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Un Van Gogh per Snoopy, Sintesi del corso di Museologia

L’obiettivo del libro, che nasce da esperienze di insegnamento, di ricerca, di confronto con gli insegnanti, di dibattito pubblico, è quello di stimolare e indirizzare l’azione pedagogica verso un’idea di progresso e di etica pubblica che accolga l’educazione all’arte e alla bellezza tra i suoi fattori strategici. L’esperienza estetica aiuta ad esplorare il paesaggio interiore che ci caratterizza, costruisce un senso e ci porta alla conquista della felicità.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 15/12/2023

flaviaaa98
flaviaaa98 🇮🇹

4.5

(11)

6 documenti

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Scarica Un Van Gogh per Snoopy e più Sintesi del corso in PDF di Museologia solo su Docsity! Un Van Gogh per Snoopy Introduzione Da alcuni anni si assiste ad un proliferare di contributi e riflessioni in ambito educativo, politico, filosofico e psicanalitico, volti a rinvigorire la presenza della bellezza nella nostra società a fronte di un fenomeno di “ripudio della bellezza” che ha caratterizzato la cultura del Novecento. L’esperienza estetica sembra aver riconquistato un posto di primo piano nel confronto sociale sul progresso e sulla modernità. Tuttavia, affinché il dibattito sull’ontologia e la fenomenologia della bellezza si traduca in progetto e in impegno democratico, occorre interrogarsi sul significato che oggi l’esperienza dell’arte assume per ciascuno di noi. Da un lato si registra un crescente desiderio di appagamento estetico, dall’altro però un’oggettiva difficoltà di comprensione dei linguaggi espressivi che si impongono con la loro complessità e i loro tempi in un mondo caratterizzato da immediatezza di fruizione e dal “consumo” delle esperienze. L’arte, la musica hanno bisogno di tempi dilatati, richiedono attenzione, ascolto, pazienza, tutte attitudini e comportamenti che mal si adattano all’età liquida, veloce che stiamo vivendo. L’arte sfugge ai criteri di istantaneità a cui la nuova tecnologia ci ha abituati, di fatto inibendo una parte della nostra sensibilità, creatività e intraprendenza. Così l’arte si presta ad essere un antidoto rispetto all’omologazione generalizzata. L’obiettivo del libro, che nasce da esperienze di insegnamento, di ricerca, di confronto con gli insegnanti, di dibattito pubblico, è quello di stimolare e indirizzare l’azione pedagogica verso un’idea di progresso e di etica pubblica che accolga l’educazione all’arte e alla bellezza tra i suoi fattori strategici. L’esperienza estetica aiuta ad esplorare il paesaggio interiore che ci caratterizza, costruisce un senso e ci porta alla conquista della felicità. Cap. 1 – L’esperienza dell’opera L’incontro con un’opera d’arte comporta innanzitutto un’esperienza: l’oggetto artistico stimola sempre in ciascuno di noi una reazione e un cambiamento. La qualità di quest’esperienza e la sua forza trasformativa, tuttavia, dipendono dal nostro livello di sensibilità, di conoscenza e competenza linguistico/formale. L’apprendimento, sulla basa di queste particolari condizioni, può quindi essere culturale, emotivo e relazionale. E proprio in virtù di questa esperienza trasformati a che si verifica l’apprendimento. Imparare significa cambiare, accogliere ed elaborare, pertanto l’apprendimento non può essere un fenomeno passivo, che ci vede inerti e non partecipativi. L’arte determina in ciascuno una reazione che in qualche modo ci trasforma, ci mette nelle condizioni di accogliere o rifiutare e di elaborare lo stimolo ricevuto. Inoltre, ci chiede di metterci in gioco, ci sfida con l’intensità e la violenza delle emozioni. Ci provoca nel chiederci di esprimere un giudizio, di scegliere se approfondirne l’esplorazione/comprensione e di indagarne il significato, nell’essere o meno disponibili alle sue sollecitazioni emotive. Rappresenta dunque un passaggio, una trasformazione che non tutti sono disposti ad affrontare. Quella dell’esperienza è una delle grandi questioni che i filosofi moderni e contemporanei si sono posti di fronte all’attualità e al futuro dell’arte. Hegel parlava di “morte dell’arte”, riscontrando una certa inattualità dell’arte, ovvero il suo superamento, la sua inadeguatezza nei confronti della modernità ormai molto complessa. Tuttavia, egli non rinuncia all’esperienza artistica, ma dichiara una diversa relazione con l’opera, un’esperienza diversa e più complessa, che supera il processo di dialogo diretto, spirituale tra uomo e opera. Glorifica la storia dell’arte come fattore pedagogico, come cornice di sviluppo della persona, di accesso alla conoscenza e alla verità, ma soprattutto di conseguimento di uno stato superiore della coscienza (individuale e sociale). Hegel, agli inizi dell’800, riconosce nell’arte una porta di accesso alla consapevolezza storica, un’esperienza utile e necessaria, in senso pedagogico, al conseguimento di una maturità interiore. Il filosofo contemporaneo Hans-Georg Gadamer ha fortemente rivalutato il principio di attualità dell’arte presente. Egli afferma che un’opera d’arte contemporanea può apparire al culmine della forza e dell’efficacia espressiva. Dell’arte del presente egli rileva la genuinità, la capacità di trasformarsi e di venirci incontro. La questione educativa e pedagogica dell’arte rappresenta l’altra faccia della riflessione sull’arte e la bellezza, sulla loro natura e utilità. Ed è proprio nel primissimo ottocento che vennero elaborate proposte interessanti sull’argomento. Spicca su tutti il pensiero di Schiller, poeta, storico e filosofo tedesco, il quale afferma che attraverso l’educazione estetica l’umanità può trovare il giusto rapporto tra razionalità e spiritualità. L’arte e la bellezza sono le palestre indispensabili alla conquista di una consapevolezza civica. L’esperienza è un percorso trasformativo che si attiva di fronte all’opera d’arte in un contesto cronologico e culturale che è il tempo attuale. Una delle questioni da considerare riguarda la natura dell’arte e il suo rapporto con il presente. La trasformazione dei processi culturali e produttivi (a partire soprattutto da riv. Industriale) ha fatto sì che l’arte si distaccasse in modo definitivo