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Un teatro apocalittico, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

La ricerca teatrale di Giuliano Vasilicò negli anni Settanta, di Fabrizio Crisafulli

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 14/01/2018

Damsiano
Damsiano 🇮🇹

4.7

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Scarica Un teatro apocalittico e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Un teatro apocalittico di Fabrizio Crisafulli “Il meraviglioso paesaggio erano le parole” Prefazione di Dacia Maraini Tra i primi attori registi della cosiddetta scuola romana, Vasilicò rifiutò sempre qualsiasi etichetta o appartenenza a gruppi. “Le prove erano delle lunghe sedute di gruppo nelle quali conducevamo una ricerca su aspetti profondi riguardanti l'autore sul quale si stava lavorando, e non solo. Quasi sedute psicanalitiche.” Il teatro per Giuliano Vasilicò è lo strumento più alto di conoscenza e di scavo di quella parte di noi che altrimenti resterebbe oscura e segreta. “Il Proust di Vasilicò nasce nella caverna della memoria e dell'inconscio; e di lì non si muove” (De Monticelli, Corriere della Sera). Per i suoi spettacoli, per le sue messe in scena ha bisogno di conoscere l'autore del testo che affronta, di entrare nella sua vita, di scavare fino in fondo le ragioni che lo hanno portato a scrivere quella storia, quei personaggi. “La prima cosa che faccio è quella di tuffarmi nell'universo dell'autore. Non leggo solo i suoi lavori, ma anche tutto quello che è stato scritto su di lui. Il risultato, in questo modo, non è più soggettivo. È quello che invece si potrebbe definire un'interpretazione collettiva.” Le rappresentazioni di Vasilicò vivevano nel buio e nella luce come a significare il continuo passaggio tra realtà e sogno, tra verità e allucinazione. “La luce, usata magistralmente, svolge un ruolo importantissimo. Modella il luogo, produce spazi, spesso ampi spazi, che non ci sono” (Crisafulli a proposito di Proust). Un regista che ha inteso la sua ricerca teatrale sperimentando tutte le possibilità espressive, non inseguendo dei nuovi canoni puramente estetici, ma sempre nel segno di uno scavo espressivo pieno di significati. “Un teatro come mezzo che tende a svelare - in questo senso apocalittico - innanzitutto al suo stesso autore, cose che un libro o la vita stessa necessariamente non riescono a svelare. Il teatro è il mezzo che Vasilicò ha scelto per cercare di comprendere e far comprendere l'esistenza.” (Crisafulli) Introduzione Mario Ricci, Giancarlo Nanni, Memè Perlini teatro-immagine romano. Etichetta che Vasilicò non ha mai accettato. “Che Vasilicò respinga sdegnato l'etichetta del teatro-immagine, si capisce. Qui non immagini, propriamente, si producono, ma ambigui enigmi” (Sanguineti su Proust). Vasilicò un giorno mi mostrò scena per scena l’Amleto (1971), al quale era molto legato come ad una specie di sua opera paradigmatica, e che non avevo visto dal vivo, ma solo in video (versione tarda del 1987, forse non all'altezza del lavoro originario). Mi ha ricordato l'importanza che per me ha avuto il sentire nel suo approccio al teatro quel senso fortissimo di necessità, e tensioni così pure ed impellenti; avvertire il senso di una ricerca che non gli permetteva, durante il giorno, di pensare ad altro. Lungo e tormentato lavoro di elaborazione del progetto Musil, negli anni a cavallo tra i 70 e gli 80, con il quale è iniziata per il regista una crisi profonda, sia sul piano personale che su quello artistico. Le 120 giornate di Sodoma (1972) spettacolo rivelazione non solo del suo lavoro, ma dell'intero fenomeno delle cantine romane, L'uomo di Babilonia e Proust. Non ha realizzato, o non come avrebbe voluto, il progetto Musil nonostante anni di intensissima ricerca. Anni di scarsa produttività, sostanziali assenze dalle scene, eclatanti rinvii, inviti declinati, spettacoli irrisolti. Poco incline alla convivialità. Mi sembra che Vasilicò abbia considerato il teatro un mezzo di conoscenza. Un campo di esplorazione dei meccanismi che sovrintendono alle relazioni umane; un ambito di attività che permette di comprendere le cose meglio di quanto non facciano le altre arti, la letteratura in particolare, e di quanto non faccia addirittura la vita stessa. Il teatro è stato quindi per Vasilicò un potenziale mezzo di rivelazione, innanzitutto a se stesso, di aspetti nascosti dell'esistenza. Apo-kalyptein = togliere il velo, scoprire. Difficoltà di parola: “La balbuzie di V. è apocalittica” (Del Giudice) e ancora “Ho sempre avuto l'impressione che il suo lavoro teatrale fosse una sorta di prolungamento di quell'energia che gli veniva fuori nello sforzo di liberare la parola” (Crisafulli) Principale contributo del lavoro di Vasilicò alla ricerca teatrale riguarda soprattutto la drammaturgia, soprattutto il modo di costruire una drammaturgia non narrativa. “Il tema di un romanzo, di un racconto o di un dramma, rappresenta nel mio teatro l'esperienza artistica, culturale, umana con cui confrontarsi per trarre lo spettacolo. Valutazione del contesto sociale, culturale, politico in cui esse sono inquadrate, la vita dell'autore e la vita del testo stesso attraverso le varie epoche: reazioni dei lettori, censure, equivoci, volgarizzazione, strumentazioni. Da questo viaggio, che avremo fatto in piena ricettività, usciremo con delle opinioni personali, immagini, situazioni teatrali che verificheremo sul palcoscenico”. Vasilicò adotta, nel costruire la drammaturgia di uno spettacolo, un terreno di riferimento complesso a partire dal quale costruisce strutture autonome, di tipo nuovo. Strutture drammaturgiche, non narrative: poetiche. Alla loro strutturazione concorrono i diversi elementi espressivi - il corpo, la parola, il gesto, l'immagine, lo spazio, la luce, il suono, alla pari. Si cala nel mondo dell’autore anche quando non sente quel mondo vicino o condivisibile. Diverso è il discorso rispetto a Shakespeare. La dimensione del dubbio nel personaggio di Amleto gli appare totalmente, tanto da volerlo interpretare egli stesso in scena, mentre non è attore in Sade né in Proust. E vi è un altro elemento di rispecchiamento col dramma shakespeariano: relazione con la sorella Lucia prolungamento poetico in scena nel rapporto Amleto/Ofelia, nel racconto originario fratelli. Altro aspetto centrale del teatro di Vasilicò è l'idea di corpo scenico, già sottintesa prima, ossia la concezione dello spettacolo come organismo compatto, nel quale tutti gli elementi espressivi hanno la stessa importanza ed incisività nel determinare il senso del lavoro. Un aspetto molto importante che spiega anche il suo rigetto per l'etichetta teatro-immagine. Perché è un etichetta che isola una componente della sua ricerca che, per quanto importante, non è certo separabile rispetto al resto. Non è un fine, né qualcosa cui dare particolare enfasi o da usare in maniera speciale o staccata. Infatti non fa mai uso di proiezioni. La consuetudine critica di far uso dell'opposizione teatro-immagine/teatro di parola, ha costretto Vasilicò, nelle classificazioni correnti, nella prima categoria. L'elemento che più degli altri muove il suo lavoro è forse invece proprio la parola; cosa che ha peraltro relazioni con la sua storia personale, con il suo impedimento. La parola in Vasilicò segue quanto lui chiama l'ordine di inserimento. Affiora ad uno stadio avanzato del processo. Prima viene il mondo, poi la parola. Come succede nel processo di crescita di un bambino, che impara a parlare attraverso la conoscenza di quello che ha attorno. È come se la costruzione di uno spettacolo insegni ogni volta da capo, al regista e agli attori, a parlare. A parlare per quello spettacolo; a trovare, per esso, le parole giuste. Altra caratteristica del suo procedimento è legata alla fisicità e al suo forte istinto. Nell'operare concreto, nelle prove, mette in campo in maniera immediata la sua istintività e il suo inconscio, la sua carica fisica ed energetica, il corpo in tensione, la gestualità nello spazio e nelle relazioni. Il livello energetico è sempre alto. Lo è durante le prove e lo è nello spettacolo. Penso a Giuliano che, nelle repliche dell'Uomo di babilonia, dove non è attore, si precipita dalla platea in scena ad incitare con tensione inusitata i partecipanti al corteo politico. Per chi assiste, un'irruzione allarmante, una scossa improvvisa. Ricordo in Sade Bonanni che urla dalla sua postazione alla consolle-luci, ponendosi dentro lo spettacolo e contribuendo a infondere ritmo alle azioni. Quello di Vasilicò è senza dubbio un teatro energetico. “Un teatro fatto non di narrazione, ma di forze, intensità, affettività in atto. Il modo di lavorare di Vasilicò fa anche pensare naturalmente alla nozione di teatro post-drammatico introdotta da Lehman quasi vent'anni fa: un teatro caratterizzato sempre meno dalla dimensione drammatica e dall'intreccio e le cui determinanti si definiscono sempre più nelle relazioni concrete tra i suoi elementi espressivi durante le prove e poi nelle repliche.” (Liotard) C'è alla sua base una grande selettività nelle scelte, un’intransigente ricerca di essenza e di sintesi, il tentativo costante di arrivare al nucleo delle questioni. Questo può anche spiegare la crisi nella quale il regista precipita mentre affronta un'opera monumentale come L'uomo senza qualità di Musil. Il lavoro sul grande romanzo dello scrittore austriaco (peraltro incompiuto) significa anni di confronto con un’impossibilità. Una tensione irrisolta, che si rivela piena di conseguenze sulla sua vita personale e lavorativa. Motivazioni di Vasilicò si attivano anche rispetto a questioni generali che riguardano il teatro, il suo senso e la sua funzione. Ecco la sua presa di posizione rispetto alle relazioni che in teatro dovrebbero intercorrere tra avanguardia e tradizione: “L’avanguardia, secondo me, non è altro che la punta più avanzata di quella tradizione che rimane fedele alle motivazioni della sua origine, non quindi una sua nemica ma, al contrario, la sua più stretta sostenitrice, che insorge quando la creatività teatrale, dimentica della sua vocazione e degli obiettivi per i quali è nata, perde di forza e diviene convenzionale. Le componenti essenziali dell'arte teatrale, quelle che ne hanno motivato la nascita, devono quindi sussistere, anzi svilupparsi, anche all'interno degli esperimenti più innovativi.” Gli inizi: Missione psicopolitica (1969) e L’occupazione (1970) Si avvicina il teatro negli anni 60 in Svezia. Fino a questo momento si è interessato principalmente di letteratura, poi ha iniziato a scrivere. Quando nel 1968 torna a Roma, conosce casualmente Giancarlo Nanni. Escurial è il primo spettacolo che viene presentato al teatro La fede, ex magazzino di Porta Portese, sede della giovane compagnia teatrale di Nanni. Vasilicò entra così in contatto con quella che si rivelerà un ‘importante situazione generativa, una sorta di incubatore, del fenomeno delle cantine totalmente in questo lavoro la componente autobiografica e il legame persona-personaggio che c'erano negli spettacoli precedenti. Il travaso realtà-recitazione, tipico in generale del lavoro di Vasilicò con gli attori, ha una parte sostanziale anche qui. All'essenzialità del testo e della struttura drammatica, corrisponde nello spettacolo l'essenzialità nei movimenti e nell'uso della parola. Le azioni e gesti, di tipo simbolico ed evocativo, e non descrittivo, sono frutto del grande istinto teatrale di Vasilicò e della sua acutissima sensibilità. La parola, usata con parsimonia e senso di necessità, più che essere recitata affiora sensibilmente dai corpi e dalle azioni. Notevole lavoro sullo spazio, che gli attori utilizzano e gremiscono assai ingegnosamente di gesti e di fonemi, e una realizzata unità degli elementi (scena, costumi, luci e musica) perfettamente fusi e funzionalizzati nella struttura drammaturgica. È come se parole, urla, fonemi, gesti, movimenti, musiche si ritrovassero - a livello di recezione - su un identico livello linguistico. La scena e le luci di Agostino Raff sono coerentemente improntate a criteri di estrema semplicità e sintesi. C'è un solo oggetto, un doppio trono dorato, in posizione centrale in fondo alla scena che, con l'aiuto di luci sapientemente usate nel variare i punti di attenzione, le situazioni e le atmosfere, assume valenze diverse nei vari momenti dello spettacolo. L'importanza di questo Amleto sta soprattutto nel contributo che esso apporta sul piano della drammaturgia. Costituisce una riscrittura totale che, pur scaturendo da un indirizzo poetico molto forte come quello di Vasilicò, intende essere ed è fedele allo spirito del dramma, al quale aggiunge nuovi livelli di senso e di immaginario. Ed è un importante statement nel campo della drammaturgia non narrativa del teatro di poesia. “Credo che questo Amleto rappresenti il culmine dello Shakespeare lirico. Non so se sia il più bell’Amleto che sia stato detto in poesia, quello che voglio dire è che era il più puro degli Amleto detti in poesia” (Franco Cordelli, 1994) Le 120 giornate di Sodoma (1972) Vasilicò legge Le 120 giornate di Sodoma di Sade su suggerimento di Agostino Raff, che ne possiede una copia, nonostante il libro sia ancora proibito. Raff gli riferisce di un'opera misteriosa, una sorta di monumento in negativo della civiltà occidentale. Leggendo il libro si ammala: “Non riesce a capire di cosa si tratti, se del testo più reazionario o più rivoluzionario della letteratura occidentale. L'ambiguità di Sade è sconcertante” (Bartolucci) La vicenda è sul finire del regno di Luigi XIV: quattro libertini senza scrupoli, tre nobili e un vescovo, sperimentano in forme estreme pratiche sessuali di sopraffazione su un gruppo di giovani vittime. Le orge durano 4 mesi e vengono effettuate sulla base di un preciso regolamento e di un programma nel quale 4 narratrici, una per mese, introducono le diverse tipologie di perversioni, e narrano in relazione ad esse vicende delle quali sono state protagoniste o spettatrici. Scritto da Sade nel 1785, mentre è rinchiuso nel carcere della Bastiglia, va disperso durante la presa della fortezza. Dopo tre generazioni, viene ritrovato casualmente e solo successivamente pubblicato (1904) in ambito medico, come trattato di psicopatologia sessuale. Romanzo del male, dell'assoluto negativo, del rimosso, nel quale l'imperturbabile descrizione di una grande quantità e varietà di nefandezze ha la freddezza di un documento contabile. “Un’apatia assoluta” (Klossowski) l'apatia che sta alla base del gesto di sopraffazione del libertino sulla vittima. Vasilicò è colpito anche dalla forma e della struttura dell'opera: 4 e i suoi multipli. 4 sono i libertini padroni e 4 le loro mogli. 4 le narratrici. 4 mesi. I sottoposti sono semplici oggetti. Tormentandoli, il potere verifica il loro essere nulla, e da questo ricava il proprio piacere. Da questi elementi (oggettività del male, apatia, gesto unico, spirito numerico) nasce il modo nel quale regista decide di iniziare la ricerca. Coinvolge una decina di persone: le fa mettere in riga come in una fucilazione, facendo urlare a tutte contemporaneamente il proprio nome, l'età e il motivo per cui sono lì. “Mi hanno fatto pensare alle vittime nell'opera di Sade ma anche alla “vittima universale”, presente in tutte le epoche e in tutti i contesti” Riflette anche sull'uomo Sade, sulla sua condizione di recluso che non ha commesso le infamie di cui ha scritto, ma che dalla cella assiste alle esecuzioni con la ghigliottina, percependo ripetutamente il gesto unico del boia. Il movimento chiave dell'opera, sul quale strutturare lo spettacolo, viene individuato proprio nel gesto