Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Un vivaio di storia Aurelio Musi, Sintesi del corso di Storia Moderna

riassunto integrale dei 19 capitoli del manuale

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 01/02/2024

nicolepaticchio
nicolepaticchio 🇮🇹

4.3

(7)

9 documenti

1 / 162

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Un vivaio di storia Aurelio Musi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Prima parte Egemonia imperiale: il Cinquecento Capitolo 1 Una globalizzazione Mondo nuovo 1492 scoperta dell’America; non è uno spartiacque fra Medioevo ed Età Moderna L’espansione portoghese e spagnola Espansione portoghese: il Portogallo può contare sulla disponibilità di capitali dei mercanti italiani. Nella seconda metà del 400 il Portogallo conquista l’Africa. Come giustificare la conquista delle terre e l’assoggettamento delle popolazioni africane? «terra nullius» disabitata o abitata da selvaggi senza leggi civili. Interesse verso l’India. Espansione spagnola: prima di Colombo, occupazione delle isole Canarie (Isabella di Castiglia). Impero euro-africano. Trattato di Alcacovas (1479) siglato tra Spagna e Portogallo. Cristoforo Colombo Nascita a Genova. Dal 1479 si stabilisce in Portogallo. Il progetto è quello di raggiungere le Indie. Si rivolge a Giovanni II, re del Portogallo: risposta negativa. Si rivolge a Isabella di Castiglia e Ferdinando il Cattolico: il primo contatto esito negativo, il secondo esito positivo. I spedizione: isola di Guanahani, ribattezzata San Salvador, nelle Bahamas (1492). II spedizione: piccolo carico di schiavi. III spedizione: bottino cospicuo, scoperta di altre terre. Già dopo la I spedizione di Colombo esigenza di rinegoziare il trattato di Alcacovas. Trattato di Tordesillas (1494) siglato tra Spagna e Portogallo. Dalla scoperta alla conquista Direttrici dell’espansione transoceanica: 1. Direttrice portoghesi la via delle Indie orientali; la progressiva scoperta e conquista del Brasile. La risorsa più importante dell’economia di questo impero è il commercio delle spezie. Tutte le attività commerciali sono controllate dai mercanti stranieri. Nella seconda metà del 500, si collocherà nell’area debole dell’economia mondiale. 2. Direttrice spagnola conquista del Messico (sconfitta Aztechi) Cortés; conquista capitale dell’impero inca (in Perù). Forme e problemi della colonizzazione spagnola Il problema che la colonizzazione pone è l’organizzazione della conquista, il rapporto fra pubblico (potere statale) e privato (aspettative dei conquistadores). Lo strumento più importante della colonizzazione fu l’encomienda. Si trattava di un’istituzione medievale castigliana medievale: era una concessione temporanea, fatta dalla Corona a singoli soggetti, di diritti di signoria su terre, città, castelli, villaggi, ecc. L’encomienda americana riprese il modello: l’encomendero riceveva temporaneamente e senza privilegio di trasmissione ereditaria diritti di signoria su un certo numero di indiani, in cambio di una loro sistemazione in comunità stabili. L’altra importante via di intervento della Spagna nel Nuovo Mondo fu costituita dal modello di urbanizzazione, che si ispirò al modello «a scacchiera» delle città castigliane. L’America e la coscienza europea del Cinquecento Ma come reagisce la coscienza europea all’impatto con il Nuovo Mondo? L’idea dell’età dell’oro, il mito del meraviglioso ambiente naturale incontaminato sono i primi e immediati elementi che entrano nell’orizzonte europeo e contribuiscono a creare un’immagine positiva del selvaggio. Ma, accanto a questo, si sviluppa anche un altro sentimento: quello della superiorità della civiltà europea. All’identità Europa- Cristianità-Umanità si contrappone l’identità selvaggi-pagani-bestie, il cui unico destino è quello della schiavitù. ne ha una controprova. Dove sono assenti o deboli il potere sovrano e il legittimismo dinastico, è assente o debole lo Stato moderno. Due esempi: la Danimarca e la Polonia. Danimarca In Danimarca il punto debole della monarchia consisteva nella mancanza di un diritto costante di successione. Certo Cristiano II cercò di imporre una linea politica antinobiliare e di tassare considerevolmente gli ordini privilegiati del regno. Ma fu deposto da una rivolta aristocratica. Cristiano III attuò una politica espansionistica, annettendo il regno di Norvegia e imponendo il Luteranesimo sull’intero territorio. Ma l’accentramento statale non si realizzò, il modello della monarchia feudale elettiva non consentì la realizzazione di quella trasformazione dei ceti privilegiati da potenze a poteri, che, come abbiamo visto, fu requisito indispensabile per l’affermazione dello Stato moderno in Europa. Polonia In Polonia lo Stato moderno è opera della dinastia degli Jagelloni. Esaurita questa dinastia, con la monarchia elettiva e la ripresa di potere dell’aristocrazia il centro statale si indebolisce. Svezia Ancora una prova delle dinastie monarchiche è offerta dalla Svezia di Gustavo Vasa. Grazie alle imponenti risorse finanziarie procurate dalla confisca delle proprietà ecclesiastiche, il sovrano svedese poté garantirsi un’autonomia economica senza ricorrere a una forte e impopolare pressione fiscale. Gustavo Vasa impresse una forte accelerazione all’affermazione dello Stato moderno svedese. Russia Ivan III fu l’artefice dell’unità della Russia «liberata» dai mongoli. Nel caso russo la centralizzazione passò attraverso la tappa fondamentale della sottomissione alla monarchia dei principi autonomi e dei boiari, dominatori di un territorio enorme, attraverso l’unificazione religiosa nel Cristianesimo ortodosso, nonché attraverso una concessione assoluta del potere che negava l’esistenza delle leggi al di sopra del sovrano. L’ideale politico di Ivan era «un’autocrazia ortodossa sinceramente cristiana». Ma l’autocrazia era un ideale. Nella realtà lo zar doveva far fronte alle forti opposizioni dell’antica nobiltà feudale, i boiari, rappresentata nella Duma. A partire dalla metà del XVI secolo, nell’ambito del sistema statale russo, comincia ad agire un nuovo organismo: gli zemskie sobory, scelti prima dallo zar, poi con il sistema elettivo. Per contrastare e ridimensionare la potenza dei boiari, prima Ivan III e poi Ivan IV il Terribile distribuirono la terra alla nobiltà di servizio, cioè la piccola nobiltà al seguito dello zar. Il rafforzamento centrale russo corrispose all’indebolimento dell’aristocrazia boiara. Tuttavia la fine disastrosa del regno di Ivan il Terribile doveva dimostrare che il definitivo consolidamento dello Stato russo non si era affatto realizzato. Germania La Germania nel XVI secolo non esiste come entità politica unitaria, Lo sviluppo statuale ha avuto luogo su due piani: quello dell’Impero e quello degli Stati territoriali. Vediamo allora il primo piano, quello dell’Impero. L’Impero, pur essendo elettivo è affidato ormai agli Asburgo. Fra costoro Massimiliano I possiede per antico diritto feudale l’Austria, e dopo il matrimonio con Maria di Borgogna, le Fiandre. Nel territorio austriaco, ossia nei domini asburgici, si ebbe un forte sviluppo di nuovi istituti per l’esercizio del potere, come la Cancelleria, il Consiglio per la Giustizia, la Camera per la Finanza. Dall’altro lato è assai scarso l’effettivo potere che l’imperatore riesce a esercitare sui principi territoriali e sulle città libere della Germania. Vediamo ora il secondo piano dello sviluppo statale: quello degli Stati territoriali. Il processo di formazione dello Stato si presenta in quest’area condizionato dal rapporto tra il principe e i ceti. La costituzione per ceti è una struttura politica dualistica: da un lato, il Consiglio dl signore territoriale; dall’altro la Dieta, organismo rappresentativo dei ceti. Nella prima fase della formazione dello Stato in Germania i ceti hanno alternativamente appoggiato e contenuto il potere del principe sul piano centrale, ma lo hanno indebolito sul piano locale. Nella seconda fase i ceti sono stati i partner indispensabili del principe nella formazione dello Stato. Impero ottomano Con la conquista di Costantinopoli, comincia la seconda fase dell’espansione turca. La dinamica e la struttura dello Stato turco sono assai diverse da quelle degli Stati europei. A metà Cinquecento, con Solimano I, l’impero ottomano è il più potente impero del mondo; alla fine del Cinquecento, quell’impero è in declino. L’intera struttura imperiale funziona in ragione dell’espansionismo territoriale. Vediamo allora quali sono i fondamenti interni del sistema turco: 1. manca la proprietà privata della terra; 2. esistono due istituzioni parallele; l’istituzione di governo e quella religiosa musulmana. Il personale dell’amministrazione civile e militare, dalla base al vertice, è reclutato fra gli schiavi di origine cristiana, che ricevono una formazione tecnica e sono educati alla religione musulmana. I costi di questo apparato per lo Stato sono enormi. Il controllo del sistema spettava comunque alla potentissima casta sacerdotale degli ulema, i teologi musulmani; 3. nell’impero ottomano non esiste il feudalesimo: i cavalieri musulmani nelle province ricevono dal sultano terra in cambio del servizio militare. La natura del rapporto non è di tipo feudale: i cavalieri non esercitano giurisdizioni e non possono trasmettere a titolo ereditario queste terre; 4. lo Stato ottomano comprende diverse etnie, lasciate libere di mantenere in vita leggi e costumi preesistenti: nessun tentativo di unificazione. La «rivoluzione dei prezzi» e le diverse velocità dell’economie europee A metà del Cinquecento in molti Paesi europei si prende coscienza del fatto che il prezzo delle merci è aumentato. Esso è un indice di molteplici trasformazioni. In primo luogo, la popolazione aumenta. L’aumento delle bocche da sfamare spinge non solo ad allargare le aree coltivabili, ma anche a rivedere le tradizionali pratiche colturali, ad applicare maggiori capitali dell’economia agricola. L’80-90% della popolazione europea vive disperso fuori dai grandi centri urbani. Una parte della popolazione comincia tuttavia a muoversi: nascono e crescono città con nuove funzioni urbane. La prima voce nei consumi di questa massa di abitanti sono i cereali. La Polonia diventa il granaio di molti Paesi dell’Europa occidentale. In Inghilterra si sviluppa il fenomeno delle recinzioni, per cui molte terre comuni sono abolite e si afferma la proprietà individuale della terra. Ma anche in Germania, in Francia, in Italia si assiste a fenomeni analoghi. Accanto alla domanda agricola si sviluppa anche la domanda di prodotti industriali. Molti storici concordano nell’identificare in quest’epoca una prima età industriale. In questa prima età industriale la novità rispetto all’epoca medievale sta in una diversa organizzazione del lavoro, che non sostituisce, ma convive con quella precedente, con le vecchie botteghe artigiane, con le corporazioni, con le arti del mestiere. Si tratta della cosiddetta «industria rurale», in cui emergono la figura del mercante in possesso dei capitali e dei mezzi di produzione e la figura dei salariati che svolgono il lavoro a domicilio nella campagna. Comincia a svilupparsi anche l’organizzazione di grandi complessi industriali, legati soprattutto alla produzione degli armamenti e all’estrazione dei metalli. La figura che emerge è quella del mercante imprenditore e operatore finanziario. Il segreto di questi banchieri sta nell’aver saputo ereditare la pratica mercantile dai loro antenati medievali, adeguandola alle mutate condizioni dell’economia internazionale. Il modello ereditato è quello della compagnia commerciale, formata da una casa-madre, nel centro di residenza della famiglia di banchieri, e da una serie di succursali e filiali nelle principali piazze commerciali e finanziarie. Il gioco della domanda e dell’offerta da cui deriva la dinamica dei prezzi, è soggetto tra XV e XVI secolo a molte sollecitazioni. Anche le risposte degli Stati sono diverse. In Inghilterra la struttura complessiva dell’economia è più forte e si delinea ormai la rivoluzione agraria. Al polo opposto, in Polonia, l’aumento dei prezzi è dipendente dalla domanda internazionale di derrate agricole, soprattutto cereali. Si delineano ormai le diverse velocità delle economie europee. Gerarchie sociali e gerarchie del potere diritto divino, Firenze in una grande tradizione politica cittadina, Venezia nell’unica struttura statale efficiente. Ma nessuno di questi Stati poteva realizzare una supremazia riconosciuta e dotata di consenso nell’Italia quattro-cinquecentesca. Permaneva quindi un divario tra l’Italia e le grandi potenze europee. La politica dell’equilibrio era perciò l’unica linea che consentiva all’Italia di giocare un ruolo sulla scena europea. Strumento importante nella prassi politica degli Stati italiani erano le leghe, promosse, quasi sempre, da uno dei due punti di riferimento più importanti per qualsiasi azione politica nella penisola: Venezia e lo Stato della Chiesa. La spedizione di Carlo VIII e la fine dell’indipendenza del regno di Napoli Rapidità e facilità: i contemporanei furono fortemente impressionati da questi due caratteri assunti dalla spedizione di Carlo VIII in Italia. L’impresa fu favorita e appoggiata da un principe italiano, Ludovico il Moro; fu preparata dal sovrano francese attraverso gli strumenti dell’alleanza con altre potenze o della loro neutralità; poter far leva sulla presenza di un partito aristocratico filofrancese in alcune aree italiane, soprattutto nel Mezzogiorno; fu anche il risultato di una potentissima macchina da guerra. Analizziamo il primo elemento, l’appoggio ottenuto da un principe italiano. Il ducato di Milano era uno dei punti deboli del sistema degli Stati italiani. Dopo l’uccisione di Galeazzo Maria Sforza in una congiura nobiliare, i poteri furono assunti dal figlio Gian Galeazzo II, ma di fatto governò lo zio Ludovico Sforza, detto «il Moro», che fece assassinare il nipote e si proclamò duca. Gian Galeazzo aveva sposato Isabella, figlia del re di Napoli Ferrante d’Aragona. Il quadro degli eventi chiarisce dunque tutti i motivi di una condizione di governo precaria e instabile: la non legittimità del potere del duca Ludovico e quindi le tensioni provocate dalle spinte legittimiste; le mire degli Aragonesi sul ducato; la necessità, per il Moro, di stringere un’alleanza con il sovrano di una potenza straniera, alleanza che fu stabilita con Carlo VIII nel 1492. Ludovico il Moro chiamò in soccorso il re di Francia e lo invitò a far valere le sue aspirazioni angioine sul regno di Napoli. Carlo VIII poteva infatti rivendicare alcuni titoli di legittimità: il regno era feudo papale e, legato alla dinastia angioina dal 1266, era quindi passato ad Alfonso d’Aragona nel 1442. La preparazione politico-diplomatica della spedizione fu curata da Carlo VIII. La prima preoccupazione fu quella di garantirsi la neutralità dell’Inghilterra e della Spagna. Alla Francia guardavano anche altri potentati italiani. Nel 1498 Carlo VIII moriva. Il suo successore, Luigi XII, della famiglia d’Orléans, riprese il progetto della conquista di Milano. Assai abilmente, stabilì accordi con Venezia e con papa Alessandro VI Borgia incoraggiato a creare per il figlio Cesare un principato nell’Italia centrale. Luigi XII rivendicava titoli di legittimità su Milano. Dopo la conquista del Milanese nel 1499, il sovrano francese puntava su Napoli. Aveva la possibilità di scegliere fra due opzioni: accogliere la proposta di re Federico, conservare cioè il regno di Napoli come feudo della Francia oppure realizzare la spartizione del regno di Napoli fra le due potenze, Francia e Spagna. La convergenza tra Francia e Spagna si realizzava nel trattato di Granada (1500), sanzionato dalla bolla pontificia del 25 giugno 1501. Spenti gli ultimi focolai di resistenza aragonese con l’orribile saccheggio di Capua, la via era libera per la spartizione tra Luigi XII, che otteneva il possesso della metà settentrionale del Napoletano, inclusa la capitale, e Fernando il Cattolico che si attestava nelle Puglie e nella Calabria. Ma l’equilibrio così raggiunto era precario. L’occupazione francese a Napoli e nel regno era priva di basi di consenso. A incidere sulla breve vita della spartizione era soprattutto l’impossibilità di far convivere gli interessi spagnoli e quelli francesi. Per Ferdinando il Cattolico Napoli era troppo importante. Dal 1477 al 1503 Ferdinando il Cattolico utilizzò tutte le risorse, gli strumenti tipici della politica del tempo per associare le sorti del regno di Napoli alla costruzione del nuovo impero spagnolo: la strategia matrimoniale (l’unione della sorella Giovanna con Ferrante d’Aragona), l’alleanza con il pontefice, la guerra contro i francesi e l’appoggio alla prima restaurazione aragonese, l’intesa con Luigi XII dopo l’ascesa al trono di re Federico, la spartizione con il trattato di Granada. Consalvo di Cordova sconfiggeva a Cerignola (1502) l’esercito francese. Cerignola metteva in luce la superiorità della fanteria sulla cavalleria, l’impotenza francese contro fanti ben addestrati. Il protagonista della macchina bellica diventava ora una compagnia di fanteria, il tercio spagnolo. La conquista spagnola del Regno di Napoli veniva coronata dalla giornata del Garigliano il 28 dicembre 1503. Era l’inizio di una lunga dominazione straniera nel Mezzogiorno d’Italia che sarebbe durata oltre due secoli, fino al 1707. Con la conquista del Regno di Napoli si concludeva la prima fase delle guerre d’Italia: la fragile politica dell’equilibrio si dissolveva con la dipendenza della penisola da francesi e spagnoli, che rendeva inevitabile il proseguimento della guerra perché il controllo dell’Italia era la premessa indispensabile per il predominio e l’egemonia in Europa. Due esperienze nel laboratorio politico italiano: Girolamo Savonarola e Cesare Borgia Torniamo indietro di alcuni anni. L’Italia è considerata una specie di corpo inerte che può essere manipolata dalle potenze straniere. In realtà l’Italia è un corpo vivo, un vivace laboratorio politico, in cui possono convivere esperienze opposte, come la repubblica fiorentina di Girolamo Savonarola e il tentativo di costruire un forte Stato da parte di Cesare Borgia. Dopo la cacciata dei Medici da Firenze e la costituzione della repubblica, la funzione di leader nel nuovo sistema di governo era stata assunta dal frate domenicano Girolamo Savonarola. Era spinto da una fede profonda a combattere contro la politica temporale dei papi, più che pontefici, governanti immorali e corrotti. Savonarola aveva trasferito i valori cristiani della fratellanza e dell’uguaglianza anche al campo delle riforme politiche. Erano state abolite le imposte, era stato fondato un Monte di pietà per l’assistenza ai più bisognosi; il potere dei sostenitori di Savonarola, i piagnoni, era aumentato e si esercitava su tutti gli aspetti della vita cittadina. Presto i gruppi di opposizione si organizzarono: i palleschi che si battevano per la restaurazione dei Medici; gli arrabbiati, vagheggianti un sistema di potere aristocratico. A favorire il successo dei gruppi coalizzati contro il frate fu anche la scomunica di Savonarola lanciata dal papa. Il 23 maggio 1498 Girolamo Savonarola veniva impiccati e il suo corpo arso in piazza della Signoria. Tra il 1499 e il 1503 nel laboratorio politico italiano si svolgeva un altro esperimento: quello di Cesare Borgia. L’ambizioso progetto era quello di conquistare l’intera Toscana e creare un vasto complesso politico nell’Italia centrale sotto le apparenze di una restaurazione del dominio pontificio. Il papa aveva concesso a Luigi XII lo scioglimento del suo matrimonio con Giovanna, sorella di Carlo VIII, il cappello cardinalizio per Georges d’Amboise, arcivescovo di Rouen, nonché l’assenso alla conquista francese di Milano: la contropartita doveva essere l’aiuto militare di Luigi XII al Valentino (così chiamato perché, smesso l’abito cardinalizio, aveva ottenuto da Luigi XII la contea di Valence e il titolo di duca) in Romagna. Inoltre papa Borgia si era assicurato l’appoggio di Venezia. Con queste premesse iniziò l’impresa del Valentino. La Romagna era conquistata. A questo punto il Valentino avrebbe avuto bisogno di guadagnarsi l’alleanza di tutte le famiglie gentilizie romane, controllare l’intero collegio cardinalizio, eliminare tutti i signori locali potenziali antagonisti, da non aver più bisogno dell’aiuto pontificio. Ma Alessandro VI morì. Il nuovo papa Giulio II delle Rovere era stato un acerrimo nemico dei Borgia, anche se, per conquistarsi i voti controllati dal Valentino, prima del conclave si era accordato con lui, promettendogli di consegnargli lo Stato di Romagna. La promessa non fu mantenuta e il Valentino fu costretto a fuggire in Spagna, dove morì nel 1507. Francesi e spagnoli nella penisola L’elezione di Giulio II rappresentava una svolta. La fine dell’esperienza del Valentino aveva spinto la repubblica di Venezia ad attuare una politica espansionistica verso lo Stato della Chiesa. Inoltre la repubblica di San Marco si rifiutava di restituire al papa Ravenna e Cervia, occupate da guarnigioni veneziane. Giulio II promosse allora la Lega di Cambrai in funzione antiveneziana, riuscendo a mettere insieme tradizionali rivali come Luigi XII, Massimiliano d’Asburgo e Ferdinando il Cattolico e a sconfiggere l’esercito veneziano ad Agnadello (14 maggio 1509). La disfatta veneziana rappresentò il momento più basso nella storia della Serenissima. Furono in molti a credere che Venezia avrebbe fatto la stressa fine di Milano. Ma così non fu. Si assisté alla capacità di ripresa veneziana. La Serenissima seppe promuovere una serie di paci separate con gli avversari facendo leva sul fatto che gli interessi degli alleati di Cambrai erano diversi fra loro. Il problema politico fondamentale tornava dunque a essere la supremazia francese nell’Italia settentrionale. Giulio II si rese protagonista di una lega antifrancese (Lega Santa, 1512), cui aderirono Ferdinando il Cattolico, la Confederazione svizzera, persino Venezia. Nella battaglia di Ravenna i francesi riuscirono a vincere le truppe della lega. Ripetutamente battuti in altri scontri, i francesi furono costretti a lasciare Pavia, Genova, Bologna. La stessa Milano cadde nelle mani degli eserciti alleati. Sotto la protezione svizzera venne insediato a Milano come duca Ercole Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. A Firenze, dopo 18 anni di esilio, rientravano i Medici. l’imperatore si serve per impartire una severa lezione a Clemente VII. I lanzichenecchi entrano in Roma tra orribili violenze e saccheggi. Il sacco di Roma non solo rappresenta un attacco al cuore della Cristianità ma alimenta la paura per l’esito catastrofico di uno scontro non più solo profetizzato, ma realizzato, tra luterani e cattolici. In realtà l’obiettivo di Carlo V è politico: spezzare la logica dell’equilibrio che regge ancora il sistema di alleanze fra gli Stati italiani e le potenze straniere; spingere questi Stati al riconoscimento dell’egemonia spagnola in Italia. Venezia, dopo il sacco, approfittando della debolezza di Roma, rioccupa Ravenna e Cervia; a Firenze sono nuovamente cacciati i Medici e ristabilita la repubblica. Il 1528 è l’anno in cui si verifica un evento che avrà un peso importantissimo nel sistema imperiale di Carlo V, nell’esito dello scontro tra l’imperatore e la Francia nella politica italiana: Genova si sgancia dall’alleanza con Francesco I ed entra nell’orbita asburgica. Il primo risultato della nuova alleanza è il fallimento del tentativo francese di invadere il regno di Napoli. Un anno dopo, nel 1529, anche papa Clemente VII entra nell’orbita spagnola per poter decidere, insieme all’imperatore, la ridefinizione degli assetti politici italiani: la decisione più importante è la restaurazione dei Medici a Firenze. Con il ritorno di Alessandro de’ Medici, nipote del pontefice, inizia per Firenze la fase del principato dinastico. La pace di Cambrai, detta «delle due dame» (1529), perché stipulata da Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e Margherita d’Austria, zia di Carlo V, pone fine ai successi francesi nella penisola italiana e stabilisce il seguente assetto: Milano, Napoli e Asti sotto il dominio di Carlo V, il Piemonte sabaudo occupato dai francesi, Genova nell’orbita spagnola. Nel 1530, dopo il congresso di Bologna (una serie di incontri tra il papa e l’imperatore durati circa quattro mesi), Carlo V è incoronato re d’Italia e imperatore del Sacro Romano Impero: una fase della storia d’Italia si conclude, praticamente tutti gli Stati minori riconoscono il predominio spagnolo nella penisola. Ma i tentativi francesi di contrastare il primato spagnolo in Italia non si fanno attendere. Il sovrano francese stipula due alleanze: la prima con il nemico di Carlo V, i turchi di Solimano I il Magnifico; la seconda con un altro nemico dell’imperatore, i principi luterani della Germania. Riprendono le ostilità tra Francia e Spagna. La pace di Crépy (1544) non modifica una situazione ormai consolidata. Il successore di Clemente VII, Paolo III Farnese, ottiene per il figlio Pier Luigi il ducato di Parma e Piacenza: una nuova dinastia si insedia nell’Italia centrale, dando vita a uno Stato artificiale che dipenderà dal consenso delle grandi potenze, Chiesa, Impero, Spagna e Francia. Il successore di Francesco I, Enrico II, continua la politica del padre. Ma né i problemi germanici di Carlo V, sconfitto dai principi protestanti e costretto a firmare la pace di Augusta, né l’abdicazione dell’imperatore e la divisione dei Suoi stati tra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando I, favoriscono Enrico II. Il sovrano francese perde l’ultimo importante territorio italiano che gli è rimasto: il Piemonte. Proprio Emanuele Filiberto, figlio dello spodestato duca di Savoia, comandante delle truppe spagnole, sconfigge l’esercito francese. Il 3 aprile 1559 è firmata la pace a Cateau-Cambrésis. Essa è stata considerata come la sanzione della vittoria della Spagna e della sconfitta della Francia. 