dall’artigianato acquisendo uno stato di superiorità sempre più elitario. Questo fenomeno è anche all’origine della separazione tra arte e società, nonché della perdita di comprensione e decodificazione del linguaggio artistico. Nel primo ‘900 emergono due posizioni sostanziali sul rapporto tra esperienza estetica e dimensione sociale: 1. Adorno considera l’arte del tutto sganciata da una relazione con il flusso della modernità 2. Dewey sostiene al contrario una continuità tra progresso, quotidianità ed esperienza artistica Tali prospettive si appoggiano alle riflessioni di altri due intellettuali: - Simmel rileva l’effetto atrofizzante che la serialità del presente industrializzato determina sulle nostre capacità percettive, un impoverimento della sensibilità. Nel suo pensiero prevale il senso di perdita dell’autenticità dell’opera d’arte (immagini pubblicitarie, riproduzioni, ecc.). - Benjamin sostiene la qualità democratizzante della riproducibilità tecnica delle immagini che ha consentito maggiore accessibilità all’esperienza estetica ed il suo passaggio da dimensione elitaria e prodotto di consumo facilmente “acquistabile”, più accessibile, familiare e presente nel nostro quotidiano. Da questi contributi affiora il principio di fondo che non soltanto la produzione artistica risponde alla sensibilità e alle dinamiche del tempo attuale, ma che la fruizione dell’arte, così come il bisogno di esperienza estetica e la sua comprensione, vengono influenzati da quelle stesse dinamiche e da quella sensibilità. Parlare dell’esperienza dell’arte impone, dunque, una contestualizzazione storico-culturale per comprendere l’uomo, protagonista dello scenario “esperienza”. La bellezza e l’appagamento estetico sono un obiettivo dell’essere umano: ciascuno di noi anela all’esperienza della bellezza. Tuttavia, le circostanze culturali e sociali molto influenzano la definizione di bellezza e la sensibilità necessaria a riconoscerla. Il teologo Vito Mancuso riconosce la capacità dell’oggetto artistico di commuovere e attivare la nostra sensibilità. Diverso è l’approccio di chi invece prova a concentrarsi sul processo anziché sull’oggetto: la bellezza, in questo caso, non esiste di per sé, ma prende forma nel cuore e nella mente di chi la riconosce e le attribuisce un valore sulla base della reazione che un determinato fenomeno riesce ad attivare. Tale prospettiva accetta il principio per cui la bellezza è un bisogno dell’uomo (che in essa cerca felicità, appagamento, emozione) e afferma l’idea che il valore della bellezza muta al mutare delle circostanze e delle condizioni, per cui la bellezza si rapporta al fattore tempo. Il Novecento ha decretato una sorta di rinuncia alla bellezza e all’esperienza estetica come contesto di armonia e di equilibrio. Questa rinuncia corrisponde in realtà a nuovi bisogni, alla ricerca di un diverso ruolo dell’arte e della cultura, ma anche ad un’evoluzione dell’esperienza dell’opera d’arte e dell’esperienza estetica, più profonda e complessa. Agli inizi del XX secolo l’esplorazione dell’inconscio e la nascita della psicoanalisi aprono le porte a dimensione intuite ma fino ad allora mai considerate con scientificità, rispetto alle quali l’arte deve potersi misurare, sviluppando nuove strade d’indagine e nuovi linguaggi. L’arte del ‘900 ha svolto questo cruciale compito di indagine e visualizzazione del dato interiore, legittimandosi come linguaggio aperto e totalmente sperimentale, talvolta provocatorio. Ciò che sicuramente il Novecento ha decretato con assoluta chiarezza è che la bellezza nella modernità ha un valore dinamico e difficilmente può confinarsi nella classica cornice di simmetria, equilibrio e armonia, ma si riconosce per il suo tratto di vitalità e incompiutezza. C’è un termine particolarmente idoneo a definire l’esperienza della bellezza nelle opere d’arte e non solo: si tratta del concetto di “pienezza”, accompagnato dal principio di intensità e di arricchimento. Todorov riconosce nella “pienezza” uno spazio immaginario di quiete, di assoluta gratificazione e di pace interiore. Bellezza nella modernità si caratterizza principalmente come stato di appagamento e di esperienza spirituale che muove l’animo e lo dispone verso uno stato contemplativo e di innalzamento, ma soprattutto di intensità e di profondità emotiva. L’opera d’arte sentita e compresa nella sua essenza ci riempie, trasmette un senso di effettiva apertura interiore, lasciandoci accedere ad una categoria di “grandezza” che percepiamo come edificante e assoluta. Il termine grandezza venne usato da Winckelmann per definire la bellezza dell’arte greca. Le parole “nobile semplicità e quieta grandezza” utilizzate per descrivere la principale caratteristica dei capolavori greci, hanno segnato la storia del gusto definendo con efficacia e chiarezza cosa ricercare nell’esperienza dell’opera d’arte e come In alcuni momenti l’arte di avanguardia è stata messa in discussione al punto da essere formalmente processata, molti sono i casi e gli esempi in questione (caso Brancusi e opera “bird in space” tassata alla dogana come attrezzo da cucina e non opera d’arte). Nasce quindi un dibattito significativo che pone l’opera d’arte come oggetto di discussione che deve fare i conti con il sistema complesso della modernità, con le sue regole e le sue categorie. E questo è tanto più significativo in un’epoca (primo Novecento) che vede l’affermazione di movimenti volti a contestare qualsiasi forma di ingabbiamento, di controllo e selezione dell’espressione artistica. Contro il principio di libertà dell’arte espressivo dalle avanguardie si levano le tasse doganali e le regole della civiltà moderna. Sarebbe assurdo immaginare un passato in cui la creazione artistica era priva da proteste e contestazioni, a partire dal Manierismo e poi con il barocco, le critiche nei confronti dell’espressione artistica si fecero sempre più feroci. Ma è soprattutto nell’800, come afferma lo studioso inglese Haskell, che si sviluppa un atteggiamento di scetticismo nei riguardi della novità dello stile e una generale incomprensione, talvolta trasformatasi in odio, nei confronti di grandi artisti sperimentatori. Cap. 3 – Estetica, spiritualità e sentimento nell’esperienza