del carnefice che colpisce la vittima. E la principale regola drammaturgica nella ripetizione. Più o meno gradualmente si delineano, attraverso i raffronti e le risonanze con i personaggi dell'opera, delle appartenenze; dei ruoli vicini a quelli dei libertini o delle vittime. C'è poi una terza categoria cui una parte degli attori tendenzialmente aderisce: quella dei mediatori, della genia di servi, ruffiani, sicari, boia, vallette, che costituisce il materiale lubrificante. Alla fine gli attori incarnano qualcosa di diverso e di più generale di un personaggio: più che figure realisticamente e psicologicamente definite nei rapporti tra loro, sono dei “tipi” umani più o meno corrispondenti alle tre categorie dette, senza per questo escludere ambivalenze: senza escludere, ad esempio, che il carnefice possa essere in una certa misura anche vittima. Proprie iniziative concrete, sotto lo stimolo del regista (che lascia tutti dei margini di libertà nella creazione) nello spazio, attraverso il corpo, i gesti, la parola, la fisicità, i rapporti che ognuno stabilisce con gli altri, e con gli oggetti, i costumi, le acconciature, i trucchi in fase di identificazione. Le qualità delle persone sono determinanti. Tanto che quando qualcuno lascia e arriva una persona nuova, questo può far rimettere tutto in discussione. Lui qui non si mette in gioco come attore, così da poter osservare meglio il mostro, dal di fuori. Lo spazio sotterraneo e angusto del Beat 72 echeggia le segrete di Silling, il luogo sadiano ermeticamente isolato dal mondo. Non è da escludere che Vasilicò pensi a Sade, o comprenda la possibilità di mettere in scena Sade, anche perché da tempo lavora nello spazio interrato e chiuso del Beat 72. PERSONAGGI. Le figure dei quattro libertini si concentrano nel Duca de Blangis (Fabio Gamma) e tutte le narratrici sono incarnate da Madame Duclos/Lucia Vasilicò. Gli altri attori impersonano, con diverse declinazioni e sfumature, le altre figure: vittime, servi, intermediari, sicari. Nove performer in scena non personaggi, appunto, ma tramiti che, nel loro insieme, costituiscono il corpo scenico che fa parlare Sade. Il lavoro procede organizzandosi per temi e scene staccate, inizialmente divise in due sezioni: 1. i preparativi: parte dinamica descrizioni dei personaggi, viaggi, rapimenti 2. le orge: parte pietrificata cronache delle orge, protocollo, orari, appuntamenti con i destini prescritti Le due parti, nel corso del lavoro, gradualmente si fondono. Dopo 8 mesi di lavoro intensissimo, lo spettacolo debutta al Beat il 16 novembre 1972. In maniera ricorrente, i personaggi (Madame Duclos, il duca di Blangis, le vittime) vengono condotti nello spazio su piedistalli mobili - cubi neri con ruote spinti da altri attori - sui quali compiono le loro azioni, dicono le loro parole, gridano. È un cinema apocalittico, una giostra infernale. Lo spettacolo inizia con l'ingresso nello spazio oscuro della narratrice Madame Duclos su un piedistallo in divisa erotica e militare. Sbattendo violentemente i piedi sul cubo nero, espone al ritmo del suo stesso scalciare, come un esaltato automa, le sue terrificanti attitudini. Un gruppo di uomini e di donne emerge dal buio, per poi scomparire. A braccia aperte, il terrore negli occhi, avanzano e indietreggiano tremando, con veloci, piccoli passi. Sembrano attratti e respinti da un magnete, o mossi da una forza meccanica, come giocattoli cui è stata data la corda. È la scena che introduce la condizione delle vittime. “L'occhio sbarrato, fermo, implacabile degli attori è rivolto verso sé stessi, più che verso gli spettatori” (Bartolucci) Segue l'apparizione anch’essa sul piedistallo, del despota Duca di Blangis, che espone il suo progetto di sopraffazione. Come al Castello di Silling, vi sono anche momenti di leggerezza e di diletto destinati ai padroni: c'è un minuetto nel quale il despota avanza e indietreggia, saltellando al suono di un clavicembalo. Tutti i testi, rielaborati a partire da Sade, sono di estrema crudezza. Alcune azioni sono commentate da voci registrate, mandate ad alto volume, che sembrano rimarcare il senso dell'oggettività del crimine nell'opera sadiana, e anche la propensione dello spettacolo a far parlare Sade, prima che i suoi personaggi: la voce del regista declama le descrizioni delle identità psicologiche ed anatomiche dei libertini, con precise informazioni sulla forma e le smisurate proporzioni dei loro membri. Paolo Emilio Poesio tesse le lodi del lavoro svolto da Vasilicò con gli attori: “Per raggiungere un risultato simile, non stupisce che siano occorsi mesi e mesi di prova, che hanno sottoposto gli attori, lo si comprende dal risultato, a un esercizio tale da renderli i padroni delle più raffinate gestualità”. Pubblico: c'è chi non dorme per tutta la notte, chi ritorna per necessità di vedere, per una specie di smania e di vertigine mentali. “Dal luogo sadiano si risale soli, senza una parola”. (Roland Barthes) È un successo clamoroso. Lo spettacolo rimane in scena a Roma per 4 mesi, per poi girare in altri luoghi in Italia e all'estero. È l'evento che fa conoscere e lancia il fenomeno delle cantine, l'insieme di esperienze che verrà chiamato scuola romana o teatro-immagine. Il