1) La preponderanza spagnola in Italia. La Spagna conserva il ducato di Milano, il regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna. Ottiene lo Stato dei Presidi, formato da città costiere, strumenti di controllo sul mar Tirreno e sulla Toscana medicea. La mappa politica dell’Italia è così ridisegnata: - Savoia, Piemonte e Nizza: a Emanuele Filiberto che vedeva premiata la sua lealtà spagnola; - repubblica di Genova: ottiene la restituzione della Corsica dalla Francia, diventa la più importante finanziatrice della Corona spagnola; - repubblica di Venezia: pur essendo alleata della Spagna, è l’unica realtà politica italiana che riesce a conservare una sua relativa autonomia; ha un ruolo decisivo nella lotta contro i turchi; - ducato di Toscana (Granducato dal 1569): ottiene in feudo da Filippo II Siena; la repubblica di Lucca conserva la sua indipendenza, utile a Madrid per controllare il Granducato; - ducato di Parma e Piacenza: a Ottavio Farnese, sposo di Margherita d’Austria, figlia di Carlo V; - ducato di Modena e Reggio, ducato di Ferrara: sotto gli Estensi; - ducato di Mantova: sotto i Gonzaga - Stato della Chiesa: legato a Madrid per i problemi creati dalla Riforma protestante e impegnato sul terreno della Riforma cattolica. Solo il marchesato di Saluzzo è controllato militarmente dalla Francia. 2) L’integrità degli Stati nazionali. La tendenza, formalizzata a Cateau- Cambrésis, è quella della ricerca di confini territoriali sicuri. La Francia pur dovendo rinunciare all’egemonia italiana, stabilizza i suoi confini e può esercitare un controllo più agevole sul suo territorio. L’Inghilterra ha corso il rischio di essere annessa all’area spagnola per via matrimoniale: ma Filippo II dalla sua sposa Maria Tudor non ha avuto figli. Questo fatto dimostra il ruolo non secondario del caso nella storia. La non prevedibilità degli effetti di Cateau-Cambrésis è testimoniata anche da altri accidenti che ne determinano le conseguenze: l’improvvisa morte di Enrico II e il successivo scatenarsi in Francia delle guerre di religione; la nascita dell’unico erede del duca di Savoia, che non consentì il passaggio del Piemonte al ramo francese. 3) La fine dell’idea dell’impero universale. Filippo II lascia le fiandre e torna in Castiglia. Il ritorno simboleggia la fine del sogno imperiale di Carlo V e segna una svolta: da un impero a base continentale si passa a un impero spagnolo a base atlantica. D’ora in poi il carattere essenziale di questo impero sarà spagnolo, anzi castigliano. L’Italia spagnola come laboratorio politico Le differenze nell’Italia sono e restano profonde dopo Cateau-Cambrésis. La prima differenza è fra Stati indipendenti, sovrani e Stati non indipendenti, integrati in un complesso politico più vasto, come la Corona spagnola (Milano, regno di Napoli, Sicilia, Sardegna, Presidi). La seconda differenza è quella fra Stati a base cittadina e Stati monarchici con una forte impronta feudale. Gli Stati a base cittadina sono caratterizzati da un sistema di governo oligarchico, fondato su consigli ristretti, dal predominio della città dominante sul resto dello Stato. Gli Stati monarchici sono caratterizzati da una più forte presenza della sovranità: dinastica nel caso del ducato di Savoia; pontificia, nel caso dello Stato della Chiesa; imperiale, nel caso del regno di Napoli. Capitolo 4 La divisione religiosa Origini, significati e valore di un movimento europeo La Riforma protestante fu un movimento europeo che coinvolse persino Paesi di forte e consolidata tradizione cattolica come la Francia, la Spagna e l’Italia. I promotori di quel movimento furono in maggioranza uomini di Chiesa. La Riforma nacque dunque dentro e non fuori l’istituzione ecclesiastica. Quali ne furono le cause? Per molto tempo il problema storiografico delle origini e dei significati della Riforma è stato semplicisticamente e meccanicamente risoluto: la Riformo fu un moto di reazione alla corruzione del clero, agli abusi ecclesiastici, al potere temporale dei papi, al commercio delle indulgenze, al sistema dei benefici ecclesiastici in base al quale ogni funzione era dotata di una proprietà e di una rendita. La storiografia più recente non nega questi motivi ma li inscrive in un più ampio e complesso contesto di crisi religiosa. A caratterizzare tale contesto furono in primo luogo la mancanza di chiarezza teologica e la confusione delle opinioni in materia sia di dogmi della fede sia di morale. In sostanza, anche per opportunismo, e perché in primo piano erano le esigenze politiche ed economico-finanziarie dello Stato della Chiesa e del pontefice. Ma non era solo la teologia cattolica ad attraversare una crisi di identità. L’Umanesimo, attraverso l’esigenza del ritorno alle fonti, aveva inferto un duro colpo al principio dell’autorità pontificia e alle stesse basi del potere dei papi. Si avvertiva il bisogno di una reformatio, di una renovatio, che risolvesse la crisi di identità religiosa sia attraverso un ritorno alle fonti originali del Cristianesimo sia attraverso una prospettiva di riforma morale, cioè di coerente adeguazione dei comportamenti a una dottrina chiara e certa. Martin Lutero fornì la risposta alla domanda di identità religiosa e di riforma morale dei costumi attraverso i tre capisaldi della sua dottrina: la giustificazione per fede, il valore della parola, l’esaltazione di una religione interiore, che doveva avere come suo unico garante la comunità dei credenti, e non più la casta privilegiata del clero. Ma questo sommovimento non sarebbe stato possibile senza l’intreccio che si venne a creare fra religione e politica. Proprio l’intreccio fra religione e politica spiega quel processo lento che, tra XVI e XVII secolo, condusse al passaggio dalla Riforma alle Riforme, o meglio, portò alla scioglimento dei voti. Nella biografia di Erasmo, la battaglia umanistica si intreccia con una vertiginosa mobilità: pur avendo scelto come centri della sua attività prima Parigi, poi Basilea e Friburgo, Erasmo si sposta in Olanda e in Inghilterra dove entra in contatto con Tommaso Moro; in Italia, dove è in rapporto con i più importanti circoli umanistici e con il centro europeo della stampa, Venezia; in Germania dove compie un viaggio trionfale. È l’intellettuale più ammirato d’Europa: è il vero dominatore della Riforma luterana. Ma quali sono in sintesi il suo pensiero, il suo ideale? Si tratta di un’originale fusione fra Umanesimo e Cristianesimo, tra l’ideale della cultura classica e la morale cristiana, depurata di tutti i formalismi teologici, di tutte le pratiche superstiziose, dei culti esteriori, degli ipocriti conformismi. I due percorsi, quello di Erasmo e quello di Lutero, appaiono caratterizzati da molti tratti comuni. La comparsa dei primi scritti di Lutero è considerata da Erasmo con enorme interesse e con speranza in una loro incidenza sulla riforma della Chiesa. Fino a un certo punto, dunque, i due percorsi sembrano convergenti verso un obiettivo comune, anche se Lutero non nasconde l’antipatia per l’umanista olandese. Fra i due si stabilisce comunque una sorta di compromesso: Erasmo difende Lutero dagli attacchi delle gerarchie ecclesiastiche; Lutero mostra di apprezzare l’azione e l’interesse dell’umanista di Rotterdam. Si configurano, dunque, due vie alternative alla crisi religiosa del Cinquecento: la prima, quella di Erasmo, fondata su una religione ragionevole, su un equilibrio fra la grazia e la volontà umana, a cui è concessa la libertà di scegliere il bene e rifiutare il male; la seconda, quella di Lutero, fondata sulla distanza tra Dio e l’uomo, il primo assoluto e incondizionato, il secondo condizionato e dipendente da Dio. Ma ci sono altri elementi importanti di conflitto. Per Erasmo la Riforma deve essere tutta interna alle istituzioni ecclesiastiche. Inoltre le dispute possono investire il mondo dei dotti: il mondo dei semplici ha bisogno della guida sicura della Chiesa. Ecco perché il movimento erasmiano non può trasformarsi, come succede per il movimento luterano, in Chiesa, in confessione religiosa. Cenacoli erasmiani si formano in Spagna, in Francia, in Italia e in Olanda. Riforma e rivoluzione: la guerra dei contadini Nel primo decennio del Cinquecento, la Germania è in fermento dal punto di vista non solo religioso, ma anche sociale e politico. La predicazione luterana investe tutti gli strati sociali: l’aspettativa della renovatio, della reformatio si congiunge con le aspirazioni dei ceti a trasformare i rapporti esistenti. Quella che esplode nella Germania di questi anni non è una lotta di classe. Si tratta invece di un insieme di conflitti, i cui protagonisti sociali devono essere attentamente ricostruiti. Quei conflitti hanno un punto in comune: l’intreccio forte tra il rinnovamento dello spirito religioso, promossa da Lutero, e il programma di riforma politica. L’altro elemento comune è il rafforzamento dei principati territoriali, cioè la «statalizzazione» della Riforma in Germania. La nobiltà germanica ha accresciuto enormemente poteri e giurisdizioni e ha emarginato la piccola nobiltà dei cavalieri. Influenzati dalle idee luterane, i leader dei cavalieri accentuano la spinta alla rivolta contro la Chiesa di Roma, contro i beni del clero, e sognano la formazione di una Germania imperiale, libera dal potere del papa, fondata sul primato della forza politica dei cavalieri e sulla fine del potere della grande feudalità laica ed ecclesiastica. I cavalieri si coalizzano contro l’arcivescovo di Treviri. I principi protestanti si schierano con l’arcivescovo di Treviri e sconfiggono i cavalieri. I cavalieri sono definitivamente vinti come forza politica. La grande feudalità e i principi territoriali escono vincitori da questa vicenda. Più complessa è la cosiddetta guerra dei contadini. Chi sono i soggetti sociali di quella che è stata chiamata «guerra dei contadini»? Sono contadini; abitanti delle città soggette ai principi territoriali; cittadini esclusi dagli uffici, cioè dal potere nelle città imperiali; minatori: una massa, dunque, ben più ampia e socialmente articolata rispetto alla specificazione «contadini». L’attuale storiografia preferisce usare la formula «uomo comune». Quali sono gli obiettivi della rivoluzione dell’uomo comune? Abbattere la struttura per ceti, formare una federazione di leghe su base corporativa, sottrarre prerogative politiche alla nobiltà, espropriare ecclesiastici e religiosi. È evidente l’influenza dell’insegnamento di Lutero. Lutero è di fatto chiamato in causa. Qual è il suo atteggiamento? Bisogna distinguere due fasi. Nel primo intervento di Lutero la preoccupazione del riformatore è quella di mediare tra contadini e signori. Solo dopo l’effetto delle violenze e degli orrori della guerra il riformatore tedesco interviene una seconda volta più decisamente contro i ribelli. La repressione si abbatte violentissima. I principi seguono alla lettera i consigli di Lutero. Dopo alcuni successi iniziali, gli eserciti contadini sono sconfitti. Ma si calcola che complessivamente circa 100.000 contadini e cittadini morirono. Tutte le loro rivendicazioni furono ignorate. Finisce così nel 1525 la Riforma come movimento popolare. Trionfa la Riforma dei principi in Germania. Zwingli A pochi anni dalla sua genesi, la Riforma appare variamente articolata e i modi della sua diffusione e del suo radicamento sono dipendenti dalla struttura politica delle aree in cui si sviluppa il Protestantesimo. Alla riforma dei principi in Germania fa da pendant la Riforma delle comunità nei territori della Confederazione svizzera promossa soprattutto da Huldrych Zwingli. I capisaldi teologici della sua dottrina sono: una religiosità puramente evangelica, un’accentuazione dello spirito comunitario dei fedeli. Zwingli cerca sostengo nelle istituzioni politiche e cittadine. Nel 1522 il Consiglio municipale di Zurigo istituisce per il riformatore un posto di predicatore: da quest’epoca si strige un’alleanza fra Zwingli e le autorità locali per il successo della Riforma. Proprio a Zurigo essa si presenta con caratteri assai originali: provvedimenti e nuove istituzioni dimostrano che qui il connubio tra politica e religione è assai stretto. Nel 1524 un decreto municipale abolisce dalle Chiese immagini e reliquie; l’anno dopo è abolita la messa in latino, conventi e monasteri zurighesi sono trasformati in scuole e ospedali. È abolito il servizio mercenario. Il 10 maggio 1525 è istituito il Tribunale matrimoniale e dei costumi, il più antico ordinamento giuridico del Protestantesimo, che si diffonderà in Svizzera e anche in ampie zone della Germania meridionale. Zwingli si trova da un lato, una Riforma diffusa e radicata ormai in alcuni cantoni svizzeri che deve tuttavia fare i conti con i fedeli al Cattolicesimo; dall’altro, l’ala sinistra della Riforma, rappresentata dagli anabattisti (così chiamati perché predicano il battessimo degli adulti), che esigono una rigida disciplina comunitaria e una Chiesa libera da ogni rapporto con l’autorità civile. In sostanza Zwingli si deve liberare dell’ala sinistra. Così i circoli anabattisti zurighesi sono perseguitati, in parte distrutti. Alcuni seguaci riescono a fuggire in Germania e nei Paesi Bassi. L’altro problema di Zwingli è il rapporto con Lutero e con i principi luterani. Il tentativo del riformatore zurighese di coinvolgere i principi luterani trova corrispondenza solo nel principe Filippo d’Assia. Nel 1531 Zwingli perde la vita in uno scontro con i cantoni cattolici. Poco dopo, nella seconda pace territoriale tra cantoni protestanti e cantoni cattolici, le autorità politiche zurighesi firmeranno la loro rinuncia a qualsiasi politica di alleanza con l’estero. Calvino Principi e orientamenti della Riforma predicata da Zwingli confluiscono nella esperienza religiosa di Giovanni Calvino, nome italianizzato. Il riformatore francese nasce a Noyon nel 1509, studia a Parigi, entra in contatto con i circoli umanistici erasmiani. Nei primi anni Trenta, nel clima delle persecuzioni di Francesco I contro i protestanti, Calvino matura il suo distacco dalla Chiesa romana. Vediamo quali sono i fondamenti teologici del calvinismo. Come Lutero anche Calvino abolisce la mediazione del clero. A differenza di Lutero, Calvino però accentua la dipendenza assoluta dell’uomo da Dio attraverso la dottrina della predestinazione: «Dio non crea tutti gli uomini nella stessa condizione», scrive Calvino, «ma destina gli uni alla vita eterna, gli altri all’eterna dannazione». Si trova di fronte il problema drammatico della giustizia di Dio. Di qui l’importanza che per Calvino riveste la Chiesa. Solo facendo parte della Chiesa si rende visibile e comprensibile al cristiano il disegno della provvidenza divina. La Chiesa è un grande organismo, mette in comunione reale il credente con Cristo. Anche il potere politico fa parte di questo grande organismo. Anche per Calvino, come per Lutero, le opere non possono essere un mezzo per raggiungere la salvezza della vita eterna. Calvino, tuttavia si distacca notevolmente dal riformatore tedesco: per lui le opere sono indispensabili come segno dell’elezione divina, della predestinazione. La visione della condotta di vita cambia così radicalmente rispetto al Medioevo: per l’uomo medievale le opere buone «erano quasi un premio di assicurazione» per l’eternità; per l’uomo calvinista sono solo un mezzo per realizzare la corrispondenza ai disegni divini. Non assicurano la salvezza, ma liberano solo dall’ansia della salvezza. Città, lavoro, professione: questo trinomio è esaltato nella concezione calvinista. Emerge così la più importante differenza tra Lutero e Calvino: per Lutero «credo dunque sono»; per Calvino «opero perciò ho fede». Il Calvinismo si irradia da Ginevra verso la Germania, i Paesi Bassi, la Scozia, la Polonia, l’Ungheria, la Transilvania. Questa confessione religiosa sarà destinata a uno straordinario successo presso i gruppi sociali urbani- artigiani, uomini dei ceti rurali nella Riforma rese tuttavia possibili l’azione di penetrazione della Chiesa cattolica e la sua restaurazione in alcune aree tedesche. Il Protestantesimo è all’origine della Prussia moderna. Dopo la seconda pace di Thorn la Prussia era stata smembrata: la parte occidentale era stata annessa alla Polonia; la parte orientale restava al Gran Maestro dell’Ordine teutonico. Il Gran Maestro Alberto di Brandeburgo trasformò il territorio dell’Ordine in un ducato laico ereditario e vi stabilì la Riforma. In Danimarca e Svezia lo scarso radicamento del Cristianesimo favorì la Riforma dei sovrani, che deposero i vescovi e incamerarono i beni ecclesiastici. Più complessa la situazione in Austria, dove la nobiltà restava in massima parte fedele al Cattolicesimo, perché era in possesso di prebende e benefici ecclesiastici. I Paesi baltici e l’Europa orientale non furono insensibili alla penetrazione del Luteranesimo. Ma in queste aree la pluralità di confessioni religiose rese più semplice e spedita la restaurazione cattolica. Insieme alla Lituania, la Polonia fu interessata alla diffusione del Calvinismo. Ma il frazionamento e l’adesione di una ristretta élite nobiliare alla religione riformata favorirono qui come altrove la Controriforma. I forti legami dell’Ungheria con i Paesi occidentali favorirono la penetrazione degli scritti di Lutero. Anche qui pluralità di confessioni. Ebbe successo l’azione di riconquista della Chiesa cattolica. La seconda area, quella calvinista, si presenta più frastagliata. A differenza di Lutero, che aveva predicato e sostenuto il dovere dell’assoluta fedeltà e obbedienza all’autorità sovrana, Calvino consentiva in certi casi il diritto d’opposizione e resistenza. Questo spiega la sua fortuna sia in un contesto come quello della Francia sia nei Paesi Bassi, dove divenne la professione di fede nella ribellione contro gli spagnoli. In Francia la Riforma aveva fatto la sua apparizione fin dagli anni Venti del Cinquecento. La stessa sorella del re Francesco I, Margherita di Navarra, si convertì al Luteranesimo. Nel 1535 era pubblicata la traduzione francese della Bibbia con introduzione di Giovanni Calvino. Un anno prima il sovrano francese aveva promosso una durissima repressione contro i cenacoli protestanti e comminato le prime condanne al rogo. Poi l’alleanza di Francesco I con i luterani tedeschi contro l’imperatore e il conseguente allentamento della repressione contro il Protestantesimo ne permisero un’enorme diffusione in tutto il territorio francese. Soprattutto nella nuova versione calvinista la Riforma incontrò ampi consensi in quasi tutti i ceti sociali. La riforma religiosa in Inghilterra fu un momento chiave nella formazione dello Stato moderno inglese. Re Enrico VIII in un primo momento aveva condannato gli scritti di Lutero. La difesa della dottrina dei sette sacramenti contro il riformatore tedesco aveva fruttato a Enrico VIII il titolo onorifico di «difensore della fede», attribuitogli dal papa. Nella seconda fase del rapporto tra Enrico VIII e la Chiesa di Roma dobbiamo distinguere l’occasione dai motivi più profondi della rottura. L’occasione fu determinata dal desiderio del re di avere un erede maschio (dal matrimonio con Caterina d’Aragona aveva avuto cinque femmine di cui solo una, Maria, sopravvissuta) e dalla passione per una dama di corte, Anna Bolena. Enrico VIII chiese pertanto l’annullamento del suo matrimonio. Quali le ragioni addotte da Enrico VIII? Egli non avrebbe potuto sposare Caterina, perché questa, in precedenza, era stata sposa di suo fratello maggiore Arturo. Caterina, di contro, sosteneva che Arturo era morto a 14 anni e il matrimonio non era stato consumato. Il processo fu assai complesso. Alla sua apertura, nel 1529, la regina si appellò al papa. Carlo V, nipote di Caterina, convinse papa Clemente VII, riavvicinatosi all’imperatore, a trasferire il processo a Roma. D’altro canto Enrico VIII fece intervenire illustri teologi e giuristi a difesa delle sue ragioni. Condizionato dal gioco delle pressioni, Clemente VII non si decideva a emettere una sentenza. Si preparava lo scisma. Quali ne erano le ragioni più profonde? Già dalla seconda metà del Quattrocento il sovrano inglese era considerato l’unica fonte di diritto sia nella sfera temporale che in quella spirituale. L’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer, dichiarò nullo il matrimonio di Enrico VIII, già segretamente sposato con Anna Bolena. La scomunica di Clemente VII non servì a niente. L’Atto di supremazia del 3 novembre 1534 conferì a Enrico VIII il titolo di unico e supremo capo della Chiesa di Inghilterra, chiamata Chiesa anglicana: la distinzione tra sovranità temporale e spirituale veniva a cadere: la giurisdizione papale era abolita in virtù del principio in base al quale è il re la fonte sia della giurisdizione temporale che di quella spirituale. La rottura con Roma era compiuta. E si compiva anche la rottura tra il re e chi si rifiutò di giurare fedeltà al nuovo assetto costituzionale, sancito dal Parlamento. Grazie al primo ministro Thomas Cromwell furono promosse importanti riforme economiche: la confisca dei beni di conventi e istituzioni religiose; l’incameramento fra i beni del re di tutte le decime pontificie. La politica economica trovò il consenso di ceti sociali diversi: nobili, mercanti, piccoli proprietari, che parteciparono alla ridistribuzione di terre, furono solidali con le scelte