illustre porto di Amalfi. Negli stessi anni si colloca la stagione dei fallimenti a catena dei grandi mercanti-banchieri fiorentini, che privarono la corte di un serbatoio finanziario e strategico. La nipote di Roberto, Giovanna, ereditò il Regno, ma fin da subito le mire sulla sua potenziale successione turbarono la quiete politica dello stato. Dopo l'oscuro assassinio del marito Andrea di Ungheria nel 1345, emerse la figura del fiorentino Niccolò Acciaiuoli che fino alla morte nel 1365 fu l'eminenza grigia di tutta la politica napoletana. L'eccezionale vastità degli orizzonti politici angioini, dalla Provenza a Napoli, dall'Albania all'Ungheria, diventò un fattore di grammatica confusione. In particolare la lotta si svolse tra Carlo Ill del ramo d'Angiò-Durazzo e Luigi del ramo di Provenza. Tutta questa turbinosa successione di eventi portò in Italia a più riprese gli eserciti dei conti di Provenza, e con loro gli interessi della corte francese dei Valois. Lo spazio politico napoletano diventava così un vortice che richiamava verso il Meridione d'Italia le dinamiche diplomatiche di mezza Europa. La posta in gioco era altissima, non soltanto sul piano strettamente politico: il regno era può sempre un'area molto ricca e le importazioni di derrate alimentari, come il vino campano o i cereali della Puglia, rappresentavano un obiettivo di primissimo piano pure per le città del nord, Firenze e Venezia in prima battuta, per non parlare delle potenzialità nel mercato di beni di lusso. Sarà Alfonso D'Aragona a trarre il maggior vantaggio della crisi del regno angioino. Il re d'Aragona riuscì a imporsi come il sovrano più importante nell'Italia tardo-medievale, ora che più che mai integrata in un gioco politico che abbracciava la penisola iberica, le isole del Mediterraneo Occidentale e potenzialmente anche la prospettiva su quello orientale. L'Italia comunale e le sue trasformazioni La lotta politica tra le città, la presenza di soggetti esterni come papi, imperatori e sovrani francesi e l'oscillazione drammatica delle vicende economiche e demografiche fecero sì che si attivasse su un processo di forte selezione e politica, da cui cominciarono a emergere alcune città egemoni, capaci di costruire intorno a sé un dominio territorialmente esteso, fatto di altre città assoggettate con la forza o spontaneamente sottomesse ai più potenti vicini. Cangrande della Scala negli anni Venti e Trenta, a partire dalla sua signoria veronese, era riuscito a sottomettere non soltanto Padova e Treviso, ma anche vari centri dell'area emiliana e persino toscana con Lucca. Le conquiste di Cangrande si disfecero alla sua morte. Più duratura invece fu l'esperienza dei Visconti di Milano, in particolare Azzone Visconti (1329-39), fu di fatto il fondatore di uno stato territoriale lombardo, centrato su Milano ma costituito da una serie di città grandi e piccole che si erano sottoposte al signore, con patti e gradazioni di potere alquanto varie. | Visconti si assicurarono così una posizione di predominio su buona parte dell'italia padana. Giovanni, vescovo e allo stesso tempo signora di Milano insieme al fratello e Luchino nel 1339, negli anni Cinquanta provò ad estendere i suoi domini in un raggio più vasto, e giunse a controllare anche Genova e per un breve periodo Bologna. La pace di Sarzana del 1353 sancì un assetto territoriale dominato a Nord dell'Appennino e da Firenze a sud, in un lungo elenco di città o signorie formalmente indipendenti, ma entrate nella sfera dell'amicizia, dell'alleanza e dell'aderenza, come dicevano le fonti del tempo, con le potenze maggiori. Nel 1395 Gian Galeazzo acquistò dall'imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano, e forte di questo riconoscimento dall'alto nel giro di pochi anni riprese l'espansione territoriale giungendo a costruire un composito ma vasto stato settentrionale dalle Alpi fino all'Italia centrale, che andò però in pezzi alla sua morte nel 1402. La storia di Genova tardo-medievale è strettamente legata a Milano, sia perché la città ligure era il naturale porto di riferimento per la fiorente economia lombarda, sia perché i Visconti giunsero più volte a imporle una vera e propria dominazione politica. A lungo la politica cittadina era stata dominata dagli alberghi, cioè le grandi aggregazioni di famiglie nobili che controllavano lo spazio urbano. Nel 1339 salì al potere un'inedita coalizione di marca popolare, che riconobbe una figura di “signore del popolo” nella persona di Simone Boccanegra, con il quale venne inaugurata la forma tipicamente genovese del doge vitalizio. Il carattere repubblicano del governo cittadino fu interrotto per un breve periodo dalla signoria di Giovanni Visconti (1353-56), ma soprattutto alla fine del secolo, quando la corte Valois decise di sottomettere Genova come punto di passaggio per una auspicata e mai realizzata riconquista del Regno di Napoli da parte degli Angiò-Provenza. Tornata libera la città