suo richiamo fa scendere per la prima volta nei sotterranei romani i giornalisti dei grandi quotidiani, la critica letteraria più qualificata, i registi cinematografici più importanti. Non mancano insieme agli entusiasmi, i dubbi e le critiche. Alcune rilevano la mancanza di una presa di posizione nei confronti di Sade. Altre fanno leva su considerazioni di tipo moralistico. “Dall’enigma sadiano si può uscire solo a prezzo di un rito, di una cerimonia religiosa, barbarica e primitiva, cioè con una rappresentazione teatrale ed è questo il senso da assegnare allo spettacolo messo in scena da Vasilicò”. (Cesare Garboli) Concezione che Vasilicò ha del teatro come mezzo di conoscenza, che tende a svelare (in questo senso apocalittico) innanzitutto al suo stesso autore, cose che un libro e la vita stessa necessariamente non riescono a svelare. Il teatro è il mezzo che Vasilicò ha scelto per cercare di comprendere e far comprendere l'esistenza. In questo caso, per cercare di comprendere e far comprendere quanto della vita possono dirci Sade e Le 120 giornate di Sodoma. Lo spettacolo non si pone come opera giudicante ma come tramite. L'uomo di Babilonia (1974) Vasilicò torna a lavorare su un suo testo che all'inizio della lavorazione dello spettacolo è semplicemente imbastito, e anche in questo caso viene rielaborato nel corso delle prove col contributo degli attori. È una metafora fantapolitica ambientata in un'immaginaria metropoli occidentale, a metà tra presente e futuro: una città neocapitalistica, tecnologica, seduttiva, edonistica. Il tema è quello del potere e dei meccanismi di controllo, consenso e sottomissione. Le azioni sono organizzate, con tecnica ormai consueta in Vasilicò, in quadri più o meno prolungati (26 stazioni apparizioni). Scenografie, luci, costumi e musica sono ancora di Agostino Raff. Il lavoro è frutto di quattro tormentati mesi di prove al Teatro Spazio Uno di Trastevere, altro luogo deputato della ricerca teatrale romana, dove debutta nel maggio 1974. Come nei suoi spettacoli iniziali, il regista vi affronta questioni esplicitamente politiche, che tenta però di ricondurre ad una loro dimensione universale. Strano corteo di scioperanti, a metà tra manifestazione politica e falloforia pagana. Scena durante la quale Vasilicò, con sorprendente eruzione, si precipita dalla sala in scena ad aizzare i manifestanti. E c'è a tratti un testo fuori campo, ambiguamente didascalico, che commenta le azioni. L'esito è sempre di notevole impatto, per la visione, il ritmo, l'uso del corpo, la gestualità. Alto grado di tensione delle azioni e della scena; presa sul pubblico; ampiezza del discorso politico e il fatto che lo spettacolo faccia parte di un coerente percorso di ricerca. Ma rimane un lavoro irrisolto nella sostanza e Vasilicò ne è consapevole. Lo spettacolo soffre del confronto con un tema incontrollabile. La stessa propensione del regista alla sintesi e alla costruzione con gli attori di “tipi” scenici anziché di personaggi, che in precedenza ha trovato i propri luoghi generativi nelle opere di Shakespeare, si trova qui davanti a un universo esteso e complesso, che rende difficile il raggiungimento di un risultato essenziale. Il passaggio dall'analisi del mondo letterario di grandi autori a quella della realtà sociale e politica contemporanea segna una difficoltà. Non riesce a dar luogo a una sintesi credibile, e per la prima volta si affaccia nei confronti di Vasilicò qualche sospetto - assolutamente ingiustificato se riferito al complesso della sua ricerca, ma comprensibile quando viene da chi non ha visto i suoi spettacoli precedenti - di velleitarismo. Persino un'accusa di qualunquismo di sinistra. Insieme a lavori di Perlini e di altri, tra gli spettacoli delle cantine romane parodiate da Nanni Moretti in Io sono un autarchico (primo film del 76) dove viene imitata la scena degli scontri e citato l'abbigliamento fantascientifico degli attori. Questa esperienza rimane nell'autopercezione del regista, che è solito considerare riuscito un suo spettacolo solo se ha fatto progredire la ricerca, come un passo falso. Difficilmente vi ritornerà con il pensiero e altrettanto difficilmente vi farà riferimento come esperienza significativa del proprio iter artistico. Nei suoi contenuti, alla luce degli sviluppi del mondo contemporaneo, in una certa misura spettacolo profetico. Proust 1976 Torna a lavorare su un grande testo letterario, Alla ricerca del tempo perduto: convinzione che come altre grandi opere della modernità esso abbia “tutte le caratteristiche per costituire oggi quello specchio della società e dell'inconscio collettivo che ai tempi dell'antica Grecia era rappresentato dalle opere di Eschilo e di Sofocle. La nostra massima ambizione sarebbe di istituire lo stesso tipo di rapporto, lo stesso pathos tra il pubblico e lo spettatore”. La galassia di situazioni così finemente analizzate da Proust nella Recherche costituisce Un altro elemento ricorrente nello spettacolo sono le scale che riappaiono in altra forma, orizzontali, nella scena del funerale. Sembrano due grandi bare, hanno fregi dorati, e quando vengono appoggiate alla parete di fondo della scena, divengono una sorta di monumento sepolcrale (richiamo alle