della monarchia. Enrico VIII aveva promosso, più che una riforma religiosa, una riforma politico-costituzionale. La vera riforma in materia teologica fu opera di Edoardo VI. Il Libro della preghiera comune riconosceva due soli sacramenti, Battessimo ed Eucarestia, sopprimeva il carattere sacrificale della messa e aboliva il celibato ecclesiastico. Dunque il Protestantesimo in Inghilterra si avviava ad adottare il modello calvinista in materia teologica e, attraverso la professione di fede ufficiale richiesta a tutti i sudditi, diventava religione di Stato. Anche la vicina Scozia aderì al Calvinismo grazie all’opera di John Knox, mentre l’Irlanda riempì di fortissimi connotati cattolici la sua lotta nazionale contro l’Inghilterra. L’ala sinistra della Riforma Fin dal suo apparire, la Riforma, che non si presentava ancora come Chiesa, cioè come nuova istituzione religiosa dotata di un corpo organico e definito di norme, vide la formazione di gruppi e movimenti tendenti a radicalizzare alcuni principi sostenuti dai padri fondatori del Protestantesimo. Nella sua fase nascente i leader del movimento protestante non solo presero le distanze dalle frange estremiste, ma anche, le condannarono. Basti ricordare la durissima polemica di Lutero nei confronti dei contadini in rivolta o la repressione degli anabattisti compiuta da Zwingli. Il passaggio dalla prima fase del movimento alla seconda fase dell’istituzione e della formazione delle nuove confessioni riformate determinò l’ulteriore sviluppo di posizioni radicali, come quella degli anabattisti e degli spiritualisti. Gli anabattisti, sconfitti nella guerra dei contadini, riproposero i contenuti più importanti della loro esperienza religiosa. La fortuna e la capacità di penetrazione degli anabattisti furono notevoli sia fra i ceti artigiani delle città sia fra i ceti rurali. A Munster, nel 1534, gli anabattisti tentarono di realizzare tutti i loro ideali proclamando la città «Regno di Dio»: cacciarono cattolici e luterani, acclamarono re un artigiano di Leida, fondarono l’uguaglianza delle ricchezze, abolirono privilegi, praticarono il libero amore. L’esperimento durò poco. Gli abitanti di Munster furono massacrati da Filippo d’Assia e fu restaurato il potere del vescovo nella città. L’Anabattismo perse, dopo Munster, i connotati più violenti e riuscì a diffondersi in vaste aree d’Europa e del Nuovo Mondo. Anche gli spiritualisti, che predicavano la netta opposizione fra spirito e corpo, si opponevano alla Riforma come istituzione. Fra i leader spiritualisti più prestigiosi Sebastian Franck di Norimberga. La crisi del Cinquecento produsse dunque non solo la formazione di nuove confessioni religiose, ma anche gruppi e movimenti di opposizione a ogni forma di istituzione ecclesiastica: a questi uomini, gruppi, movimenti lo storico Delio Cantimori ha attribuito la qualifica di «eretici». Gli eretici del Cinquecento furono tutti coloro che interpretarono liberamente l’esperienza religiosa e si ribellarono alle diverse Chiese, ponendo le basi di quella rivoluzione del pensiero moderno che fu la concezione della religione come libera scelta individuale del rapporto con Dio, tollerante, rispettosa, antidogmatica. L’Italia non fu investita dalla Riforma protestante, nel senso che in nessuno dei suoi Stati riuscì a imporsi una delle nuove confessioni e nessun sovrano vi aderì. Non si formarono nemmeno comunità protestanti dotate di un peso politico tale da compromettere la stabilità dello Stato moderno. Si svilupparono invece, in alcune aree italiane, gruppi circoli e cenacoli sensibili alla dottrina sia luterana che calvinista, che rielaborarono con tratti originali. In questa rielaborazione un ruolo di primo piano fu svolto dall’Umanesimo. Proprio la radice umanistica spiega il successo che in Italia incontrò più il Calvinismo che il Luteranesimo. E ancora alla radice umanistica è da riportare il fatto che i seguaci italiani della Riforma, perseguitati, costretti all’esilio dalla repressione della Chiesa cattolica, non si Le istituzioni della Controriforma Le istituzioni della Controriforma furono gli strumenti predisposti dalla Chiesa cattolica per far fronte a compiti sia di prevenzione e repressione dell'eresia sia di disciplina culturale e sociale. In sostanza alla metà del Cinquecento il papa va accentuando la sua doppia fisionomia: pontefice, cioè capo di una cristianità profondamente scossa dallo scisma protestante ma pur sempre comunità universale e potente fattore di identificazione collettiva; sovrano di uno Stato, lo Stato pontificio, alle prese con problemi di natura politica, amministrativa, finanziaria, non dissimili da quelli di altri stati in formazione nell’Europa del Cinquecento. Alla funzione di prevenzione e repressione dell'eresia doveva assolvere, a partire dal 1542, l'istituzione della Congregazione del Santo Uffizio dell'Inquisizione. La bolla istitutiva, promulgata da Paolo III Farnese, deputava alcuni cardinali «commissari e inquisitori generali per la custodia della fede». Ai sei cardinali inquisitori veniva dunque affidata la piena giurisdizione contro laici ed ecclesiastici. Fu sotto Paolo IV Carafa che l'Inquisizione romana dispiegò tutti i suoi poteri e utilizzò tutte le armi a sua disposizione. Furono perseguitate dal Sant'Uffizio anche personalità ecclesiastiche che dissentivano sia da una troppa rigida definizione dell'ortodossia cattolica, sia dai metodi inquisitoriali troppo spinti, sia dell'accentramento dei poteri nei tribunali romani. Questo accentramento svuotava l'autorità dei vescovi. Così Paolo IV farà mettere sotto processo il cardinale Giovanni Morone, che era stato vescovo di Modena: Morone sarà accusato di Luteranesimo per essere stato troppo negligente nel punire gli eretici, fino a essere ritenuto loro complice. Ancor più incisivo fu l'intervento di Paolo IV per il controllo sociale e culturale dell'ortodossia cattolica. Su questo terreno importantissima fu l’istituzione dell’Indice dei libri proibiti. L’Indice distribuiva gli autori in tre classi: alla prima appartenevano gli autori totalmente condannati; la seconda quelli condannati per una singola opera; alla terza agli anonimi. Ebbero inizio, in Italia, i roghi dei libri proibiti. Fra gli Stati italiani si ebbe il massimo di collaborazione con lo Stato pontificio. Gli Ordini religiosi e la riconquista delle anime Come si è già detto, il Concilio di Trento promosse numerosi provvedimenti per la riorganizzazione della Chiesa. In sostanza fu riaffermata la sua struttura gerarchica: al vertice il papa; i vescovi, a cui fu affidata soprattutto la funzione di controllo dei fedeli della loro diocesi e del retto comportamento degli ecclesiastici; alla base, le parrocchie, guidate dal parroco, centro e autorità dottrinaria e morale della comunità di fedeli. Proprio per vigilare fu richiesto ai vescovi di visitare con frequenza le parrocchie sottoposte alla loro giurisdizione (visite pastorali). Tra le denunzie di Lutero c'era stata anche quella dell'ignoranza dei sacerdoti sull'intera materia religiosa, ignoranza che andava di pari passo con la loro corruzione. Dunque era più che mai urgente educare e istruire gli ecclesiastici, anche per evitare deviazioni dall'ortodossia. C'era bisogno di un'istituzione che formasse il buon prete: i seminari. L'obiettivo più importante della Chiesa post-tridentina fu la riconquista delle anime: le milizie della Controriforma furono gli Ordini religiosi. Nati per finalità e funzioni diverse, dopo il Concilio di Trento si impegnarono a combattere l'eresia, a rafforzare l'autorità della Chiesa di Roma. Questa evoluzione interessò vari Ordini religiosi. L'Ordine dei Teatini, fondato da Gaetano di Thiene. Dopo la diffusione di cenacoli protestanti in Italia, l'ordine dei teatini, pur continuando a occuparsi di malati e di feriti negli ospedali, si distinse anche nella lotta all'eresia, soprattutto A Napoli e a Venezia. Altri Ordini integrarono l'attività assistenziale con quella scolastica. È il caso dei Somaschi: la Compagnia dei Servi dei poveri fu fondata a Somasca, vicino a Bergamo, da Girolamo Emiliani. Lo scopo era quello di assistere fanciulli orfani e abbandonati, ma anche di educarli e istruirli. Giuseppe Calasanzio istituì a Roma la prima scuola popolare gratuita d’Europa e intorno a essa si formò l'Ordine degli Scolopi. Invece, i barnabiti fissarono la loro sede a Milano presso il convento di S. Barnaba: si dedicarono in prevalenza alla formazione sacerdotale, alla predicazione, diffondendosi in Francia, Austria e nelle missioni extraeuropee. Ma l'Ordine religioso che seppe meglio interpretare lo spirito della Chiesa cattolica del suo tempo fu quello dei Gesuiti. Il suo fondatore, Ignazio di Loyola, era un uomo d'arme e di Corte. Ferito durante un combattimento aveva deciso di votarsi alla causa di Cristo. Fu durante questo periodo di formazione che andò precisandosi l'ideale della Compagnia di Gesù. Per seguire rigidamente questa regola era necessario trasferire nel nuovo ordine religioso lo schema della gerarchia militare, basato sulla subordinazione, totale e non soggetta ad alcuna deroga, alla volontà del capo. Fu per questo che Ignazio aggiunse i tre voti tradizionali della professione monacale povertà, castità e obbedienza) un quarto voto: quello dell’assoluta obbedienza al papa, cioè sottomissione assoluta fino al sacrificio della vita. Il reclutamento dei Gesuiti era severissimo, il loro periodo di formazione prevedeva due anni di noviziato, quasi 10 anni di studi. L'ordine aveva una struttura centralizzata: Il padre generale sceglieva i padri provinciali ed era eletto dai superiori, cioè dai responsabili delle case della Compagnia, e da due rappresentanti per ogni provincia. L'Ordine ebbe una crescita rapidissima. La sua attività e il suo campo di influenza furono enormi. Francia, Spagna e Italia, grazie ai seguaci di sant’Ignazio, divennero Paesi nevralgici della Controriforma. Quale fu la politica culturale dei Gesuiti? Per lottare efficacemente contro la Riforma si dovevano dunque ricostruire i fondamenti della Chiesa. I punti di riferimento di Ignazio furono la teologia medievale di San Tommaso, la Scolastica e il metodo umanistico dell'analisi, dello studio e della ricostruzione dei testi. In questo senso si può dire che i Gesuiti realizzarono una specie di connubio tra Controriforma e Umanesimo: l'Umanesimo fu depotenziato del suo ideale supremo, l'esaltazione dell'uomo nelle sue capacità conoscitive, e fu inteso solo come strumento al servizio di un altro ideale, l'assoluta obbedienza all'autorità del pontefice in tutti i campi del sapere. Quello dell'istruzione diventava uno dei primi campi di intervento della Compagnia di Gesù nella sua opera di riconquista delle anime. Fu così che i Collegi dei Gesuiti, all'origine sede della formazione dei membri dell'Ordine, divennero progressivamente vere e proprie scuole in cui andarono preparandosi le classi dirigenti della città e degli Stati europei. In queste scuole si insegnavano grammatica, retorica umanità. Grazie a una serie di provvedimenti pontifici a favore dei Collegi, alle scuole superiori dei Gesuiti fu persino riconosciuta la facoltà di addottorare in teologia e filosofia: in questo modo la Chiesa si garantiva un controllo totale sui maestri e docenti, accentuava la crisi dell'università pubblica, si assicurava il radicamento del principio d'autorità e la sua naturale trasmissione. I Gesuiti intuirono che la cultura era un potente fattore di distinzione e prestigio sociale, che doveva comprendere anche discipline escluse dai tradizionali modelli di insegnamento. Introdussero perciò nelle loro scuole il gioco didatticamente organizzato e guidato, la danza come educazione del corpo, il teatro, la musica, altre discipline il cui apprendimento era ritenuto utile e importante per il perfetto gentiluomo cattolico. Il secondo terreno di intervento dei Gesuiti fu l'iniziativa missionaria a vastissimo raggio: essa infatti si dispiegò non solo nell’Europa cattolico-romana, ma anche nelle terre d'Oltremare abitate dagli infedeli. Fu soprattutto l'impero portoghese ha favorire la presenza dei Gesuiti nelle colonie. San Francesco Saverio, uno dei primi seguaci e collaboratori di sant’Ignazio, operò con successo in India e Giappone, Matteo Ricci fu il leader dell'attività missionaria in Cina. Importanza enorme ebbe anche la successiva presenza gesuitica nell’America spagnola. Per rafforzare la fede cattolica, la Chiesa disponeva di strumenti importanti ma che dovevano essere tutti rivitalizzati: la confessione, la predicazione, le istruzioni al clero. Alla ripresa di tali strumenti la Compagnia di Gesù accompagnò anche l'istituzione di missioni, cioè di vere e proprie campagne di evangelizzazione condotte da famosi predicatori. L'obiettivo principale della strategia missionaria gesuitica era quello di ridurre la distanza tra la religione dei semplici e la religione dei dotti. Si trattava quindi, per i gesuiti, di liberare la devozione di massa del suo alone superstizioso e restituirle la chiarezza e la semplicità dei principi cristiani: il catechismo, istituito da un decreto del Concilio di Trento, divenne il punto di riferimento base per quest'opera. Ma si trattava pure, su un altro versante, di evangelizzare le classi colte, restituire anche a esse, invaghite dell'ideale erasmiano, un Cristianesimo semplice e al tempo stesso capace di rispondere con assoluta certezza a tutti i quesiti posti da Lutero. A questo secondo fine rispose l'istituzione dei direttori di coscienza, fra i quali si distinsero i gesuiti. Essi dedicheranno tutte le loro forze a discutere, soprattutto con esponenti della nobiltà, delle grandi questioni affrontate dal Protestantesimo. Dopo il trattato di Cateau-Cambrésis, il sovrano spagnolo viene riportato sul terreno dei problemi di politica interna dello Stato iberico. Egli non persegue ancora una determinata strategia politica: ha la percezione dei pericoli che incombono su alcune parti del suo impero, ma deve fronteggiare il pericolo più grave, quello turco. Circa un secolo dopo la conquista di Costantinopoli (1453), lo Stato ottomano si estendeva dal Mar Rosso e dalle coste meridionali del Mediterraneo fino alle porte di Vienna. Solimano I il Magnifico era l'artefice della sua potenza. Ma all'epilogo del suo sultanato, l'impero da lui creato cominciava a scricchiolare soprattutto per ragioni interne. La forza dei turchi restava tuttavia ancora grande per la potenza militare sia marittima che terrestre. Le ragioni di Filippo II per attaccare i turchi non erano poche. In primo luogo, a guardia del Mediterraneo restava solo la flotta spagnola, perché, dopo Cateau- Cambrésis, la Francia era stata sguarnita del suo apparato militare marittimo. In secondo luogo, proprio per la crisi interna all'organizzazione sociale e politica ottomana, sembrava che fosse giunta l'ora buona per un attacco diretto. Ma Filippo II ignorava la reale consistenza della forza marittima dei turchi. Così a Gerba (1560) la flotta spagnola fu sconfitta. Questa sconfitta navale fu, in un certo senso, salutare per la Spagna. Grazie acquista imponente iniziativa di ricostruzione navale dopo Gerba, la Spagna riuscì a bloccare la flotta turca, che aveva assalito Malta nel 1565. Ma con la ritirata da Malta il pericolo turco non scompariva. Appariva ancora più minaccioso: il sultano accelerava le costruzioni navali e alimentava il sentimento di rivincita degli ottomani. A metà degli anni Sessanta i Paesi Bassi erano in ebollizione. L'imperatore Carlo, aveva a cuore i Paesi Bassi, contava sulla loro importanza strategica, si preoccupava di mantenere ben saldo un sistema di alleanze con le oligarchie e i gruppi magnatizi locali. La diffusione del Calvinismo non aveva solo incrinato la pace e l'unità religiosa in quest'area dell'impero asburgico: aveva anche alimentato la nascita di una nuova cultura politica in cui sentimenti nazionalistici, aspirazione all'indipendenza dallo straniero e lotta al Cattolicesimo formavano una miscela capace di fornire il collante a fermenti e rivolte contro la dominazione spagnola. Si stavano creando falle nel sistema di alleanze fra la monarchia spagnola e l'aristocrazia dei Paesi Bassi, gelosa della sua autonomia. La politica mediatrice di Margherita d’Asburgo, inviata da Filippo II nei Paesi Bassi, non ottenne alcun risultato. Ilo sovrano spagnolo quindi mandò alla fine del 1566 il duca d'Alba a governare con il pugno di ferro i Paesi Bassi. La repressione fu dura e indiscriminata. La linea del duco d’Alba provocò la fine dell'alleanza fra la monarchia spagnola e una parte dell'aristocrazia dei Paesi Bassi. In sostanza il conflitto opponeva le province settentrionali dei Paesi Bassi al dominio della Spagna. Nel 1576, dopo il saccheggio di Anversa a opera dell'esercito di Filippo II, anche le province meridionali si unirono a quelle settentrionali in funzione antispagnola: l'unione tra olandesi e valloni delle regioni del Sud venne sancita nella cosiddetta «pacificazione di Gand» (1576). L'unità così realizzata era assai fragile e durò poco più di un anno. Gli interessi fra le due società, quella olandese e quella vallona, erano abbastanza diversi: la prima era nella sua maggioranza protestante; la seconda, quella delle province meridionali, era di religione cattolica e la sua aristocrazia tendeva ad aumentare le proprie prerogative e ad acquistare una maggiore autonomia da Madrid. Facendo leva proprio su questa diversa strategia, quella del compromesso, la Spagna cercò tardivamente, con l'invio nei Paesi Bassi di Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, di recuperare il territorio perduto. Questa strada fu decisamente imboccata dal suo successore, Alessandro Farnese, che riuscì a recuperare la parte meridionale dei Paesi Bassi alla fedeltà asburgica. Nel 1579, dunque, i Paesi Bassi si spaccarono: Ehi mentre a Utrecht nasceva di fatto la Repubblica delle Province Unite (quelle del Nord), decise a separarsi definitivamente dalla Spagna, ad Arras tutta l'area meridionale cattolica sanciva il ritorno sotto la sovranità di Filippo II. Nel 1581 le sette province dell'unione di Utrecht assunsero ufficialmente il nome di Repubblica delle Province Unite che in seguito sarà mutato in «Olanda» dal nome della provincia più importante. In realtà la Spagna non rinunciò così presto e facilmente a questa parte dei suoi domini. Solo nel 1648, alla fine della guerra dei Trent'anni, giunse al riconoscimento ufficiale dell'indipendenza dell'Olanda. La vicenda di questo Paese è una conferma che, alla fine del Cinquecento, l'ora è favorevole agli «Stati mediani», cioè a quei Paesi posti al centro dell’Europa, di dimensioni più contenute rispetto ai grandi imperi. L'Olanda balzava sul piano dei protagonisti della scena storica europea anche grazie al contributo che l'Inghilterra aveva fornito alle province settentrionali dei Paesi Bassi nella resistenza contro la Spagna. Era stata così favorita la nascita di un nuovo polo di alleanze in Europa. Dopo l'atto di rinuncia di Filippo II la sovranità passò alla comunità delle popolazioni delle Province Unite. Queste formavano una federazione repubblicana. Le scelte militari e internazionali della Federazione erano condizionate dall'unanimità dei voti e dei rappresentanti delle sette province. I voti di ognuna delle sette province, rappresentate negli Stati Generali, avevano il medesimo peso. La sfera d’influenza degli Stati Generali fu limitata alla politica estera e alla difesa, mentre la politica interna fu affidata interamente alle province. L'unione di Utrecht stabiliva che ogni provincia doveva conservare privilegi, «libertà», immunità particolari, «diritti» e statuti. Quali erano le caratteristiche comuni a tutti gli Stati provinciali? La più importante riguardava il criterio della rappresentanza: due corpi, quello della nobiltà è quello della città, componevano l'assemblea degli Stati provinciali. Alla base di questo sistema istituzionale c'erano i Consigli delle città, con poteri locali enormi che riguardavano l'elezione dei magistrati, le decisioni politiche, la vita economica e commerciale. Il vertice del sistema era rappresentato dallo statolder, che comandava l'esercito e stava a capo della federazione, e dal gran pensionario che era responsabile della politica interna ed estera. La prima carica fu per quasi un secolo monopolio della famiglia d’Orange. Il gran pensionario d’Olanda, la provincia più importante dell'Unione, conquistò la supremazia sull'intero territorio. Il sistema non era certo «democratico». I poteri erano monopolio di poche famiglie aristocratiche. Tuttavia la presenza di ricche borghesie urbane, la partecipazione politica assai intensa nelle istituzioni rappresentative contribuirono a limitare il potere dello statolder e a far fallire i tentativi degli Orange di trasformare la repubblica in principato. I cittadini godevano di certi privilegi non in quanto privati individui, ma in quanto membri di una corporazione: non a caso molti cittadini ne erano esclusi. Il modello repubblicano olandese conservava la sua originalità. La sua originalità sta nel fatto che il sistema federativo olandese favorì la partecipazione diritta delle popolazioni alla vita politica del Paese. In nessun altro Paese come in Olanda si sviluppò la pratica delle petizioni. La petizione era un mezzo di comunicazione per chiunque volesse richiedere e ottenere qualcosa da un corpo amministrativo. Il repubblicanesimo urbano poté così diventare non solo un potente stimolo per l'azione rivoluzionaria collettiva contro la Spagna, ma anche per la stabilità politica dell'Olanda. Intervento efficace della politica sull'economia, crescita autosostenuta, efficienza dell'organizzazione produttiva e delle industrie di trasformazione dei prodotti: il modello olandese, che si presentava con questi caratteri, era l'esatto opposto di quello spagnolo. Nella crescita economica l'Olanda poté giovarsi anche di uno spirito religioso, quale quello calvinista, tendente a esaltare i valori del lavoro, del risparmio, della produttività. Il nuovo Stato fu un Paese aperto e disponibile al contributo di energie e forze intellettuali vivaci: l'Olanda divenne ben presto, in Europa, l'isola della tolleranza. Alla fine degli anni Sessanta del Cinquecento, la Spagna non fu più impegnata solo sul fronte dei Paesi Bassi. I turchi dopo essere stati cacciati da Malta, avevano promosso una politica di intenso riarmo marittimo. Il loro attacco a Cipro, possesso veneziano, e l'assedio di Famagosta indussero la Spagna, i veneziani e il pontefice Pio V a formare la Lega Santa: il trattato prevedeva la creazione di una flotta di circa 300 navi, la liberazione del Mediterraneo orientale dalla minaccia turca, la presa di Tunisi. Venezia difese Famagosta. Ma, dopo un assedio durato 11 mesi, i turchi riuscirono a conquistarla. La flotta della Lega Santa, comandata da don Giovanni d’Austria, si ricompose, un mese dopo la sconfitta di Famagosta, a Messina. Il 7 ottobre 1571 si svolgeva nelle acque di Lepanto lo scontro tra la flotta ottomana e quella cristiana. Fu una delle più sanguinose battaglie navali della storia: vittoria della flotta cristiana. Molti cristiani prigionieri vennero liberati. Esaminiamo gli eventi che seguirono la vittoria cristiana punto la Lega Santa si sfasciò: Venezia preferì trattare una pace separata con i turchi, rinunciando a Cipro. Solo nel 1574 La Spagna si impegnò in Nordafrica, cercando di riconquistare Tunisi. Dopo questa data, il nuovo sultano Murad III lasciava il Mediterraneo, preoccupato soprattutto del conflitto con la Persia. Nel 1580 la questione del Portogallo avrebbe impegnato Filippo II. Con il conflitto turco-persiano e la