fu di nuovo affidata ai duchi di Milano nel 1421-35 e ancora più avanti, al tempo degli Sforza, sempre restando vive le rivendicazioni dei sovrani francesi. Se Genova sperimentava varianti diverse del governo di signori esterni, Venezia fungeva sempre più da modello di governo di città libera. Il Trecento fu per la verità un periodo difficile per lo spazio politico della Serenissima, che era tradizionalmente proiettato sull'Adriatico e sul Mediterraneo. In questo teatro marittimo Venezia subì fino alla fine del secolo la concorrenza vincente di Genova. Il Quattrocento fu, invece, un periodo di recupero. Nel 1409 La Repubblica riacquistò la Dalmazia da re Ladislao, che aveva bisogno di risorse e di appoggi politici per le sue imprese nel regno napoletano. Il 1420 è, inoltre, l'anno di una conquista di diversa natura, quella del patriarcato di Aquileia: la regione oggi coincidente grossomodo con la provincia di Udine, da sempre bacino importante per l'economia veneta, specie per l'approvvigionamento di legname, diventava parte del dominio della Serenissima. Gli interessi politici veneziani erano rivolti ormai non solo al mare ma la terraferma. Lo sfondo storico di questa riconversione era di certo il declino di Costantinopoli di fronte all'espansione ottomana; nel raggio più ridotto l'innesco era stato probabilmente la parabola delle conquiste viscontee, che erano arrivate fino a Verona. A sud degli Appennini il quadro politico degli Stati territoriali a base cittadina era più frastagliato. Il centro di maggior rilevanza fu sicuramente Firenze, che tuttavia non riuscì mai a sottomettere altre due centri di tradizione comunale, Lucca e Siena. Tra 1342 e 1343 la città sull'Arno sperimentò un ultimo caso di signoria di un membro della corte di Napoli, Gualtieri di Brienne, duca di Atene. Dopo la sua cacciata il governo Fiorentino inaugurò una stagione di politica territoriale molto aggressiva, che adoperava il linguaggio della fedeltà guelfa e dei valori repubblicani come arma ideologica contro i nemici esterni, specialmente i Visconti di Milano. Del disfacimento dell'egemonia napoletana Firenze beneficiò in maniera esplicita in almeno due casi, a Prato e ad Arezzo. Molto più problematica, ma pure strategica, si rivelò la conquista di Pisa, che giunse nel 1406 a un intreccio militare e diplomatico in cui si trovò coinvolta di nuovo la corte francese. Acquistata Pisa, Firenze si avviò diventare una potenza anche marittima. La marineria fiorentina non giunse mai a competere davvero con quella veneziana ma vide in ogni caso l'emergere di un nuovo soggetto nei traffici mediterranei, e la familiarità degli uomini d'affari fiorentini con l'oriente mamelucco e turco nel corso del Quattrocento fu certo un carattere significativo del periodo. Lo Stato del papa tra universalismo e realtà comunale Il diritto dei pontefici aveva avuto origine nell’VIII secolo, ma solo molto lentamente, e con modalità diverse a seconda delle regioni, si era tradotto in un effettivo esercizio di potere pubblici. Nel XIII secolo questo singolare dominio era articolato in alcune province, affidate a rettori ecclesiastici, che coordinavano i vari soggetti del territorio attraverso lo strumento dei parlamenti provinciali, tenuti però con regolarità solo in Romagna e nelle Marche. Per il resto gli effettivi poteri del papa dipendevano dai rapporti di volta in volta definiti con le città, anche perché l'Italia centrale era un territorio di comuni cittadini particolarmente vivaci e dinamici; erano in grado non solo di autogovernarsi ma anche di agire nello scacchiere dei rapporti politici a livello italiano. Roma durante il periodo avignonese fu dominata dall'egemonia delle grandi famiglie aristocratiche, i cosiddetti baroni, emersi già nel corso del XIII secolo quando avevano monopolizzato la carriera pontificia. Cola di Rienzo, un notaio appassionato della classicità romana, cavalcò la richiesta del ritorno del pontefice in città coalizzando le forze cittadine in una rinnovata esperienza comunale nel 1347. Costretto a fuggire dai suoi nemici, Cola si rifugiò a Praga presso l'imperatore Carlo IV, che progettava la discesa in Italia. Nel 1354 riuscì a tornare a Roma e a ripristinare di nuovo il regime comunale, ma finì travolto dalle lotte di fazione e fu assassinato pochi mesi dopo. Nell'impresa di Cola di Rienzo si intrecciano motivi diversi della storia italiana del tempo: le inquietudini religiose del periodo avignonese, le idealità repubblicane, le suggestioni dell'antichità classica. In tutto questo l'intervento più concreto e duratura fu soprattutto quello dei pontefici, anche se non tanto per il ritorno della curia dalla “cattività” avignonese, bensì per la costruzione di un vero e proprio stato pontificio. In particolare Egidio di Albornoz, che con una complessa politica di impegno militare e negoziazione diplomatica, riuscì a ricondurre il complicato quadro territoriale nella forma di un vero stato del papa. A sanzione di questo risultato giunsero alle cosiddette costituzioni egidiane, approvate del parlamento generale di Fano del 1357: si trattava della prima raccolta organica delle norme vigenti in tutto lo stato. 