cerimonie funebri di fine 800, in particolare idea tratta da foto del funerale Victor Hugo, e allo stesso tempo una prefigurazione del funerale di Proust). Ulteriore ricorrenza è costituita dal tema dei cavalieri medioevali. Da bambino Proust aveva un forte interesse per le storie dei cavalieri della Tavola rotonda. Sembra sia accaduto qualcosa di grave, come l'infrazione di una regola o la rottura di un patto, che potrebbe forse riguardare l'amicizia tra cavalieri. La situazione si sfalda, le corazze vengono abbandonate. C'è una promessa, rivolta a Proust bambino, di un possibile incontro futuro. Verso la fine dello spettacolo si realizza l'incontro promesso nella scena iniziale (accennano una sodomizzazione, mentre la scena va al buio). Anche in Proust come negli spettacoli precedenti c'è un finale aperto: indossando le corazze tutti i personaggi dello spettacolo sembrano precipitare, uno alla volta, come su un palcoscenico in pendenza, verso una luce proveniente da fuori scena come se fossero attratti, richiamati da una possibilità. “Uno spettacolo fuori dall’ordinario per più ragioni: fra le varie invenzioni, il flusso circolare del movimento evoca in modo mirabile quello del tempo, moltiplicando i personaggi. Lo stupore di molti è come si sia potuto in un'ora e 10 minuti sintetizzare un romanzo di 3000 pagine. Di qui le voci che lo spettacolo sia illustrativo, fotografico, il che non è. Lo spettacolo è autonomo rispetto alla Recherche” (Gerardo Guerrieri) Lucia Vasilicò: dalle urla in cantina al teatro del silenzio Debutta in teatro nel 1969 in Missione psicopolitica. Geniale e vivacissimo alter ego del fratello, suo specchio per affinità e rilanci, con un ruolo trainante nella compagnia sul piano creativo ed energetico, e come brillante e sagace pungolo critico durante la preparazione degli spettacoli. In genere è lei stessa ad elaborare testi e movimenti per il personaggio da interpretare. “È l'altra faccia del regista. Le sue esperienze parallele sono proprio quelle che Giuliano non ha avuto. Ma la comune matrice psicofisica elargisce due straordinari vantaggi: la complementarietà e la simmetria” (Bartolucci) Riscuote un grosso successo personale la sua folle Ofelia: “Rimane un pezzo a parte, indimenticabile” (Bartolucci) “Il compito svolto da Madame Duclos è quello di eccitare il padrone con terrificanti racconti di orge e di delitti simili a quelli che il despota compie ogni giorno”. Dopo L’uomo di babilonia, partecipa per un certo periodo alle prove di Proust. Da esse a un certo punto si allontana, non trovando nello spettacolo una collocazione che le corrisponda. La temporanea separazione da Giuliano segna il momento nel quale decide di lavorare autonomamente, di diventare pienamente autrice, e regista di sé stessa. L'esperienza del collegio dalle suore da adolescente, la fascinazione esercitata su di lei dallo zio schizofrenico, gli infiniti i conflitti con la madre, sono tra gli elementi che alimentano il suo lavoro. Il suo essere in scena è ossessione, turbamento, iterazione, allarme, invocazione, vuoto che congiunge il tutto. La parola è assente. Lucia predilige il silenzio. “Dopo aver gridato a squarciagola nelle cantine nei teatri con Giuliano Vasilicò, da sola tace” (Lucia Vasilicò) Per il primo lavoro (Lola, 1977, che prova e presenta al Beat 72), parte dall'epistolario con lo zio: dal personaggio prigioniero di se stesso che scrive alla nipote- idolo. Sedia a sdraio, a Viareggio, ai piedi della quale fogli di carta contenenti testi, che nel corso della performance legge in ordine casuale. La prima fila del pubblico, per suggerimento di Simone Carella (che segue da vicino alla messa a punto di tutti i lavori che vi vengono presentati) è sistemata su sedia a sdraio. Gli spettatori si sentono così parte dello stesso luogo, illuminato come una spiaggia d'estate a mezzogiorno, avvolto in un rumore di onde. Il lavoro successivo è creato e presentato fuori dal teatro: La casa trasparente (1978), performance- percorso prodotta dal Beat 72 realizzata all'aperto. Intervista a Lucia Vasilicò Nel nostro lavoro il movimento, la gestualità, sono sempre stati importantissimi. Nella mia Ofelia c'era la danza, e c'era il canto. Non abbiamo mai recitato. Chi ha mai recitato? Noi si faceva sul serio. Veniva tutto da dentro. Giuliano creava sempre tensione prima dello spettacolo. Urlava sempre. Quando era in scena, non usando parole sue, non dovendo vergognarsi di quello che diceva, riusciva a recitare. Quando ci siamo separati definitivamente, è stato uno sbaglio. Nessuno dei due aveva capito quanto era importante la nostra unione. Antonioni gli ha detto che il suo teatro gli piaceva perché con la luce creava i primi piani, era un teatro cinematografico. Giuliano fu molto colpito da quel giudizio. Senza il teatro antico non può esservi avanguardia. Forse l'impedimento più importante è stato il perfezionismo di Giuliano, la sua ostinazione, il suo voler sempre arrivare al nocciolo. E rispetto a Musil, questo si è rivelato particolarmente difficile. Diceva sempre che se Musil aveva impiegato 10 anni a scrivere L'uomo senza qualità, lui non poteva metterci meno a fare lo spettacolo. Non teneva in nessun conto le necessità produttive, la