questione del Portogallo la guerra abbandonava il centro del Mediterraneo. Anche la politica internazionale di Filippo II entrava in una nuova fase. L'afflusso massiccio di metalli preziosi dalle Americhe, la crisi della potenza ottomana, non più minacciosa, lo spostamento del baricentro internazionale verso l'Atlantico, inducevano il sovrano a una politica di intervento attivo, tesa non solo a una difesa dell'impero, ma rivolta anche a progetti espansionistici prima verso le aree più vicine, poi verso le stesse Inghilterra e Francia. Il re del Portogallo, Sebastiano di Braganza, nel 1578 si impegnava in una spedizione contro il potente sultano del Marocco: gli interessi in gioco erano economici. A spingere infatti verso la conquista funzionari, senza la valorizzazione di istituzioni locali preesistenti alla conquista spagnola. Possiamo anzi ipotizzare che la durata del governo spagnolo fu, in alcuni suoi domini come quelli italiani, direttamente proporzionale alla capacità di stabilire alleanze e compromessi con i ceti dirigenti indigeni. In sintesi la formazione politica spagnola fu un sistema imperiale fondato sull'unità politica e religiosa, garantita dalla dinastia asburgica la direzione di un Paese guida, la Castiglia, l'articolazione in sottosistemi come quello italiano chiamati a difendere militarmente l'impero, il rapporto fra le linee direttrici, provenienti dal sovrano e dalle sue élite dirigenti, e la loro traduzione nei diversi territori della monarchia. La formazione della potenza inglese Nel corso di un secolo e mezzo, tra il primo Cinquecento e la metà del Seicento, l'Inghilterra ha vissuto una straordinaria esperienza storica. Forse nessun Paese europeo ha subito trasformazioni tanto profonde come quelle che hanno interessato l'Inghilterra in 150 anni. All'inizio è un paese cattolico, si stacca dal papa per volontà del suo sovrano, vive la penetrazione della Riforma protestante, istituisce un'altra confessione religiosa, un'altra chiesa, quella anglicana, ma a metà Seicento il panorama dei gruppi religiosi inglesi è assai ricco e in territorio britannico incontriamo cattolici, puritani, quaccheri, presbiteriani ecc. All'inizio l'Inghilterra è un'«isola semisconosciuta». A metà Seicento è una grande potenza marittima e coloniale. All'inizio è un Paese agricolo, con una sola attività industriale, le esportazioni dei panni lana. Verso la metà del XVII secolo è dotato di risorse importantissime come il carbone e ha già un apparato manifatturiero di un certo rilievo. Sul piano culturale? Il percorso va dagli astrologi e dalle streghe, che ricordano ancora il Medioevo, alla scienza moderna di Isaac Newton. E sul piano politico-costituzionale? Un'esperienza unica in Europa: dal primato del re al primato del Parlamento. Le tappe più importanti di queste grandi trasformazioni sono da collocarsi nella seconda metà del XVI secolo, nell'età di Filippo II. La nascita delle Province Unite e la vittoria sull’Invincibile Armata resero inevitabile il confronto oltre che lo scontro fra il modello di sviluppo spagnolo e quello inglese. L'Inghilterra era riuscita a sconfiggere la politica imperialista di Filippo II il suo piano di sottomettere tre Paesi. Il successo politico-militare inglese fu soprattutto dovuto alla superiorità di un sistema economico, sociale e politico che, durante il Regno di Elisabetta, perveniva alla sua fase più matura. Nel primo cinquantennio del XVI secolo l'Inghilterra era ancora una potenza di secondo rango. Basta confrontare le entrate di Enrico VIII con quelle della Francia di Francesco I e quelle dell'imperatore Carlo V. Anche nel confronto delle popolazioni L'Inghilterra risulta un piccolo Paese. Tuttavia l’Inghilterra, nel confronto con gli altri Paesi europei, gode di una serie di vantaggi. In primo luogo la posizione geografica: si affaccia sulla Manica e può così controllare una delle due vie di comunicazione che collegano i Paesi Bassi con la Spagna. In secondo luogo il rapporto fra popolazione e risorse meno squilibrato che altrove. Qui la terra non fu concepita come puro sostegno alimentare del Paese, ma come investimento di capitali. Fu questo un processo di lungo periodo, che scorre parallelo al fenomeno delle recinzioni, la privatizzazione delle terre, e si sviluppa tra la fine del XV secolo e la fine del XVII secolo. Nelle zone coltivate si andarono sviluppando figure giuridiche sempre più lontane dal modello della giurisdizione feudale privilegiata e sempre più vicine al diritto di proprietà assoluta. L'altro elemento che costituì un vantaggio per lo sviluppo economico e sociale inglese fu la tendenza all'imprenditoria, al rischio, all'avventura, che attraversò tutte le classi ricche e dotate di capitali nel Paese. Nella prima metà del Cinquecento i merchant adventurers detenevano il monopolio del commercio internazionale della lana ad Anversa. Nella seconda metà del secolo le compagnie mercantili private inglesi andarono sempre meglio strutturandosi diversificando le loro attività. Ehi alla morte di Enrico VIII (1547) e l'ascesa al trono di Elisabetta, l’Inghilterra visse un passaggio delicatissimo. Il figlio di Enrico, Edoardo VI, dovette affrontare i problemi derivanti dalla sua minore età. Nel 1553 il trono passava a Maria Tudor che, un anno dopo, andava sposa a Filippo II e cercava di far entrare il suo Paese nell'orbita spagnola. Maria Stuart, regina di Scozia, pretendente al trono inglese, aveva sposato Francesco II di Francia e ne diventava quindi per breve tempo regina, alleandosi al partito cattolico francese dei Guisa. La morte di Maria Tudor, detta «la Sanguinaria» per la feroce repressione antiprotestante che attuò nel suo Paese, bloccava il tentativo di affermare l'egemonia asburgica nell’Europa centrosettentrionale. Elisabetta era figlia di Enrico VII e di Anna Bolena. La sua stessa nascita le imponeva la scelta protestante ma, soprattutto, la simbiosi tra religione e politica era dovuta alla rivalità con il trono cattolico della Scozia e l'esigenza di difendere l'Inghilterra dalle mire espansionistiche di Filippo II, favorite dalla sua alleanza con il papato. Tutta la politica religiosa di Elisabetta era coerentemente collegata alla politica di consolidamento del potere unitario della monarchia, attraverso una religione ufficiale, la pace religiosa, ma anche l'armonia fra ceti e classi, garantita all'interno e all'esterno del Paese dalla sovranità. Una funzione importante nella direzione dell'affermazione del mito della sovranità e dell'unità del Paese venne svolta dai grandi intellettuali, che la regina intelligentemente protesse: Francesco Bacone e William Shakespeare in particolare. In politica estera Elisabetta realizzò il suo capolavoro. Chiudeva un ciclo: la politica di alleanza anglo-asburgica, dettata dal fatto che il nemico numero uno della Corona britannica era la Francia, alleata a sua volta con la Scozia. Anche la politica matrimoniale aveva seguito questo schema di alleanze: Maria Tudor aveva sposato Filippo II, Maria Stuart Francesco II, re di Francia. Elisabetta rovescio questo schema, solo dopo aver acquisito prestigio internazionale grazie all'intervento nei Paesi Bassi. Dalla proclamazione dell'Unione delle Province Unite alla sconfitta dell'Invincibile Armata, tutta la macchina militare, politica, economica inglese fu organizzata in vista di uno scopo preciso: neutralizzare la spinta egemonica di Filippo II e far entrare l'Inghilterra fra le grandi potenze europee al centro di un nuovo schieramento di alleanze. Quando Maria Stuart fece rientro in Scozia, dopo aver abbandonato la Francia per la morte del marito Francesco II, la regione era in prevalenza calvinista. La confessione calvinista scozzese, che aveva trovato il suo massimo predicatore in John Knox, era assai radicale. Qualche successo nel tentativo di restaurazione cattolica a opera della nuova regina fu presto vanificato dal matrimonio fra Maria Stuart e l'assassino del suo secondo marito. Popolo e nobiltà insorsero e costrinsero la regina a fuggire dalla Scozia e a rifugiarsi in Inghilterra. Qui Elisabetta poteva più facilmente controllare Maria che, con la Chiesa di Roma, con il partito dei Guisa in Francia e con Filippo II, cercava di scalzare la regina dal trono. Ci fu un momento in cui Maria Stuart diventò davvero pericolosissima: nel 1584 l'eroe della rivolta dei Paesi Bassi, Guglielmo d’Orange, moriva in un attentato; la scomunica di Elisabetta da parte di Pio V; Filippo II iniziava i preparativi per la spedizione dell'Invincibile Armata. In questo clima maturò la scelta elisabettiana di processare e condannare a morte Maria Stuart: una scelta frutto dell'alleanza costituzionale fra la regina e il Parlamento, che nel 1585 istituì un tribunale speciale per i delitti dei pretendenti al trono. Scoperta dunque una congiura, Elisabetta ordinò la decapitazione di Maria Stuart, che venne eseguita nel 1587. Un anno dopo celebrò il successo sulla flotta spagnola. La politica economica di Elisabetta Tudor. La regina impresse un grande impulso alle manifatture, promuovendo lo sviluppo del settore tessile. Furono creati incentivi per gli artigiani protestanti specializzati sia indigeni sia stranieri. Il lavoro artigiano fu regolamentato sia per garantire la qualificazione professionale attraverso l'apprendistato, sia per limitare l'immigrazione dalle campagne verso le città, sia per controllare meglio i comportamenti degli strati inferiori della società. Una vera economia parallela si sviluppò grazie anche alle facilitazioni concesse dalla corte alle attività di rischio. L'età elisabettiana è l'epoca della pirateria, delle imprese marinare, di attività formalmente fuorilegge, ma di fatto autorizzate dalla regina attraverso le lettere di corsa, documenti in cui erano precisati i vantaggi ricavati dalla regina nelle imprese corsare. Tutti i soggetti dotati di capitali impegnarono e investirono uno risorse finanziarie in questa attività. Drake pose le basi per il possesso inglese della California. Fu poi fondata da Walter Raleigh la prima colonia in America settentrionale, la Virginia, in omaggio della verginità della regina Elisabetta che avevo rifiutato tutte le occasioni di matrimonio. Quello di Elisabetta non fu un governo dispotico. La regina, nei momenti cruciali del suo regno, si attenne alle regole di un gioco politico, in base al quale, se il re voleva che un provvedimento avesse la forza indiscutibile di legge, doveva sottoporlo a entrambe le Camere del Parlamento, quella dei Pari, dove erano rappresentati i Lord, e quella dei Comuni, dove era rappresentata la nobiltà delle contee. Il Parlamento formulava il provvedimento sotto forma di Statuto, ossia di legge scritta avente l'approvazione delle due Camere. La riforma dell'amministrazione, voluta da Enrico VIII e realizzata dal suo ministro Thomas Cromwell, aveva dotato anche l'Inghilterra di organismi centrali con funzioni di natura prevalentemente finanziaria, di Cancelleria, e di strutture esecutive di grande importanza politica, come il consiglio privato il primo segretario. Non si formò mai, tuttavia, in Inghilterra una burocrazia centrale e periferica dello Stato. La burocrazia si formò a partire dal governo periferico, locale; questo, in Inghilterra, era sotto lo strettissimo controllo della gentry, la nobiltà di contea. È dunque nell'intreccio tra la corte, il Parlamento e gli assetti dei poteri locali Alla fine del Cinquecento, i grandi imperi, quello ottomano e quello degli Asburgo di Spagna, attraversavano un momento difficile. Se affermavano invece come grandi potenze l'Inghilterra, l'Olanda e la Francia. Anche nell’Europa orientale l'organizzazione politico- sociale era interessata a processi di trasformazione. In Russia sotto Ivan IV il Terribile il rafforzamento dell'autorità centrale fu ottenuto dallo zar, che si proclamava erede degli imperatori bizantini, attraverso l’indebolimento del potere della grande aristocrazia russa dei boiari. Ivan IV fece largo uso del sistema delle concessioni di terre a coloro che avevano servito il sovrano nelle campagne militari, creando così una piccola nobiltà di servizio. Ristrutturò anche il sistema militare creando la prima fanteria permanente, composta di moschettieri. Nel passaggio dal dominio dei boiari al dominio della piccola nobiltà di servizio, il sistema sociale ed economico dell'agricoltura russa, fondata sullo sfruttamento della servitù della gleba, non cambio. Anzi le sue condizioni peggiorarono. Vi fu una recrudescenza della schiavitù: molti contadini vendevano se stessi come schiavi per sfuggire alla sicura morte per fame. Il decreto che segnò il punto culminante della politica di asservimento dei contadini fu emanato dal successore di Ivan IV, Boris Godunov, che decretò la proibizione di tutti gli spostamenti contadini. Al principio del Seicento la Russia precipitava in una condizione di anarchia, rivolte sociali, usurpazione fra rivali, conflitti nel sito dei boiari. Se in Russia le sorti del potere erano affidate, in massima parte, all'autocrazia zarista, in un’altra area dell’Europa orientale, La Polonia, erano totalmente nelle mani dell'aristocrazia. La Polonia divenne una repubblica nobiliare, dove il re non era che un personaggio decorativo, soprattutto dopo la fine della dinastia Jagellone. L'aristocrazia feudale decretò la fine della monarchia ereditaria rendendola elettiva. Affermò il principio del liberum veto: l'opposizione di un solo aristocratico era in grado di bloccare qualsiasi decisione del sovrano. L'aristocrazia polacca aveva il diritto di vita e di morte sulla servitù della gleba. L'Italia nella politica di potenza spagnola Il motivo di continuità da Ferdinando il Cattolico, a Carlo V, a Filippo II è riconoscibile nella persistenza della politica mediterranea e, quindi, nell'importanza strategica dell'Italia sia per contenere l'espansione della potenza francese sia per poter far fronte al pericolo turco. La pace di Cateau-Cambrésis consentì alla Spagna di impegnarsi con maggiori energie nello scacchiere Mediterraneo. Le basi del potere sulla scena internazionale erano state costruite da Carlo V. Carlo V aveva anche gettato le basi di quella pax hispanica, sancita dal 1559, dai significati molteplici e, soprattutto, leggibile come un insieme di vantaggi e di costi da pagare per tutte le realtà geopolitiche che furono coinvolte. Che cosa significò per gli Stati italiani la pax hispanica? I costi innanzitutto. Il primo, il più elevato, fu la dipendenza di quasi la metà del territorio italiano dalla Spagna: il Ducato di Milano, il regno di Napoli, la Sicilia, la Sardegna, lo Stato dei Presidi. Il secondo fu il drenaggio di risorse umane, economiche, fiscali da questi territori verso gli interessi della Corona asburgica. Il terzo costo fu costituito da una sostanziale subalternità degli Stati italiani, anche quelli non sottoposti alla Spagna, alla politica di potenza asburgica. Il quarto costo fu rappresentato dalla diffusione su quasi tutto il territorio italiano della Controriforma. Quali i vantaggi della «pax hispanica»? Il primo fu la protezione del territorio: dopo Cateau-Cambrésis dominare l'Italia volle dire difenderla, servirsi di essa non contro l'Europa cristiana ma contro i turchi soprattutto. Il secondo vantaggio: L'Italia, tutta l'Italia, non fu tagliata fuori dalla scena della grande politica. Il più diretto ed esteso coinvolgimento della penisola nello scontro ispano- turco poté offrire l'occasione a numerosi Stati italiani di giocare un ruolo tutt'altro che secondario, e nel sistema d’alleanze della monarchia spagnola. Il terzo vantaggio coinvolse soprattutto i domini diretti della monarchia: e cioè Milano, Napoli, la Sicilia e la Sardegna. Durante l'età di Filippo II in queste aree si consolidò l'egemonia spagnola. L’ egemonia spagnola in Italia non fu solo dominazione, ma un sistema di rapporti politici, diplomatici, economici, sociali fondati su un complesso equilibrio fra dominio e consenso. La monarchia spagnola governò secondo la logica del compromesso fra gli interessi della Corona e le forze maggiormente rappresentative nei differenti Paesi italiani. Questo metodo impresse una forte accelerazione allo sviluppo delle forme politiche statali dell'Italia spagnola. Il ducato di Milano, Il regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna erano entrati per vie diverse e attraverso differenti scansioni temporali a far parte dei domini spagnoli. Il ducato di Milano aveva costituito nei primi decenni del Cinquecento la posta in gioco più importante per la Francia, il simbolo, per così dire, della sua egemonia nell’Italia settentrionale. Conquistato da Luigi XII, era stato perduto nel 1512, ma riconquistato da Francesco I dopo la battaglia di Marignano nel 1515. La pace di Cambrai aveva ridisegnato quindi l'assetto italiano attribuendo il ducato di Milano alla sfera di influenza di Carlo V. Il Milanese era il centro di smistamento delle forze militari soprattutto durante l'interminabile campagna dei Paesi Bassi. Il Ducato era anche, soprattutto dopo la costituzione del Consiglio d'Italia nel 1555, l'area di riferimento essenziale per la definizione della politica spagnola in Italia. Tuttavia, il ducato di Milano conservava una sua autonomia, riconosciuta e garantita dalla monarchia spagnola. In sostanza Milano non perse mai la sua fisionomia di Stato principesco. Prima oggetto di spartizione, poi di guerra aspra tra Francia e Spagna, Il regno di Napoli era entrato a far parte dei domini spagnoli di Ferdinando il Cattolico dopo la battaglia del Garigliano. Ereditato da Carlo V e poi da Filippo II, il Mezzogiorno continentale d'Italia visse fasi diverse nel suo rapporto con la Spagna. La prima fase va dalla conquista di Ferdinando il Cattolico fino al 1528. Essa è caratterizzata dall'esigenza spagnola di neutralizzare nella società meridionale il trauma della successione, di ricucire la spaccatura profonda tra i ceti filofrancesi e quelli filospagnoli attraverso l'elaborazione di un progetto di governo e il riconoscimento dell'autonomia costituzionale, dell'insieme cioè di leggi, consuetudini, usi e privilegi del regno di Napoli. Nella fase successiva Il Regno gode di una collocazione di primo piano nella politica internazionale, nella strategia mediterranea di Carlo V. Partecipazione alla guerra e partecipazione alle relazioni diplomatiche contribuiscono a formare la coscienza dell'impero fra i ceti e i gruppi sociali del Mezzogiorno. Napoli fu importante nella presa di Tunisi da parte di Carlo V, nella ripresa di Tripoli, nella difesa di Malta. La capitale del regno fu la base operativa della flotta cristiana che vinse i turchi a Lepanto. Ma ancora più importante fu la funzione strategica di Napoli: essa fu la seconda linea dell'azione spagnola nella valle padana. Milano e Napoli erano chiamate a svolgere due funzioni diverse ma complementari: il ducato doveva essere il centro della spinta verso la Francia, l'Impero, lo Stato della Chiesa, Venezia; Napoli doveva proiettarsi verso il Mediterraneo contro i turchi e la fiorentissima pirateria nordafricana. La terza fase del rapporto tra Spagna e Mezzogiorno peninsulare d'Italia inizia in coincidenza con la crisi dell'egemonia spagnola. Napoli, dopo la crisi della Castiglia, deve costituire soprattutto un serbatoio di risorse finanziarie dove attingere per far fronte alle esigenze dei diversi teatri di guerra in continuo spostamento. Per tutta la durata della sua dominazione, la monarchia spagnola non disconobbe mai al Napoletano la sua autosufficienza giuridica, la sua pari dignità con altre parti della monarchia, il suo carattere di regno, dotato di una sua tradizione di un suo patrimonio politico- istituzionale. Tre erano gli elementi che conferivano una particolare fisionomia al Regno di Napoli. Il primo consisteva nella sua appartenenza alla comunità degli Stati cristiani d’Europa. Il secondo derivava dalla natura stessa dei rapporti tra spagnoli e regnicoli: rapporti regolati non dalla disparità coloniale fra oriundi della madrepatria e indigeni, ma dalla legislazione del regno. Infine il titolo per il quale gli spagnoli dominavano Napoli, era un titolo di legittimità dinastica. Ferdinando il Cattolico aveva giustificato la sua conquista come erede di Alfonso d’Aragona; lo stesso titolo per il quale la casa reale di Francia, per le sue ascendenze angioine, rivendicava Napoli. Tuttavia il regno di Napoli era anche viceregno. Non solo dal punto di vista istituzionale, perché governato da un viceré spagnolo; ma perché viveva un rapporto con la Spagna di dipendenza politica ed economica. Nel passaggio dalla casa d’ Aragona a quella d’Asburgo, anche la Sicilia era chiamata a svolgere funzioni importanti nella comunità imperiale: da un lato, la collocazione geografica a sud del Mediterraneo affidava all'isola il ruolo di fortezza, di avanguardia, prima difesa dell'impero; dall'altra parte la sua grande riserva cerealicola faceva assegnare alla Sicilia il compito di sfamare e approvvigionare gran parte dei domini della Corona. I siciliani cercarono di rivendicare il carattere di regno non conquistato con la forza ma liberamente confederatosi con la monarchia spagnola. I ceti dominanti dell'isola tesero sempre a esaltare l'autonomia politica siciliana. beni non agricoli, l'aumentata domanda interna e internazionale nel settore tessile continuava a favorire le tradizionali aree produttrici italiane. La tendenza ai prodotti di lusso favoriva la seta più che la lana. Notevole vivacità manifestò nel corso del XVI secolo il settore manifatturiero legato alla domanda statale. Soprattutto la macchina militare e tutto il suo indotto produssero un aumento del volume di manufatti per l'apparato bellico degli Stati. Mai i settori in cui maggiormente si avvertiva la presenza italiana nell'economia mediterranea furono quelli del commercio e del credito. I grandi capitalisti genovesi, soprattutto, riuscirono a creare un impero dalle proporzioni vastissime e dagli interessi diversificati, ramificati: attraverso di essi una massa enorme di denaro affluì verso l'Italia. Guadagni sulle operazioni di cambio, sui prestiti a breve termine e ad alto tasso di interesse che gli operatori finanziari genovesi concedevano soprattutto alla Corona spagnola, sull’appalto delle imposte, ma anche sugli investimenti nel settore commerciale e manifatturiero, consentirono abbondanti rimesse in denaro dai Paesi stranieri verso alcune importanti città italiane. La favorevole congiuntura internazionale ebbe un'influenza positiva anche sull'area più debole dell'economia italiana, il Mezzogiorno. Si ebbero anche qui una ripresa e un’espansione dell'agricoltura, favorite peraltro dalla formazione di un ceto di mediatori tra i grandi proprietari feudali e i contadini, i massari, figure emergenti che organizzarono la produzione e la grande azienda cerealicola. Negli effetti dell'«estate di San Martino» che si registrarono nel Mezzogiorno è possibile scorgere alcuni elementi di fragilità strutturale, tali da condizionare non poco la stessa ripresa dell'economia. Questa era largamente dipendente dai mercanti e dagli operatori d'affari stranieri: il controllo del traffico commerciale e del mercato del denaro era nelle mani dei grandi finanzieri toscani, genovesi, fiamminghi. Altro elemento decisivo: la presenza di una capitale come Napoli, che doveva sfamare quasi 300.000 persone, creava un rapporto costantemente sfavorevole nelle ragioni di scambio tra esportazioni di grano e importazioni alimentari. Terzo elemento: alla sempre imprevedibile vicenda dei raccolti, alla forte esposizione a carestie, epidemie ed altre catastrofi naturali, si aggiungeva nel caso del Mezzogiorno, la subordinazione delle scelte