27. UN SECOLO TRA PAURE E NUOVI ORIZZONTI (1291-1402) I cristiani e i musulmani Mai come nel primo Trecento La Terrasanta fu al cuore dei dibattiti politici e delle discussioni religiose dell'Occidente. Nonostante le sconfitte militari, l'Egitto e il vicino Oriente erano ormai diventati per gli occidentali un territorio relativamente familiare: anche i sovrani mamelucchi avevano un approccio molto pragmatico alle relazioni con l'ovest, e d'altro canto il dominio mongolo favoriva, come abbiamo visto, l'insediamento di viaggiatori occidentali. C'erano le condizioni per una stagione di scambi più proficua. Operava in questa direzione soprattutto la sensibilità propria degli ordini mendicanti: l'approccio era ora quello dell' impresa missionaria, di conversione, magari approfittando di un contesto geopolitico che vedeva anche le grandi potenze di fede musulmana soccombere di fronte ai nuovi conquistatori mongoli. Il messaggio venne interpretato con grande entusiasmo in Europa. Un personaggio singolarissimo, vissuto nella Maiorca dei Re d'Aragona, fu Raimondo Lullo, un laico che tuttavia attraversò una crisi religiosa e dedicò il resto della sua vita allo studio delle lingue orientali e della filosofia. Una parte del suo insegnamento fu adottata nientemeno che dal papa. Durante il Concilio di Vienne del 1311-12, lo stesso in cui papa Clemente V ufficializzava l'abolizione dei templari, fu progettata la costituzione nelle maggiori università del tempo di cattedre di arabo e lingue orientali, per preparare i futuri missionari e consulenti dei progetti papali sull'Oriente. Nelle idee del papa tutto ciò avrebbe dovuto tradursi in una vera e propria crociata “tradizionale”, vale a dire un'impresa di conquista, da accompagnare però con un lavoro di preparazione diplomatico dottrinale. Una visione molto simile era condivisa anche dai maggiori sovrani del tempo, che promossero e sostennero l'elaborazione di ambiziosi piani per le crociate. La letteratura sulla riconquista della terrasanta vide un fiorire di opere proprio nei primi anni del Trecento, e non solo in ambito ecclesiastico. La fine del regno di Gerusalemme, d'altra parte, venne vissuta come una meritata umiliazione, segno dell'ira divina. D'altro canto anche nei paesi a maggioranza islamica accadeva qualcosa di equivalente. La guerra in Terrasanta aveva alimentato un copioso flusso di scritti contro il cristianesimo: opere altrettanto faziose e interessate di quelle occidentali, sebbene mediamente meglio informate, non foss'altro perché il cristianesimo era da molti secoli una presenza assai familiare nel vicino Oriente, già da molto prima che arrivassero gli occidentali. In quegli anni fiorì nella Siria mamelucca Ibn Taymiyya, un giurista della scuola hanbalita. Scrivere contro i cristiani era un modo per ribadire l'ortodossia dell'islam contro i molti nemici interni, tra i quali non esitava a mettere anche certi comportamenti degli stessi sovrani mamelucchi, e infatti più volte fini in carcere per la durezza e l'estremismo delle sue rampogne. Questa sorta di dialogo allo specchio di cristiani e musulmani, in opere che parlavano di essere volgesse ai nemici esterni, divenne ancora più intenso nel corso del quattordicesimo secolo, per motivi simili. l'Europa del trecento fu segnata da lunghi, laceranti conflitti. A questi si aggiungevano i dissidi interni alla cristianità, evidenti Ilnel caso dei tormenti dell'ordine francescano. Nasceva così nella cultura europea una vera e propria ossessione della Pace: il sogno di una pace tra i cristiani ormai persa senza rimedio punto la modalità perfetta per un sogno del genere era per l'appunto la crociata, l'impresa condivisa di tutti i sovrani cristiani. Pure a Bisanzio la letteratura contro l'Islam ebbe un momento di fioritura nel pieno Trecento, e qui con una particolarità, che cioè l'imperatore partecipava in prima persona a questo flusso di scritti. Il primo fu Giovanni Cantacuzeno, autore alla metà del secolo di quattro orazioni contro Maometto. Per dei sovrani che vedevano nell'aiuto dell'Occidente un presupposto indispensabile per la sopravvivenza dell'impero, dare voce a queste idealità di difesa del Cristianesimo era un'esigenza vitale. Il Mediterraneo islamico Il dominio mamelucco iniziato nel 1250 ebbe una vita molto lunga, ma nel corso del XIV secolo mostrò sempre più la sua debolezza. Il peculiare sistema di gestione del potere continuò a funzionare come nelle origini, ossia con la cooptazione di nuovi mamalik nella casta guerriera, che poi potevano sperare di ascendere fino al sultanato. Di fatto, però, erano le famiglie degli emiri, che trasmettevano il proprio potere per via dinastica, a controllare la scelta dei sultani e a manovrarne