artistica Con la pubblicazione de “Lo spirituale dell’arte” (1911), Kandinskij propone una stagione creativa che affida all'arte la funzione primaria di condurre l’uomo verso una nuova spiritualità. L’attenzione verso la dimensione della trascendenza e verso il superamento del rapporto con la natura è un tratto ricorrente dei movimenti di avanguardia di inizio secolo; più in generale, si è detto, l’interesse per codici espressivi tesi a liberarsi dal rapporto con la materia, con la forma e con il volume. L'ispirazione dell'artista è mossa dall’afflato spirituale che egli riesce a trarre dall’essenza della materia. Il contesto della natura morta costituisce la sfida per eccellenza di questo rapporto con una essenza misteriosa e intangibile, con una vita silenziosa delle cose (es. Cézanne o Morandi). La nascita della natura morta come genere pittorico si verifica tra fine ‘500 inizio ‘600, coincidendo da un lato con l’esplosione del naturalismo e dall’altro con una diversa religiosità, più vicina all’uomo e ai suoi affetti, che in quel naturalismo riconosce uno strumento di fede. La canestra di frutta dipinta da Caravaggio nel 1599 e conservata oggi alla Pinacoteca Ambrosiana è un saggio di indagine sul naturale, così denso di simbolismo e di trascendenza da sostituire un trattato teologico. E’ la sua incredibile capacità di sublimare il dato materiale e di avvicinarsi al trascendente per il tramite del simbolo che ci affascina e ci cattura. È indubbio, inoltre, che nella storia dell’arte lo sforzo di tanti artisti è stato quello di rendere tangibile l’immateriale consistenza del divino, di rendere misurabile l’infinitezza dell’eterno e dell’universale. Ad esempio, una mostra sulla spiritualità dell’arte russa organizzata ai Musei Vaticani (2018-19) che partiva dalla grande tradizione delle icone per chiudersi con un quadrato nero di Malevic, ha dimostrato come il senso della spiritualità può essere espresso in qualsiasi linguaggio formale e con qualsiasi mezzo espressivo, in base a fattori storico-culturali che possono mutare in modo anche radicale, ma senza tradire di fatto la potenza del messaggio artistico. Elio Franzini nella sua “Fenomenologia dell’invisibile” ha indagato sulla questione del rapporto tra rappresentazione, immaginazione e significato. Egli, riprendendo Paul Valery, individua una dimensione denominata quarto corpo che sostanzia ciò che appartiene e al contempo trascende la rappresentazione; esso è il punto di raccordo tra l’immagine artistica e la coscienza del riguardante; esso sublima l’incontro tra l’intima essenza della cosa e lo spettatore. Franzini poi estende la questione del quarto corpo ad un concetto di aura che è molto più ampio della visione di Benjamin: “Questa sorta di attesa (percettiva, culturale, motivazionale) che circonda la presenza di alcuni oggetti del nostro mondo circostante [...]”. L’aura è una dimensione che induce il riguardante a percorrere itinerari conoscitivi, a dialogare con la memoria, con la forma, con il significato, a creare discorsi e a fornire soluzioni, elaborare valutazioni di senso. Insomma, l’aura è quella proprietà di intensità simbolica e spirituale che contraddistingue l’opera d’arte e che è terreno di incontro tra lo spettatore e l’opera d’arte e stessa, in una relazione di indagine e di raccoglimento che è del tutto soggettiva e che si concretizza attraverso l’apporto che lo stesso spettatore fornisce. L’opera diventa uno strumento per lo spirito e l’immaginazione. Un’altra questione da affrontare è quella della proprietà imitativa dell’opera d’arte. Leonardo (1452-1519) quando teorizzava la rappresentazione degli affetti, si preoccupava soprattutto della capacità dell’artista di riprodurre il dato reale nel modo più verosimile e convincente. In linea con la cultura rinascimentale, la ricerca di Leonardo sulle emozioni punta principalmente a rendere l’opera prossima al vero, tale da sfidare la stessa natura (egli si rivolge alla forza espressiva dell’opera in sé). L’obiettivo, tuttavia, non è quello della verità ma della verosimiglianza, differenza importante perché parla di un principio di finzione che punta a sorprendere lo spettatore di fronte allo spettacolo di un artificio che possa rendere l’effetto del vero, ma che non ha lo scopo di registrare un dato di realtà. Come diceva Aristotele: “Quelle cose che ci fanno soffrire quando le vediamo nella realtà ci recano piacere se le osserviamo immagini che siano il più possibile fedeli, come i disegni delle bestie più sordide o i cadaveri”. L’arte afferma in questo modo il suo scopo imitativo, il suo essere sostanzialmente un inganno: un vero e proprio topos del dibattito sul rapporto tra arte e natura, che non a caso è oggetto di celebri e fortunatissimi aneddoti, a partire dalla disputa tra Zeusi e Parrasio narrata da Plinio il Vecchio (vedi nota 11 a p. 47). Gli artisti del passato non si arresero di fronte alla sfida della natura, una sfida che non riguarda soltanto la qualità dell’artificio (il suo essere o meno identico alla natura), ma che riguarda la reazione, l’effetto, il coinvolgimento che l’opera-artificio produce sullo spettatore. Vi sono due proiezioni fondamentali sulle quali riflettere quando si osserva un’opera d’arte: 1) Percezione della sua qualità esecutiva, la perizia tecnica e imitativa 2) La sua qualità espressiva, ovvero la capacità di stabilire una relazione emotiva con lo Spettatore, di renderlo partecipe e commuoverlo. L’evoluzione dei linguaggi, dei temi, delle tecniche artistiche ha fatto sì che, specialmente a partire dalle avanguardie storiche, la seconda proiezione descritta si emancipasse progressivamente della tirannia dell’immagine e del dato di realtà. La forza espressiva dell’opera ha conseguito dimensioni evocative e simboliche molto più potenti della semplice fedeltà al vero. Ma non è solo prerogativa della contemporaneità: è fenomeno interessante quello della rinuncia all’immagine che caratterizza l’opera tarda di alcuni grandi maestri del passato es. Tiziano, Michelangelo, Rembrandt che negli ultimi anni di attività hanno adottato scelte espressive che prediligono il canto della materia, la luce vibrante che scarnifica la forma, il colore che si raggruma sulla superficie