degli operatori economici stranieri. Questi, agendo anche su altri mercati, erano in grado di scegliere volta a volta il centro da preferire per le loro operazioni e potevano scaricare clientela e legami politici, una parte delle loro perdite e dei loro rischi sui Paesi di approvvigionamento, e quindi sul Mezzogiorno. Si rivelava così la condizione di economia dipendente caratteristica del Mezzogiorno, un Paese che dipendeva in massima parte dal capitale straniero. Si accentuava così la rottura fra le due Italie. Le città dell'Italia settentrionale esportavano grosse quantità di manufatti e ne importavano altrettanti in un rapporto di scambio che poteva mantenersi relativamente equilibrato. L’Italia meridionale viveva un rapporto di scambio ineguale con le aree più forti dell'economia europea. Ad accentuare la dipendenza contribuì l'appartenenza all'impero spagnolo. La Corona spagnola, proprio a partire dall'età di Filippo II, chiamò il regno di Napoli a più gravosi impegni finanziari. Il divario tra le due Italie andava ulteriormente accentuandosi. Una pluralità di formazioni politiche: analogie e differenze L'Italia fu un laboratorio di vie diverse allo stato moderno. In essa convivevano forme di sovranità e di governo: da un lato principati e repubbliche oligarchiche, che avevano vissuto l'allargamento della base territoriale dalla dimensione cittadina alla dimensione regionale e che avevano tutti all'origine l'esperienza decisiva del Comune (Genova, Milano, Venezia, Firenze); dall'altro lato le monarchie dinastiche. Le differenze tra il ducato di Savoia, lo Stato pontificio, i viceregni di Napoli, Sicilia e Sardegna erano certo notevoli: il primo dotato di una dinastia indigena che gli diede forza e contribuì al suo prestigio «italiano»; il secondo governato da una figura che rappresentava insieme l'anima temporale e quella spirituale nello stesso corpo politico; i viceregni spagnoli d’Italia governati da una dinastia straniera. Lo schema dualistico si complica allorché si passa dal piano giuridico-formale della legittimità del potere al piano della sua gestione. Su questo terreno le interferenze, i nessi, le analogie e le differenze tra le varie formazioni politiche italiane durante la prima età spagnola furono notevoli. A complicare ulteriormente questo schema fu la conquista spagnola del ducato di Milano, ultima in ordine di tempo. Con Napoli, la Sicilia e la Sardegna, la Spagna aveva acquistato per via ereditaria domini appartenuti alla casa d'Aragona. Con Milano e il suo ducato le cose stavano diversamente: era stato conquistato militarmente e integrato nel complesso di domini asburgici un territorio che aveva costruito la sua immagine economica, sociale e politica nell'età visconteo- sforzesca. Per governare Milano, ma anche per governare Napoli, la Sicilia e la Sardegna, si poneva alla monarchia spagnola il problema: come realizzare l'esigenza di uniformità e di centralizzazione politico-amministrativa nei domini italiani senza alterare gli equilibri politici e sociali locali? Una prima risposta al problema fu la seguente: in tutti i domini si favorì la formazione di personale amministrativo indigeno, si promosse l'ammodernamento delle strutture e delle procedure soprattutto in materia finanziaria, si cercò anche di controllare l'apparato sia dall’interno attraverso la nomina di funzionari spagnoli sia dall'esterno attraverso la creazione di organi di governo con funzioni esecutive, rispondenti del loro operato direttamente al sovrano. Naturalmente questa linea di tendenza non ebbe una direzione univoca, perché diversi furono i contesti sociali con cui la monarchia spagnola dovette fare i conti in Italia. Nel ducato di Milano come nel regno di Napoli le due massime autorità spagnole, rispettivamente il governatore e il viceré, erano largamente condizionate dal Senato milanese e dal Consiglio Collaterale napoletano. In entrambi i casi, nel Senato milanese e nel Consiglio Collaterale napoletano, senatori e consiglieri reagivano con vigore allorché la Spagna tentava di forzare il processo di centralizzazione del potere o di introdurre nel governo politico del territorio innovazioni tali da sconvolgere gli assetti tradizionali. Ma il governo del territorio del ducato di Milano era cosa ben diversa da quello del regno di Napoli. Nel Milanese il peso della popolazione delle campagne era notevole, organizzato, adeguatamente rappresentato, tale da far sentire la sua forza sulle città e sul potere centrale. Il contado milanese, durante il XVI secolo, poteva persino contare su un procuratore generale che lo difendeva nelle cause e nelle vertenze con la città. Lo Stato a base cittadina alla fine del XVI secolo era definitivamente tramontato in Lombardia. A fronte di 9 città vi erano 1260 comunità. Gli spagnoli dovettero tener conto di tutto questo e cercarono di ridimensionare il potere delle élite urbane, introducendo una riforma fiscale, il mensuale, un'imposta diretta che doveva colpire la ricchezza mobiliare e immobiliare situata nella città e nel contado. La presenza di una città-capitale come Napoli e la forza sociale ed economica del baronaggio feudale indussero la monarchia spagnola ad adottare un diverso modello di governo nel Regno di Napoli. Napoli fu l'unico soggetto-città ad avere un potere reale di contrattazione con la Corona: e lo fece valere sia nel farsi riconoscere immunità, privilegi fiscali, sia nell'opporsi a qualsiasi tentativo di introdurre strumenti di forte controllo e di coercizione nel regno, come l'Inquisizione spagnola che non fu possibile stabilire; sia nel difendere gelosamente leggi, usi, consuetudini e ordinamenti contro il tentativo della Corona spagnola di consolidare il potere centralizzato e assolutistico. Ma la monarchia spagnola non poté non tener conto dell'altra forza fondamentale del Mezzogiorno: quella della feudalità. Certo nell'età spagnola i baroni meridionali persero il loro potere politico. Dovettero accettare di diventare cortigiani, uomini della corte del sovrano, sudditi privilegiati e titolati rispetto a tutti gli altri. Essi potevano così continuare a usare nell'ambito dei loro feudi il potere che in teoria si intendeva loro delegato dal sovrano. Se la feudalità meridionale dovette cedere una fetta considerevole di potere politico alla Corona, conservò e accrebbe il potere economico e sociale all'interno dei feudi, cioè la giurisdizione, un insieme di diritti di natura amministrativa, giudiziaria, fiscale, economica, riconosciuti dalla giurisprudenza del tempo, dall'uso, dalla consuetudine, e che il baronaggio tendeva continuamente ad allargare e incrementare nella prassi. Così in sostanza si determinò un compromesso tra la monarchia spagnola e la feudalità. Nella provincia feudale i costi del compromesso pagati dalle popolazioni rurali furono assai alti: il governo delle campagne del Mezzogiorno fu pressoché integralmente affidato ai baroni, alle loro corti, ai loro tribunali. Quali furono i caratteri delle formazioni politiche italiane non sottoposte al dominio spagnolo? La tendenza all'accentramento dei poteri coinvolse tre Stati in particolare: il ducato sabaudo, il granducato di Toscana, lo Stato Pontificio. Nel ducato di Savoia Emanuele Filiberto è stato considerato fra i primi sovrani in Europa a proclamarsi sciolto da tutti i vincoli di tipo legislativo, a imprimere un vero e proprio accentramento assolutistico al suo ducato attraverso il drastico ridimensionamento dei poteri delle assemblee rappresentative, la formazione di un esercito permanente per la sopravvivenza del Paese, lo sviluppo di un solido apparato burocratico. Accanto alla burocrazia si sviluppò una struttura di potere esecutivo che affiancò il sovrano nelle più importanti decisioni politiche: i segretari di Stato per gli esteri, la guerra, gli interni. Gran parte di queste cariche amministrative furono ricoperte dalla «borghesia del diritto»; alla nobiltà furono affidate le cariche militari, quelle diplomatiche quelle provinciali. I sovrani sabaudi riuscirono così a realizzare un relativo equilibrio di poteri. cui non esisteva ancora la divisione netta tra materia civile, materia ecclesiastica e materia religiosa, l'insorgere di contrasti. Questi venivano sanati attraverso la via del compromesso. Venezia si era caratterizzata per una maggiore autonomia da Roma e dal papa. Dunque i motivi di un conflitto tra Venezia e il Papato non erano pochi. Nel 1606 fu nominato teologo e consultore di Stato in materia religiosa il frate Paolo Sarpi; nello stesso anno era stato eletto doge Leonardo Donato: entrambi impressero un carattere fortemente antiromano alle loro scelte politiche. La reazione della Chiesa si fece sentire. Papa Paolo V scomunicò immediatamente tutte le autorità civili veneziane. Minacciò qualcosa di più grave se le autorità civili veneziane non avessero ritrattato: l'interdetto, la proibizione cioè di officiare riti religiosi in tutte le chiese della repubblica. Il provvedimento fu reso esecutivo. Non solo l'apparato politico veneziano si rifiutò di obbedire agli interdetto, ma anche il clero secolare accettò il principio dell'autonomia dell'autorità civile. Gesuiti, Cappuccini e Teatini, che avevano obbedito all’ interdetto, furono espulsi dallo Stato. Solo la mediazione francese di Enrico IV, dopo circa un anno, riuscì a risolvere la vertenza: i preti ritenuti colpevoli furono consegnati al papa, ma il giudizio emesso dal tribunale ecclesiastico non fu ufficialmente riconosciuto dalla repubblica; inoltre i Gesuiti non furono riammessi a Venezia. Vinse dunque, anche nel caso di Venezia, la logica del compromesso. Il regno di Napoli, pur nella sua condizione di dipendenza dalla Spagna, seppe sviluppare una solida cultura che si oppose con energia all'estensione dei privilegi del clero. Certo,se Napoli era riuscita a far fallire i tentativi di imporre l'Inquisizione spagnola e di sottoporre il Mezzogiorno ai suoi tribunali, non riuscì comunque a evitare l'Inquisizione romana e i processi del Sant'Uffizio. Quando alla fine del XVI secolo i fermenti di rinnovamento religioso entrarono in sintesi con quelli della ribellione politica, Chiesa e Stato non esitarono a collaborare nella comune repressione del pericolo. Così fu nel caso di Tommaso Campanella, l'autore della Città del Sole, un progetto utopico di Stato «comunista», fondato sulla pace sociale e sui principi della religione naturale. Il filosofo promosse una rivolta in Calabria contro gli spagnoli. Fallita la rivolta, fu imprigionato. Passò prima ventisette anni nelle carceri spagnole di Napoli, per scontare la sua ribellione. Poi altri tre anni a Roma nelle carceri del Sant'Uffizio per scontare la sua eresia. Ma fu Giordano Bruno a pagare il prezzo più alto dello scontro fra la Chiesa e la nuova cultura e a diventare il simbolo del libero pensiero sacrificato sull'altare della Chiesa della Controriforma. Il 17 febbraio 1600 il domenicano, vittima del Sant'Uffizio, fu arso sul rogo di Campo dei Fiori a Roma. Era stato condannato perché aveva messo in discussione la trascendenza di Dio: aveva infatti teorizzato e predicato l'immanenza di Dio nell'universo naturale. Scienza e filosofia andavano ormai disgiungendosi dai dettami della fede. Si apriva il XVII secolo. Capitolo 6 I Paesi extraeuropei nel mondo moderno L’evoluzione del mondo islamico Tra il XV e il XVI secolo l'Islam si diffuse in vastissime aree dell'Asia e dell'Africa. Nei primi secoli dell'Età moderna furono costruiti due potenti imperi: quello degli ottomani o osmanli, così chiamati dal nome di uno dei loro primi capi, Othman o Osman, e quello persiano. Ma l'espansione dell'Islam interessò anche altre zone dell'Asia come l'India e l’Indonesia, l'Africa orientale e l'Africa nera. Un carattere comune allo sviluppo di tutte queste aree fu l'intensità degli scambi con i Paesi delle civiltà europee. L'impero ottomano a metà del XV secolo, con la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II, comincio una nuova fase espansionistica: in meno di cento anni il regno nato nell'Asia minore diventò uno dei più potenti imperi del mondo. Come spiegare questa avanzata di proporzioni gigantesche? Sono molteplici le ragioni. Ma, soprattutto, due sembrano essere le motivazioni principali del successo turco: la prima di carattere internazionale; la seconda legata al modello politico-organizzativo dell'impero. Prima motivazione. Gli anni di maggiore espansione turca in Europa coincisero con gli anni della fase più critica dello scontro tra Carlo V e Francesco I: la concentrazione sullo scontro per l'egemonia in Europa da parte delle grandi potenze (Francia e Spagna) consentì ai turchi di prendere Belgrado, di vincere Luigi II d'Ungheria, di assediare Vienna. Il secondo importante motivo del successo ottomano è legato al modello dell'impero. Al suo vertice era il sultano. La forza del sultano era nella quasi totale mancanza della proprietà privata della terra, che ne faceva un modello radicalmente diverso da quello Dello Stato moderno europeo. L'intero territorio agricolo dell'impero era patrimonio personale del sultano, a eccezione dei patrimoni degli enti religiosi. La pratica del timar, cioè una concessione di terra da parte del sultano virgola non innovò il sistema: il timar non era ereditario; le sue dimensioni erano calcolate con esattezza; il suo assegnatario era sempre controllato dai governatori statali e non esercitava alcuna forma di giurisdizione signorile sui contadini del timar. I vertici dell'apparato burocratico e militare dell'impero erano reclutati in gran parte fra gli schiavi di origine cristiana. Il sistema di reclutamento e l'istituzione a esso preposta chiamata devshirme risalivano alla prima fase espansionistica dello Stato ottomano. Ogni anno un certo numero di bambini di sesso maschile era sottratto alle famiglie cristiane delle popolazioni soggette e inviato a Costantinopoli. Qui i bambini erano educati nella fede musulmana e nelle discipline dell'amministrazione civile e militare. Il corpo di schiavi del sultano forniva i ranghi superiori della burocrazia imperiale, dalla suprema carica di gran vizir fino alle cariche provinciali, e il nerbo dell'esercito permanente ottomano. Al ceto militare erano concessi i timar in cambio del controllo territoriale delle province. Lo scopo centrale dello Stato ottomano sul piano interno era lo sfruttamento fiscale dei possedimenti imperiali. I turchi non pretesero conversioni in massa delle popolazioni sottomesse. All'autorità sovrana bastava riscuotere dai ragah cristiani, dai contadini che coltivavano la terra dei timar, indistintamente musulmani e infedeli, censi, canoni, decime. La decadenza dell'impero ottomano fu determinata dalla superiorità militare ed economica dell’Europa assolutista. Nel Mediterraneo dopo Lepanto e sul continente dopo la guerra dei Tredici anni con l'Austria si decisero il destino militare degli ottomani in Europa e il blocco della loro espansione militare. Ma l'Europa fu solo uno dei protagonisti della crisi ottomana. Non bisogna dimenticare il ruolo svolto dalla lunga guerra con la Persia, che significò il consolidamento della dinastia dei Safavidi in questo Paese e la perdita del Caucaso per i turchi. E ancora non si possono sottovalutare i motivi di ordine interno: il nomadismo originario e la stabilità richiesta da un impero non erano compatibili. Coloro che si ritenevano i veri seguaci di Maometto, i turchi sunniti, avevano dimostrato una grande capacità di penetrazione dovuta sia a un basso tasso di integralismo religioso sia alla duttile organizzazione dell'impero ottomano. Un discorso diverso va fatto per l'altra parte consistente dell’Islam: gli sciiti, che riconoscevano come soli eredi di Maometto suo genero il califfo Alì e la linea maschile delle generazioni da lui discese. La loro culla, la Persia, e la formazione politica che produssero sono inscindibili dallo Sciismo. Gli sciiti erano legati alla purezza del messaggio religioso rivelato dal profeta Maometto. Da qui il carattere teocratico dell'organizzazione politica e un rapporto con gli infedeli non fondato sul confronto e l'integrazione come per i sunniti, ma sulla conflittualità e la guerra santa. Artefice della potenza persiana fu la dinastia safavide. Al principio del XVI secolo il suo fondatore Ismail aveva riunito seguaci sciiti e membri di tribù nomadi e aveva iniziato un’epopea di guerra a Est contro i popoli dell'Asia centrale, a Ovest contro gli ottomani. Sotto il dominio di Abass I il Grande la Persia era stabilizzata quasi entro i suoi confini attuali, dopo la sconfitta di turchi e uzbechi. Lo scià Abbas creò un’autocrazia di stile orientale, in cui Stato, governo e ricchezze erano considerati beni del sovrano; ne stabilì il fondamento religioso sul dogma, i cui unici depositari erano gli imam; eliminò i particolarismi tribali, etnici e provinciali a vantaggio di un'amministrazione centralizzata. La Persia rivestì il rango di potenza internazionale. Nuove rotte commerciali si stabilirono: attraverso il nuovo porto di Bandar Abbas, i traffici delle spezie e della seta arricchirono le casse dello scià. Anche la cultura visse una delle sue stagioni più belle. Tra il XV e il XVI secolo si sviluppò un terzo nucleo di espansione dell'Islam. Strumenti di espansione furono i mercanti musulmani, dove l'instaurazione di regni umani provocò il declino del vecchio impero indiano del Majapit. Altrove furono missionari a portare il verbo musulmano. Alla penetrazione commerciale fu legato anche lo sviluppo dell'Islam sulle isole e sulle coste dell'Africa orientale: il suo centro fumo Mombasa, che tentò di opporsi controllo burocratico centralizzato sopra una società frammentata dall'anarchia feudale, in cui perciò era importante saper opporre grandi feudi l'uno contro l'altro. Questa frammentazione non venne mai completamente superata. L'India Se si osserva una carta dell'India agli inizi del Cinquecento e la si confronta con una al principio del secolo successivo, si possono scorgere trasformazioni importantissime nell'assetto politico del territorio. Nel 1526 Babur prende possesso della capitale Delhi. Sulle rovine del sultanato sta per formarsi un impero, l'impero moghul o mogol (dal nome della dinastia indiana fondata da Babur), e il suo artefice è il re Akbar. Dopo un cinquantennio sarà padrone di tutta l'India settentrionale. Il fondamento di questo Stato era militare: ogni funzionario era membro dell'esercito. Al vertice dello Stato era l'imperatore. In questo Paese non si formarono né una aristocrazia terriera nazionale né una burocrazia ereditaria. Sulla terra assegnata dall'imperatore non erano concessi titoli definitivi; l'acquisto fondiario era consentito solo per scopi edilizi. Le assegnazioni di terra come ricompensa per i servizi burocratici e militari furono sostituite da pagamenti in denaro. Il reclutamento dei funzionari non passava attraverso una specifica formazione e un esame come in Cina: l'imperatore li sceglieva e stabiliva le condizioni del servizio. L'impero era diviso in province, rette da un viceré. Il sistema delle imposte era articolato in due settori: il primo di pertinenza dell'autorità centrale; il secondo dipendeva dalle autorità provinciali. Lo Stato prelevava una quota fissa dal lavoro agricolo. L'India si reggeva su un'economia per lo più agraria. Le città non erano assenti: ma le loro funzioni prevalenti erano politiche e religiose. Perché questo sistema tutto sommato reggeva? La prima fase dell'impero mogul sovrappose un corpo semplice di leggi e ordinamenti a un insieme eterogeneo di usi locali, mantenendo anche i capi indigeni, badando, al tempo stesso, che non si costituissero poteri tali da minacciare l'imperatore. Ma fu soprattutto il sistema delle caste a rendere superflua in India la centralizzazione del potere. Il sistema delle caste organizzava la popolazione in gruppi ereditari ed endogamici: in questi gruppi i maschi svolgevano, tramandandola di padre in figlio, lo stesso tipo di funzione sociale, quale quella di sacerdote, guerriero, artigiano, coltivatore. Seconda parte Verso un’Europa multipolare: il Seicento Capitolo 7 Crisi e guerra mondiale Una crisi generale Tra la fine del XVI e la fine del XVII secolo quasi tutte le aree europee furono investite da un processo di trasformazione storica, che la storiografia ha identificato come la crisi generale del Seicento. La crisi non colpì tutti i Paesi allo stesso modo, negli stessi tempi, negli stessi settori. Dalla crisi alcuni Paesi uscirono più deboli, altri più forti: alcuni, come l'Inghilterra e l'Olanda, stabilirono la loro egemonia sul continente, altri si indebolirono ulteriormente. Ecco perché il concetto di «crisi» appare intimamente legato a quello di «trasformazione». Il XVII secolo fu per l'Europa un secolo di debole crescita demografica. Quali sono le cause di questo basso tasso di crescita? La guerra, in primo luogo quella dei Trent'anni che interessò gran parte dell’Europa. Un fattore fondamentale furono le epidemie. Ma anche in questo caso le epidemie non colpirono indiscriminatamente: i loro effetti furono evidentemente più gravi su popolazioni biologicamente indebolite da un'alimentazione insufficiente, in condizioni igieniche deteriori. Siamo così logicamente ricondotti al nesso popolazione-produzione agricola. All'inizio del XVII secolo la secolare espansione dell'agricoltura si interrompe. Come può essere spiegato il meccanismo della crisi agraria? La prevalenza dei cereali nell'agricoltura era stata la risposta alla spinta demografica del Cinquecento. Era altresì legato all'andamento favorevole dei raccolti, dipendente soprattutto dal fattore clima. Alla fine del Cinquecento lo sviluppo della cerealicoltura fu bloccato dalla convergenza di fattori molteplici. Intorno al 1590 ebbe inizio una fase di raffreddamento del clima europeo che durò fino alla metà del Seicento. Il costo del lavoro aumentò, rese e profitti agricoli e diminuirono, si contrasse sensibilmente la domanda. La capacità di domanda si contrasse anche per effetto della più accentuata pressione economica e sociale dei ceti privilegiati: la nobiltà feudale tese ad allargare la sua giurisdizione, la sfera degli abusi, e il potere dei signori sulle terre e sugli uomini divenne assai più rigido. A indebolire ulteriormente la capacità di domanda contribuì anche la forte pressione fiscale degli Stati, soprattutto durante la guerra dei Trent'anni. Anche le manifatture, l'industria e il commercio furono investiti dalla crisi. Qual era il livello dell'organizzazione industriale del tempo? La tecnologia era ancora a uno stadio poco evoluto: l'energia di base era costituita da quella umana, per alcune fasi lavorative erano sfruttate l'energia animale e quella idraulica. Se il livello della produttività si manteneva generalmente basso, se lo sviluppo della produzione dipendeva da un più intenso sfruttamento della forza lavoro, anche il fattore tecnologico ebbe tuttavia importanza considerevole nel determinare, dopo la metà del Seicento, il primato di grandi potenze economiche come l'Inghilterra e l'Olanda. L'organizzazione del lavoro fu un'altro fattore che contribuì a rallentare lo sviluppo industriale: le corporazioni di arti e mestieri avevano perso il peso, il potere politico che detenevano nel Medioevo, ma mantenevano intatto il potere di controllo sull'organizzazione dell'economia, attraverso i privilegi, i monopoli, l'irrigidimento delle regole per l'accesso all'attività professionale. Soprattutto l'economia italiana fu compromessa dalla rigidità dell'organizzazione manifatturiera e dall'alto costo del lavoro. In grande ascesa le manifatture inglesi. Ancora più equilibrato lo sviluppo dei Paesi Bassi. I motivi fondamentali della