l'azione con trame di palazzo. Tra fine Duecento e inizio Trecento la Siria fu più volte devastata dalle incursioni mongole, che non arrivarono a conquistare il territorio ma certo ebbero l'effetto di spopolarlo e indebolirlo. l'Egitto, pur restando uno snodo economico fondamentale per tutta l'area, subì molto pesantemente gli effetti della peste nera: il crollo della popolazione fu recuperata a fatica, e finì per distruggere il complicato e delicatissimo sistema di lavori agricoli per il mantenimento delle dighe sul Nilo. L'ambiente del vicino Oriente, insomma, finì spossato dalla storia del Trecento: anche le manifatture della regione, per secoli fiore all'occhiello della civiltà islamica mediterranea, decaderono lasciando spazio all'importazione di prodotti occidentali. Il regime dei mamelucchi non riuscì a risollevare le sorti dell'impero fino alla conquista ottomana del 1516. Gli stati del nord Africa rimasero centri importanti per i traffici commerciali, sia nelle rotte mediterranee tramite le Baleari che per la direttiva nord-sud verso la rete carovaniera del Sahara che toccava la città di sijilmassa. A testimonianza di questa stagione favorevole della storia nord africana sta una delle opere più fortunate della memorialistica mediterranea del tempo, i viaggi di Ibn Battuta. I sogni della crociata marittima Nei sogni della letteratura per il recupero della Terrasanta vi erano ambiziosi piani in più tappe, che immaginavano un blocco navale ai danni dell'Egitto come intervento preliminare per impedire ai sovrani del Cairo ogni intervento verso la Siria. L'Egitto era visto come base irrinunciabile per i commerci delle potenze occidentali, e i sultani seppero approfittarne con intelligenza, stipulando trattati commerciali con l'Aragona e con le maggiori città portuali italiane. Il Mediterraneo orientale era diventato per le potenze cristiane un territorio di straordinaria complessità e disordine politico, e in particolare la Grecia e l'arcipelago erano teatro di una situazione politica intricatissima. Nella terraferma a metà Trecento i signori più potenti erano i fiorentini acciaiuoli, diventati da mercanti signori territoriali grazie agli uffici di Niccolò. Erano stati preceduti di poco dalla cosiddetta compagnia catalana di Ruggero da Flor, mercenari che prestarono spregiudicatamente i loro servigi tra le varie parti in lotta, finendo per diventare una sorta di piccolo principato territoriale nell’Acaia, la regione di Atene e Tebe. Nel 1394 Neri Acciaiuoli, un nipote di Niccolò adottato dallo zio, strappò ai catalani il ducato di Atene e, pur con brevi interruzioni, esso restò appannaggio degli Acciaiuoli fino alla seconda metà del Quattrocento, quando fu conquistato dai turchi, nella cui sfera di influenza cadeva già da tempo. Quanto all'arcipelago, si ricorderà che le grandi potenze italiane avevano acquisito da tempo punti di appoggio e colonie nell'Egeo. Il controllo di questa rete di porti e isole era motivo di conflitti continui tra le potenze dell'area. Nel 1355, dopo la guerra degli stretti contro Venezia, Bisanzio e i catalani, Genova ebbe Mitilene nell'isola di Lesbo, nella forma di concessione feudale alla famiglia Gattilusio. La concessione nel 1376 a Venezia di Tenedo innescò la guerra di Chioggia con Genova, conclusa solo con la pace di Torino del 1381. In queste circostanze, si capisce che un'impresa militare comune di cristiani e musulmani ritagliava un'unità inesistente in un quadro di rivalità e odi reciproci. D'altra parte pure il fronte bizantino offriva una politica tutt'altro che coerente. Nelle vorticose lotte di potere che tormentavano Costantinopoli anche dopo la fine della guerra civile, gli stessi sovrani ricorsero a volte all'appoggio del sultano per difendersi dalle congiure di palazzo, dalle mire dei serbi e delle città italiane, arrivando a stipulare trattati con il pagamento di tributi al “nemico” turco. Le crociate del XIV secolo furono tutte imprese marittime, sia perché il trasporto da parte di una flotta era il sistema più ragionevole per raggiungere l'oriente, sia perché, mancando basi sicure, era necessario per gli occidentali acquisire il controllo dei porti. A partire dal 1310 l'ordine dei cavalieri ospitalieri di San Giovanni prese il possesso di Rodi. | cavalieri, beneficiati peraltro dall'acquisizione del tesoro degli aboliti templari, resero l'isola una roccaforte imprendibile e divennero una società di guerrieri esperti di marineria, confermata poi quando la loro sede si spostò da Rodi e Malta. L'altra roccaforte decisiva era Cipro, che svolgeva le funzioni di una vera e propria porta dell'oriente per gli occidentali in chiave commerciale, e in effetti vi si insediarono molti Genovesi, Veneziani e Fiorentini. Cipro divenne anzi una specie di corte esotica molto spesso presente nella letteratura occidentale del tempo, non ultimo in Giovanni Boccaccio. Partì proprio da Cipro una delle poche imprese militari rilevanti