etc. L’epoca in cui si registra una particolare attenzione alla questione della proprietà imitativa dell’opera d’arte, lavorando al tempo stesso sulla sua forza di coinvolgimento emotivo, è il Seicento, in cui il tema dell’inganno della pittura accomunava molti artisti (Gerrit Dou, pittore fiammingo, nella sua “Pittore con pipa e libro” realizza una tenda che è un chiaro rimando alla sfida tra Zeusi e Parrasio descritta da Plinio il Vecchio). Al tempo stesso, però, il Barocco è anche l’età in cui le arti si congiungono per alimentare la qualità scenografica e l’intensità sentimentale delle rappresentazioni (dinamismo, effetti chiaroscurali, teatralità delle composizioni, concitazione dei gesti e delle espressioni etc.). Le opere d’arte diventano vere e proprie macchine della commozione com’è il caso del bel composto berniniano, paragonabile al montaggio cinematografico da Giovanni Careri, il quale sottolinea l’importanza della contestualizzazione storico-culturale per comprendere il funzionamento della relazione opera-spettatore/fedele. Non va dimenticato che quella modalità di interazione, immersiva e dinamica, entra a far parte della cultura visiva dell’Occidente influenzando i valori estetici e la sensibilità emotiva delle generazioni successive di devoti e diffusori. La curvatura patetica dell’espressione artistica, il suo parlare alle emozioni reclamanti partecipazione al fruitore, costituisce in alcuni contesti fattore decisivo del patrimonio emotivo di determinate culture. Es. tradizione dei calvari, realizzati in Spagna, vere e proprie messe in scene che hanno lo specifico intento di evidenziare la carnalità della Passioni di Cristo. Un principio fondamentale dell’esperienza estetica è quello della sofferenza. La bellezza commuove e nella sua esperienza profonda genera sconforto e dolore. Si tratta di un tema frequentemente affrontato da poeti e scrittori. Ci sono almeno tre livelli della sofferenza della bellezza che possiamo considerare: - quello derivante dalla fragilità dell’opera d’arte - quello che riguarda la rinuncia al sé e dunque la sofferenza che il perdersi nell’altro può suscitare - Quello che riguarda la consapevolezza che la sensazione di appagamento può avere una breve durata Gli psicanalisti parlano di un’angoscia della bellezza che è soprattutto una consapevolezza del possibile e non raggiunto incontro con l’oggetto desiderato (il sogno, il bello). L’esperienza estetica autentica ci annienta e ci dilania perché oltre non possiamo immaginare nulla di più intenso. Il sentimento di dolore che ci invade di fronte al grande capolavoro racchiude la consapevolezza di un’estrema felicita che è però transitoria. Sappiamo di non poter possedere quella sensazione per sempre, di doverla perdere immancabilmente. Inoltre, l’incontro con l’opera impone una perdita di sé, l’esperienza estetica richiede coraggio e rinuncia: incontriamo l’opera lasciamo che nutri dentro di noi e accentiamo di entrare nella sua dimensione altra, diversa da noi. Questo stato di abbandono provoca sofferenza, ci liberiamo del presente per entrare nell’assoluto e questo percorso è sublime, lacerante. La bellezza è un premio ambito che acquista valore per la sua condizione di rarità e di difficile conseguimento. Vi è una condizione di dolore da sopportare per poterla raggiungere e questo rende l’esperienza più gratificante ma ancor più doloroso il distacco. Es. passo di Teresa d’Avila in cui la santa mistica descrive il momento dell’estasi mistica proprio come un intreccio tra bellezza e dolore a cui Bernini diede forma nel magnifico complesso di Santa Maria della Vittoria a Roma, 1647- 52). Cap. 4 – Passato e presente: incontrare la storia L’esperienza artistica rappresenta una frattura della logica temporale, una sorta di insenatura che si apre nelle trame della storia, permettendoci di entrare e di vivere l’emozione di un viaggio nel tempo. A questo desiderio si rivolge spesso la concezione degli allestimenti e degli itinerari di visita dei musei, sfruttando antiche e nuove modalità di esposizione. Un sistema suggestivo che ha sempre colpito il pubblico è quello delle period rooms; sale museali volte a ricreare contesti evocativi, con tanto di arredi e suppellettili, per favorire esperienze di visita immersive. Oggi subentra anche la tecnologia che consente ricostruzioni virtuali e strumenti di altro genere che facilitano questo viaggio temporale. Es. applicazione Time Machine messa a disposizione dal MET di New York. La proprietà evocatrice dell’opera d’arte è uno dei fattori più affascinanti dell’esperienza artistica: di fronte al manufatto sappiamo di incontrare frammenti di vita reale. (es. film di A. Hitchcock “La donna che visse due volte” (Vertigo, 1958) in cui la protagonista è convinta di riconoscere sé stessa in un’altra vita nel ritratto esposto in una galleria). Le opere sono storie di uomini e come tali prendono vita, come tali assumono interesse e coinvolgono l’attenzione del pubblico. Ne è un esempio concreto la fascinazione nei confronti dell’Antico Egitto che caratterizza grandi e piccini. Gli oggetti sono avvolti da un’atmosfera magica e rappresentano la complessità di rituali sospesi tra il macabro e il trascendente e la coraggiosa sfida dell’eternità. Risulta inoltre irresistibile la funzione di mediazione verso l’aldilà affidata a statue e suppellettili, oggi esposte sotto gli occhi di tutti. La proprietà dell’opera d’arte di porsi come tramite tra vita e morte, tra passato e presente, tra realtà e finzione ha ispirato la fantasia di una quantità di scrittori e registi (Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde; vedi nel dettaglio pp. 59-60). Questo dialogo muto tra opera d’arte e spettatore, così intenso da innescare fenomeni di immedesimazione e di coinvolgimento profondo, non appartiene soltanto alla narrazione cinematografica o letteraria, ma caratterizza anche l’opera d’arte. L’opera, quindi, dialoga con un pubblico immaginario e con lo spettatore. Nelle intenzioni di molti artisti il coinvolgimento dello spettatore fa parte proprio del progetto creativo. Ovvero, in molti casi il funzionamento dell’opera si concretizza attraverso la risposta del fruitore come ad esempio le varie rappresentazioni, tra XV e XVI secolo, del Cristo come «uomo di dolori», strumento volto ad attivare il processo di imitazione dell’esempio del Messia nel fedele, profondamente devoto. Nell’arte contemporanea la partecipazione dello spettatore al meccanismo dell’opera è ancora più esplicita. Es. Specchi di Pistoletto presuppongono uno spettatore che vi si piazzi davanti e che diventa parte dell’opera. Cap. 6 – Conoscere e comprendere L’individuazione del corretto concetto di comprensione è questione filosofica molto complessa e profonda. Per Aristotele la comprensione (synesis) diviene un atteggiamento di apertura, un approccio disponibile ad accogliere la verità. Il filosofo ci parla non della comprensione scientifica, ma di quella morale, che tocca la vera natura dell’essere. La comprensione diviene quindi un atteggiamento di apertura, un approccio disponibile ad accogliere la verità. È su questo aspetto particolare di apertura e di disposizione verso l’altro che l’opera d’arte ci chiede di esercitare la comprensione. Non semplicemente conoscere l’arte, leggerne i significati segreti, riconoscere gli stili e le cifre stilistiche, ma valutarne la capacità poetica e sentimentale, comprenderla dunque con quella propensione all’ascolto che favorisce la compassione e la relazione con la diversità. Heidegger fa coincidere il processo della comprensione con l’interpretazione e gli attribuisce un valore esistenziale, ovvero il carattere di una espressione naturale e imprescindibile dell’essere. L’arte è espressione di un tessuto storico-culturale ma anche frutto di talento, ispirazione e gusto, per cui richiede da un lato lo sforzo e dall’altro la competenza e la sensibilità per poter essere compresa. Gadamer rielabora ed estende il pensiero di Heidegger: le sue conclusioni riguardo la comprensione dell’opera (frutto di un processo di ascolto e immedesimazione), portano ad una visione dialogica tra fruitore e oggetto artistico. Sinteticamente: - L’esperienza artistica sostanzia un incontro tra due dimensioni (quella dell’opera e del fruitore); - L’esperienza artistica non si consuma in senso verticale, come rapporto tra oggetto e soggetto; - Dall’incontro tra opera e fruitore emerge un ulteriore e più profondo significato di verità. Per lui il rapporto con il passato che l’incontro con l’opera può favorire, rappresenta un fattore di arricchimento che conduce ad una fusione di orizzonti: recupero i concetti di un passato storico ed unirli al nostro modo di pensare. In senso più generale, la comprensione dell’opera si concretizza in questo approccio di apertura e reciproco accoglimento tra passato e presente, tra soggetto e oggetto. Il fruitore è parte dell’opera e ne è avvolto nella misura in cui l’opera parla di un linguaggio di cui il fruitore stesso è parte e sostanza. Comprendere è dunque interpretare, fare proprio, entrare nella viva materia dell’opera producendo memoria ed esperienza. Ben diverso appare il semplice conoscere, che costituisce processo di indagine fattuale ben distinta dal processo ermeneutico. La comprensione è un processo creativo che consiste nell’incontro tra oggetto e soggetto: l’esperienza artistica si attua nella sua pienezza soltanto in presenza di un processo di comprensione. “Comprendere un’opera vuol dire anche accettare il suo enigma e lasciare che la fantasia colmi i vuoti”. Cap. 7 – Oltre l’apparenza. La pedagogia della bellezza In questo libro si è sottolineato che, dal punto di vista dell’esperienza, il principio di bellezza non va inteso come categoria estetica, ma soprattutto come dimensione emozionale dello spirito. Di tale concetto va tenuto conto quando si parla del rapporto tra bellezza e educazione. Nel pensiero di Maria Montessori, una delle indiscusse fondatrici della pedagogia moderna, la parola bellezza ricorre spesso in parallelo con la parola felicità e uno dei tratti più interessanti riguarda l’idea che la crescita della persona vada accompagnata da un costante esercizio del godimento estetico. È interessante notare come, nelle Indicazioni nazionali per il primo ciclo d’istruzione (2018), non vengano invece menzionate le parole bellezza e felicità, omettendole quindi dagli obiettivi, strumenti e approcci di chi educa. Lo stesso documento non trascura però l’importanza dell’educazione dell’arte in quanto strumento fondamentale per lo sviluppo della personalità e la formazione di un cittadino capace di esprimersi e di fruire in modo consapevole dei beni, riconoscendone il valore per l’identità sociale e culturale e comprendendone la necessità di salvaguardia e tutela. Ne risulta quindi che l’approccio ministeriale è principalmente storico-culturale e manca di considerare il valore educativo del bello come qualità trasversale che l’esperienza dell’arte può favorire. Secondo Marco Dallari l’educatore esteticamente orientato sa che educare alla bellezza significa favorire e formare sensibilità e competenza emozionale (la bellezza è una dimensione emozionale e dello spirito). Educare alla bellezza non significa insegnare cosa è nello e cosa è brutto, ma educare alla competenza emotiva e della sensibilità perché il contrario di bellezza non è la bruttezza, ma la rozzezza culturale e ignoranza emozionale. In tale visione, la pedagogia della bellezza è applicabile a qualsiasi campo del sapere e dell’esperienza (in ogni campo sono necessarie la sensibilità e la competenza emotiva, anche nel sapere cogliere l’eleganza di un’equazione matematica). È nell’offrire sin dall’infanzia una costante e accurata dieta alla bellezza che si costruisce l’attrezzatura immaginativa e sensoriale necessaria a cogliere il valore estetico del mondo che ci circonda, dei gesti che compiano delle relazioni che intrecciamo. L’educazione alla bellezza è inevitabilmente educazione etica alla cittadinanza. Dunque, il bello diventa modello di vita, di coraggio e orgoglio civico e se ci si abitua ad averla sin da bambini non si potrà più farne a meno. Il dato che emerge sin dall’antichità è che nella bellezza vi è l’attitudine a riconoscervi la proprietà di mediare valori assoluti come la verità, bontà e giustizia. Per Platone la bellezza educa alla progressione dell’essere, mentre per Aristotele ci consente di conseguire felicità e