superiorità economica di Inghilterra e Paesi Bassi furono la diversificazione merceologica di queste due economie e la loro capacità di rispondere alla domanda di beni praticando prezzi più accessibili; il raggiungimento di questo obiettivo attraverso il basso costo del lavoro. Tra il 1650 e il 1660 l'industria tessile europea è comunque in crisi anche nelle aree produttive più forti: di qui l'importanza che assunse la capacità di diversificare e riconvertire la produzione. La partita decisiva si giocava a livello del commercio internazionale. Il baricentro si era spostato dal Mediterraneo all'Atlantico. Nel XVI secolo Anversa aveva costituito la piattaforma del commercio europeo e atlantico; dopo la ribellione dei Paesi Bassi, Amsterdam diventò il centro da cui le élite internazionali controllavano l'economia mondiale. Gli spagnoli avevano svolto una funzione di primo piano nel mercato internazionale durante il Cinquecento. Ma il centro del capitalismo europeo nel XVII secolo sarà situato fra Amsterdam, Londra e Parigi. Nuove gerarchie anche nel controllo del credito e della finanza. Tutti avevano bisogno di capitali. ma il numerario (così si chiamava la massa monetaria circolante) era scarso. L'afflusso di oro e argento americano alla fine del Cinquecento ebbe una contrazione fortissima per l'esaurimento di molte miniere e per la crisi della manodopera indigena, decimata dalle dure condizioni di lavoro. Perciò il valore dell'oro ebbe una fortissima impennata, si dovette ricorrere alle coniazioni in rame. Per la scarsità di moneta circolante il sistema finanziario internazionale faceva ricorso a una moneta fiduciaria: ossia i titoli del debito pubblico emessi dagli Stati e le lettere di cambio. Nel Cinquecento erano stati tedeschi e genovesi i primi nella finanza internazionale; nel corso del Seicento la grande finanza anglo-olandese sostituì gli antichi protagonisti. Anche i processi sociali furono investiti. La corsa alla terra, all'occupazione degli uffici e dell'amministrazione statale, all’investimento nel debito pubblico furono tendenze comuni a tutta l'area europea. Quasi tutti gli operatori economici e gli uomini d'affari preferirono fondare su beni rifugio la base delle loro fortune. Ma queste tendenze non determinarono effetti sociali simili in tutta Europa. Ad esempio, nello stesso periodo in cui, soprattutto nell'area mediterranea dell’Europa, si assisteva a una forte ripresa del potere sociale della feudalità e della giurisdizione baronale, in Inghilterra l'aristocrazia si trasformava profondamente. si gettò fra le braccia della Francia. Dopo la Catalogna anche il Portogallo aveva dichiarato la sua indipendenza. Nel 1643, dopo la decisiva sconfitta inferta dai francesi all'esercito spagnolo, Olivares fu deposto dal suo incarico. Ma, intanto, mentre la guerra dei Trent'anni si avviava al termine, altri eventi minacciarono di compromettere la solidità dell'edificio costruito dai Re Cattolici fino a Filippo II. Nel 1647 due rivolte scoppiavano nei domini italiani della Spagna: prima in Sicilia e poi nel regno di Napoli. Nel decennio precedente la Sicilia, ma soprattutto Napoli, avevano dovuto accollarsi il peso finanziario e militare dei massicci impegni della Corona spagnola: la pressione tributaria nel Mezzogiorno continentale e insulare era sensibilmente aumentata. Ma la rivolta che interessò Napoli e le province del regno meridionale dal 7 luglio 1647 al 6 aprile 1648 non ebbe solo motivi antifiscali. Bisogna distinguere tre fasi. Nella prima fase essa fu dominata dal capopopolo Tommaso Aniello d’Amalfi, nato a Napoli nella zona del Mercato, detto Masaniello, un pescivendolo. Ma la testa pensante del moto fu Giulio Genoino, avvocato originario della provincia di Salerno. Insieme a Masaniello egli seppe interpretare sia i motivi della protesta antifiscale, sia i motivi della lotta politica dei ceti popolari contro la nobiltà. La rivendicazione più importante di questa prima fase fu proprio la richiesta della parità del peso politico, nell'amministrazione del comune di Napoli, tra nobiltà e popolo. Dopo l'uccisione di Masaniello e l'esilio di Giulio Genoino, la rivolta prese un'altra piega, si radicalizzò, si trasferì nelle province e nelle campagne del Mezzogiorno dove assunse una forte impronta antifeudale. Infine la terza fase: nell'ottobre 1647 i leader popolari proclamarono la Real Repubblica Napoletana sotto la protezione del re di Francia. Il francese Enrico di Lorena, duca di Guisa, che si proclamò doge della Repubblica, non ebbe il sostegno politico, finanziario e militare della Francia. I leader della Real Repubblica si resero conto di non godere del consenso del «ceto civile» e del personale delle più importanti magistrature napoletane: cercarono quindi di aprire trattative con il potere spagnolo. Nel gennaio 1648 la Spagna firmò la pace separata con gli olandesi e poté quindi impegnarsi nel risolvere la crisi napoletana. Tutto questo preparò il successo del 6 aprile 1648 e il ritorno trionfale degli spagnoli in Napoli. Alla fine del decennio 1640-50 la Spagna si trovò dunque in condizioni relativamente migliori rispetto ai primi anni Quaranta. Il Portogallo era definitivamente perso. Ma a fronte di questa perdita c'erano la riconquista di Napoli e il contenimento del rischio di rivolte in altre regioni come l’Andalusia. Anche la crisi catalana fu risolta positivamente per gli Asburgo di Spagna. La società catalana era troppo frammentata per unirsi in un'insurrezione nazionale. I francesi si tirarono indietro; la carestia e le malattie fecero il resto. Ma, anche se l'impero spagnolo fu in gran parte restaurato e riuscì così a vivere ancora a lungo, il colpo al cuore dell'impero ricevuto con la rivolta catalana lasciò il segno. Il consolidamento dello Stato moderno in Francia Dopo l’editto di Nantes, Enrico IV aveva ristabilito in Francia la pace religiosa. Enrico IV promosse una politica di consolidamento dello Stato basata sulla formazione e lo sviluppo di un ceto di funzionari pubblici la cui origine e le cui fortune economiche e politiche furono in larga parte legate alla macchina statale. La vendita degli uffici pubblici consentì sia di rispondere alle aumentate esigenze finanziarie della monarchia francese sia di attirare verso l'apparato statale gruppi sociali di origine non nobile desiderosi di fare carriera e fortuna nell'impiego pubblico. L’editto di Paulet sanzionò l'ereditarietà degli uffici venduti a fronte del pagamento di una tassa annuale da parte degli esercenti. In questo modo, veniva costruendosi un solido legame fra il re e la sua burocrazia. Proprio questo legame consentì alla monarchia francese di superare alcune crisi politiche assai gravi durante il XVII secolo e contribuì a formare un corpo di funzionari, una classe di governo fedele ai Borbone. Su questo ceto, i cui esponenti più importanti divennero i titolati la nuova nobiltà di toga, i sovrani francesi fecero leva per neutralizzare le eventuali spinte eversive dell'aristocrazia e della più antica nobiltà. Un altro settore di intervento fu quello dell'economia. Enrico IV, grazie anche al contributo del suo primo ministro, il duca di Sully, cercò di ricostruire le basi produttive del Paese attraverso lo sviluppo dell'agricoltura e delle manifatture tessili. La corsa alla rendita terriera da parte soprattutto della nuova nobiltà degli uffici e della borghesia mercantile e finanziaria ebbe il suo corrispettivo nella politica statale di assistenza all'agricoltura, di creazione di infrastrutture, di tutela del commercio del grano. In politica estera Enrico IV fu impegnato a promuovere alleanze in funzione antiasburgica: con gli olandesi, con i Savoia, con Venezia. Il suo regno ha accentuò tensioni e conflitti interni alla società francese. Era forte quello religioso, che l'editto di Nantes aveva solo parzialmente attenuato, fra cattolici e ugonotti. Vi erano poi i contrasti legati alle nuove dinamiche politico-sociali promosse dallo Stato: il conflitto tra la nobiltà di spada e la nobiltà di toga, tra l'antica aristocrazia e i robins, i nuovi ricchi titolati, il conflitto tra i Parlamenti e il corpo dei funzionari creati dal sovrano. E fu proprio un fanatico estremista della Lega cattolica ad assassinare nel 1610 Enrico IV, che lasciava un figlio ancora bambino. La reggenza fu rimessa alla vedova di Enrico IV, Maria de’Medici. Maria de’Medici convocò nel 1614 gli Stati Generali. L'assemblea dei tre stati, clero, nobiltà e terzo stato, non riuscì a imporre nessuna riforma proposta all'approvazione del re, tra cui l'abolizione della venalità delle cariche. Fu anche l'ultima convocazione degli Stati Generali prima della rivoluzione francese. Il decennio 1614-24 fu per la Francia un periodo critico. Esplosero conflitti di natura religiosa e politica ma questi anni furono anche l'età di formazione di Armando-Jean du Plessis di Richelieu, il futuro cardinale ministro francese. Richelieu entrò a far parte dell'entourage della regina madre, Maria de’ Medici. Nel 1614 perorò all'assemblea degli Stati Generali la causa dell'abolizione della venalità delle cariche. La sua carriera fu favorita da Concino de’ Concini, che nel 1616 lo nominò segretario di Stato. Dopo l'assassinio del suo protettore, Richelieu perse la carica, ma nel 1624 divenne primo ministro di Luigi XIII. Nel governo Richelieu possiamo individuare due periodi: il primo fino al 1628; il secondo dal 1628 al 1642, anno della sua morte. Nei primi anni di governo Richelieu fu indotto a occuparsi soprattutto della questione ugonotta. Nel 1628 l'esercito ugonotto fu sconfitto a La Rochelle. La seconda fase del suo governo fu caratterizzata dal rilievo della politica internazionale. Nel duello franco-spagnolo la Francia di Richelieu dimostrò una decisa superiorità. Nella politica del primo ministro francese guerra, diplomazia, spionaggio, provocazione e strategia della tensione costituirono strumenti diversi di un unico disegno teso a indebolire e a ridimensionare il sistema imperiale spagnolo. Nella contesa tra Francia e Spagna per la supremazia continentale le maggiori chances della prima potenza rispetto alla seconda derivavano anche dalla maggiore capacità della Francia di superare tensioni e conflitti sociali e di sfruttare tutte le forze operanti in direzione della concentrazione del potere. Oltre alla condizione di malessere sociale nelle campagne e nelle città, Richelieu, morto nel 1642, lasciava in eredità al suo successore anche altri problemi. La tendenza alla centralizzazione del potere, che egli perseguì attraverso la creazione di commissari e intendenti responsabili del loro operato solo verso il sovrano, aveva creato le premesse di un conflitto che avrebbe caratterizzato la storia della Francia per oltre un secolo: quello tra il corpo di funzionari e gli ordini della società rappresentati nelle magistrature nei Parlamenti. Il successore di Richelieu, l'italiano Giulio Mazzarino, non mutò le linee fondamentali di governo. Nel 1643 moriva Luigi XIII e i francesi dovevano vivere ancora un'età di reggenza sotto la regina madre dell'infante Luigi XIV, Anna d’Austria. I primi anni del governo di Mazzarino segnarono successi decisivi sul fronte internazionale nella guerra contro la Spagna, ma anche momenti di turbamento e di crisi nell'ordine politico interno. L'aumentato fabbisogno finanziario aveva indotto il primo ministro francese da un lato a estendere il ricorso alla venalità degli uffici, creando nuove cariche vendibili; dall'altro a tassare il salario annuale dei funzionari pubblici. Gli effetti di quest'ultimo provvedimento furono immediati. L'opposizione al governo coinvolse la nobiltà di toga, che non condivideva la continuazione della guerra e il conseguente aumento delle spese militari. Ma anche gli stessi funzionari e gli esercenti degli uffici venali, soggetti alla pressione fiscale, entrarono nel blocco d'opposizione a Mazzarino. A interpretarla furono i Parlamenti. Il Parlamento di Parigi formulò nell'estate del 1648 un progetto di redistribuzione dei carichi fiscali, di controllo della spesa pubblica e di soppressione degli intendenti. Si trattava di un progetto ideato in un centro di potere alternativo a quello statale. Mazzarino fece allora arrestare alcuni parlamentari. Fu questo il detonatore di una rivolta, che si estese da Parigi alle province e agli altri Parlamenti. Proprio perché i soggetti politici di maggiore rilievo provenivano da Federico V furono sequestrati beni e fu imposto l'esilio, molte furono le condanne a morte. I beni dei nobili protestanti furono trasferiti a nobili cattolici fedeli all'imperatore. Nel 1622 fu riconquistato all'impero anche il Palatinato. Nel 1621, si riapriva il fronte di guerra tra la Spagna, dove primo ministro era diventato il conte- duca d'Olivares, e le Province Unite. La Spagna riuscì in questi anni a mettere a segno una serie di vittorie contro l'esercito olandese. Un terzo fronte di guerra si aprì in Italia. Nel 1625 La Spagna intervenne a fianco dei cattolici della Valtellina contro i seguaci della Riforma. La Valtellina costituiva per la potenza spagnola un importante corridoio di comunicazione con i domini italiani. Dopo il successo degli Asburgo sull'esercito boemo-palatino il conflitto era destinato ad allargarsi. L'espansionismo cattolico-asburgico lambiva le potenze del Nord Europa, in particolare la Danimarca. Qui regnava il giovane sovrano Cristiano IV. Forte dell'appoggio di Olanda e Inghilterra nonché della Francia di Richelieu, Cristiano IV scese in guerra a fianco dei protestanti contro l'Impero. Ma Ferdinando II affidò il comando delle truppe imperiali a uno dei più importanti condottieri militari del tempo, Albrecht von Wallenstein. Wallenstein sconfisse le truppe protestanti, invase la Danimarca, la costrinse a una pace umiliante. Con la pace di Lubecca Cristiano rinunziò a ogni ingerenza nell'Impero. L'imperatore, a sua volta, emanò l'editto di Restituzione: in base a esso dovevano essere riconsegnati alla Chiesa cattolica tutti i beni confiscati dopo il 1552. La conclusione di questa fase della guerra fu dunque favorevole agli Asburgo d’Austria. Ma la congiuntura favorevole non sarebbe durata ancora a lungo. Nel 1592 il re di Polonia Sigismondo Vasa ereditò anche la Corona di Svezia. Nel 1599 la Dieta svedese depose Sigismondo. Gli successe lo zio, Carlo IX. Le mire espansionistiche di Carlo verso la Polonia e verso la Danimarca non ebbero successo: costituirono, tuttavia, le linee direttrici per l'affermazione della Svezia sia sul piano interno sia su quello internazionale, che fu opera del successore Gustavo Adolfo. Molti sono i fattori che possono spiegare l'ascesa in tempi abbastanza rapidi di un Paese che al principio del XVII secolo contava circa un milione di abitanti. La Svezia possedeva una fonte di ricchezza importantissima: le risorse minerarie. Ferro e rame furono in parte esportati e in parte utilizzati per l'armamento. Il secondo motivo del successo svedese fu il sistema di rapporti di produzione, che privilegiava la piccola proprietà contadina. Da questo ceto venivano reclutati i soldati. Terzo motivo: l'abilità politica e amministrativa del re Gustavo Adolfo. Il pericolo asburgico incontrava, dunque, proprio nel Baltico il baluardo della potenza svedese, che non ne avrebbe mai tollerato l'espansione in quel mare. Gustavo Adolfo, dopo aver stipulato un trattato d'alleanza con Richelieu, si spinse in Germania con il suo esercito, occupò Monaco, centro della Lega cattolica, e sconfisse l'esercito imperiale comandato da Wallenstein. Gustavo morì sul campo. Nel 1634, a Nordlingen, gli svedesi furono poi sconfitti dalle truppe imperiali. I principi protestanti li abbandonarono e firmarono nel 1635 la pace di Praga. Gli Stati germanici erano nuovamente sotto l'egemonia asburgica, la Svezia ricondotta entro la sua sfera limitata di influenza, il sistema di alleanza cattolico pareva avere il sopravvento sul sistema alternativo. A questo punto la Francia entrava direttamente in guerra. Le due parti in conflitto erano ora Francia, Svezia, Olanda contro Spagna e Impero. Al trono imperiale era succeduto Ferdinando III. Le fila della politica francese erano tirate da Richelieu. Il suo rivale, il conte-duca d'Olivares, impegnava in questi anni la Spagna su più fronti. E su più fronti appariva spiazzata la Spagna. I colpi decisivi furono inferti alla Spagna e alle truppe imperiali tra il 1643 e il 1644. Nelle Ardenne, Luigi di Borbone, principe di Condé, comandante delle truppe francesi, ottenne una vittoria sugli spagnoli. Insieme agli svedesi, i francesi penetrarono in Sassonia, Boemia, Palatinato, Alsazia e si spinsero fin nella Baviera. Al principio del 1648 gli spagnoli firmarono la pace separata con l'Olanda, riconoscendo definitivamente la sua indipendenza. La pace di Vestfalia, che pose termine alla guerra dei Trent’anni, fu siglata nell'ottobre del 1648 solo da Impero, Francia e Svezia. La Spagna non firmò il trattato: la guerra con la Francia, dunque, continuò. La prima questione fu la pacificazione religiosa. Da un lato si confermò il principio sancito ad Augusta, dall'altro si apportarono a esso sensibili integrazioni. I principi potevano scegliere la religione del loro Stato. I sudditi erano tenuti a seguire quella che era stata la religione di famiglia da almeno 25 anni indietro. Chi non voleva seguire questa norma doveva lasciare il Paese, conservando tuttavia il suo patrimonio. La normativa non era ancora l'attuazione piena del principio di tolleranza: rappresentava comunque la convivenza tra cattolici, luterani e calvinisti. Oltre che per i guadagni territoriali, la Francia usciva vincitrice anche per un altro motivo: alla monarchia dei Borbone era riconosciuto il ruolo di arbitro del trattato, di garante delle sue clausole. Si trattava di una sanzione formale della capacità di mediazione diplomatica e di intervento politico, oltre che militare, nei conflitti locali. La Svezia guadagnava in territorio germanico Brema e Verden, entrando così a far parte di diritto della Dieta imperiale. Estendeva, inoltre, la sua influenza nella Pomerania occidentale e le era riconosciuto il primato nel Baltico e nel mare del Nord. L'impero usciva trasformato dalla guerra dei Trent’anni. In Germania il rafforzamento dei poteri dei principi territoriali significò la restrizione delle prerogative imperiali e lo svuotamento della Dieta. Vestfalia riconobbe la sovranità dei circa 350 domini che componevano il Sacro Romano Impero e vi si associavano. All’imperatore elettivo e alla sua Dieta erano riconosciuti solo poteri di arbitrato e di coordinamento. Infine, il trattato di Vestfalia riconosceva solennemente l'indipendenza dell'Olanda. Verso un Europa multipolare: il nuovo quadro internazionale dopo le paci di Vestfalia, Pirenei e Oliva La guerra tra Francia e Spagna continuò dopo il 1648 fino al 1659. Tuttavia, il disimpegno da alcuni fronti della guerra dei Trent'anni consentì alla Spagna di restaurare il suo potere in Catalogna. La rivolta in Portogallo ebbe, invece, successo. Il paese ritrovò l'unità nazionale intorno all'antica dinastia locale dei Braganza e nel 1654 anche parte dell'impero coloniale, tra cui il Brasile, rientrava nei domini portoghesi. Le sorti della guerra franco-spagnola mutarono radicalmente dopo la battaglia delle Dune, grazie anche all'alleanza tra Francia e Inghilterra. Con la pace dei Pirenei, la Spagna cedeva all'Inghilterra Dunkerque e la Giamaica; alla Francia parte delle Fiandre e dell'Artois, e nei Pirenei la Cerdagna e il Rossiglione, mentre il matrimonio di Luigi XIV con Maria Teresa, figlia di Filippo IV, stabili tra i due Paesi altri legami. La guerra proseguì nel Baltico tra il sovrano svedese Carlo X e la Danimarca, alleata con l'elettore di Brandeburgo-Prussia. Nel 1660 la pace di Oliva concludeva il conflitto a spese dello Stato più debole, la Polonia. Parte dei suoi territori venne spartita fra Svezia, Brandeburgo e Russia. La tradizione storiografica ha interpretato le tre paci di Vestfalia, Pirenei e Oliva come il segno della indiscussa egemonia francese in Europa. Ma questa egemonia è assai diversa dall'egemonia spagnola della seconda metà del Cinquecento. La spagna aveva potuto affermarsi nell’Europa del Cinquecento in assenza di forti contendenti. La Francia afferma la sua egemonia in presenza di nuove potenze. Quella che emerge è dunque un’Europa multipolare: un polo Mediterraneo con la Francia in posizione preminente; nell’Europa centrale è in netta ascesa la potenza del Brandeburgo- Russia; l’Inghilterra e l'Olanda sono il cuore dell'economia europea; a Nord la Svezia, a Nord-Est la Russia. A metà Seicento comincia a profilarsi la consapevolezza della fondamentale unitarietà europea. La Rivoluzione I detonatori della Rivoluzione inglese furono la guerra e la crisi finanziaria. La Scozia era calvinista. Immediatamente fu l'opposizione allorché re Carlo e l'arcivescovo Laud decisero di imporre alla Scozia il sistema di culto e l'organizzazione ecclesiastica anglicana. Gli Scozzesi prepararono un'armata e dichiararono guerra al re Carlo. Nello stesso tempo il sovrano inglese aveva perso il controllo delle forze armate e l'appoggio della City, cioè dell'élite finanziaria londinese. Poteva ricorrere al Parlamento ma, ormai, dopo il 1628 e la Petition of Rights, il rapporto con il Parlamento era conflittuale. Convocato il 13 aprile 1640, esso mostrò al re, che chiedeva stanziamenti finanziari, tutta la sua grinta: chiese a sua volta al sovrano l'abolizione di alcune tasse e la conferma della Petition of Rights. Allora, pochi giorni dopo, Carlo I lo sciolse: fu questo il Corto Parlamento. La convocazione di un nuovo Parlamento (chiamato lungo Parlamento per la sua durata) segnò l'isolamento di re Carlo. Tra la vicenda del Corto Parlamento e la convocazione del lungo Parlamento l'esercito inglese era stato sconfitto ripetutamente dalle truppe scozzesi, che dettarono le condizioni per la tregua. Immediati i contraccolpi nella vita interna inglese: Strafford, accusato di tradimento, fu giustiziato; altri ministri, colpevoli di corruzione, furono allontanati dalla vita pubblica. Un'altra crisi era destinata a provocare ulteriori gravi contraccolpi sul già fragile sistema politico inglese: la questione irlandese. Sotto Edoardo VI ed Elisabetta alcune contee dell'Ulster, Paese di solida e antica tradizione cattolica, avevano visto lo sviluppo della religione protestante. Da qui l'emergere di conflitti di natura religiosa fra cattolici e calvinisti. Grande impressione suscitò il massacro di protestanti a opera di cattolici, avvenuto nell'Ulster. La propaganda puritana collegò la rivolta irlandese ai rischi di ritorno alla religione cattolica in Inghilterra: rischi che il movimento puritano imputava al partito di Strafford. Passò così in Parlamento una mozione detta la Grande Rimostranza. Essa considerava nemici dell'ordine sociale e politico inglese gli appartenenti alle sette religiose cattoliche, i vescovi e il clero corrotto, i cortigiani che si erano arricchiti sotto Carlo I. Nel novembre 1641 l'Irlanda era in rivolta. Si trattò di un'insurrezione dei proprietari e dei contadini anglo-cattolici contro i coloni protestanti inglesi e l'amministrazione autoritaria di Strafford. Di fronte all'estendersi della rivolta irlandese, il Parlamento rivendicò i pieni poteri militari e il comando della repressione. Carlo reagì e tentò di arrestare i capi dell'opposizione parlamentare. Non vi riuscì e lasciò la capitale. L'equilibrio fra re e Parlamento si era definitivamente spezzato. Cominciava la guerra civile. Se il dibattito fra gli storici sulle cause della rivoluzione inglese è stato vivacissimo ancora più discussa è stata la