che presero la forma di crociata nel XIV secolo. Il re dell'isola, Pietro | Lusignano, guidò una flotta crociata contro l'Egitto, che arrivò a saccheggiare Alessandria nel 1365 e si diresse verso la Terrasanta ma senza vere e proprie conquiste. Una nuova crociata, partita questa volta da Occidente e guidata dal duca di Savoia Amedeo, arrivò a conquistare Gallipoli nel 1366, ma la conquista si rivelò insostenibile e la città tornò in mano turca nel 1377. I Turchi La più importante novità politica nell'Oriente del XIV secolo fu l'inizio della dinastia ottomana. L'Anatolia aveva subito come altre regioni del Medio Oriente l'impatto traumatico dell'avanzata mongola. Agli inizi del XIV secolo, dopo l'invasione mongola che aveva dissolto il fiorente sultanato di Rum, anche i selgiuchidi dell'Asia Minore erano frazionati in molteplici entità statali, tra le quali spiccò era ben presto il principato retto dal bey Othman, da cui appunto prenderà il nome la futura dinastia turco-selgiuchide degli ottomani. Othman, partendo dalla Bitinia, iniziò una politica espansiva coronata da un particolare successo nel 1326 con la conquista della città di Bursa, proprio di fronte a Bisanzio. La posizione della Bitinia e soprattutto di Bursa proiettavano naturalmente gli ottomani verso la costa europea, ma intanto la loro signoria si consolidava sulla parte settentrionale dell'Anatolia. Nel 1329 Orkhan, il bey figlio e successore di Othman, poneva l'assedio a Nicea e conquistava la città. Dopo solo 6 anni gli ottomani avrebbero conquistato anche Nicomedia. A questo punto tutto il territorio dei Dardanelli asiatici era ottomano e i bizantini avevano perduto il retroterra asiatico. Per gli ottomani invece l'Europa era a un passo, e l'occasione per conquistare la prima importante città fu particolarmente fortunata e casuale: nel 1354 un terremoto distrusse le mura di Gallipoli e costrinse buona parte della popolazione ad abbandonare la città. Nel giro di due anni gli ottomani riuscirono a insediarsi e Gallipoli e a impadronirsene, ottenendo il primo grande porto della loro signoria e mettendo saldamente piede sulla parte europea del Bosforo, in un'area vicinissima i Dardanelli, sebbene Gallipoli si affacci sull'Egeo. Si può dire che questa fu la svolta che avrebbe iniziato a trasformare la signoria ottomana in una potenza proiettata non più solo verso aree continentali, ma verso il mare e per così dire fondata su due ali: quella originaria anatolica e quella europea, di recente conquista, che si sarebbe chiamata Rumelia. Nel 1394 l'esercito ottomano mise per la prima volta in atto un assedio di Costantinopoli dalla parte di terra. Proprio per cercare di spezzare la tenaglia ottomana su Bisanzio e bloccare l'avanzata balcanica, le potenze cristiane organizzarono una crociata, bandita da papa Bonifacio IX, uno dei due pontefici scismatici del tempo, e guidata dal re d'Ungheria Sigismondo, con il sostegno di Venezia e dei regni di Francia e d'Inghilterra, congiuntamente, nonostante stessero combattendo la Guerra dei cent'anni. Le speranze si infransero contro le capacità militari turche, e a Nicopoli sul Danubio i crociati andarono incontro nel 1396 a una completa disfatta, con buona parte dell'esercito caduto prigioniero in mano turca. Agli ottomani sembrava ormai spalancata la porta verso l'Ungheria. intermezzo asiatico Questo destino apparentemente ineluttabile venne sventato, però, dalla comparsa di una nuova meteora politica nel grande spazio dell'Asia centrale: si trattava dell'impero di Timur Lenk, noto in Occidente come Tamerlano. Seguendo le orme di Gengis Khan, Tamerlano iniziò nel 1370 una serie di conquiste rivolte a tutte le direzioni, verso la Persia e il medioriente da una parte, verso l'India e addirittura la Cina verso est. Tamerlano era convertito all'islam, quindi anche questo nuovo capitolo di impero nomade si rivelò un fattore di esportazione della religione di Maometto. Nel 1402 si scontrò ad Ankara con il sultano Ottomano, che venne catturato e morì alcuni anni dopo in prigionia. Paradossalmente, così, la grande paura per le potenze occidentali era stata allontanata dalle conquiste di un grande impero islamico. L'impero timuride non ebbe lunga vita, ma ancora nei primi anni del XV secolo consolidò una presenza islamizzata in tutta l'Asia centrale, fino a raggiungere il subcontinente indiano, dove dopo la morte di Tamerlano i suoi discendenti costituiranno la dinastia locale dei timuridi. La vicenda di Tamerlano si intreccia con l'opera di uno dei più importanti intellettuali islamici del millennio medievale, Ibn Khaldun. Di Ibn Khaldun è nota soprattutto una vasta opera di storia universale, preceduta da una sorta di prologo filosofico noto come introduzione: ai Nomadi, forti dei legami di identità tribale cementati dalla violenza di gruppo, si doveva all'avvio delle grandi imprese di conquista, come in occasione della prima grande espansione islamica; compiuta la quale, però, erano state le società urbane, più complesse e raffinate, a trarre profitto dalle conquiste con realizzazioni politiche, economiche e culturali. Con questo schema di lettura degli eventi storici, per certi versi simile a quello della teoria della corruzione dei sistemi politici di Aristotele e Polibio, Ibn Khaldun elaborava un modello di interpretazione delle vicende dell'islam non confessionale, che restituiva efficacemente l'andamento di una storia in cui i nomadi erano di volta in volta le tribù arabe, berbere o turco-mongole, e la civiltà urbana gli stati e gli imperi del Mediterraneo islamico. d'Aragona nei principali porti del Mediterraneo Occidentale. A Barcellona si mantenne solo il settore manifatturiero, che consentirà la città di riprendersi e che, su tempi lunghissimi, avrebbe incoraggiato una rinascita mercantile. Ma mentre per qualche altro decennio nel Mediterraneo era giunto il momento di Valencia, la proiezione iberica, con la scoperta dell'America si sarebbe indirizzata verso il continente nuovo, con il decollo di Cadice quale centro del commercio Atlantico. Diverse, invece, per non dire opposte, sarebbero state le soluzioni escogitate dai Genovesi per resistere ai mutamenti del XV secolo. Genova già a partire dalla fine del Trecento, e sempre più nel corso del Quattrocento, spostò il centro di gravità dei suoi traffici verso il Mediterraneo Occidentale e i mari del nord Europa. | Genovesi diedero vita alla cosiddetta Casa di San Giorgio; essa riuscì a governarsi in totale autonomia dagli altri organismi pubblici mettendosi così al riparo dalle turbolenze e dalle faziosità politiche cittadine mediante garanzie stabilite già nello statuto fondativo: in questo modo il commercio marittimo genovese diventava base per operazioni finanziarie. Nel contempo, però, alcuni Genovesi intrapresero le spedizioni marittime alla scoperta di nuove vie commerciali per l'Africa e le Indie. Anche Barcellona avrebbe conosciuto nel primo Quattrocento la fondazione della Taula de canvi, una vera e propria banca Centrale pubblica. Lo spostamento dei commerci marittimi Genovesi verso occidente dalla fine del Trecento sembrava in un primo momento decretare il trionfo Veneziano nel Mediterraneo orientale, dopo almeno due secoli di dura competizione. Nel 1462, nonostante l'espansione ottomana, Venezia inaugurò una linea di traffico che univa Tunisi ai porti del Mediterraneo orientale, mostrando come, dopo varie sconfitte subite dagli ottomani, sapesse adattarsi a una nuova realtà che non era in grado di modificare, riuscendo ad approfittare, ma ancora per poco, del fatto che i turchi stavano ancora imparando a navigare. Proprio dal 1463, infatti, Venezia dovette iniziare a recedere dalle sue posizioni. Iniziava un lungo crepuscolo, durato fino al XVIII secolo. Si apriva sempre di più, per Venezia, la penetrazione nell'entroterra Padano. Gli interessi commerciali erano del resto il fattore potente di integrazione. Nel corso del Quattrocento una maggiore disponibilità di risorse per i ceti medio alti della società implicò un uso molto più largo dei prodotti della manifattura. Il paesaggio della vita quotidiana si popolava così di oggetti acquistati per necessità ma soprattutto come emblemi di una condizione sociale. Comparirono sempre più spesso oggetti di consumo con valore simbolico come opere d'arte peri palazzi di principi, nobili e grandi mercanti, pale d'altare e paramenti liturgici. Una globalizzazione dei consumi, per quanto ancora limitata ai ceti più alti, animava l'economia verso la fine del medioevo in una proporzione mai vista fino ad allora. 29. GOVERNARE CON IL CONSENSO La stagione conciliare Il concilio di Costanza fu un momento centrale in tutta la storia dell'Europa tardomedievale. La questione delle diverse obbedienze papali era ovviamente la più grave, e venne risolta non senza conflitti e resistenze. Il passaggio fondamentale fu la deposizione in contemporanea di tutti e tre i papi in carica: Benedetto XIII, Gregorio XII e Giovanni XXIII. La scelta del concilio per il nuovo pontefice cadde su Ottone Colonna, prelato romano di una storica famiglia di baroni abituati alla politica curiale, che prese il nome di Martino V e riportò definitivamente a Roma la sede pontificia. Il ritorno a Roma di Martino V segnò l'avvio della stagione della curia rinascimentale, e quindi anche la trasformazione della città secondo le esigenze della sede apostolica. | papi successivi inaugurarono una fase ininterrotta di colossali investimenti nei monumenti di Roma, riacquistando in pieno il valore simbolico dell'urbe come capitale di tutta la cristianità. Roma fu beneficiaria del circuito di denaro e relazioni politiche legate alla presenza stabile del papà. Il concilio non aveva restaurato una situazione precedente, bensì introdotto un nuovo modo di governare la chiesa. Proprio nelle discussioni prima e durante i lavori di Costanza si era delineata così una vera e propria dottrina del conciliarismo. Secondo questa interpretazione per alcune materie di grande rilevanza, come l'unità ecclesiastica o la definizione della dottrina, il consiglio è da ritenere superiore al papa. Gli stessi lavori di Costanza diedero concretezza a questo principio con l'emanazione di due canoni, intitolati haec sancta e frequens. Nel primo si attribuiva al concilio la facoltà di decidere sulle questioni di governo della chiesa; nel secondo si introduceva una regola di convocazione regolare del concilio stesso a cadenza quinquennale. Per parte loro i papi dopo Costanza, a partire dallo stesso Martino V, vissero la novità conciliare come un ostacolo alle proprie ambizioni: i pontefici miravano a trarre le conseguenze di questo recupero di autorità cancellando il prima possibile le tracce del imbarazzante parentesi conciliare. Martino V fece di tutto per non applicare la regola del frequens sulla convocazione di un nuovo consiglio. Dopo l'entrata in carica del nuovo papa Eugenio IV nel 1431, il concilio prese stanza a Basilea, con il sostegno del pontefice. Ma quando le sessioni conciliari iniziarono ad affrontare temi delicati di governo della chiesa, Eugenio IV decise di disconoscere l'assemblea; per tutta risposta una parte importante dei prelati, specialmente quelli provenienti dall'area germanica, decise di continuare lavori pur senza l'appoggio papale. Il pericolo conciliare creava sempre più imbarazzo nel papa, che non aveva neppure una posizione così solida nelle relazioni politiche romane. Tanto che nel 1434 Eugenio decise di abbandonare Roma e insediarsi a Firenze, da dove riuscì a convocare un concilio nel 1439, che nelle intenzioni del papa avrebbe svolto le funzioni di quello di Basilea: quest'ultimo, quindi, veniva privato di ogni legittimità. | padri di Basilea giunsero al punto di ritirare l'obbedienza al pontefice e eleggere un papa alternativo, scelto nella persona di un laico, il duca di Savoia Amedeo VIII, che prese gli ordini sacri e venne nominato papa Felice V nel 1440. Nel frattempo a Firenze il papa aveva messo a segno alcuni risultati diplomatici di grande impatto. L'imperatore di Bisanzio, Giovanni VIII Paleologo, recandosi personalmente a Firenze nel disperato tentativo di ottenere aiuti militari per la difesa di Costantinopoli davanti all'avanzata ottomana, accettò di sottoscrivere un atto di unione con la chiesa romana. Almeno in teoria si trattava della chiusura di uno scisma tra Oriente e Occidente durato quasi quattrocento anni. Sul piano pratico però l'atto non ebbe grandi effetti, perché gran parte della gerarchia ecclesiastica greca si rifiutò di accettarlo. Paradossalmente più efficaci forno le azioni del concilio nei confronti delle chiese orientali, come le comunità Cristiane armene, dell'India o dell'Etiopia. Il concilio di Firenze, insomma, sancì una grande celebrazione dell'universalismo papale, che si voleva far prevalere sulle urgenze di partecipazione del conciliarismo. Divenuto pontefice, Pio Il con la bolla execrabilis vietò esplicitamente l'appello al concilio nelle controversie interne alla chiesa. Il papa Senese, in gioventù fervente sostenitore del conciliarismo, ne seppelliva così la storia inaugurando una lunga vicenda di assolutismo papale. Questa politica pontificia non poteva ripristinare, però, l'antico universalismo medievale. Gli stati monarchici, abituati a decenni di strumentalizzazione delle obbedienze contrapposte, erano in molti casi riusciti a imporre un effettivo controllo sulle nomine delle sedi ecclesiastiche. L'esercizio della fiscalità papale, il pagamento delle decime sul clero e dei contributi straordinari dei vescovi a Roma, e ancor più la gestione diretta di questi gravami, che era affidata ai potentissimi banchieri del papa senesi e fiorentini, alimentavano un'ostilità profonda delle chiese regionali verso la curia, che era sempre più sentita come avido collettore di risorse a vantaggio degli stranieri. In questo modo, l'azione combinata del controllo regio e dell'odio per Roma delineava un sentimento di vera e propria “chiesa nazionale”, specie nell'Europa centrale e settentrionale: la rottura della forma protestante sarebbe stata in parte l'effetto proprio di questa dinamica. L'Europa del XV secolo fu attraversata da una profonda inquietudine religiosa. L'eco della stagione conciliare, l'ostilità al curialismo romano, la diffusione delle Sacre scritture in traduzioni, facilitata dalla stampa, e quindi l'accesso dei laici a una formazione religiosa propria, e il problema mai risolto della povertà e del rapporto della chiesa con la ricchezza alimentavano un'attesa di rigenerazione radicale dell'esperienza Cristiana. L'ansia di rinnovamento era amplificata, inoltre, dai timori per l'espansione ottomana. Non di rado queste attese prendevano forma aggressive contro i soggetti marginali o ritenuti estranei. Le violenze contro gli ebrei si fecero ricorrenti. Alla fine del secolo la persecuzione delle pratiche devianti di magia prese la forma di una sessione per il diabolico e per la stregoneria, interpretata dalla pubblicazione del famigerato trattato martello delle streghe nel 1484. L'esplosione delle polemiche della Riforma protestante nel XVI secolo sarebbe stata per molti versi figlia di questo clima di esasperata sensibilità religiosa. La fine della Guerra dei cent'anni e i rapporti tra sovrani e nobiltà nel Quattrocento L'altro grande evento politico della prima metà del XV secolo è la conclusione del lunghissimo scontro tra monarchia inglese e francese. Dilaniata dalle divisioni interne, minata dalla politica ambigua interessata dei duchi di Borgogna, la Francia mostrava il fianco a ogni tentativo ostile. A cogliere i frutti della situazione fu il giovane ed energico re d'Inghilterra, Enrico V, che portò di nuovo le sue armi nel continente. Una memorabile battaglia campale ad Azincourt nel 1415 segnò la svolta decisiva. Carlo VI fu costretto ad accettare un umiliante trattato, la pace di Troyes del 1420, con il quale si stabiliva che alla sua morte la corona di Francia sarebbe passata non a suo figlio, Carlo detto il Delfino, ma l'erede del trono inglese, che avrebbe unito nella sua persona le due corone. Le circostanze però impedirono ad Enrico di approfittarne, perché entrambi i sovrani morirono nel 1422. Il nuovo re inglese, Enrico VI, venne Incoronato re di Francia a Parigi l’anno stesso: ma si trattava di un bambino; il trionfo delle ambizioni inglesi metteva nelle mani delle lotte politiche interne alla corte la complicatissima gestione della transizione. In Francia il principe diseredato Carlo tentava di organizzare una resistenza dell'aristocrazia fedele ai Valois contro il nuovo re. Un aiuto inaspettato giunse dalla vicenda singolare e tragica di una giovane donna, Giovanna D'Arco, che cadde prigioniera dell'esercito borgognone e fu sottoposta a un processo canonico per stregoneria. Condannata, venne bruciata sul rogo nel 1431. L'effetto fu per certi versi contrario all'intento degli autori, perché Giovanna assurse al ruolo di martire delle identità francese, caricando anzi la guerra di Carlo di significati anche religiosi. All'inizio degli anni Cinquanta la guerra si concluse definitivamente con l'incoronazione di Carlo VII a Parigi e la conquista di Bordeaux, l’ultima grande città in mano inglese. La fine della Guerra dei cent'anni e di quelle di espansione rendeva inquiete le sfere più alte della nobiltà, rimaste prive di una tradizionale possibilità di affermazione. Gli sconvolgimenti economici dopo la peste nera avevano minato le rendite fondiarie, e sebbene i trend demografici fossero ormai in crescita, il trauma era stato difficile da superare. Allo stesso tempo quello tra XIV e XV secolo era stato un periodo di crescita dei poteri regi e di costruzione di macchine di governo più efficienti in cui l'amministrazione della giustizia e la fiscalità valorizzavano molto più i professionisti della scrittura, del diritto o della finanza, usciti dall'università o forti di competenze tecniche, che i vecchi ceti nobiliari. Nel contempo le ritualità di corte o gli ordini cavallereschi di fondazione regia fungevano da luogo di soddisfazione di una nobiltà addomesticata dai poteri regi. Quando però le dinastie regnanti si trovavano in difficoltà per ragioni interne o esterne, i vecchi sogni di gloria dell'aristocrazia e il desiderio di mettere sotto controllo la corona conflagravano facilmente in lotte per il potere e faide sanguinose. In Inghilterra le lotte per il controllo della corte animarono una stagione di torbidi conflitti interni, detta Guerra delle due rose, per i simboli araldici della casa reale dei Lancaster e di quella Rivale degli York. Questa fase di violenze e instabilità si chiuse solo nel 1485 con l'emergere di Enrico VII Tudor quale nuovo sovrano. In Francia, in particolare negli anni di Luigi XI, erede di Carlo VII, l'ostilità del duca di Borgogna, Carlo il Temerario, che anche dopo la fine della Guerra dei cent'anni sperò di indebolire il regno a vantaggio del proprio principato tra le Alpi e le Fiandre, fece esplodere nel 1465 la cosiddetta Guerra della lega del bene pubblico. Luigi XI riuscì ad avere la meglio sugli avversari e finirono frustrate le ambizioni di Carlo il Temerario. Con la scomparsa di Carlo si avviava a decomposizione uno dei principati più illustre dell'Europa tardomedievale, quello dei duchi di Borgogna. Un'altra grande dinastia si sarebbe spenta di lì a poco, quella degli Angiò. A differenza che nelle altre parti d'Europa, in Germania all’aristocrazia non occorreva far la guerra al sovrano per mantenere i propri tradizionali privilegi. La bolla d'oro di Carlo IV aveva formalizzato il primato dei grandi principi elettori e le vicende tra i due secoli non fecero che accentuare il policentrismo della politica tedesca. La Germania si
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