sopravvivenza… In genere non scrivo gli spettacoli. Vengono direttamente dei sogni. Dei sogni mi interessa molto il fatto che non c'è morale. I rapporti sono esclusivamente rapporti sessuali, non esistono altri tipi di rapporto. Fellini una volta mi disse che avevo allo stesso tempo 100 anni e 7 mesi, che ero una neonata con una lunga vita alle spalle, una bambina più vecchia di lui. Vicino casa mia c'era una casa non finita, che aveva la struttura in cemento armato, ma non le pareti. Una casa trasparente, appunto. Era come mi sentivo io in quel momento: incompiuta. Giuliano era capace di estirpare negli altri le resistenze ad esprimersi. Chiunque entrava in teatro per lavorare, lo metteva subito in scena per conoscerlo e perché lui stesso si conoscesse. Gli faceva lanciare suoni animali, assumere posizioni grottesche, rabbiose. Ci si trovava di fronte a se stessi, come per la prima volta. Agostino Raff tra musica e scena Poeta, pittore, scenografo e musicista. Dice di Giuliano: “Con questo terapeuta di se stesso, con questo medium delle riserve gestuali e vocali dell’oltreteatro, ho lavorato per imprese espressive di estrema coerenza”. Ruolo fondamentale nel lavoro della compagnia e una collaborazione a tutto tondo, nella quale si occupa del suono, della scenografia, dei costumi e delle luci. Questo corrisponde alla sua visione dello spettacolo, che condivide con Vasilicò, come unico corpo, come organismo muscolare. Non mancano tensioni iniziali: “Il regista continua a mostrarsi insidiosamente scontento della mia prestazione amichevole di attore, in nome del suo perfezionismo”. Amleto: un trono a due posti, dorato come uno scrigno longobardo. Una scelta di estrema sintesi che si rivela vincente. Con l'aiuto dei cambiamenti di luce si hanno diverse valenze, anche molto differenti tra loro. Il lavoro successivo di Raff con Vasilicò è Le 120 giornate: anche in questo caso una collaborazione a tutto tondo (scenografia, costumi, musica). I dispositivi scenici qui si limitano sostanzialmente a una serie di carrelli neri movimentati nello spazio semibuio (i famosi caroselli dello spettacolo). Richiamo agli abiti facili da togliere previsti per le vittime nelle 120 giornate, al vestire sadiano funzionale, adatto ai doveri della lussuria. La luce, pensata in collaborazione con il regista, rende nel corso delle figurazioni un'aria densa e immobile, e nel suo determinare (con accensioni e spegnimenti) i passaggi da una scena all'altra, ha una complessiva, fondamentale funzione temporale e ritmica. Per questo lavoro costruisce scenari futuristici, con pareti e torri in lamiera ondulata, e disegna costumi da fumetto spaziale. La musica è eseguita da un trio di ottoni e, in due brani, dallo stesso autore all'organo. Raff non partecipa alla realizzazione dello spettacolo successivo, Proust, perché i temi dello spettacolo non sono nelle sue corde. Intervista a Agostino Raff Ero andato a vedere Missione psicopolitica, un lungo monologo, quasi un'improvvisazione, dove Vasilicò faceva deflagrare la parola fra tensioni vocali spasmodiche e brevi silenzi tormentosi, qualcosa che ti prendeva alle viscere. Ho pensato che in lui il coraggio di essere se stesso aveva toccato il sovrumano. Mi affidò il ruolo di protagonista nel suo secondo spettacolo, L'occupazione. Mi piaceva in sé l'idea di fare l'attore, ma Giuliano mi mise in croce, con prove sfiancanti. Del resto teorizzava che l'attore esasperato rende molto di più. Amleto come scenografo, un lavoro che mi ha entusiasmato, che tutti avrebbero dovuto vedere, nel quale c'era tutta l'abilità nel togliere, nell'arrivare all'essenziale, tipica di Giuliano. Seguivo le prove per cercare di intuire quello che voleva, e voleva il meno possibile. Per me era una grande frustrazione: lavoravo moltissimo rispetto a quello che poi sarebbe apparso nello spettacolo. Questo lavoro di scrematura era una costante di tutti i suoi spettacoli, e non riguardava solo il mio lavoro ma anche quello degli attori. Devo però dire che questo suo andare all'essenza è stato per me un grande insegnamento. Nelle 120 giornate la scenografia era praticamente inesistente: spazio nero e carrelli neri sui quali venivano portati i personaggi, in una serie di caroselli. Tutto si basava sulla luce, che aveva un'impostazione semplice: frontali, tagli e controluce, ma funzionava molto bene. Scelta strana poco comprensibile (se si considera il Vasilicò precedente) fu quella di prendere attori tradizionali, un attore come Massimo Foschi. Nell'ambiente si diceva che Musil assomigliasse a una figura per Giuliano molto importante, quella del padre: potrebbe esserci una relazione con questa scelta e forse anche con la sua crisi creativa. Per lui il padre era Ulrich, Massimo Foschi, una figura superiore intoccabile come il padre. Avrebbe voluto sempre continuare a lavorare su suoi spettacoli, ma a un certo punto erano spesso gli attori che insieme si rifiutavano di farlo, per mettere fine alla loro esasperazione. Un'esasperazione alla quale Giuliano li portava con i suoi continui ripensamenti, con le sue pretese di ricominciare continuamente da capo, mettendoli sotto un torchio che non creava volontariamente. L'esasperazione era anche la sua, era nel suo temperamento. Goffredo Bonanni e la scenografia come spazio dell'interiorità Architetto e scenografo di formazione, assiste nel 1971, a ventuno anni, all'Amleto, e ne rimane affascinato. Entra a far parte del gruppo che sta preparando lo spettacolo successivo, Le 120 giornate, del quale è Agostino Raff a curare la scenografia. Lui si occupa di vari aspetti e soprattutto del trucco e svolge, fin dall'inizio, un ruolo critico e di stimolo riguardante anche altri aspetti del lavoro. Vasilicò ragiona sullo spazio in termini di materia poetica: non cerca nella scenografia soluzioni ambientali illustrative o mimetiche, ma un contributo sostanziale sul piano del senso, della drammaturgia, ed un elemento di relazione concreta e simbolica con gli attori. È interessato ai caratteri dimensionali, volumetrici, energetici dello spazio: caratteri che tende a mettere in rapporto con i contenuti del lavoro secondo ragioni profonde, forme, tensioni. “In tutti questi anni ho elaborato una teoria di cui sono assolutamente certo: ogni spazio potenzialmente può ricevere solo un suo contenuto testuale molto preciso. Certe cose in 5 metri si possono dire, altre no… hanno bisogno di almeno 8 metri, non scherzo!” Questo modo di mettere in rapporto le dimensioni dello spazio con i contenuti è molto indicativo della sua concezione energetica, piuttosto che descrittiva o stilistica, della scenografia. A questo si aggiunge anche la considerazione dello spazio come qualcosa che si determina durante il processo di lavoro, nelle relazioni con gli attori, gli oggetti, il movimento, la luce, il suono. Qualcosa che non viene, quindi, nei suoi dati essenziali, prefigurato a tavolino, come spesso accade nelle pratiche correnti. Bonanni inizialmente rimane spiazzato da questa impostazione, ma ne avverte subito le ragioni profonde e le potenzialità, e non tarda a trovarvi una sponda vitale. Copre interamente i volti con colori compatti: i visi dei performer così divengono significative macchie cromatiche all'interno delle visioni, elementi non naturalistici di identificazione dei “tipi” scenici. Raccoglie i capelli degli attori in alto, in un ciuffo al centro del capo, lasciando la nuca scoperta, con evidente risonanza con le acconciature cui erano sottoposti i condannati alla ghigliottina per lasciare libero corso alla lama (Sade, Bastiglia). Dopo la parentesi dell'Uomo di babilonia, spettacolo che condivide poco nella sua impostazione, e che anzi segna per lui un momento di crisi rispetto alla collaborazione con la compagnia, Bonanni riprende la sua ricerca in occasione della realizzazione di Proust, lavoro per il quale si immerge in un lungo ed intenso periodo di studio ed elaborazione, e che costituisce un punto di svolta nella sua consapevolezza del ruolo nello spazio nello spettacolo. A questo lavoro, non per caso, collabora non solo come scenografo, costumista e ideatore delle luci, ma anche per la scelta dei testi e come attore. Gli è ormai chiaro come non sia possibile pensare e realizzare efficacemente lo spazio di uno spettacolo se non si è pienamente coinvolti nelle sue scelte di fondo, e se non se ne vive la preparazione e la presentazione da dentro. “Vivevo dall'interno uno spazio ideale. Credo che sia la condizione più giusta per uno scenografo: pensare una scena stando ci dentro. All'interno si ha una sensazione dei bisogni spaziali molto più diretta”. La semplicità e la sintesi sono attitudini di fondo del suo operare. “La scenografia viene anche costruita con le parole. Per rendere un salone del 700, a volte si commettono degli errori costruendo molte più cose di quelle che servono, perché non si è tenuto conto di una frase che già da sola ha reso mezzo salone. Gli scenografi che non seguono tutte le fasi della lavorazione spesso ridondano, e rischiano continuamente di fare di più di quello che sarebbe necessario”. E ancora: “La scenografia è la comprensione dal di fuori di uno spazio interiore. È un po' come nei sogni per la psicoanalisi, dove il paesaggio sognato può essere letto come l'estensione del corpo del sognatore. Nel caso di Proust, la scenografia era l'estensione del corpo di Proust e gli attori stessi ne erano delle escrescenze. Tutto (attori, scenografia, spazio, spettatori) fa parte del sogno sognato da Proust”. Bonanni non è interessato a descrivere gli ambienti nei quali, nella realtà di ogni giorno, Proust si muove, ma lo spazio della sua interiorità. Individua delle corrispondenze tra spazio proustiano e figure archetipiche, che identifica essenzialmente con il pozzo nero, il baratro, la tomba, il vortice. Un ruolo specifico svolge in questo la luce, messa in campo come materia mobile, energetica, poetica e ritmica, e come veicolo di senso. “Per Musil ho immediatamente capito che funzionava uno spazio orizzontale. Lui immagina di muoversi sempre orizzontalmente, parla di treni. Se lo spazio di Proust era quello verticale, della tensione verso l'alto, dalla salita sulla guglia più alta della cattedrale gotica alla caduta nel tunnel nero della malattia e della morte, quello di Musil si può invece identificare con il doppio cono ottico, anche questo un pozzo all'infinito, ma frontale”.
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