periodizzazione. Nel periodo 1642- 60 della storia inglese sono comunque riconoscibili 4 fasi: la prima fase (1642 49) è quella della guerra civile; la seconda fase (1649-53), dalla proclamazione del Commonwealth al protettorato di Cromwell; la terza fase (1653-58) è quella della dittatura militare; la quattro fase (1658- 60) dalla morte di Cromwell alla restaurazione di Carlo II. La divisione della società inglese nel 1642, dopo la fuga del re da Londra: nel partito del re militavano l'aristocrazia, tutto l'apparato della Chiesa anglicana, nobili grandi proprietari terrieri e gli allevatori ovini e bovini dell'area orientale dell’Inghilterra. Nello schieramento d'opposizione parlamentare militavano i ceti in movimento, gli esquires della gentry, professionisti, mercanti, artigiani e ceti che popolavano le aree limitrofe di Londra. Nell'estate del 1642 la cavalleria fedele al re Carlo, composta prevalentemente da aristocratici, si scontrava con l'esercito del Parlamento, composto da uomini dalla capigliatura corta e perciò detti Teste rotonde. Dopo i primi successi dei realisti, l'esercito degli oppositori del re cominciò a conseguire alcune vittorie. A suo favore giocarono il sostegno finanziario della City, l'alleanza con la Scozia, la progressiva acquisizione dell'esperienza e della disciplina militare, grazie soprattutto a un capo militare calvinista ed esponente della gentry di provincia, Oliver Cromwell. Fu proprio la New Model Army, l'esercito di un nuovo modello, ideato e realizzato da Cromwell, a sconfiggere i realisti nel 1645. La nuova armata era formata da volontari e non da mercenari. Vinta la resistenza del re Carlo, che nel 1646 si arrese pure agli scozzesi e fu consegnato al Parlamento di Londra, la fase più cruenta della guerra civile si concludeva. Emergevano ora nuove forme di divisioni e conflitti, interni allo schieramento che aveva combattuto il re. Ora erano riconoscibili tre forze politiche. La maggioranza del Lungo Parlamento era costituita dai presbiteriani, tendente a sostituire la Chiesa anglicana con una Chiesa calvinista fondata su un sistema di consigli («presbiteri») e su una nuova identità Chiesa-Stato. A questa forza si opponevano gli indipendenti, il gruppo egemonico della New Model Army. L'ideologia politica degli indipendenti si distingueva da quella dei presbiteriani soprattutto nella ferma opposizione a qualsiasi Chiesa di Stato e nella tolleranza per tutti i credi religiosi. Erano fermi sostenitori del libero mercato, dell'iniziativa privata, della proprietà. Alla loro sinistra i levellers, i «livellatori», espressione politica del variegato mondo delle sette religiose, che predicavano l'assoluta libertà religiosa, la democratizzazione della società, nei casi estremi l'abolizione della proprietà privata e il comunismo dei beni. L'ago della bilancia politica tra queste diverse forze in campo fu assunto da Oliver Cromwell e Henry Ireton, un'abile giurista che guidò la battaglia ideologica-politica contro John Lilburn, il leader dei levellers. Il radicalismo dei livellatori si era diffuso tra la New Model Army. I presbiteriani, che intanto cercavano di accordarsi con il re per il ripristino dell'autorità monarchica, chiedevano lo scioglimento della Nuova Armata. I leader degli indipendenti, Cromwell e Ireton, da un lato sostennero la New Model Army, dall'altro cercarono di bloccare le spinte estremistiche. I levellers si battevano per il suffragio universale, per la separazione fra Chiesa e Stato, per una Costituzione repubblicana che garantisse l'uguaglianza dei cittadini. Cromwell e Ireton collegavano, invece, la rappresentanza alla proprietà: l'accesso al potere politico doveva essere riservato a categorie che andavano dai più ricchi artigiani ai mercanti e ai proprietari terrieri. La preoccupazione maggiore degli indipendenti era il rischio dell'anarchia sociale e politica. Il rieschio era reale: i presbiteriani controllavano ancora il Parlamento; Carlo I era fuggito in Scozia nel 1648; l'esercito era in pieno fermento e non riusciva a controllare le spinte radicali che lo agitavano. Si profilava dunque, tra il 1647 e il 1648, un pericoloso pluralismo di poteri e l'affermazione di forze centrifughe che avrebbero potuto vanificare tutte le conquiste del movimento rivoluzionario. E di conquiste c'erano state. I cardini dello Stato inglese, l'assolutismo, la Chiesa episcopale, erano stati distrutti; il vescovo Laud era stato condannato a morte; erano stati aboliti tutti i tribunali del re e gli strumenti del clientelismo e della corruzione. Cromwell, con abilissima mossa politica, epurò il Parlamento di tutti i presbiteriani, lasciandovi solo i suoi fedelissimi. Quindi andò all'attacco dell'esercito di Carlo e lo sconfisse. Il re fu processato e condannato per alto tradimento. Il 30 gennaio 1649 Carlo I venne giustiziato: cominciava a farsi strada un nuovo principio di sovranità politica. Entriamo nella seconda fase. Cromwell e il Parlamento dichiarano decaduta la monarchia, crearono un Consiglio di Stato, che sostituiva il Consiglio privato, e abolirono la Camera dei Lord. Nel maggio 1649 fu proclamata la Repubblica Unita di Inghilterra, Scozia e Irlanda (Commonwealth). Permanevano, comunque, le divisioni interne ai rappresentanti della repubblica sulla questione del suffragio. Non erano nemmeno svaniti i rischi di un ritorno alla monarchia: il figlio primogenito di Carlo I dai Paesi Bassi aveva assunto il titolo di Carlo II ed era stato riconosciuto da Scozia e Irlanda. In queste condizioni Cromwell e il suo entourage perseguirono una precisa strategia: salvaguardia assoluta del diritto di proprietà, libertà religiosa e indipendenza della Chiesa dallo Stato, stabilità sociale ed eliminazione di tutte le opposizioni estremistiche furono i capisaldi della politica interna. In politica estera si perseguiva una reale unificazione del Paese attraverso la soluzione militare del problema irlandese scozzese. Due linee diverse furono adottate nella riconquista della Scozia e dell’Irlanda: alla prima furono garantite condizioni di maggiore tolleranza; Con la seconda Cromwell ebbe la mano pesante. Quasi 600.000 irlandesi furono uccisi o costretti a emigrare. Lo strumento più importante per la politica espansionistica inglese fu l'Atto di navigazione, promulgato dal Lungo Parlamento e tendente a riservare all’Inghilterra il monopolio del commercio nordamericano. Era, in pratica, un atto di guerra contro l'Olanda e le sue navi, che gestivano gli scambi fra Inghilterra e Nordamerica. E furono ben tre le guerre navali anglo-olandesi tra il 1652 e il 1674. Nel 1653 Cromwell scioglieva il Lungo Parlamento e insidiava una nuova assemblea eletta dai capi dell'esercito, che durò solo pochi mesi. Una carta costituzionale lo nominò lord protettore del Commonwealth. Iniziava così una terza fase nel lungo processo rivoluzionario. In qualità di lord protettore, Cromwell stesso sceglieva i nuovi membri del Consiglio di Stato tra gli ufficiali dell'esercito. Era una vera dittatura militare. La dialettica politica si svolgeva tra i moderati dell'esercito che difendevano la carta costituzionale del’ 53 e i realisti che si battevano per un ritorno alla monarchia. La politica economica suscitava tensioni: il protettore aveva dovuto far ricorso a nuove imposizioni fiscali e aveva istituito l'imposta fondiaria. Alla sua inoltre per l'Olanda conquiste territoriali. Intorno al 1650 le Province Unite possedevano un vasto impero commerciale: la sua estensione non poteva non preoccupare l'Inghilterra che si apprestava a fargli concorrenza. La Compagnia olandese delle Indie Orientali controllava il commercio mondiale delle spezie; aveva ottenuto il monopolio commerciale con il Giappone; aveva schiacciato i portoghesi dalla Malacca, da Ceylon, dalle isole Molucche. La Compagnia delle Indie Occidentali aveva fondato sull'isola di Manhattan, nell’America del Nord, Nuova Amsterdam. Dal 1636 al 1645 gli olandesi controllarono il commercio degli schiavi neri. Ma in America gli olandesi non riuscirono a conservare le loro posizioni. L'indipendenza del Portogallo (1640) ridiede fiato alle sue posizioni coloniali, mentre la fonte degli schiavi tendeva a esaurirsi. Restavano, comunque, i successi della Compagnia delle Indie Orientale e i commerci legali e illegali con le colonie spagnole. Sul piano politico, dal 1653 al 1672, il regime repubblicano si consolida ed è sperimentata una nuova forma di governo senza statolder. È il gran pensionario Jean de Witt a governare lo Stato: Ehi egli rappresenta l'oligarchia di Amsterdam che è riuscita a eliminare l'influenza degli Orange dalla vita politica del Paese. I caratteri del nuovo governo sono una maggiore autonomia delle diverse province e la tolleranza religiosa. La prima guerra anglo-olandese si combatté sulla base di due principi contrastanti: l'idea inglese del monopolio e della supremazia marittima; l’idea olandese della libertà dei mari. In questi anni il nemico delle Province Unite non è solo l'Inghilterra di Cromwell: la posizione geopolitica nel Baltico induce l'Olanda ad allearsi con la Danimarca per contenere l'espansione svedese. tra la prima e la seconda guerra (1665- 67), avvengono due eventi importanti sul piano internazionale: la pace dei Pirenei, che concede guadagni territoriali alla Francia e sancisce l'inferiorità della Spagna rispetto alla Francia; la restaurazione monarchica in Inghilterra. È siglata un'alleanza tra Francia e Olanda in funzione antinglese. Le trattative di pace che concludono la seconda guerra anglo-olandese sono più favorevoli all'Olanda. Segnano pure un rovesciamento di alleanze: Olanda, Inghilterra e Svezia si accordano in funzione antifrancese. Nel 1670 un accordo segreto firmato a Dever tra Inghilterra e Francia prevede un attacco congiunto contro l'Olanda e la sua spartizione. Due anni dopo la Francia aggredisce l'Olanda; qui, nell'agosto 1672 è asceso al potere Guglielmo III d’Orange, ripristinando il potere di questa famiglia. Quest'ultima guerra si conclude con la pace di Westminster, che riconosce il fondamento dei principi liberisti propugnati dagli olandesi. Ma l'alleanza tra Carlo II e Luigi XIV trova una ferma opposizione nella City londinese e negli ambienti commerciali britannici. Nella transizione dalla crisi dell'egemonia spagnola all'affermazione dell'egemonia francese sull’Europa, sia l'Olanda che l'Inghilterra hanno perseguito un progetto egemonico rispetto al continente europeo. Non essendo riuscita nessuna delle due ad affermarlo, alla fine hanno mutato i loro rapporti: nel 1677 Maria, figlia del futuro re d’Inghilterra Giacomo II, va in sposa Guglielmo III d’Orange; nel 1678 è siglata un'alleanza difensiva anglo-olandese; nel 1688 lo statolder Guglielmo entra a Londra e corona la gloriosa rivoluzione. Assolutismo e antico regime: una prospettiva europea Il concetto di assolutismo deriva dalla formula «il re è sciolto dal vincolo delle leggi». Poiché è il re stesso rappresentante di Dio, fonte della legge, il sovrano è insieme legislatore e giudice supremo. La teoria del potere assoluto della monarchia nacque nella seconda metà del Cinquecento, durante le guerre di religione in Francia, come antidoto al disordine sociale e politico, e fu poi perfezionata nel corso del XVII secolo. La monarchia assoluta di tipo occidentale non si identificò con il dispotismo orientale: essa doveva fare i conti anche con la molteplicità di forze sociali e politiche organizzate, con una pluralità di poteri, con organismi e ceti rappresentativi della società. Nel titolo di questo paragrafo abbiamo usato il binomio «assolutismo e antico regime». Il concetto di antico regime nacque durante la Rivoluzione francese: all'origine della formula è perciò il suo significato negativo. Era tutto ciò che si opponeva alle conquiste della rivoluzione. Possiamo oggi continuare a usare il termine in coppia con quello di assolutismo. Sta a indicare i caratteri del rapporto tra lo Stato e la società nei centocinquant'anni che precedono la Rivoluzione francese. Questi caratteri possono essere così schematizzati: - la fonte della sovranità non è la nazione, ma la persona del re; - le funzioni dello Stato presentano uno sviluppo più maturo: la titolarità del potere è concentrata nel sovrano, ma la sua gestione all'interno e all'esterno dello Stato è affidata a corpi specializzati quali l'esercito professionale, la burocrazia, la diplomazia; il potere pubblico tende ad assumere un'autonomia e un'indipendenza più spiccate; - non esiste ancora una divisione fra i tre poteri dello Stato, legislativo, esecutivo, giudiziario; - insieme al potere pubblico coesistono corpi privilegiati che godono di giurisdizioni separate; - questi corpi sono poteri economici e sociali, non potenze politiche a cui venga riconosciuta autonomia; - lo schema di classificazione più importante nella società di antico regime non è quello delle classi, che corrisponde al criterio della collocazione economica nella società, ma quello degli ordini. Nella stratificazione per ordini la gerarchia di gruppi sociali si forma in base alla «dignità», valori assegnati a funzioni sociali che possono anche non essere in rapporto immediato con la produzione di beni materiali. Al vertice di questa società di ordini si colloca la nobiltà, quella di origine antica, a cui segue la nobiltà di dignità, proveniente dal possesso di un ufficio o di una signoria. Lo stile di vita è un elemento di gerarchia sociale: l'esercizio di un mestiere, del lavoro manuale, si trova in basso nella scala gerarchica. Nell'antico regime europeo sono riconoscibili due vie estreme, opposte allo Stato moderno: la via francese e la via polacca. La prima tese a esaltare il ruolo della monarchia come centro e rappresentante unitario del Paese. La seconda via, la polacca, fu quella dell'anarchia e della frantumazione del potere centrale dello Stato, dell'esaltazione dell'indipendenza del ceto nobiliare: una via che condurrà alla spartizione del territorio polacco fra le potenze vicine. Tra questi due estremi, la civiltà politica europea del XVII e XVIII secolo realizzò soluzioni diverse, pur avendo in comune la tendenza dello Stato assoluto alla centralizzazione del potere. Nella gerarchia degli Stati europei durante la seconda metà del XVII secolo non tutti ricoprirono i primi posti: cominciò a formarsi la distinzione tra grandi, medie e piccole potenze. Luigi XIV: la via francese allo Stato moderno La Francia era una delle prime realtà demografiche in Europa: i sudditi di Luigi XIV erano circa 20 milioni. Il governo del territorio costituì la questione più importante per il sovrano. Di quei 20 milioni di abitanti, la gran parte vivevano in campagna, in villaggi rurali di piccole dimensioni. Molte erano le città. La Francia era lo Stato europeo più dotato di città di media grandezza. Alla fine del Quattrocento esistevano solo due grandi città comprese in una fascia oscillante dai 100.000 ai 200.000 abitanti: Parigi e Napoli. Un secolo dopo alle grandi città sono quattro: ancora Parigi al primo posto, seguita da Napoli, Venezia e Milano. Nel Seicento le megalopoli diventarono 4: Londra, Parigi, Napoli e Amsterdam. Parigi resta comunque per tutto il XVII secolo la prima città europea. Villaggi e città facevano parte di province e realtà territoriali unificate in uno Stato-nazione ma diverse. La diversità era formalizzata nel riconoscimento da parte del sovrano della distinzione tra pays d’election e pays d’état: i primi ricadevano sotto l'amministrazione giudiziaria e fiscale dello Stato, i secondi erano rappresentati da Stati provinciali. Il governo del territorio doveva fare i conti con i ceti dominanti nella società francese: le nobiltà. Merito di Luigi XIV e dei suoi ministri fu quello di aver portato a compimento il disegno di concentrazione del potere e di ridimensionamento della potenza dell'antica aristocrazia. I comandi militari restarono saldamente nelle mani dell'antica nobiltà. Ma la sorveglianza dell'esercito fu effettuata da un corpo di civili: gli intendenti dell'esercito. La nobiltà moderna era costituita da tutti coloro che volevano essere potenti e rispettati. La monarchia di Luigi XIV incentivò, attraverso il conferimento di molti titoli, la nobiltà di toga e d’ufficio. Fu questa nobiltà politica a costituire la spina dorsale della classe governativa francese nell'epoca di Luigi XIV. Questi uomini consentirono a Luigi XIV di ridurre i Parlamenti alla semplice funzione di registrazione automatica degli editti, e di governare mediante decisioni personali controfirmate da un segretario di Stato. Nel governo del territorio un'attenzione particolarissima fu assegnata al rapporto tra il centro e la periferia. La figura dell’intendente provinciale costituì lo strumento più efficace di governo della periferia. Le linee della politica religiosa di Luigi XIV furono chiare: bloccare sistema di facile realizzazione. L'abilità di Federico Guglielmo consiste nello stipulare un compromesso con la nobiltà che domina la Dieta: il principe conferma i privilegi ed estende i poteri giurisdizionali della feudalità, ottenendo in cambio finanziamenti per costituire un esercito permanente che gli consente di rafforzare la base militare dello Stato e gettare le premesse indispensabili per l'autonomia finanziaria e amministrativa. Nel Brandeburgo si afferma una via all'assolutismo che, a differenza della Francia, ha un fondamento nobiliare: i posti più importanti dell'amministrazione militare e civile sono conferiti ai nobili di vecchio lignaggio, gli junker. Ancora, gli junker controllano tutte le funzioni del governo locale del territorio. Una monarchia in fase di consolidamento potrebbe definirsi quella dell’Austria sotto Leopoldo I d’Asburgo. Il suo predecessore, Ferdinando II, unificò i ducati austriaci e il regno di Boemia sotto il profilo di un comune sentimento religioso: il principio della fede cattolica si congiunse al principio dinastico. Ferdinando e Leopoldo si posero anche l'obiettivo di rafforzare l'amministrazione pubblica e di formare un esercito permanente: questo secondo compito fu affidato all'italiano Raimondo Montecuccoli. Il problema della monarchia asburgica era l’Ungheria: o perlomeno quella piccola parte di quest'area che non era caduta sotto la giurisdizione ottomana. Le forze militari turche alimentavano il ribellismo della nobiltà ungherese per destabilizzare la monarchia asburgica. Era inevitabile, dunque, che il problema ungherese fosse strettamente intrecciato con il rapporto tra la monarchia asburgica e gli ottomani. Nel 1660 la Transilvania insorse contro il dominio turco: gli ottomani ebbero la meglio e si diressero verso Vienna, ma a 100 chilometri dalla capitale vennero fermati e sconfitti dalle truppe austriache di Raimondo Montecuccoli. Leopoldo annullò tutti i privilegi politici di cui godevano gli ungheresi e diede il via a una repressione delle minoranze protestanti. La reazione fu la rivolta. I ribelli magiari furono appoggiati dai turchi. Nel 1683 Vienna fu assediata dai turchi. Nello stesso anno le truppe austro-polacche ebbero però la meglio e allontanarono il pericolo ottomano da Vienna. I decenni successivi videro la riconquista: con la pace di Carlowitz, i turchi cedettero agli austriaci l’Ungheria e la Transilvania. Leopoldo ottenne dagli Stati magiari il consenso a rendere la dinastia asburgica non più monarchia elettiva, ma ereditaria. Spagna e Italia: un'età di decadenza? Dopo la pace di Vestfalia e nel corso del XVII secolo, la Spagna perse alcuni pezzi importanti del suo mosaico imperiale. Non aveva più l'egemonia in Europa, aveva perduto i Paesi Bassi e la Franca Contea, ma aveva superato la crisi degli anni Quaranta, restaurato il potere in Catalogna, mantenuto i domini italiani di Milano, Napoli, Sicilia e Sardegna. Inoltre, anche dopo la perdita del Brasile, poteva ancora contare su un vasto impero coloniale, anche se il suo commercio era insidiato dalla potenza mercantile della Francia, dell’Inghilterra e dell'Olanda. Questo impero era però assai debole. Non aveva più la capacità, dimostrata nel XVI secolo, di proteggere i propri territori dalle aggressioni esterne. Ma sulla scena internazionale il peso della monarchia spagnola fu ancora rilevante. La Corona riuscì a inserirsi nel sistema d’alleanze antifrancese a fianco di tradizionali nemici come l'Inghilterra e l'Olanda. Più fragili erano invece i fondamenti economici e sociali della monarchia spagnola. La Castiglia nel corso del XVII secolo subì un declino demografico, una crisi agraria, commerciale e artigianale di vastissime proporzioni. Si ebbe, nel corso del secolo, un arretramento della Castiglia rispetto ad altre regioni spagnole: e siccome la Castiglia era il cuore dell'economia imperiale, la sua crisi coinvolse l'intera Spagna. L'Italia. Gli effetti della guerra dei Trent’anni furono avvertiti soprattutto nell’Italia settentrionale. Nella crisi demografica che investì la penisola italiana un ruolo importante fu esercitato dalle epidemie di peste. Dopo lo spostamento dei traffici verso l'Atlantico, i grandi operatori d'affari che dominavano la scena internazionale erano olandesi, inglesi e francesi. L’Italia si trovò tagliata fuori dalle direttrici del traffico internazionale. Un settore merceologico particolarmente in crisi fu quello della lana. Più diversificato l'andamento di un settore trainante dell'economia italiana d’esportazione, la seta. La crisi italiana del settore tessile era dovuta soprattutto alla concorrenza dell’Europa nord-occidentale: qui si era avuta una riconversione dalla produzione di lusso alla produzione di massa; i costi per produzione e servizi erano più bassi, perché le attività lavorative erano state decentrate dalla città, sottoposta all'alto costo del lavoro, verso la campagna. Anche per l'Italia, tuttavia, l'immagine della decadenza risulta troppo schematica. Con essa si vuole indicare una tendenza generale: la subalternità, cioè, dei Paesi dell'area mediterranea alle economie emergenti del Nordeuropa. Ma, entro questa tendenza, le risposte delle aree italiane furono assai differenziate. Dal punto di vista politico, l'Italia continuava a presentarsi non con l'immagine della compattezza, ma come un laboratorio di esperienze differenti. In tutti gli Stati italiani del tempo le funzioni pubbliche della vita politica (diplomazia, amministrazione finanziaria e giudiziaria, ordine pubblico) andarono estendendosi e meglio organizzandosi. Un'altro elemento comune fu l'affermazione di un ceto ministeriale legato all'apparato statale e all'esercizio del governo centrale e periferico. Ancora fattori comuni alla vita di tutti gli Stati italiani furono la ristrettezza e la chiusura della nobiltà urbana, con la conseguente mancanza di un effettivo ricambio nella classe dirigente al potere. Diverso fu invece il peso esercitato dai singoli Stati nella politica internazionale. E differenti furono anche i gradi e le qualità di realizzazione del modello assolutista nella vita interna degli Stati. Il Piemonte sabaudo fu largamente influenzato dalla Francia di Luigi XIV. Carlo Emanuele II adottò una politica mercantilista, riuscendo a coinvolgere anche l'aristocrazia e i suoi capitali nella promozione delle attività economiche. Si formò in questo periodo nel Piemonte una vera burocrazia civile e militare. Dopo dieci anni di reggenza di Maria Giovanna Battista, assunse il potere con un colpo di Stato Vittorio Amedeo II. Questo sovrano si distinse per un'aggressiva politica estera, tesa in una prima fase a liberarsi della presenza francese in alcuni territori dello Stato. Vittorio Amedeo II partecipò alla guerra contro la Francia, alleato degli Asburgo d’Austria e di Spagna. In una seconda fase il