virtù. Un Van Gogh per Snoopy Anche per Schultz (Peanuts), uno dei più grandi fumettisti del Novecento, il mondo dell’infanzia deve includere, per garantire felicità e conforto di fronte alle insicurezze dell’esistenza, la pura esperienza della bellezza. Attraverso la fervida immaginazione di Snoopy, la sua cuccia si trasforma in un Luogo magico dove ogni meraviglia si può manifestare. Nel suo interno, insieme ai libri, dischi e a un prezioso biliardo, vi si conserva anche un dipinto di Van Gogh. Il potere immaginativo dell’arte agisce come stimolo allo sviluppo della fantasia e delle emozioni. È necessario che la comprensione del bello costituisca una base indispensabile per la crescita della persona e venga accolto come principio guida di qualsiasi progetto educativo. Respingere l’idea di una formazione “per sacrificio”, a vantaggio di un’educazione alla felicità. Il Van Gogh di Snoopy è un simbolo di conforto e di accessibilità, una presenza invisibile ma forte, un rifugio per la contemplazione, è il messaggio è che la bellezza è ovunque, che è fragile e va tutelata. Il Van Gogh sembra funzionare come fonte di ispirazione e di energia per il piccolo bracco che ad essa attinge per alimentare un’inesauribile fucina di fantasie, giochi e pensieri profondi. Schulz con grande ironia affronta il tema dell’arte come bisogno, come desiderio di bellezza. Ovviamente noi non abbiamo idea di quale sia il dipinto, ma è proprio il suo stato di invisibilità ad accendere la nostra immaginazione: la sua presenza/assenza innesca una diversa modalità di fruizione, quella immaginativa, quella prodotta dal desiderio non soddisfatto. Tuttavia, non è possibile comprendere il significato di questa presenza/assenza senza aver maturato consapevolezza e sensibilità, senza aver sviluppato la capacità immaginativa di vedere ciò che non è visibile. Questo livello di esperienza dell’arte è reso possibile da un processo di familiarizzazione progressiva con il linguaggio espressivo e con il godimento estetico. Educare significa non soltanto favorire conoscenza e sviluppo di competenze e sensibilità; educando si trasmettono valori e si creano bisogni. Non posso aver bisogno di ciò che non conosco. Se possiamo dare per acquisito il fatto che esiste un bisogno di bellezza, rimane il fatto che l’esercizio della comprensione e il possesso della competenza che sono necessarie a riconoscere la bellezza richiedono un allenamento. È interessante altresì che dopo l’incendio che ha distrutto il Van Gogh Snoopy abbia accolto una tela di Andrew Wyeth, artista statunitense iperrealista poco conosciuto, considerato il poeta del vero spirito americano. Questo passaggio dalla grande pittura europea ad un artista di nicchia evidenzia una posizione di gusto molto significativa ed è fondamentale perché afferma il valore dell’arte non solo come componente assoluta della libertà dell’individuo (tutti abbiamo bisogno dell’arte quotidianamente), ma anche come espressione della singolarità della persona, l’arte ci permette di parlare di noi attraverso altri linguaggi, dando visibilità al nostro immaginario. Rappresenta quindi per Snoopy una conquista di una maggiore indipendenza Esempio di ricomposizione grazie alla nostra capacità immaginativa: caso dell’antica chiesa di San Clemente a Taüll, sui Pirenei → affreschi staccati dell’abside e conservati nel Museo Nacional d’Art de Catalunya. Operazione molto ben fatta, anche se l’effetto di assoluto straniamento rimane poiché non può passare in secondo piano l’allontanamento dell’opera dal suo contesto originario. L’esperienza di visita presso la chiesa sui Pirenei, grazie ad un sofisticato sistema di proiezione, si tramuta in un vero viaggio tra visibile e invisibile che prende forza proprio nell’esperienza immaginativa, nella consapevolezza di potersi proiettare in un tempo e in uno spazio diversi da quelli dove ci troviamo. La piccola chiesa pirenaica si trasforma così in una sorta di macchina del tempo e dell’immaginazione, offrendosi nella sua nuda presenza di architettura spogliata ma degna di una lettura che forse la presenza delle pitture scoraggerebbe. La ricostruzione virtuale coinvolge lo spettatore e attiva una forma di affetto nei confronti delle immagini evocate, di forte potenza. Il gioco dell’arte: come si insegna la bellezza? Sia Maria Montessori che Bruno Munari invitavano a fare della bellezza un tratto costante dell’azione educativa. Tuttavia, il sistema educativo italiano propende per un’impostazione storico-culturale che esclude la creatività e comprime il valore ludico ed esperenziale dell’incontro con il patrimonio artistico. Marco Dallari è più volte intervenuto sul tema dell’opera d’arte come pretesto, ovvero come base di partenza, stimolo e suggestione per generare riflessione e sviluppare meta-cognizione nei bambini. L’opera diventa materiale didattico prezioso per sensibilizzare e costruire l’immaginario. L’esperienza artistica nella scuola è fondamentale, sin dalla prima infanzia. Per i bambini il contatto con l’opera rappresenta uno stimolo multisensoriale. Il gioco, il coinvolgimento laboratoriale, la narrazione sono strumenti irrinunciabili affinché l’incontro con l’opera si traduca in esperienza e scoperta. La familiarità all’arte e al valore della bellezza, l’attenzione al patrimonio, aiuta a suscitare nei bambini un rapporto affettivo, un sentimento di appartenenza che si porteranno dietro in età adulta, aiutandoli a sviluppare curiosità e interesse, ma anche responsabilità e senso identitario (elementi chiave dell’educazione alla cittadinanza). Lo stimolo estetico, inoltre, sviluppa l’aspetto comunicativo e relazionale, invita a confrontarsi con gli altri, a condividere. Nei laboratori realizzati da Bruno Munari, i bambini interagiscono e sperimentano la materialità di certi linguaggi, appropriandosene e facendoli entrare nella loro personale sfera linguistica. A volte Munari estende il livello concettuale dell’esperienza a contesti anche molto complessi, come quello della texture, un profilo di lettura materiale dell’opera niente affatto scontato per il pubblico adulto, per il quale Munari inventa dei giochi divertenti basati sull’impiego di oggetti tratti dalla quotidianità. I bambini così interagiscono e sperimentano con la materialità di certi linguaggi facendoli entrare nella loro personale sfera linguistica. I suoi laboratori sono quindi ambienti di sperimentazione dove si praticano la creatività e la conoscenza, la scoperta e l’auto-apprendimento. Luogo di incontro tra arte del passato e la creatività attualissima operata dal bambino. Egli ha ben presente che nell’esperienza dell’arte dei bambini debba essere compreso l’incontro con le opere del passato. Per Munari il tratto dell’immaginazione è fondamentale nell’educazione all’arte (hanno fatto la storia i suoi laboratori nella Pinacoteca di Brera dove proponeva esperienze sul divisionismo, i segni, le texture, il collage, ecc.). Oggi è soprattutto attraverso l’alleanza tra scuola e museo che si consuma l’esperienza artistica dei bambini. Andrebbe tuttavia, acquisita una maggiore consapevolezza pedagogica (metodologie, strumenti ed obiettivi), per evitare che la dimensione del gioco come forma di apprendimento possa ridursi a semplice attività di evasione è molto concreto. Al tempo stesso, è da evitare che l’esperienza estetica si collochi come fatto eccezionale e saltuario: al contrario, essa dovrebbe caratterizzare l’intero percorso dell’apprendimento scolastico. Gianni Rodari, personaggio cruciale per la letteratura dell’infanzia, fu affiancato proprio da Munari nell’illustrazione di alcuni libri per bambini, scegliendo una formula che accenna la situazione e i personaggi, lasciando al bambino lo spazio per immaginare la dimensione del racconto e anche di completarla. Nella pedagogia di Rodari è interessante l’aspetto creativo, la libertà che intenzionalmente si lascia al bambino di creare un proprio mondo di immagini e parole che preveda un fluido passaggio tra le due componenti. Mark Rothko oltre che artista fu anche insegnante d’arte e si dedicò ad un ambizioso progetto sula pedagogia dell’arte, di cui rimane solo un taccuino di appunti “the Scribble book”, composto da soli 49 fogli. Il monito di Rothko agli educatori è quello di prediligere esempi tratti dall’arte contemporanea, evitando approcci troppo teorici e specialistici, per stimolare l’elaborazione di uno sguardo creativo e un pensiero autonomo, profondamente immaginativo sulla realtà. La scoperta del bello, il bisogno di pienezza e di raccoglimento che la sola esperienza estetica può soddisfare, si scontrano con una sempre più disperante perdita di consapevolezza. L’uomo moderno non vede il bello, non lo sa riconoscere, o meglio, lo cerca nei luoghi sbagliati, pensa di incontrarlo dove non si è mai affacciato, ancora più spesso, si accontenta di consumarlo senza troppi rischi e senza prese di posizione, mettendosi in fila al museo per osservare le opere delle grandi star della storia dell’arte che offrono un prodotto sicuro di un bello omologato, garantito e appagante. In questo modo l’esperienza estetica diventa un rituale collettivo, sterile e faticoso. Il problema è che gli strumenti per comprendere l’arte sono inadeguati per il grande pubblico. Musei e mostre Blockbuster sono caratterizzati da file estenuanti, visite ‘mordi e fuggi’ e tappe obbligate di fronte ai pochi grandi capolavori. Tuttavia, la comprensione dell’arte è desiderata dai molti che cercano di cogliere il senso di ciò che stanno guardando e che non riescono a vedere dalle parole di chi magari, accanto a loro, pare saperne di più. Non si tratta solo di non conoscenza o di mancanza di riferimenti culturali. Per molti, l’esperienza artistica rientra nei consumi necessari ad affermare determinati status che a loro volta impongono pregiudizi e luoghi comuni di gusto, preferenze e giudizio. Sfugge che l’arte rappresenta una forma altissima di libertà, non soltanto nella sua espressione creativa, ma anche nell’esercizio della sua fruizione. Il grande pubblico invece non si allontana dalla via del consumo mediatico (Caravaggio, il rinascimento, gli impressionisti), tendendo a nutrirsi di un repertorio familiare e rassicurante. È questa continua fruizione passiva che nuoce la fame di bellezza, il bisogno di crescere e di comprendere attraverso le opere, il paesaggio e la natura che ci circondano. È invece importante esporsi al patrimonio artistico lasciando che ci metta alla prova, permettendogli di stimolare la nostra sensibilità: la post-modernità ha bisogno di recuperare l’innocenza della scoperta e dello sguardo, la capacità di stupirsi, accettando il rischio della delusione e della difficoltà. Il confine tra il desiderio di bellezza e l’incapacità di vedere sembrerebbe essere proprio quello della paura di ciò che non appare semplice e immediato, di facile consumo. L’arte può risultare scomoda, tale da richiedere impegno. Laddove non è semplificata può generare smarrimento, ed è proprio questa complessità a suscitare disagio in chi non si sente abbastanza allenato o competente per affrontare l’espressione artistica. (Esempio: museo ebraico di Berlino, in particolare l’opera dell’artista israeliano Menashe Kadishman intitolata Shalekhet (Foglie cadute) → l’intento dell’artista è quello di indurre i visitatori a camminare su dei volti di metallo cosparsi al suolo. Kadishman ci rende complici di una violenza, con un atto di coinvolgimento emotivo che può risultare traumatico e fortemente trasformativo). Il punto è saper affrontare questo disagio, comprendere l’incapacità di vedere che l’esperienza artistica ci pone davanti e venirle incontro, trasformando l’imbarazzo in un momento di costruzione individuale e di scoperta. In questo senso il museo deve fare lo sforzo di rendere familiari le opere d’arte, rafforzandone prima l’accessibilità e poi la comprensione e non banalizzando l’arte. Lo sforzo di chi accompagna il linguaggio dell’arte verso il grande pubblico deve essere orientato ad avvicinare le opere e farle parlare con un linguaggio diretto, (ma pur sempre corretto), capace di sorprendere e di rompere la rigidità della tradizionale parete del museo. È il caso di alcuni interventi di Banksy in cui egli ha fatto uscire alcuni personaggi dai dipinti. Con questo approccio ha voluto rivolgersi al pubblico dei musei, dialogando con la storia dell’arte e trasformandosi in ponte tra l’arte di strada e le grandi collezioni. I suoi lavori vogliono ricucire uno strappo tra arte popolare, considerata di rivolta rispetto al sistema dell’arte (gallerie, musei, critica e mercato) e il patrimonio culturale. Questo tentativo oltre ad incoraggiare i giovani e i non esperti ad avvicinarsi all’arte, cerca anche di rimettere in discussione la comune percezione del museo come luogo chiuso ed elitario. L’arte contemporanea fatica a farsi accettare anche per il suo uscire dalla tradizionale visione della creatività sottoposta a regole, obiettivi e tecniche specifiche. La confusione si deve alla contaminazione dei linguaggi e dei significati, all’intromissione dell’arte nel quotidiano, al suo fuoriuscire dai linguaggi tradizionali e ad essere presente ovunque intorno a noi attraverso l’utilizzo di qualsiasi tipologia di materiale. G.C. Argan affermava che la dimensione urbana rappresenta uno spazio di esercizio estetico nel quale ogni elemento costituisce uno stimolo ad elaborare giudizi, scelte e condivisioni. Tutti questi stimoli visivi contribuiscono a costruire il gusto, ma necessitano di una capacità di selezione e decodifica. Es. “One cup of cappuccino then I go”, opera di Paola Pivi (leopardo che si aggira in una stanza piena di tazze di cappuccino) confrontata alla pubblicità di Cartier in cui sempre un leopardo è adagiato su un letto di custodie rosso fuoco, simulando una dimensione domestica che rende familiare l’animale feroce, accostandolo al lusso, alla sensualità, per accentuare il senso di sfida e di piacere proibito che il prodotto trasmette. Nell’opera della Pivi il leopardo entra nel nostro mondo e sembra metterci alla prova: il felino ci attrae e ci incuriosisce, può apparire mansueto perché nel suo passeggiare tra i cappuccini, ma l’animale è reale e non è addomesticato, per cui appare come un pericolo che si rivela in un secondo momento: attenzione, siamo nella gabbia del predatore ed è noi che tende consumare a colazione! (analisi tratta dal libro di Angela Vettese, Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea). La strada che conduce a riconquistare la capacità di vedere non si intraprende attraverso delle regole, ma necessita di mettersi in gioco e guardarsi davvero intorno, provare l’effetto che provoca in noi l’esperienza dell’arte, accettare le sfide, le provocazioni estetiche, sperimentare le novità, l’insolito e ciò che è nascosto. Cap. 10 – Arte, interdisciplinarità e competenza La nota parabola dell’elefante e dei sei saggi ciechi è una perfetta metafora di come sia possibile illudersi di una verità, quando se ne conosce soltanto un frammento (l’aneddoto viene spesso citato per offrire un’immagine dei limiti del disciplinarismo, soprattutto nell’educazione scolastica). È sempre necessaria una visione d’insieme (mai chiudersi nei confini delle singole materie) per dare senso alla realtà delle cose. L’allenamento all’esperienza estetica e la maturazione di un’autentica consapevolezza verso il patrimonio culturale sono condizioni determinanti per lo sviluppo del pensiero complesso. La mente aperta, dinamica e divergente è capace di ampie visioni, di cogliere affinità seguendo la spinta dell’intuizione. Ad esempio, ad Ulisse si attribuisce una policromia intellettuale (mente colorata) che contraddistingue la sua capacità di polivalenza, flessibilità, creatività, adattamento e invenzione. Tutti noi dovremmo orientare i nostri sforzi culturali ed educativi verso una policromia intellettuale. Una delle proprietà più caratteristiche della storia dell’arte è la vocazione interdisciplinare: il manufatto artistico presenta infatti una tale complessità culturale da richiedere, per essere letto e compreso, molteplici competenze e contaminazioni. Ecco perché si può affermare che lo studio della storia dell’arte e l’esperienza artistica in generale possano enormemente contribuire allo sviluppo delle competenze trasversali di ciascuno, rafforzando il senso di autoefficacia e la flessibilità necessaria a confrontarsi con la dimensione della complessità e della globalizzazione. L’arte ci allena alla diversità, quel che è importante è che deve essere un’esperienza libera (non siamo obbligati a rispondere e interagire) e disinteressata (non finalizzata al guadagno o vantaggio materiale). Per questo motivo l’arte è un terreno di crescita che ci fortifica, valorizzando le nostre intuizioni e il nostro patrimonio emotivo, le nostre competenze culturali e relazionali. Agevola l’esercizio di una visione trasversale e profonda. Kant affermava che l’arte detiene una prerogativa che la rende diversa da qualsiasi altra categoria: la sua sostanziale inutilità, il fatto che non abbia alcuna finalità pratica. Ed è in questo carattere superfluo che l’arte e la bellezza manifestano un valore per l’umanità, in quanto il loro effetto è quello di perseguire la felicità delle persone. Curarsi della bellezza nella società significa curarsi dello stato interiore delle persone, del loro benessere, dei loro sentimenti, della loro serenità. Leggere, studiare, confrontarsi serve a incontrare sé stessi, allenare la mente, scendere in profondità oltre la mera apparenza dei fatti e delle cose, scoprendo la meraviglia delle connessioni, delle analogie, delle intuizioni (“palombari dell’anima” – Melville). L’esperienza dell’arte ci permette di affinare competenze di ascolto e di contemplazione, di apertura e di lettura della diversità, della memoria. È fondamentale restituire significato a queste competenze per attribuire il giusto significato all’esperienza. Bisogna restituire centralità alla frequentazione del patrimonio come esercizio quotidiano e spontaneo poiché l’incontro con la bellezza è un evento trasformativo per ciascuno di noi, un percorso di ascesa verso la conoscenza. Ciò comporta un impegno politico e culturale che certamente coinvolge il sistema educativo e sociale. La storia dell’arte inoltre costituisce un orizzonte di complessità straordinariamente appropriato per sviluppare le abilità richieste dalla società del terzo millennio, ci esercita alla continua riflessione tra passato e presente all’adozione di uno sguardo trasversale, ad una contaminazione delle competenze e degli ambiti disciplinari.
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