Piemonte coltivò mire espansioniste verso la Lombardia, ribaltando le alleanze e firmando nel 1696 l'armistizio con la Francia. La capacità di egemonia della Francia ebbe una sua ulteriore prova nel rapporto con Genova. Luigi XIV, dopo aver bombardato la città perché non aveva interrotto la sua relazione con la Spagna, Costrinse la Repubblica genovese a un atto di sottomissione diplomatica: solo così lo Stato genovese riuscì a salvaguardare la sua indipendenza. Lo Stato pontificio, dopo la pace di Vestfalia, non fu più in grado di realizzare una presenza significativa sulla scena internazionale. L'articolazione dello Stato pontificio rese complesso il governo del territorio. Profonde differenze esistevano tra le diverse regioni che componevano il dominio papale: nell'organizzazione agraria (mezzadrile, latifondista); negli ordinamenti politici, legati allo sviluppo di realtà comunali come Bologna e Ferrara, o dominati dall’aristocrazia feudale. Tuttavia anche nello Stato della Chiesa la tendenza all'accentramento dei poteri e a una più efficace gestione del rapporto tra il centro e la periferia indusse a un ammodernamento delle strutture amministrative dello Stato. Anche il ruolo internazionale di Venezia era ormai in netto declino. La sua politica estera era dettata più dalle esigenze di difesa che dall'iniziativa politica. La guerra di Candia (Creta) contro gli ottomani si concluse con perdite enormi per la repubblica, che dovette abbandonare l'isola. E la partecipazione militare contro i turchi a fianco degli Asburgo d’Austria negli anni successivi fu sempre segnata da una sproporzione tra energie impiegate e risultati conseguiti. Tuttavia Venezia continuava a esercitare un fascino ideale e intellettuale durante la crisi del Seicento. La politica estera della Corte medicea del Granducato di Toscana, soprattutto sotto Cosimo III, fu dipendente dalla Francia anche perché il granduca aveva sposato Margherita d’Orléans. Crisi demografica e crisi economica non colpirono, come altrove, la Toscana. Lo Stato di Milano, il regno di Napoli, i regni di Sicilia e di Sardegna costituirono ancora per tutta la seconda metà del Seicento il complesso dei territori dipendenti dalla Corona spagnola. A metà del Seicento le pressioni francesi misero in pericolo le sorti del dominio spagnolo in Lombardia. Solo la sospensione delle ostilità e il trattato dei Pirenei riportarono la pace; per trent'anni la lontananza dai teatri di guerra in cui era coinvolta la Spagna rese possibile una lenta ripresa dell'economia nel Milanese. Il fatto nuovo fu la maggiore vivacità del contado. Nel contado furono decentrate anche alcune attività manifatturiere. La monarchia spagnola favori questo riequilibrio economico sia con una politica fiscale tendente a prelevare con relativa equità la ricchezza esistente nella campagna e nella città sia colpendo le aree di immunità e privilegi. La restaurazione della monarchia spagnola nel regno di Napoli dopo la rivolta del 1647-48 avveniva nel segno di una svolta nel modo di governare Napoli e il regno. Capitolo 9 Scienza, cultura e politica Scienza della politica, scienza dello Stato L'affermazione della sovranità del principe, nel Cinquecento, è in diretta relazione con lo sviluppo di una nuova forma politica: lo Stato moderno, tendenzialmente assolutista. Dalla metà del Cinquecento alla metà del Seicento la scienza della politica, creata da Niccolò Machiavelli, si presenta come scienza dello Stato. Nella celebre espressione di Luigi XIV «Lo Stato sono io», si può leggere la rappresentazione di un doppio processo: la concentrazione del potere nella persona del re per diritto divino; la consapevolezza che l'esercizio della sovranità ha bisogno di strumenti sempre più elaborati per affermarsi e consolidarsi. All'origine di questo percorso c'è Jean Bodin che, nel fuoco delle guerre di religione in Francia, scrive l'opera Six livres de la Republique. La res publica è qui, appunto, lo Stato: per la pacificazione religiosa, sociale e politica e per l'unità della nazione, la sovranità, il potere cioè che decide in ultima istanza, deve risiedere in un solo principe e deve essere indivisibile, non deve essere elettiva, ma ereditaria, deve essere suprema, non dipendente cioè da poteri condizionanti. Con Giovanni Botero la riflessione sullo Stato compie un salto di qualità: essa diventa «ragion di Stato», individuazione cioè di tutti i modi, le tecniche, gli strumenti atti alla migliore conservazione del potere politico. L'assolutismo si fonda sull'identificazione degli interessi del principe con quelli dello Stato. La Francia di Luigi XIV ne è la realizzazione. Ma il Seicento è anche il secolo che scopre l'individuo, il diritto naturale o giusnaturalismo, la società. Una prima riflessione sul tema è contenuta in un'opera di Ugo Grozio. A Grozio interessa la regolamentazione delle relazioni internazionali; nella crisi dei vecchi principi del diritto feudale si è fatto ricorso ai criteri della forza (Machiavelli), dell'equilibrio (Guicciardini), della ragion di Stato (Botero): Grozio afferma che i rapporti internazionali devono fondarsi sul diritto naturale o razionale. Lo Stato, l'organizzazione politica, deve essere una società regolata sulla base di un obbligo contrattuale: l'autorità è acquisita in virtù del contratto con il quale i cittadini si sottomettono all'autorità. Il sistematizzatore del diritto naturale è Samuel Pufendorf. Sono alcune convenzioni che attuano il passaggio dallo Stato di natura alla società civile: il matrimonio, la famiglia, la costituzione del corpo politico. Gli individui si impegnano a unirsi in un solo corpo e a regolare mediante il consenso le questioni riguardanti la loro sicurezza e la comune utilità. Il giusnaturalismo si presenta così come teoria filosofica, giuridica e politica fondata sul presupposto di un diritto naturale sulla cui struttura devono esemplarsi i diversi diritti positivi. Da basi simili parte anche l'elaborazione teorica del più importante pensatore del Seicento: Thomas Hobbes. Nato in Inghilterra nell'anno della sconfitta dell'Invincibile Armata, si trovava a Parigi al momento dell'assassinio di Enrico IV, fu testimone della Rivoluzione inglese e dell'esecuzione di Carlo I. Sempre in conflitto con i poteri costituiti sia in Francia sia in Inghilterra, non poteva certo nutrire fiducia nella natura umana. Infatti per Hobbes la sua molla è l'egoismo. Nello stato di natura gli uomini sono in guerra gli uni contro gli altri: bisogna dunque uscire dallo status naturalis e passare allo status civilis. L'unione degli uomini è lo Stato. A questo punto appare il diritto, che obbliga a rispettare gli altri e l'altrui proprietà: il suo fondamento è l'utilità. Doppio è il contratto che unisce gli uomini nello stato civile: il contratto che associa gli individui tra di loro e il contratto che unisce gli associati al potere supremo. È qui fondata la moderna teoria del potere come sintesi tra forza e consenso. Hobbes Costruisce la sua teoria della sovranità nella sua opera più famosa, Leviatano. Il nome che dà il titolo all'opera di Hobbes è tratto dalla Bibbia e significa «Dio mortale». Il monarca esercita la sovranità assoluta. Cadono i suoi fondamenti morali e religiosi: è la legge naturale a fondare il diritto e lo Stato. Nasce anche l'idea dello Stato impersonale. Esso è persona distinta dagli individui che associa: esso è l'insieme dei loro rappresentanti. Stato e società civile sono così due sfere separate e autonome. Il potere dello Stato non può reggersi solo sul dominio, ma ha bisogno anche del consenso: il rapporto tra governanti e governati deve essere affidato a un patto, a un contratto, a un reciproco accordo per la garanzia della pace e della sicurezza sociale. Certo la titolarità del potere si identifica ancora nella persona del monarca. Ma sia il giusnaturalismo sia le diverse teorie contrattualistiche che si sviluppano nel corso del XVII secolo gettano le basi per la nascita del liberalismo moderno. Alla fine del secolo John Locke elabora una nuova teoria della sovranità: l'unica fonte della sovranità è il popolo, che delega il potere al sovrano e può revocare la delega, quando questi non fa osservare i diritti naturali fondamentali dell'individuo: la libertà, l'uguaglianza, il diritto di proprietà, il rispetto per le persone. Locke fornisce anche le basi per le istituzioni liberali: l'assemblea legislativa deve essere distinta dall'organo esecutivo. Scricchiola l'idea della sovranità assoluta per diritto divino, si fa strada il principio di tolleranza e la separazione tra la sfera del potere civile e la sfera del potere religioso, si fa strada il principio della rappresentanza politica. Sta per aprirsi l'età dei Lumi. Alle origini dell'economia politica Nel capitolo dedicato a Luigi XIV, a Colbert e al mercantilismo, abbiamo spiegato come i tempi della politica anticipino, quasi sempre, quelli dell'economia. In sostanza, l'economia politica non è ancora un sistema ma si identifica con la politica economica degli Stati e con la loro politica finanziaria. Il mercantilismo non è una teoria economica, ma un insieme di atteggiamenti dettati dai condizionamenti dei suoi ispiratori, quasi sempre uomini di governo, amministratori pubblici o mercanti- burocrati. È indubbio che la riflessione dettata dalle problematiche dello Stato moderno susciti, anche nel campo economico, un vivace dibattito di idee. In Inghilterra William Petty, tra il 1660 e il 1670, approfondisce per primo lo studio delle statistiche sociali. I temi del commercio estero sono affrontati da Thomas Mun. Numerosi programmi di sviluppo commerciale e industriale sono formulati, sempre in Inghilterra, con il nome di Discorso sul commercio. In spagna gli arbitristas, coloro cioè che propongono arbitrios (pareri), si rivolgono direttamente ai massimi esponenti del potere politico per analizzare e denunciare le cause del declino della Spagna imperiale e formulare proposte di intervento dello Stato in materia economica. In Italia Giovanni Botero alla fine del Cinquecento riflette sull'incremento degli agglomerati urbani, sui rapporti tra ambiente naturale, risorse economiche e sviluppo demografico. Ma è un'intellettuale del Mezzogiorno, Antonio Serra, l'economista italiano più originale del Seicento. L'opera di Serra è importante per due motivi: è un quadro lucido delle condizioni socio-economiche di un Paese alla periferia dello sviluppo, come il Regno di Napoli; raggiunge un alto livello teorico. Serra riesce a cogliere alcune cause dell'arretratezza del Sud: egli scrive che al Mezzogiorno mancano le manifatture. Serra capisce che l'industria può essere più produttiva dell'agricoltura e che la buona disponibilità d’oro e d'argento deriva dalla prosperità dell'economia e non viceversa. L'osservazione e la disciplina dei costumi Anche per analizzare questo tema, dobbiamo spostare un po’ all'indietro i termini cronologici del nostro Seicento. E, precisamente, agli anni Settanta del Cinquecento, allorché Michel de Montaigne scrive i suoi Saggi. Quest'opera costituisce la prima riflessione moderna sulla complessità dell'uomo. Montaigne inaugura un genere che avrà molta fortuna nel Seicento: la riflessione breve e incisiva dei moralisti. L'origine del termine non è «morale»: quel che si intende con questo concetto deriva dalla parola francese che significa «costumi», «usanze». I moralisti si dedicano dunque all'osservazione e alla disciplina dei costumi. Il loro spazio di riflessione può essere la solitudine interiore dell'intellettuale, ma può essere anche il salotto promosso dalla società di corte. Il moralista si fa pratico e suggerisce un insieme di strategie, tattiche e tecniche da adottare. È un mondo carico di ombre, come quello della grande pittura del Seicento: esso costituisce lo sfondo di questi moralisti pratici che guardano il loro tempo come il tempo del sospetto. La rivoluzione scientifica Quando si parla di rivoluzione scientifica del Seicento si vuole intendere che in questo secolo sono intervenuti mutamenti profondi nella concezione dell'Universo; nel metodo della ricerca e della conoscenza; nella figura professionale dello scienziato; nell'articolazione disciplinare del sapere scientifico. Il dibattito intorno al Sole, alla Terra, ai pianeti, alle stelle è introdotto in termini nuovi da Niccolò Copernico e da Giovanni Keplero. Ma è con Galileo Galilei che la teoria copernicana eliocentrica (la Terra gira attorno al Sole insieme agli altri pianeti del sistema solare) si diffonde in Europa. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, quello tolemaico e quello copernicano, l'opera più celebre di Galilei, è del 1632. Esso è all'origine dello scontro tra scienza e fede: le concezioni copernicane- galileiane sono in antitesi con la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica che identifica nelle Sacre Scritture i fondamenti del sistema tolemaico. Nel febbraio 1633 comincia davanti al Sant'Uffizio dell'Inquisizione il processo a Galilei. Dopo il primo interrogatorio, lo scienziato è anche imprigionato. Per Galilei la natura è regolata da rapporti matematici: questo gran libro della natura non può contraddire le Sacre Scritture, perché entrambe, natura e rivelazione, sono opera di Dio. Bisogna imparare a leggere Terza parte Il secolo della trasformazione: il Settecento Capitolo 10 Guerre, Illuminismo e riforme Le guerre europee Le guerre della prima metà del Cinquecento erano state guerre per il predominio europeo, protagonisti dello scontro la Francia e la Spagna. La pace di Cateau- Cambrésis aveva sancito la supremazia dell'impero spagnolo sul continente europeo. Abbiamo più volte ricordato i motivi che resero possibile l'egemonia internazionale di Filippo II: la disponibilità di grandi risorse finanziarie; la forza degli eserciti; la capacità di far fronte al pericolo turco; la strategia di governo del territorio nei domini italiani; la strategia di alleanze diplomatiche, matrimoniali. Ma l'egemonia internazionale di Filippo II fu resa possibile anche dal fatto che gli altri Stati europei vivevano ancora la fase della loro formazione. La Francia era attraversata dalle guerre di religione. L'Inghilterra elisabettiana era alle prese con problemi interni di consolidamento del potere sovrano ed era interessata da processi di trasformazione economica e sociale. Le formazioni politiche della Germania, divise fra loro dal punto di vista religioso, erano appena uscite da una condizione di dualismo di poteri, caratterizzata dalla dialettica fra principe e ceti territoriali. Alla fine del Cinquecento lo scenario internazionale presentava i primi segnali di novità. Il pericolo turco si era allontanato dal Mediterraneo; nel cuore dell’Europa si era rotta l'unità dei Paesi Bassi spagnoli e nasceva un nuovo Stato, l'Olanda; l'Inghilterra aveva bloccato l'irresistibile ascesa della potenza spagnola, sconfiggendo la sua Invincibile Armata; in Francia con Enrico IV si erano concluse le guerre di religione; la congiuntura internazionale spostava il centro dell'economia e dei traffici dal Mediterraneo all'Atlantico. Il mutamento degli equilibri politici era stato rispecchiato nella pace di Vestfalia. La guerra dei Trent'anni era iniziata presentando una grande concentrazione di potere con l'alleanza tra gli Asburgo d’Austria e gli Asburgo di Spagna. Si era conclusa con il ridimensionamento degli Asburgo di Spagna, con l’ascesa della potenza economica dell'Olanda, con l'emergere di nuovi protagonisti come la Svezia e il Brandeburgo- Prussia, con la Francia proiettata verso l’egemonia sul continente. Nella seconda metà del Seicento l'Europa era ormai multipolare: in essa erano destinati a giocare un ruolo importantissimo Stati come l'Inghilterra, la Prussia, la Russia, la monarchia austriaca. Ed è proprio questa Europa multipolare il nuovo soggetto politico internazionale che contrasta l'egemonia della Francia di Luigi XIV. In questa Europa multipolare tra la fine del Seicento e i primi decenni del secolo successivo nasce una nuova gerarchia, fondata sulle differenze fra piccoli Stati e grandi Stati. L'equilibrio fra i grandi Stati costituisce «il principio fondamentale per la pace universale». Dobbiamo distinguere fra la teoria e la pratica politica dell'equilibrio. L'equilibrio veniva strettamente connesso con l'unità etico-culturale dell’Europa, con una concezione comunitaria della sua vita politica. In questa visione la guerra era l'extrema ratio per frenare il potente che voleva imporre il suo dominio. Il massimo teorico dell'equilibrio fra le potenze come fattore di stabilità politica internazionale fu David Hume. Ma nella pratica politica internazionale della prima metà del Settecento l'interpretazione che dell'equilibrio diedero le grandi potenze fu abbastanza distante dal suo modello teorico. In sostanza essa fu piegata di volta in volta agli interessi delle grandi potenze. Queste si opposero decisamente all'egemonia totale di una potenza sulle altre. Cercarono invece di affermare il principio dell'egemonia parziale nella sfera di influenza di singole potenze. La prima metà del XVIII secolo o è l'epoca del primato della politica classica. I soggetti privilegiati sono le corti, sono ristrette élite che controllano la diplomazia. Occasione per lo scoppio dei conflitti sono i problemi dinastici. La rivalità fra gli Stati è determinata anche dal conflitto di interessi commerciali; la guerra si estende anche ai continenti extraeuropei. Un'altra caratteristica del periodo è il nesso stretto tra politica estera e politica interna. La pace di Ryswick (1697) aveva concluso la guerra della Lega d'Augusta e bloccato le mire espansionistiche di Luigi XIV. Quella guerra aveva avuto come protagonisti una coalizione antifrancese assai ampia, formata non solo da Spagna, Inghilterra, Olanda, Svezia e Austria, ma anche da altri Stati minori. La morte senza eredi di Carlo II di Spagna rendeva incerta la titolarità dei possessi degli Asburgo di Spagna. Ricostruiamo lo scenario dei pretendenti al trono. Il testamento di Carlo II designava erede universale Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV, che avrebbe assunto il nome di Filippo V. Una clausola importante del testamento vietava a Filippo di unire Corona di Spagna con quella di Francia. Il rischio che potesse costituirsi in Europa un'egemonia franco-spagnola era assai concreto. Ecco allora delinearsi due nuovi schieramenti. Nella coalizione anglo-austro-olandese entrarono anche il Palatinato, l'Hannover e la Prussia. Sul fronte opposto Luigi XIV riuscì a fare aderire al blocco franco-spagnolo il duca di Savoia, il re del Portogallo, gli elettori di Colonia e Baviera. Una guerra di vaste proporzioni scoppiò il 15 maggio 1702. Nel 1706 l'arciduca Carlo d’Asburgo, figlio dell'imperatore Leopoldo, entrava a Madrid ma ne era ricacciato. Nel 1707 le truppe austriache entravano a Napoli: finiva, dopo oltre due secoli, la dominazione spagnola nel Regno di Napoli. Alla morte nel 1711 dell'imperatore Giuseppe I d’Asburgo il fratello Carlo saliva sul trono di Vienna con il nome di Carlo VI. Iniziarono le trattative di pace chiesi conclusero a Utrecht (1713) e Rastadt (1714). La vera vincitrice del conflitto fu l'Inghilterra. Conquistò possedimenti nell’America settentrionale a spese della Francia e nel Mediterraneo a spese della Spagna. Filippo V fu riconosciuto re di Spagna, ma dovette rinunciare a rivendicare diritti sul trono francese. La Francia rinunciò a ogni pretesa sulla Spagna. Cambiò la geografia politica dell'Italia: oltre al Regno di Napoli, lo Stato di Milano, la Sardegna e lo Stato dei Presidi passarono dalla Spagna all’Austria. Vittorio Amedeo II di Savoia ottenne, oltre a ingrandimenti territoriali in Piemonte, il regno di Sicilia. L'elettore del Brandeburgo, Federico, venne riconosciuto re di Prussia e ottenne ingrandimenti territoriali. Alla fine della guerra di successione spagnola furono poste le premesse per un nuovo equilibrio italiano: Austria e Piemonte sabaudo ne divennero i soggetti principali. Si applicò, per la prima volta, il metodo delle barriere: Stati cuscinetto come il Belgio tra Francia e Olanda, e lo Stato sabaudo tra Francia e Austria, avrebbero dovuto prevenire eventuali conflitti. Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra di successione spagnola la dinastia asburgica ottenne successi anche su un altro fronte, quello dei Balcani. Già con la pace di Carlowitz (1699) l'Austria aveva sottratto territori agli ottomani. Con la pace di Passarowitz (1717) riuscì a conquistare la Serbia e parte della Valacchia. Un'altro teatro di guerra, il Baltico. Abbiamo visto che la Svezia, conclusa vittoriosamente la prima guerra del Nord, dopo la pace di Oliva (1660) aveva conquistato l'egemonia nel Baltico. La seconda guerra del Nord, combattuta ancora da Polonia, Danimarca e Russia contro la Svezia di Carlo XII, si concludeva nel 1721 con un esito assai diverso dalla prima guerra. Con la pace di Nystadt la Svezia perdeva il ruolo di grande potenza e la Russia di Pietro il Grande, che aveva sconfitto e distrutto l'esercito di Carlo XII, affermava la sua egemonia sul Baltico. In Russia nasceva l'ultima e più duratura forma di assolutismo europeo. A imprimere una svolta decisiva in questa direzione fu Pietro I (il Grande) della dinastia dei Romanov. Nel 1671 Sten ’ka Razin era stato il leader di una guerra contadina, che fra i suoi obiettivi aveva l'eliminazione della servitù della gleba, dei reclutamenti forzosi di truppe, di imposte che gravano soprattutto sui ceti più poveri. La rivolta era stata repressa nel sangue. Sulla minaccia dei contadini e delle plebi urbane poté far leva lo zar Pietro I per stringere intorno a sé la nobiltà e i ceti privilegiati. Pietro favorì la formazione di una nobiltà di servizio. Nel 1714 vietò lo smembramento delle proprietà terriere fra più eredi: il provvedimento portò molti nobili verso il servizio civile e militare. Fu lo Stato di Pietro il Grande a incentivare mutamenti nell'economia e nella società, a promuovere fortune e arricchimenti di gruppi non nobili, a incrinare la compattezza della nobiltà, non più composta esclusivamente da privilegiati ma anche da addetti ai commerci, agli appalti, da proprietari di manifatture. Pietro rafforzò lo stato autocratico russo. Nel Regolamento militare la forma dello Stato russo veniva definita come «monarchia illimitata», anche per distinguerla da altre teorie dello Stato assoluto che avevano parlato di una monarchia limitata. Nel disegno di politica estera di Pietro il Grande c'erano soprattutto i confini sicuri e l'indipendenza nazionale. Ma c'era anche l'egemonia nel Baltico. Nel 1703 egli aveva fondato San Pietroburgo: essa comunicava direttamente con il golfo di Finlandia e quindi con il Baltico. Qui nel 1715 lo zar trasferì la capitale. Un'altra nuova potenza, emersa durante la guerra di successione spagnola, fu la Prussia. Federico I di Brandeburgo ne assunse il titolo di re nel 1701. Egli raccolse l'eredità del padre, Federico Guglielmo, il fondatore dello Stato brandeburghese, riunendo tutti i territori della famiglia Hohenzollern in una formazione centralizzata anche se geograficamente non compatta. Politica protezionistica; sviluppo delle industrie e delle attività urbane; apertura delle frontiere ai protestanti stranieri, che furono impiegati nelle officine per la lavorazione di ferro, rame e ottone e per la ripresa di attività artigianali; maggiore efficienza dello Stato nel prelievo fiscale: furono queste le linee direttrici di Federico I. Già il suo predecessore aveva creato un efficiente esercito. Questo diventò una fidata corporazione, strettamente monarchica.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved