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Le condizioni materiali di vita dei contadini in Italia: una ricerca storica, Dispense di Storia Contemporanea

Una dettagliata analisi storica delle condizioni di vita dei contadini in italia, attraverso la ricerca di fonti storiche e la descrizione di diverse situazioni che hanno caratterizzato la vita dei contadini nel corso dei secoli scorsi. Il documento illustra come i contadini sono stati spesso oggetto di sfruttamento e di condizioni di vita difficili, e come la loro condizione economica e culturale è stata determinata dalle classi dominanti. Anche come i medici condotti abbiano avuto un ruolo importante nella ricerca delle condizioni sanitarie dei contadini e come la loro attenzione abbia contribuito a mettere in evidenza le condizioni di vita dei contadini e le loro difficoltà. Il documento conclude con una discussione sulle politiche che dovrebbero essere adottate per migliorare le condizioni dei contadini e per ridurre la loro subalternità.

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 05/03/2024

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Scarica Le condizioni materiali di vita dei contadini in Italia: una ricerca storica e più Dispense in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Adriano Prosperi UN VOLGO DISPERSO Contadini d’Italia nell’Ottocento INTRODUZIONE Contadini, una classe oggetto La tempesta della storia, per non dire la forza del capitalismo finanziario nell’età della rivoluzione elettronica, fa riemergere dietro le tracce della grande potenza industriale l’antica realtà di paese agricolo. Occorre cercare di capire che cosa ne fu di loro in quel lungo secolo che si aprì con l’Unità nazionale e si concluse con la morte della nazione nella vergogna delle leggi razziali e nell’immane catastrofe della Seconda guerra mondiale. Un secolo che li ebbe come categoria spregiata, carne da cannone per guerre coloniali e conflitti mondiali. Quali erano state le condizioni di vita dei lavoratori della terra in quel secolo XIX della formazione dell’unità nazionale? Remoti i volti, cancellate le voci e i pensieri. Nella marea di scritture conservate in archivi e biblioteche le tracce di mani contadine sono quasi soltanto segni di croce in calce a contratti colonici. Per sapere di loro bisogna chiedere ad altri. Scarse e poco significative sono le fonti iconografiche. I pittori sono stati piu attirati dai paesaggi rurali, lasciando fuori campo i contadini. È stato Pierre Bourdieu a coniare la definizione di “classe oggetto” per i contadini. Ha l’evidenza di una constatazione: è una provocazione carica di risentimento. Sembra cogliere un dato di verità, ma è soprattutto una protesta contro la perdita di memoria da parte della storiografia moderna e contemporanea di quella che è stata la maggioranza assoluta della società preindustriale. Non mancano discussioni di storici ed economisti sull’agricoltura, sulle sue crisi e sulle sue trasformazioni. Così, i contadini sia come individui sia come la complessa e differenziata realtà sociale che furono, la cultura materiale, sono rimasti sullo sfondo. L’odierna società di massa che nella sua maggior parte discende proprio da loro stenta a ricordarne i tratti. La rappresentazione della realtà sociale è una costruzione sociale. E lo sguardo che la società del mondo urbanizzato occidentale porta sulla natura, con la sua percezione del mondo agricolo come mondo “naturale”, tende a cancellare la presenza dei lavoratori della terra mentre proietta sull’agricoltura i colori di una arcadia di cartapesta. In realtà è difficile sostenere che i contadini europei non siano stati un soggetto storico attivo. Ma il modo in cui lo sono stati ha lasciato una scia di paura nella storia (“a furore rusticorum libera nos, Domine”; la guerra dei contadini in Germania). La loro ombra restò sulla genesi dell’Unità d’Italia come quella di un grande forza capace di sconvolgere i disegni dei potenti: si pensi a quando l’arrivo in massa dei contadini in soccorso alla Milano in rivolta contro gli austriaci spaventò la classe dominante lombarda che preferiva la garanzia d’ordine promessa dalla monarchia piemontese. Con la vittoria dei moderati nacque un assetto statale dominato dalla sacralizzazione del diritto di proprietà, timoroso di ogni contagio di ideologie rivoluzionarie tra le classi subalterne. Intanto, il rapporto città-campagna, si fissò stabilmente nell’immagine dell’Italia come pase delle cento città. La celebre tesi della città come “principio ideale delle istorie italiane” coniata da Carlo Cattaneo ha finito col trasformarsi in una forma allusiva ed evasiva. Cattaneo aveva in mente la forza del legame che aveva spinto le masse di giovani contadini verso Milano per difenderla dall’attacco dell’esercito austriaco durante la rivolta delle Cinque giornate. Era stata la prova del senso di appartenenza vivo nel popolo delle campagne. Ma anche Cattaneo sul piano storico aveva dovuto riconoscere che “all’età eroica delle città non partecipò tutta la nazione”. Di fatto, a partire dall’unità politica il nodo città- campagna doveva emergere come quello del rapporto tra il Centro-nord e il Mezzogiorno, questione di lunga durata del paese. Dunque, “classe oggetto” è una provocazione. Serve a ricordare un vuoto, a impedire che la memoria del mondo contadino europeo d’antico regime di cancelli del tutto. Nessun’altra definizione esprime meglio la condizione di subalternità del contadino nella storia europea dei secoli scorsi: ricorda a tutti una condizione di esseri umani destinata a essere raccontati, descritti e rappresentati da altri, oggetto di commiserazione o di derisione, di paura o di pietà, ma sempre e solo a ribadirne la posizione subalterna. La definizione coniata da P.B era relativa ai contadini del suo paese, la Francia. Eppure nella cultura francese l’attenzione alla storia e al patrimonio culturale delle masse contadine e del mondo delle campagne è stata tradizionalmente assai piu viva che in Italia: quelle masse hanno avuto un ruolo chiave nella storia della Francia. Nel paese delle “cento città” le classi dominanti hanno potuto vivere – ha scritto Gramsci – grazie al “lavoro primitivo di un numero determinato di contadini”; modo di accumulazione di capitali piu mostruosi e malsani, perché fondato sull’iniquo sfruttamento usurario dei contadini tenuti al margine della denutrizione”. La coscienza dello sfruttamento ha sedimentato nei secoli tra i contadini sentimenti ostili nei confronti delle città: e ha stimolato nella cultura dominante sentimenti di disprezzo per il mondo contadino, confinato in una condizione di persistente subalternità economica e culturale. Al clero fu delegato il compito di sublimarne le frustrazioni e le sofferenze con le promesse della religione. La lettura che Gramsci dette al Risorgimento pose il problema dei limiti e degli errori delle classi dirigenti italiani che avevano mancato l’occasione del processo dell’unificazione per rispondere alla piu profonda e radicata aspirazione delle masse contadine: la riforma agraria, la distribuzione della terra a chi lavorava. Il problema passò in secondo piano e la classe che aveva pagato il prezzo dell’accumulazione primitiva venne dimenticata. Quella classe fu cancellata dalla cultura dominante anche perché priva dei mezzi per farsi conoscere al suo tempo e ai posteriori. I suoi membri non ebbero né gli strumenti né l’occasione per parlare di sé. Quello che fecero è scritto tutt’al piu nei resoconti dell’azienda padronale o nei libretti colonici o nelle lettere dal fronte e dai campi di concentramento. Certamente della loro condizione come realtà sociale sappiamo parecchie cose grazie ai dati raccolti dai poteri pubblici, quelli della Chiesa e dello Stato. Ma della loro cultura quello che dall’ombra dell’oralità affiorò alla luce delle scritture fu ben poco. Se non ci fossero stati quegli antropologi inconsapevoli che furono i giudici dell’Inquisizione ecclesiastica niente ne sapremmo. Solo lentamente e lavorando su scali locali folcloristi e demologhi dell’Ottocento raccolsero e conservarono frammenti delle tradizioni e delle credenze in via di scomparsa. Tuttavia, resta il fatto che la ricchezza di idee e di remote tradizioni circolante e trasmessa con quella lingua dei contadini è rimasta quasi del tutto conosciuto. C’è voluto lo studio dei verbali processuali di un mugnaio friulano, non illetterato e non contadino, per far emergere indirettamente, i caratteri originale di quella cultura. L’accesso alla scrittura per i contadini è stato un fatto eccezionale. E questo ha costituito un problema per tutti coloro che concepirono il disegno di modernizzarne la cultura, di gettare il ponte della scrittura e della lettura tra classi dominanti e classi subalterne. Nel secolo XIX, inchieste, statistiche e topografie sanitarie misero davanti all’opinione pubblica rappresentazioni della realtà del vissuto contadino che, nella loro varietà, bastarono però ad aprire un conflitto interno agli schieramenti politici. Sull’attendibilità dei dati statistici che l’Ottocento italiano ci ha lasciato e sulla loro servibilità per valutare questioni importanti, come l’accumulazione capitalistica in agricoltura, si sono accese discussioni. Tuttavia, resta il fatto che queste sono le fonti obbligate per accostarci all’Italia delle campagne, in assenza o nella grande scarsità di fonti diretti che ci parlino di idee, dei sentimenti e delle speranze di quel mondo. Per cercare di rintracciar notizie su chi furono e come vissero i contadini italiani del passato ci si deve rivolgere a fonti di una cultura diversa dalla loro. Questo libro non si occupa di storia dell’agricoltura, è il tentativo di guardare al di là della barriera della “grande Trasformazione”, quella subita dal paesaggio italiano nel corso del Novecento e specialmente dopo la Seconda guerra mondiale. Museo della civiltà contadina a San Marino di Bentivoglio, a Bologna Il tempo dei nostri bisavoli era davvero vicino al nostro? E quanto regge quell’articolazione scolastica del disegno del passato che lo ha inserito nell’epoca che chiamiamo contemporanea? Questa è la domanda che ci accompagnerà del viaggio attraverso le fonti ottocentesche. L’autrice della ninna è Lina Schwarz, ebrea sfuggita al pericolo della deportazione ad Auschwitz rifugiandosi in Svizzera “la notte\ si avvicina la fiamma traballa mucca è nella stalla..” Quanto ci sia di vero del raccontino è difficile dirlo. Quell’archibugio ci dice di una paura, quella che da sempre dai tempi delle rivolte dei contadini del Cinquecento teneva in apprensione i padroni: e il prete e la confessione sono lo scioglimento della minaccia, la chiave consueta della pace sociale. Le preoccupazioni di Ramazzini per la salute dei contadini restarono estranee alla tradizione dei trattati di agronomia. Qui si guardava la campagna con l’occhio del padrone o del suo fattore e ci si preoccupava di come far rendere meglio le terre. In questa letteratura ebbe un posto a parte il contributo degli uomini di Chiesa, es: Giovanna Battarra ne Pratica agraria composta per padroni, cioè per chi doveva guidarne i lavori. L’abate romagnolo descrive che i contadini non sanno né leggere né scrivere, quindi privati di come avviene il loro lavoro nei vari paesi d’Europa, dunque la loro attività non è altro che rozza e materiale pratica. Così, intanto, la voce autentica dei contadini rimase al di fuori della tradizione letteraria italiana. Con almeno una eccezione. Fu un altro membro della piccola nobiltà italiana dell’Ottocento, il contemporaneo e da Manzoni diversissimo, Giacomo Leopardi, che ne fece entrare in poesia la voce: un canto notturno nella Sera del dì di festa, forse di un contadino – magari quello stesso zappatore di cui il poeta registrò il fischio serale nel Sabato del villaggio. Perché la domenica, il dì di festa, per il contadino doveva essere giorno di riposo, imposta dalla religione. Ramazzini come scienziato fondò l’altra tradizione, quella dell’attenzione e della compassione della cultura medica per i contadini. Si preoccupava della loro salute, temeva che i medici non tenessero adeguato conto della loro speciale costituzione fisica. Anche perché a casa loro, in caso di malattia, potevano contare sulla solidarietà dei vicini. Pratiche di lunga durata come l’avversione contadina per l’ospedale, vissuto come luogo di abbandono e di morte. La medicina del lavoro concepita da Ramazzini imponeva un radicale ripensamento della funzione del medico. Il quale scopriva così la necessità di individuare cure adeguata alla realtà del contesto dove operava il lavoratore. Teneva conto della condizione sociale e del mestiere del malato ma era capace di porsi domande come “con quali strumenti la medicina può essere di aiuto ai contadini la cui opera è tanto importante per la società?”. Era ai parroci, padroni, che si chiedeva di avere quegli avvertimenti “sempre innanzi agl’occhi”. Ecco il punto in cui la strada della promozione culturale del popolo delle campagne rivelava una strozzatura invincibile e costringeva ad affidarsi alla mediazione del prete e del padrone. Quanto a Ramazzini, risolse il problema indirizzando consigli specifici agli altri medici. Es: non indebolire con forti e ripetuti salassi i corpi spossati dalle fatiche. 3. STEREOTOPI Con i contadini si offre una varietà di paesaggi, quelli della tradizione pittorica dove si ha la percezione del lavoro umano nell’articolazione di colture alternate a pascoli e boschi, intreccio di sentieri, vie d’acqua, di manufatti che conferiscono a quei paesaggi un ordine umano. Realtà remota dalla nozione di “natura incontaminata”, al contrario una natura addomesticata dal lavoro umano. Ed è qui che dovremmo collocare quel popolo di donne, uomini, bambini la cui presenza è documentata dalle fonti demografiche di natura ecclesiastica o civile. Come e dove vivevano? Come sono vestiti? Cosa mangiano? Cosa li differenzia tra loro e li oppone tutti al popolo delle città? Quando e come l’igiene è diventata un progetto collettivo perseguito da poteri statali? La città = centri di vita politica e culturale dell’epoca che restava lontana dall’esperienza del contadino. La cosa riguarda in particolare un paese come l’Italia dove quel processo ha coinciso con la costruzione accelerata di una parvenza di struttura statale unitaria. Ma la questione ha scarsamente interessato gli storici dell’economia e della società italiana. Una storia degli italiani – una storia rispetto delle proporzioni reali delle popolazioni del passato – dovrebbe dedicare loro almeno la metà o i due terzi delle sue attenzioni. Tale era la proporzione tra i contadini e gli altri strati sociali della popolazione. Invece ne abbiamo rappresentazioni sintetiche, come di un dato marginale. Eppure, non sono poche le cose che potremmo sapere di loro. Tanti sono i dati conservati nei registri dell’anagrafe civile e nei libri parrocchiali dei battesimi (quanti erano, quanti ne nascevano o ne morivano, come si chiamavano, se e quando si sposavano, quanti figli avevano e quanti ne sopravvivevano, a che età morivano e dove venivano sepolti) e gli archivi di ospedali e manicomi (informazioni sulla loro salute fisica e mentale). SULL’ASPETTO FISICO del contadino si sono accumulati tanti stereotipi da rendere difficile farsene un’idea veritiera. Un “animale in forza umana”, così lo scrittore spagnolo Antonio de Guevara aveva descritto il contadino del Danubio che sarebbe presentato davanti all’imperatore Marco Aurelio. Ma poi gli aveva messo in bocca parole di grande sapienza = contrasto fra bruttezza fisica (ferinità) e nascosta acutezza della mente fu l’invenzione letteraria. Personaggio di Bertoldo (Seicento), prototipo del contadino scarpe grosse e cervello fino: ridicolo, mostruoso sono attribuiti per esorcizzare la paura. La società venuta fuori dagli sconvolgimenti sociali e culturali dell’età della riforma protestante e delle guerre tra Francia e Spagna chiedeva rassicurazioni di quel genere per risollevarsi dall’incubo delle rivolte contadine. Così la strategia dell’età tridentina tesa a un radicamento cattolico nel popolo delle campagne cercò di correggere l’immagina animalesca. La devozione cattolica creò allora un santo su misura per le plebi, un campesino preso dalle campagne spagnole – SAN ISIDRO – e nel rito solenne della canonizzazione lo mise accanto al santo nobile cardinale lombardo, CARLO BORROMEO. Intanto missionari gesuiti e parroci si dedicavano a conquistare le campagne predicando le virtù salvifiche dell’obbedienza al padrone. Capitava che i popolani stentassero a credere alla Divina Provvidenza davanti alle disuguaglianze sociali e proprio per questo toccava al clero contrastare il sentimento di invidia diffuso tra i contadini nei confronti di ‘quelli della città’. Ci fu il tentativo di modificare maniere e linguaggio del popolo delle campagne per avvicinarli a quelli della classe dominante: fu composto un galateo di buone maniere sociali per i ceti subalterni delle campagne, per rapportarsi ai padroni e al mondo della città. La realtà del mondo del lavoro contadino finì con l’assumere una diversa rilevanza solo con la ripresa demografica europea e la rivoluzione agraria: due fenomeni storici tra loro connessi, che tra Settecento e Ottocento spinsero a guardare al mondo delle campagne con un nuovo interesse. Trovò applicazione una scoperta della cultura agronomica italiana del Cinquecento: la possibilità di conciliare produzione di cereali e pascoli per l’allevamento sostituendo il maggese con erbe foraggere come l’erba medica e il trifoglio. Da lì l’innovazione trovò la via per tornare in Italia. Ma intanto venne crescendo l’investimento di capitali e lo sfruttamento del lavoro in agricoltura nelle aree migliori. L’effetto fu quello di sostituire con il lavoro precario, bracciantile, quello della famiglia contadina. In Italia nacquero associazioni e accademie dedite allo studio dei miglioramenti tecnici in agricoltura: società agraria bolognese, l’Accademia dei Georgofili, frutto di una attenzione a metodi e pratiche per massimizzare la produttività dell’agricoltura. Le origini di istituzioni del genere risalgono all’epoca del movimento riformare illuministico del Settecento. Nel dibattito sulla mezzadria che dal Settecento in poi doveva animare la cultura toscana si venne evidenziando la tesi di una sua naturale speciale, di patto che implicava un rapporto di collaborazione e interventi di sussidio per i bisogni del mezzadro. Sulla questione intervennero in modo particolare voci autorevoli del clero. Secondo il vescovo di Cortona Giuseppe Ippoliti “quando il contadino ha lavorato ha diritto alla sussistenza” il che creò polemiche; dunque, si affrettò ad aggiungere una “istruzione morale- economica sull’educazione, e sui doveri dei contadini” che poteva essere impartita soltanto dai parroci, gli unici a comunicare quotidianamente coi contadini che erano generalmente analfabeti. Si tratta di un documento di come la voce del clero rivendicasse un diritto-dovere di rappresentanza del mondo contadino. Personaggi tra loro diversi come CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR e CARLO CATTANEO dedicarono molta attenzione alla gestione delle aree coltivabili, il primo sull’esperienza diretta della sua tenuta di Leri e il secondo con saggi in materia di economia agricola. La saldatura tra la nuova cultura e la popolazione delle campagne era minata alla radice dalla mancanza di comunicazione, poiché il popolo delle campagne era composto di analfabeti i quali potevano trovarono la scintilla di rivolte violente nella parola predicata di capi improvvisati, che li guidavano all’attacco contro gli anticristiani delle odiate città. Lo si era visto nei moti sanfedisti di fine Settecento, guidati da predicatori e capi ecclesiastici, Nelle campagne italiane quella che aveva scatenato ondate di violenza contadina era stata la paura dei giacobini locali e degli eserciti francesi e prima ancora era stata la reazione ai tentativi di riformare le pratiche religiose. Rimase però vivo il ricordo di quei fenomeni. Come in altri fenomeni storici, il detonatore offerto dalla difesa dei simboli della religione aveva acceso fuoco sotterraneo del conflitto di classe e di cultura tra campagne e città, contadini e signori. La delusione della “libertà” portata dai francesi e materializzatasi in saccheggi, gravami di arruolamenti di massa si era tradotta in rivolta sociale. Fu inevitabile che nella memoria popolare dell’Italia napoleonica si scolpissero le tragiche esperienze dei saccheggi seguiti poi dal reclutamento forzato di “volontari” per le armate delle guerre europee. Fu allora che i giovani contadini dell’area padana si sottrassero alla leva imboscandosi e fuggendo nella terra del Veneto austriaco, rischiando l’esecuzione capitale. Lo spettro di un contagio rivoluzionario in arrivo dalla Francia bastò a dare vita al mito di un mondo contadino erede di antiche virtù e dotato di una intatta forza e sanità, pronto a farsi strumento della resistenza dell’ordine sociale per conto delle impaurite classi dominanti. Intanto con l’elaborazione della “via italiana al romanticismo” si avanzava un’idea incompleta dell’italiano: da un lato c’era “l’italiano romantico-liberale” come “figura di un italiano di città, vale a dire un membro della nuova classe dirigente in formazione”, mentre dall’altro “l’italianità della restante popolazione tornava a confondersi con una condizione naturalistica di residenti lavoratori, esclusi da quella piena cittadinanza italiana che è riservata ai signore della terra e della cultura”. Quanto quell’ideologia fosse destinata a radicarsi in profondità nella mentalità dominante dell’Ottocento italiano lo mostra la cultura figurativa diffusa, a cui si uniformarono anche le correnti programmaticamente ispirate al vero naturale, falsò la realtà delle condizioni di vita del mondo delle campagne, popolandole di muscoli e aitanti2 contadini e di allegre fanciulle in costumi regionali. Non fu per caso se in quella realtà trascurata trovarono le loro radici “forme primitive” di rivolta: tutte manifestazioni che le autorità politica soffocarono. Le autorità ecclesiastiche e i proprietari terrieri trovarono spesso occasioni per collaborare nel rapporto col mondo delle campagne, almeno fino alla svolta reazionaria di Pio IX e alla questione di Roma capitale. Il clero disponeva di un potere d’influenza sul popolo dei campi che lo rendeva un alleato prezioso per i padroni: delegato a operare per tenere buono il primo e per dirigere ammonimenti ai secondi a non calcare troppo la mano. Tra i membri dell’Accademia dei Georgofili c’era Iacopo Ricci, parroco, il quale dette alle stampe un Catechismo agrario, uno dei tanti casi in cui il modello dell’indottrinamento religioso elementare venne applicato all’insegnamento di pratiche agricole. Ricci pensava a mezzadri non illetterati. Sulla stessa strada e negli anni si mosse Ignazio Malenotti con Il padrone contadino con cui si rivolse però ai proprietari terrieri per far fruttare di piu le loro terre. A suo avviso si trattava non solo di ammodernare le tecniche di coltivazione ma anche di creare condizioni migliori di via per chi le coltiva. Cercando argomenti efficaci per convincere i lettori provò a descrivere come si presentasse una casa di contadini. 2 Di bell’aspetto, prestante. sviluppano nel tempo usi e abitudini di carattere economico e sociale. Ci si trova di fronte alla definizione del carattere del popolo come “somma della abitudini economiche e morali”. Le sue fonti di informazioni furono da un lato i documenti e gli scritti di storia e di economia esistenti, dall’altro anche e soprattutto le informazioni raccolte e verificare attraverso le osservazioni personali compiute viaggiando nei luoghi. Il mondo delle campagne e quello delle città furono oggetto di una osservazione attenta e di ricca di proposte utili per individuare i problemi che limitavano o impedivano la produzione di beni. Per quanto riguarda il popolo dele compagne, il suo modo di vivere, di abitare e di produrre, ecco quello che si ricava dalla statistica del dipartimento del Mincio: contadini indicati come “costituendo piu di 4/5 della popolazione, e somministrando maggiori numero di soldati, pare che maggiori cure possano meritare che gli abitanti della città”. Quel giudizio, del resto, giungeva al termine di un esame della realtà del dipartimento dove si era descritto uno stato delle cose che penalizzava proprio i contadini. I quali vivevano in un territorio umido per natura e un “abitazioni mal costrutte, quasi dappertutto poco ventilate, molto umide, ristrette e chiude ai benefici raggi solari”. Descrive anche il loro nutrimento: poco pane di frumento, molta polenta, vino, talvolta carne, ministra di legumi, cipolla e formaggio. Consumo del frumento maggiore tre mesi dopo il raccolto. Nei paesi di risaie abbondano le ministre di riso e qualche famiglia ha maiali da servirsene come pietanza. Normalmente bastava un anno di carestia, e l’uso esclusivo della polenta sommato alla mancanza del vino diventava causa di malattie come scorbuto. Non la pellagra notava gioia. La questione della pellagra, già allora individuata come importante, doveva rivelarsi tragica quando in tempi successivi le cose cambiarono. Invece, la povertà del cibo doveva mantenersi invariata nel corso del secolo. Il lavoro dei campi è descritto da Gioia nelle varie forme in cui si esprime, criticando dove resiste alle innovazioni necessarie, ma sempre considerato come il fatto positivo dell’economia perchè a quel lavoro partecipa chi lo compie ma anche chi investe “lavoro intellettuale e personale di direzione agli altrui lavori”. Gioia distingue la figura del proprietario che lavora in proprio i suoi fondi e quella del mezzadro da quella del proprietario assente che affitta ad altri. Ci sono poi categorie speciali, come quelle dei braccianti, dei boari e dei castaldi, che non partecipano ai guadagni o alle perdite del proprietario e perciò “inclinate al ladroneggio”. È un esempio di come nella sua scienza della statistica l’acutezza del rigetto delle classificazioni generiche, come quella di “contadini”, scaturiscano da una illuministica volontà di sapere, ma anche della volontà di cogliere i fattori del cambiamento. Il suo sguardo si concentrava sulle forze economiche capaci di scuotere l’immobilismo. Gioia è attento ai difetti fisici e alle malattie dei lavoratori. Nella statistica del ripartimento dell’Agogna si incontrano osservazioni dettate dall’esperienze personale: “nella valle del Ticino, la piu fertile parte della Lomellina, l’aria è pessima, quindi non si vedono vecchi, e la gioventù porta in volto il pronostico di una anticipata morte”. Ma è nella redazione compiuta della statistica del ripartimento dell’Adda che si ha la possibilità di verificare la ricchezza di una pratica ella scienza statistica concepita da Gioia come “l’arte di descrivere, calcolare, classificare tutti gli oggetti in ragione delle loro qualità costanti e variabili”. Quando lo studioso considera le cause che si oppongono ai miglioramenti agraria quella che emerge è soprattutto l’estrema miseria dei paesani. Fa un elenco dei “segni di speciale miseria” (p. 35-36). L’elenco si concludeva segnalando i due esiti della povertà estrema: l’emigrazione di intere famiglie e la vittoria della morte sulla vita con le nascite incapaci di reintegrare i vuoti della mortalità. Ma Melchiorre non si limitava a registrare indizi, CERCA ANCHE DI RISALIRE ALLE CAUSE. Ecco come spiegava la scarsa coltivazione dei bachi da seta, tradizionale risorsa economica delle famiglie in campagna: case troppo piccole e sporche. Ma perché erano così anguste quelle abitazioni? Precarie, mal costruite e umide, i canoni di affitto obbligano gli inquilini alla metà della spesa di costruzione quando le case si rovinavano. La logica di uno sfruttamento esoso oltre ogni limite si ritorceva nel soffocare sul nascere l’iniziativa e l’operosità del contadino. 2. La statistica murattiana Imponente statistica generale del Regno di Napoli, concepita e portata a termine durante il periodo napoleonico. L’immensa mole di dati raccolti è stata variamente giudicata: si è messa in dubbio la sua attendibilità partendo dal dato di fatto della strettezza dei tempi di cui fu imposto il rispetto. Quindi gli storici hanno dovuto mettere in conto la percentuale di dati inventata da intendenti frettoloso che non potevano o non volevano investigare con esattezza lo stato reale delle cose. Il lavoro complessivo fu il risultato dell’impegno di Luca Cagnazzi, suo intento era di conoscere “gli stati precisi della popolazione, delle quantità territoriali, della quantità di produzioni sia agricole che manifatturiere, notizie da confrontare con lo stato antico e da tutto ciò che può suggerire miglioramento allo stato attuale”. Fu soprattutto nella sezione sulla realtà umana degli abitanti che l’invito a suggerire miglioramenti trovò ampia risposta. La conoscenza delle realtà ambientali non aveva bisogno di andare in cerca di dati specifici, bastando ai relatori la loro esperienza dei contesti. Era stato qui che si era compiuto tra il 1786 e il 1890 per incarico del sovrano, una visita delle province per individuare le necessità della popolazione a suggerire rimedi. Con l’arrivo al potere a Napoli di Giuseppe Bonaparte era stata istituita una “Officina di statistica” e si era progettato uno studio sui problemi delle acque e dell’agricoltura. Era stato il suo successore Gioacchino Murat che si era dato impulso nel 1809 alla vera e propria costruzione di una “Statistica” all’interno del Regno, conclusa nel 1811. Oggetto specifico dell’indagine era l ostato fisico – naturale (suolo, acque, temperature, prodotti spontanei) e nell’economia (agricoltura, pesca, pastorizia, manifatture). Vi era fatto posto anche per la questione della salute pubblica. Ne scaturì una importante raccolta di informazioni: città e campagne del Regno di Napoli, come si nutrivano, dove passavano la notte. Si trova una fotografia delle condizioni di vita della popolazione, filtrata attraverso la sensibilità dei membri di un apparato di governo, spesso richiamati ai loro doversi da minacce. Traspare un sentimento di ripulsa: quegli uomini erano inorriditi da ciò che avevano dovuto vedere e descrivere. Un assaggio di quello spettacolo e di sentimenti di schifo era già nella Descrizione del contado del Molise di Galanti nel tardo Settecento (p. 38). La statistica murattiana ripone quei dati in termini ancora piu negativi. La concentrazione riguardava l’ARIA e l’ACQUA come fattori decisivi per la salute degli abitanti. Nell’estate si ricorreva all’acqua piovana, perché le fontane e i pozzi erano esposti a ogni sporcizia ma le acque che arrivano abbondanti dal cielo diventavano rapidamente malsane. Fontane, serbatoi e pozzi erano esposti senza protezione alla sporcizia e alle deiezioni di animali e persone. Quando al cibo, consiste spesso di erbe raccolte nei campi. Al posto del pane troviamo quella focaccia “cinericia” descritta dal Galanti: “una focaccia di frumento detta ‘pizza’, cotta sotto la cenere, dura, insipida, mai fermentata, spesso senza sale. Solo acqua e la sera la polenta o una ministra. Le abitazioni sono “strette, sudice”, “la famiglia, l’asilo, il cane, i polli sono stretti vicini”. “le strade sono strette, irregolari, impantanate d’acqua”; “la sporcizia intorno allee abitazioni: ogni specie di rifiuto e di deiezione, da quelli umani a quelli animali”. E le malattie abbondano; pochi sono tutelati col vaccino del vaiolo. “il popolo in Molise come altrove è piu portato a credere ed obbedire al semplicista che non al medico: egli si butta nelle braccia del ciarlato del mago del pastore astrologo per malattie che crede incurabili, e che lo diventano realmente” Era la segnalazione di un problema che doveva rivelarsi diffuso nel mondo delle campagne italiane dell’Ottocento. Qui nel Regno di Napoli le cause scientifiche dei malanni appaiono indecifrabili ai relatori ma in genere appare la convinzione che tutto dipenda dall’ambiente – aria, acqua, luce. La “succidezza”, una mancanza di igiene che condanna l’aria a essere insalubre, era un tema diventato dominante nel corso del Settecento, come reazione alle epidemie del secolo precedente e come sito del paradigma miasmatico allora diffuso che faceva derivare la diffusione del male dal veicolo che si immaginava impalabile e micidiale dell’aria infetta. La causa principale risiedeva secondo il relator proprio nella sporcizia. - Il tema della “succidezza” ritorna di continuo nelle pagine dell’inchiesta La questione della morte e delle sepolture stava a cuore ai compilatori delle domande della statistica: dominava la domanda di evitare il rischio di morte apparente, poiché spesso si era sepolti ancor prima di morire. Insieme a questa c’era la preoccupazione di separare i morti dai viventi. Altrove si faceva strada esperimenti promosso dalla nuova cultura illuministica con la chiusura delle chiese alle sepolture e lo spostamento dei cimiteri in loghi separati dall’abitato – una misura che doveva venire generalizzata dal celebre editto di Saint-Cloud di età napoleonica. Nel Regno di Napoli misure riformatrici avevano portato alla chiusura di confraternite e conventi, aggravando indirettamente la questione delle sepolture nelle chiese. Né la popolazione che affollava le chiese respirandovi i fetori di corpi in putrefazione era risposta a rescindere i legami tradizionali tra morti e vivi alimentati dalle devozioni religiose. Di conseguenza quella che balzava agli occhi ea la condizione dei contadini: una fascia sociale minacciata dalla precarietà e condannata a vivere sul limite estremo dell’esistenza. Lo sporco era qui il segno dominante di luoghi dove regnava l’indistinzione tra persone e animali, tra giorno e notte, tra esterno e interno (pavimenti inesistenti). Fu per questo che nel REGNO DI NAPOLI dell’età napoleonica l’importanza della statistica apparve decisiva ai portatori del progetto di mutamento ereditato dalla Rivoluzione francese. Della città di Napoli si additarono molti ambienti e aspetti: il “basso popolo” affollato “in abitazioni anguste, umide, senza ventilazione”. “i carceri sporche per la moltitudine dei detenuti, simile era per ospedali, orfanotrofi”. E così via, in una elencazione degli aspetti della città che dovevano trovare nel corso del secolo altri e sempre piu inquieti e cupi cronisti prima di diventare materia di studio nel Novecento. Si formulavano da parte dei relatori parole in cui si esprimevano la volontà di intervento che però si affidava a “metodi indiretti” di pubblica educazione e non per caso evocava la religione. Non si pensava di ricorrere al potere statale per ottenere un mutamento di comportamenti radicati in profondità. Accanto a questo problema speciale rappresentato dalle “classi basse” della grande capital del Regno le relazioni collocano le descrizioni delle popolazioni contadine. Esse appaiono come gente provata dalla miseria, costretta a nutrirsi di erbe. In quella invernale il contadino si deve accontentare di un pezzo di pane o ortaggi. Lo sguardo sulle abitazioni proponeva uno spettacolo che ritorna uguale in tutte le relazioni: non case, al massimo stanze a pian terreno, umide, fredde, non ventilate: legna, fieno, pollo alloggiano nello stesso sito. Non c’è solo la sfera della sporcizia a designare un mondo ma anche la mancanza di distinzione tra la sfera della nutrizione e quella dell’escremento. Ed è ancora la domanda guida sulla salubrità dell’aria a suscitare una folla di risposte dei rilevatori. Come “abitazioni che emanano gas nocivi”. Tutte queste cause della “succidezza” dovevano venire rimosse. E qui la relazione prendeva il tono dell’urgenza riformatrice: occorrevano buone leggi, norme sanitarie e di polizia municipale e rurale, per imporre l’allontanamento dei cadaveri dai sepolcri nelle chiese, la rimozione delle carogne animali e delle masse vegetali dalle strade, lo scolo delle acque stagnanti. Il limite insuperabile della lotta contro la sporcizia era la miseria. Chi voleva liberare l’aria dai miasmi doveva prima di tutto infrangere la catena del bisogno che imprigionava la “classe bassa”. Nell’Abruzzo citra (Abruzzo inferiore), le osservazioni sulle condizione dei popoli richiamano ancora la gravità della miseria contadina: “la povertà stessa è una vera malattia, e l’uomo lentamente muore per la miseria, perché privo del necessario per stare bene”. Passando alle note relative alla TERRA DI BARI, l’aria e l’acqua sono anche qui al centro dell’attenzione: la prima è minacciata dalla corruzione di rifiuti o dalle alghe marine accumulate sulle spiagge. Quanto all’acqua, gran parte della popolazione è costretta a usare quella piovana conservata in pozzi e serbatoi domestici. L’alimentazione del contadino è fatta di pane ma non sempre di frumento; quando sale il prezzo del grano ci si accontenta di un pane di farina d’orzo crudo, la carne comparve sulla tavola nelle sole feste solenni. C’era qualche credenza superstiziosa, ma si limitava questioni di poco conto, come la paura delle streghe o il far scampanare la chiesa per allontanare i temporali. Erano poveri, tanto non aver un soldo per fare festa per la nascita dei figli. Preti e maestri avevano in comune l’appartenenza alla minoranza colta, quella che leggeva e scriveva in mezzo a un popolo di analfabeti.; dovevano descrivere un mondo delle campagne dal quale spesso provenivano ma ne diffidavano e lo giudicavano una realtà negata ai valori spirituali. Abbondano le descrizioni di riti di passaggio e celebrazioni sacre che parlando di un mondo bucolico, la concreta realtà del popolo resta come nascosta dietro descrizioni che sembrano prodotte da un visitatore distratto, nella cui immaginazione dominano gli stereotipi della tradizione municipale. Ma quale fosse l’immagine del contadino che emergeva dall’inchiesta lo dice meglio di ogni scritto la serie di 112 acquerelli disegnati dal prof del liceo di Urbino: qui si mostrano i costumi del dipartimento del Metauro. L’opera sua ci ha lasciato il piu combatto e ben conservato fondo della sezione iconografica dell’inchiesta (P.53). Nel complesso, un esempio di come si ricorresse agli schemi della compostezza neoclassica per non sfigurare agli occhi dei francesi. Ma l’abbellimento dell’abito non cancellava il disprezzo perla rozzezza del popolo. Colpisce il fatto che in queste relazioni non si incontrino quasi mai tracce di malattie, povertà o morte. Fu un arciprete a mettere in evidenza almeno un piccolo indizio della povertà del mondo contadino: raccontò che in occasione dei funerale dei genitori i figli cercano tutti i mezzi per suffragare le anime dei loro defunti, al quale effetto prendono persino dei denari in prestito per fare celebrare qualche messa. Dopo aver letto le statistiche dei primi due luoghi, sembrerebbe di trovarsi in un luogo diverso e remoto. Aggirandosi tra le case contadine dell’Italia centro-settentrionale vede davanti a sé un mondo di borgate e di campagne agricole dolcemente adagiato sulle proprie tradizioni, cullato dai ritmi di n’esistenza pacifica, non troppo assillato da problemi sanitari o dall’incombere del bisogno. È possibile che buona parte di questi colori rosei della vita siano addebitabili al clero delle parrocchie, una casta sacerdotale che doveva allora di una condizione di privilegio. Tuttavia anche se non si può ignorare la distorsione della realtà derivante dalla cultura e dall’atteggiamento degli informatori, resta il fatto che i resoconti ci pongono davanti a una parte d’Italia dove la condizione dei contadini appare assai diversa da quella delle montagne e dei latifondi meridionali. Il crollo dell’impero napoleonico travolse l’intera costruzione e rischiò di portare con sé anche il naufragio della documentazione raccolta: come abbiamo visto, anche nel caso delle statistiche di Melchiorre Gioia, solo le ricerche d’archivio hanno consentito di recuperarne parti consistenti. Tuttavia, non venne meno, all’epoca, l’attenzione ai problemi della campagna come risposta economici e a quelli dei lavoratori dei capi che ne erano i principali fattori di produzione. 5. ECONOMIA AGRARIA E INCHIESTE SANITARIE Sull’agricoltura vista come manifattura e produttrice di beni e sul proprietario terriero come imprenditore aperto a nuove tecniche e a migliorie si concentrò buona parte della cultura dell’Ottocento italiano. Si pone attenzione sulle forme dei contratti agrari e solo indirettamente alla figura del lavoratore dei campi e alle condizioni dell’intera sua famiglia. Nell’Italia centrale restava dominante la mezzadria, mentre in quella padana si aveva a che fare con aziende di grandi estensioni e con forme di lavoro collettivo dove si avanzava la figura del bracciante a sostituire la presenza stabile della famiglia contadina. Quanto alla mezzadria, si tratta di un rapporto antico e molto diffusa nelle campagne italiane, in grande parte dell’Italia centro-settentrionale a partire dal XV secolo insieme ad una riorganizzazione dell’intero spazio agricolo. Le campagne si riempiono di case, di stalle, di fienili. Attorno ad essi, nelle selve e nelle paludi dissodate, si allineano regolari i campi di grando e di filari di alberi maritati alla vite. E il processo si completa quando le irregolari e sparse particelle dell’età medievale si ricompongono gradualmente attorno alla casa colonica a formare il podere, unità base dell’agricoltura mezzadrile. Quanto a quella toscana, siamo davanti a un assetto produttivo che aveva goduto da tempo di una attenzione speciale, tanto da risultare tra le forme di rapporto fra lavoro e capitali più note e studiate, non solo in Italia. Analisi tecniche dettagliate, indagini e interpretazioni storiche e politiche ne discussero allora e i nseguito non sol ole tecniche agronomiche e specialmente la sistemazione idraulica, ma anche il nesso fra l’assetto produttivo e la civiltà toscana nel suo insieme. Fin dal Settecento e poi nel corso dell’Ottocento il tema doveva conoscere grande attenzione da molte parti. Si è visto come fossero sensibili ai problemi agronomici e alla condizione dei contadini i membri della classe dominante che animavano le sedute dell’Accademia dei Georgofili. Fu in una seduta dei Georgofili del 1838 che il marchese Ridolfi mostrò come la favola del “sacrificio” che i proprietari sostenevano di fare a vantaggio dei mezzadri celasse la realtà di una progressiva svalutazione netta del “capitale lavoro” e del “capitale tempo”, a tutto danno dei contadini. La sua fu una voce dissonante rispetto alla convinzione diffusa nella classe dominante che il sistema della mezzadria fosse non solo il più valido e sperimentato ma anche quello che garantiva alla famiglia contadina la sicurezza di una sistemazione stabile e la paterna protezione del proprietario. Contribuì a questa ideologia del “buon padrone” la venatura religiosa in senso cattolico di figure autorevole del mondo fiorentino come Capponi e Lambruschini. Alla cura della devozione religiosa nell’ambiente dei mezzadri si dedicava molta attenzione nelle istruzioni scritte che i nobili padroni davano ai loro fattori. Dalle pagine del “giornale agrario toscano” diretto da Capponi, Lambruschini incoraggiò i padroni a esibirvi vivi sentimenti di “giustizia” per i contadini, ma anche a rivolgere loro inviti a ricambiare quel “potere paterno” con una “volenterosa subordinazione” garantendo una spontanea rinunzia alle ben note e temute furbizie nella divisione dei raccolti. Il discorso svoltava subito dalla nettezza e dall’igiene dello stato materiale allo “stato intellettuale e morale degli abitanti della campagna”, gente bisognosa ai suoi occhi solo di un pedagogo. Insomma, la distanza fra padrone e contadino restava insuperabile. E tale si voleva che restasse, anche servendosi dello strumento primario, la subordinazione economica e finanziaria. Mentre le entrate del proprietario conoscevano aumenti del 45 per cento, i contadini dovevano ricorrere ad attività aggiuntive perché i “proventi della mezzadria, da soli, non bastavano a mantenerli”. Di fatto la mezzadria era destinata a sopravvivere ancora a lungo. Ed è giusto ricordare che sarebbe piu corretto parlarne al plurale dato le varianti che differenziavano la valle dell’Arno dalle tante altre parti d’Italia dove si ricorreva a quel tipo di contratto ma con diverse tipologia di sistemi di conduzione. Quando si giunse all’appuntamento dell’Unità d’Italia, la classe padronale, fatta per lo piu di eredi di antiche casate aristocratiche, ricorse all’alleanza col clero per garantire l’adesione del mondo contadino al voto plebiscitario. Esemplare il modo in cui il marchese Ricasoli organizzò il voto al plebiscito del 1860 per l’adesione alla monarchia sabauda: dietro precise istruzioni, i fattori delle sue proprietà si posero alla testa dei mezzadri all’uscita della messa domenicale e li guidarono al voto insieme ai parrochi che nell’omelia si erano fatti un dovere di benedire quella scelta. In generale, sembrò allora che il modello della mezzadria toscana fosse quello capace di garantire meglio di ogni altro la pace sociale e il modo migliore di far fruttare i possedimenti terrieri. Mentre altrove nasceva e si diffondevano società agrarie, cattedre ambulanti di agricoltura e altre iniziative tese a combattere l’analfabetismo contadino e soprattutto l’indifferenza dei proprietari, in toscana nasceva una istituzione che si collocò accanto alla Accademia dei Georgofili e al Gabinetto scientifico-letterario di Giovan Pietro Vieusseux con caratteri propri: fu l’Istituto agrario creato da Cosimo Ridolfi nella sua tenuta di Meleto che dal 1934 in poi formò un élite di esperti amministratori e fattori. Non fu dunque un caso se la prima monografia di famiglia contadina italiana a vanire pubblicata nel corso del secolo fu dedicata alla famiglia di un mezzadro toscano. Possiamo dunque approfittare di questa rara occasione per entrare all’interno della famiglia di Giuseppe O., mezzadro della fattoria La Torre di Bagno a Ripoli, e avere un’idea della sua composizione, di quanto vi si guadagnava e di quante uscivi vi si ebbero nell’anno 1857: composta da 10 persone, impegnate nella coltivazione del podere e tutte in età di lavoro, capofamiglia di 56 anni, moglie 50, sette figli, una femmina e sei maschi fra i 28 e i 14 anni. Dalla loro parte di raccolto e da compensi per lavori per il padrone percepivano in tutto un reddito lordo di 2000 fiorini ma ne consumavano la maggior parte (1148 fiorini) in cibo e bevande, per cui – tenendo conto del costo dell’affito della casa e delle modeste spese di vestiario, riscaldamento, tasse e medicine – il bilancio finale registrava un avanto di poco piu di 200 fiorini. Per sapere come vivessero i contadini di queste aree ci si trova davanti a descrizione di una realtà certo meno disperata del regno di Napoli anche se non priva di problemi. (foto pag 60) Testimonianza confermata da tante altre voci del tempo: mezzadri di Bucine che mangiano “pn vecciato e bevono acquerello”; mezzadri di Marradi che mangiano la mattina polenta di mais, la sera pane. E la carne non compare sulla loro tavola se non di rado. Inoltre risparmiano sulle scarpe, visto che per nove mesi dell’anno vanno scalzi. Terre lavorate con la fatica delle proprie braccia, per produrre grano, vino e olio dove però si mangiava polenta e “pan vecciato”, si condiva col grasso “vieto” di maiale, e si beveva un vino vinto chiamato ancora “acquetta” – analoga al “pidorzo” già incontrato nella “statistica”: acqua fatta bollire nei tini con le vinacce già spremute, un inganno dal sapore frizzante, micidiale per l’acidità. In quelle campagne il padrone era e doveva essere chiamato proprio così “signor padrone” dal reverente contadino col cappello in mano. Quel padrone si faceva pagare ogni intervento migliorativo. È vero che in caso di malattie di bestie o di esseri umani soccorreva il mezzadro con prestiti, che però lasciavano quest’ultimo sempre riconoscente e indebitato. Anche Sembrava tuttavia che quel tipo di rapporto – paternalistico, senza scosse, soffuso dall’aura della pace sociale – avesse in sé il segreto della solidità e della duratura. Fu anche per questo che quando verso la fine del secolo si discusse della possibilità di dare forma unica nel paese al rapporto fra padroni e contadini, ci fu chi avanzò la proposta di generalizzare la mezzadria in tutte le campagne italiane. Non fu per caso se la proposta venne da parte di Sidney Sonnino, il nobile toscano allora presidente del Consiglio. In un saggio comparso anonimo e genericamente attribuito a Carlo Cattaneo, si era indicata la ragione per cui quel tipo di contratto non poteva funzionare nell’economia agricola delle terre della Pianura Padana. Quel sistema con tutti i suoi meriti, “non è di possibile realizzazione per le terre della Bassa Lombardia”. In una vasta pianura irrigua non si poteva coltivare alla maniera del mezzadro che in un campicello raccoglieva frumento, granoturco, faceva crescere gelsi e viti. dal ministero e dominante nell’Italia liberale, è a suo modo un documento di quanto la barriera della miseria e dell’igiene escludesse dalla visuale delle classi borghesi il popolo delle campagne. Vi troviamo informazioni su natura e colture, su regime delle piogge e delle temperature, sulle razze degli animali e sui formaggi tipici. Invece sui contadini si posa solo uno sguardo distratto nelle pagine dedicate all’igiene e alla questione della malaria, poiché la sua attenzione è attirata dalla fattoressa, una bella ragazza che ha un bambino sanissimo. Come hanno fatto a salvarsi dalla malaria? Semplice: seguivano regole precise. A giugno erano soliti andare “nelle montana e non ne ritornavano che a novembre”. Gente di un’altra razza: una razza, quella dei fattori, “che non si alleva nell’Agro Romano all’epoca della malsania”. Certo, Raffaele Pareto conosce la letteratura allora assai nutrita delle topografie sanitarie e rimpiange che non ne sia stata scitta una per quelle terre. Ma lui si occupa di cose importanti: prodotti della campagna e pascoli, robe che si vendono. I contadini non lo riguardano. Di fatto, dalle inchieste e dagli studi che abbiamo percorso emerge un quadro i questi universi contadini delle molte province di una Italia a cavallo dell’unificazione politica ce ne mostra le differenze locali, ma anche la costanza di una comune realtà di fondo: la miseria, la dipendenza dal padronato, l’incertezza del cibo e dell’abitazione. Anche nelle situazioni migliori, bastava un evento negativo e la rovina si abbatteva sull’unità familiare. E intanto incombeva su quei precari contesti mani tanti processi economici e politici non sempre previsti né recepite dalle relazioni statistiche: due rivoluzioni economiche europee, quella agricola e quella industriale, e una mutazione politica italiana, l’unificazione nazionale. Quando quelle realtà del mondo contadino si trovarono riunite nello stesso organismo ostatale fu la loro diversità a costituire il problema fondamentale del paese. Ci si chiede se chi dovette governano fu all’altezza della situazione. 6. MEDICI, PARROCI E CONTADINI PRIMA E DOPO IL QUARANTOTTO 1. I medici “malsania” è una realtà che assunse forme diverse nelle diverse Italia di quel secolo XIX. Ma quello che appare immediatamente evidente è il nuovo ruolo assunto dai medici come osservatori e come attori all’interno della società. L’Ottocento è stato definito il secolo anche della medicina. I progressivi furono enormi: vennero sconfitte o arginate colera, malaria, si erano compiuti passi decisivi contro la tisi, fu scoperta la causa della febbre puerperale; basta evocare nomi quali Koch e Pasteur. Ma nacque soprattutto l’attuale modello – ancora gracile - di società medicalizzata. Ne possiamo fissare l’avvio in quella fase del tardo Settecento in cui, reagendo alle periodiche crisi di mortalità epidemiche o al micidiale rapporto di causa ed effetto tra carestie ed epidemie, si concepì il disegno di una politica della salute come governo sanitario delle collettività. Com’è stato osservato, fu allora che avvenne un mutamento di fondo dello stesso termine “igiene”. Se l’igiene classica mirava a controllare e modificare il comportamento individuale, l’igiene moderna diviene pubblica, si indirizza alla collettività ed è necessariamente realizzata dalla collettività, attraverso regolamenti e legislazioni di sanità. Nel secolo che si aprì sotto il segno della vaccinazione destinata a riporre tra i relitti del passato la minaccia terribile del vaiolo – il male che aveva sterminato le popolazioni americane. Il contributo essenziale di quel secolo fu caratterizzato appunto dalla scoperta di quella componente fino ad allora sconosciuta e da allora in poi decisiva delle cure mediche, l’igiene, la quale però fu molto piu di una provincia della medicina. Il salto è avvenuto quando c’è stato lo stimolo a vedere nell’ambiente una minaccia: lo sporco. Era l’esito di un processo che si era avviato nel Settecento illuminista, quando si era compiuta la frattura decisiva col passato nell’atto stesso con cui si era sottoposta la realtà ai lumi della ragione. Il mondo umano cominciò allora ad apparire come una realtà irrazionale, disordinata e confusa, bisognosa di riforme. Come abbiamo visto, tra Settecento e Ottocento si incontrano sempre piu numerose le figure dei medici come testimoni delle condizioni dei contadini. L’opera di studio e di intervento nella realtà delle classi popolari delle campagne attestata nei loro scritti li fa emergere come dei protagonisti a fronte delle altre due categorie sociali dominanti in quel contesto: i proprietari terrieri e il clero. Parliamo di medici e specialmente di medici condotti: la loro presenza nella società era il risultato di una lunga vicenda, in cui l’antico si intrecciava col nuovo. Le città italiane vantavano una lunga tradizione di lotta contro la minaccia delle epidemie di peste. Fin dalla “peste nera” del 1348 i poteri pubblici dei piccoli Stati della penisola – specialmente nell’Italia centro-settentrionale – si erano impegnati nel combattere il flagello. Era stato messo in atto un sistema di misure preventive, orientato sostanzialmente a tutela delle città. Col tempo anche i centri minori erano stati dotati di medici “condotti”, cioè stipendiati dai poteri centrali o da quelli locali. E toccò proprio a loro prendere l’iniziativa nella mutata realtà dell’Ottocento. Fu qui che si sviluppò l’attenzione crescente della cultura sanitaria ai tempi dell’acqua e dell’aria sotto l’angolatura generale dell’igiene pubblica. Non si trattò fi un fenomeno limitato a città e Stati italiani, ma di una svolta generale della cultura sanitaria e politica europea. Si passò dalla ricerca delle difese per la salute individuale e contingente all’assunzione da pare dei medici e dei poteri pubblici di una precisa responsabilità nei confronti delle collettività. Furono i medici a segnalare il rapporto causale tra malattia e povertà: era la carenza dei mezzi per vivere – cibo, riposo, igiene personale e ambientale, aria pura, acqua potabile – che precipitava singoli e comunità nelle spire dei malanni. Quelli su cui si concentrò l’attenzione furono i veicoli di affezioni epidemiche: l’aria e l’acqua in primo luogo. Acque stagnanti e miasmi atmosferici, appaiono all’alba del secolo XIX come i nemici principali della salute. E intanto veniva la battaglia nella lotta contro il vaiolo, prima con l’inoculazione preventiva e poi con la vaccinazione. La diffusione delle scoperte degli scienziati dovette fare i conti con la lentezza della penetrazione di novità nel campo della salute a causa della resistenza di pratiche tradizionali. Ma intanto fu proprio l’indirizzo della prevenzione e della tutela dell’igiene che si venne affermando. Lo sfondo dell’epoca nella vita delle società europee è quello dominato dalle innovazioni della Rivoluzione industriale e di quella agraria. Nell’età della Restaurazione, mentre la ventata di innovazioni politiche e giuridiche apportate dalla rivoluzione francese e tradotte in norme legislative dall’impero napoleonico si bloccava per la sconfitta di Napoleone, non conosceva soste, invece, la trasformazione economica e sociale. E anche nella società italiana, se ne avvertivano le conseguenze. La povertà cambiava aspetto e con la povertà andavano di pari passo le malattie. Se le epidemie di peste si allontanavano, si affacciavano altre forme di malanni diffusi su larga scala. Come si è visto, con Bernardino Ramazzini si era avuto la nascita di una attenzione della medicina per il rapporto tra la salute e il lavoro umano. Quello che ne era risultato aveva raggiunto i centri ospedalieri delle città, ma era stato importante anche per i medici che operavano nei piccoli centri e nelle campagne: presenze abituali, su cui si avviava a sovrintendere la formazione di una serie di situazioni e organi di controllo. L’assetto degli stati moderni richiedeva la loro opera in funzione d’una prevenzione adeguata contro le minacce di epidemie. Fu questa una tendenza generale nell’evoluzione della politica come scienza del governo della società. Se ne ebbe un esempio significativo nel corso del Settecento nelle terre dell’Impero, dove la diffusione della figura del medico provinciale si era affermata in conseguenza del trionfo di una precisa proposta: quella avanzata da J.O Franck (1745-1821). Il medico tedesco portò avanti la proposta della “polizia medica”, cioè della creazione di un sistema di regole e di istituzioni sanitarie in grado di sorvegliar e migliorare lo stato di salute della popolazione. Il medico diventava così un magistrato responsabile dell’elaborazione e del controllo di precise norme sociali necessarie per combattere le malattie. Di lui va ricordata quella una prolusione pavese del 1790 a cui fu dedicata quella che definì la madre di tutte le malattie: la miseria. Il corpo umano è una macchina, scrisse Frank, come tale è destinato a rompersi se le sostanze consumate dalla fatica non sono restaurate da sufficiente quantità e qualità di nutrimento. Così lo attenderà un ospedale dove sarà in agguato il contagio, insieme alla crudele trascuratezza destinata ai poveri. Era da ciò che derivava l’alta percentuale di morti, superiore alla media generale, che si registrava negli ospedali. Su quel mondo miserabile delle campagne, dominato dall’intreccio nefasto di povertà e malattia, si preparava così l’avanzata di questo nuovo e diverso tipo di intellettuale che fu il medico. È lui che comincia a occuparsi della salute dei corpi e dei bisogni materiali delle persone. Nel nome di B. Ramazzini e dietro l’insegnamento di J.P. Frank si fece avanzi una cultura medica che guardava finalmente al mondo del lavoro e alle minacce alla salute e alla vita delle persone recate dalla fatica e dalla miseria. La figura del medico entrava così in conflitto con quella del clero e delle parrocchie. In una prima fase storica della realtà italiana, nel mondo delle campagne aveva dominato l’autorità della Chiesa cattolica, unica titolare della guida morale e disciplinare del popolo. Ma nel mutato clima delle riforme settecentesche e ancora piu in quello dell’età rivoluzionaria e napoleonica il rapporto si venne modificando. Fu allora, ad esempio, che il dottor G. Barzellotti si dedicò a comporre istruzioni mediche destinate ai parroci di campagna al fine di aiutarli a consigliare e curare i loro fedeli. Barzellotti si occupò dello studio delle epidemie e l’attenzione alla “polizia di sanità”, che era nella sostanza l’attenzione all’igiene come metodica “per evitare i contagi”. Nel nuovo contesto del primo Ottocento il dottor Barzellotti concepì il disegno di una possibile collaborazione tra la scienza medica e l’opera del clero ai fini del progresso morale e sociale del popolo: la norma era espressione di un’epoca in cui la salvezza dell’anima veniva prima di quella del corpo e il pericolo della peste reale era meno importante dell’eresia, la peste della fede, aveva lungamente legato le mani ai medici. collettiva dei contadini. E alla fine della descrizione delle abitazioni, dopo aver condotto il lettore nella stanza dove il contadino passa la notte guardando attraverso i vuoti della costruzione le bestie che dormono nella stalla e le nuvole del cielo, il dottor Nardi mete sotto accusa l’economia che avvelena la convivenza umana: “Ah! Se i coloni potessero dappertutto avvicinarsi ai loro padroni; ma mano economa li separa, decantando sempre per buona la condizione infelice dei contadini”. Il suo sogno impossibile è quello di un rapporto umano tra coloni e proprietari: ma davanti alla realtà corrente non può trattenersi da una sdegnata denunzia del ricorso all’immagine virgiliana dei fortunati agricolae. Ma intanto, poiché siamo in area lombarda, bisogna ricordare che il contesto culturale è animato dai saggi di economia agraria di Carlo Cattaneo, il quale fu allora sicuramente il piu attento osservatore di quanto maturava fuori d’Italia. E qui incontriamo le prime significative prove di figure che troveremo di lì a poco impegnate nell’opera svolta dai governi del regno d’Itali nel secondo Ottocento in materia di agricoltura e contadini. Si tratta di uomini che guardarono all’agricoltura con l’ottica di riformatori impegnati a modernizzare e potenziarne la capacità produttiva, ma anche a migliorare le condizioni dei lavoratori dei campi. Alla scuola di Cattaneo si formò Cesare Correnti (1815-1888); la sua esperienza presso la Regia delegazione di Bergamo gli permise di contribuire alle celebri Notizie naturali e civili sulla Lombardia di Cattaneo progettate per il sesto Congresso degli scienziati italiani a Milano (1844), al quale presentò egli stesso un importante rapporto sul problema del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche. I dati furono offerti da un’indagine statistica, lo strumento di conoscenza e di governo che lui stesso doveva promuovere in seguito nell’Italia unita. Gravissima la realtà messa in luce dal rapporto: “fanciulli di dieci, di otto, cinque anni chiusi per tredici e talora per quindici ore in mefitiche officine, legati a un lavoro incessante, e quando piu la natura non poteva, colle percosse obbligati a muoversi ed a vegliare”. E tanto piu grave quanto piu appariva inesorabile conseguenza dell’avanzata internazionale della grande industriale: le macchine abolivano la fatica, da qui la sostituzione degli operai adulti con manodopera minorile che costava meno. Così anche nelle fabbriche dei distretti della Lombardia, nel bergamasco, in Sardegna. I fanciulli erano reclutati nelle campagne e immessi in ambienti che ne deformavano il corpo con la ripetitiva dei movimenti e ne mettevano a rischio l’integrità morale e fisica. Correnti guardava alla realtà inglese e da lì attingeva l’espressione di “tratta dei piccoli bianchi”. Ma intanto con loro e piu di loro si muovevano in difesa dei bambini le altre due categorie: parroci e medici. Cesare Correnti non vedeva via d’uscita da un processo che riteneva frutto di una ferrea necessità economica. Perciò le sue proposte si limitarono all’introduzione di piccoli interventi umanitari, per esempio fissare limiti d’orario all’impiego minorile e alternare il lavoro con la formazione. Resta evidente l’acutezza dello sguardo sul mutato rapporto tra agricoltura e industria all’interno di uno scenario internazionale dominato dalla Rivoluzione industriale: la famiglia contadina impoverita dall’avvento di logiche imprenditoriali in agricoltura non poteva sfuggire all’attrazione esercitata dal guadagno di figli in minore età. Quello che vedeva in atto era l’affermazione dell’industria di fabbrica che affondava le radici nella pluriattività della famiglia contadina. Com’è stato osservato, in Lombardia “l’industrializzazione fu un processo lungo e graduale svoltosi nelle campagne” dove era stata la seta a pagarne il conto. Le pagine di C. Correnti aprono ai nostri occhi lo scenario di una economia avanzata come quella lombarda osservato dal pdv di chi doveva diventare un protagonista della lotta per la liberazione dall’Austria e della storia politica italiana del secondo Ottocento. Correnti non fu seguace né ci Cattaneo né di Mazzini ma piuttosto cultore – come scrisse Benedetto Croce – della “forma razionalistica della dottrina del progresso”. Il Quarantotto lombardo lo ebbe tra i protagonisti, all’inizio ostile alle posizioni filo-Savoia dei moderati e comunque sempre convinto della necessità di una guerra di popolo. Ancora dalla lombardia, da Milano e dalla grande proprietà terriera viene la voce di un personaggio di tutto rispetto: STEFANO JACINI (1826-1891). Formatosi con studi severi ma soprattutto attengo alle condizioni e ai problemi della produzione agricola, dette alle stampe la sua pubblicazione ricca di analisi e di proposte innovative indirizzate alla classe dei proprietari per migliorare le redditività delle aziende. Vi sottolineava l’importanza dell’argomento discutendo le teorie di Malthus. L’assunto di Jacini era che della terra ben coltivata e dall’impegno di una classe di proprietari assidui nella direzione delle aziende si potevano ottenere grandi risultati. Dei contadini forniva una precisa analisi non trascurando le loro condizioni di salute, le malattie prevalenti, la condizioni delle madri e quelle dei minori, noncè la qualità delle abitazioni. La valutazione complessiva dello stato delle cose data da Jacini era positiva. Si può affermare senza incertezze che i contadini erano per lui una “classe oggetto”. Ben diversamente cupa la descrizione dello stato materiale e morale dei contadini lombardi che venne proposta intorno alla metà dell’Ottocento dai resoconti del medico condotto Ercole Ferrario (1816-1897). Aveva svolto un’indagine per chiarire le cause di alcune morti improvvise. Le vittime erano contadini in età ancora giovane e di costituzione robusta. L’unica cosa che avevano in comune era il duro lavoro estivo nelle campagne del vicino Piemonte per la crivellatura del grano raccolto. Era un lavoro di grande fatica e impegno muscolare, per di piu sotto la sferza del sole estivo. C’era il sospetto che quelle morti derivassero dall’enorme quantità di polveri respirate nel corso del duro lavoro: già Ramazzini aveva richiamato l’attenzione sulle polveri come fattore patogeno. Ma l’autopsia dei due morti, ottenuta con qualche difficoltà per la resistenza dei familiari, rivelò che si era trattato di pleuriti doppie fulminanti. Erano stati i violenti sbalzi di temperatura di corpi surriscaldati dal sole e dalla fatica e poi esposti seminudi al fresco della notte. I due casi clinici diventarono nelle sue pagine di persone: Giuseppe e Vincenzo, entrambi morti di notte. L’apparizione dei nomi era un fatto insolito: l’oggettività impersonale della statistica facilitava la percezione di quel popolo delle campagne come un tutto indistinto. E dall’altra parte nella tradizione letteraria italiana il contadino non aveva quasi mai ricevuto l’onore di un nome proprio; soprannomi sì. Scrisse che davanti a quelle morti “i parenti si veggono privi di una cara e utile persona”. L’apprendista volle essere un medico condotto nelle campagne. Ne descrisse in piu occasioni la povertà e la durezza delle condizioni di esistenza. In un articolo del 1846 raccontò cosa fossero quelle veglie nelle stalle dove passavano le giornate e le notti d’inverno. Vi si raccoglievano (p. 90) E la mente del medico correva subito al dogma sanitario della salubrità dell’aria. Durante le giornate milanesi nel 1848 si dedicò all’assistenza ai feriti nell’ospedale militare di Sant’Ambrogio, chiamato da Agostino Bertani. Tra i due scattò un forte sentimento di amicizia e di solidarietà. I resoconti di Ferrario sono un documento straordinario del fervore con cui si viveva quella guerra di popolo. In mezzo ai volanti accorsi sulle neve dell’alta montana pronti a combattere c’erano giovani arrivati dalle campagne, privi di vesti e di scarpe, che vigilavano e dormivano all’addiaccio. Fu un Quarantotto democratico e popolare, di gente che volve libertà e giustizia. Non per niente quella lotta fu poco gradita dal partito moderato che preferiva attendere l’esercito di Carlo Alberto. Dopo l’Unità tornò ancora a piu riprese sull’argomento dei contadini. Ma intanto gli va riconosciuto il merito di avere maturato una coscienza del problema italiano che lo portò a legare la lotta contro l’oppressivo regime austriaco con l’impegno personale e intellettuale a favore delle classi diseredate dei lavorati terra terra. Secondo Ippolito Nievo (foto p. 92) Da cui Nievo ricava l’appello a migliorare subito “le condizioni del volgo campagnuolo”. Questione religiosa e questione sociale erano a suo avviso i nodi da sciogliere per giungere all’unità nazionale: bisognava passare attraverso il popolo delle campagne. La coscienza delle necessità di avvicinarsi ai lavoratori delle campagne assumeva toni meno drammatici nelle iniziative di altri membri del mondo della cultura intese piuttosto a portare lumi di conoscenze tecniche e agronomiche nuove. “Amico del contadino” l’almanacco agrario di Cantoni. Anche in Veneto fu creato un giornale da parte di Gherardo Freschi con finalità simili: la divulgazione di informazioni utili per i coltivatori della terra. Freschi ebbe in comune con Cantoni l’interesse per il problema della pebrina, la malattia che minacciava gli allevamenti di bachi da seta. Ebbene anche progetti rivoluzionari per il suo popolo. L’autore dell’almanacco lombardo, il milanese Gaetano Cantoni, era figlio del primario dell’Ospedale Maggiore. Siamo davanti a membri della piu avanzata classe intellettuale lombarda che concepivano il rapporto con i lavorato delle campagne e i loro problemi come un punto chiave nella prospettiva di un progetto politico e sociale mirante all’unificazione italiana. L’agricoltura fu vista da Gaetano come un pratica economica fondamentale, che a suo avviso bisognava far progredire coi lumi della scienza. Convertitosi agli studi agronomia, fu per tutta la durata della sua vita dedito impegni e incarichi politici e istituzionali che ebbero a che fare con l’agricoltura. Costretto all’esilio in Svizzera dopo le cinque giornate di Milano, una volta tornato nella Lombardia italiana continuò ad occuparsi di agricoltura. La preoccupazione di migliorare le tecniche agricole e di elevare la preparazione dei coltivatori la ritroviamo dominante nell’opera di un giornalista e scrittore veneto, Antonio Caccianiga, in uno dei suoi molti critti espressi il suo pensiero con questo auspicio “come i generali si mettono alla testa delle loro armate, e le guidano alla vittoria, così i possidenti si mettano alla testa dei loro coloni e li guidino alla civiltà”. E lo strumento per raggiungere la civiltà era il libro. Anche per l’almanacco di Cantoni il sottotitolo chiariva chi fossero i destinati della pubblicazione: si rivolgeva ai padroni, l’unica classe in grado di leggere. L’ambiguità del termina “agricoltore” doveva permanere a lungo, a distinguere una classe potente e rispettata da una plebe contadina priva di titoli di studio e di diritti. Il problema non si limitò all’Ottocento, ma allora piu di sempre i proprietari terrieri furono un blocco sociale diviso da molte differenze interne ma dotato di grande solidità e autorevolezza: una vera classe dirigente nell’Italia appena nata, quasi allo stesso titolo di quella nobilità terriera degli Junker che dominò nella Germania unita. Cantoni intendeva far recepire nell’agricoltura padana le novità sperimentate altrove e insegnare i segreti per ottenere maggiori rese, prodotti piu abbondanti e migliori. Ma sperava che lo leggessero almeno i piccoli proprietari e i fattori, cioè le categorie piu acculturati e piu interessate ai progressi dell’agricoltura, quelle che seguivano da vicino o praticavano di persone le tecniche della coltivazione. Di fatto quei “campagnuoli istrutti” a cui si rivolgeva restavano una minoranza, selezionata anche dalla molta scienza profusa in quelle fittissime pagine. Abbiamo per esempio il secondo volume del Trattato e alla prima pagina ci troviamo davanti alla voce Pomi di terra (inesatta la parola “Patate”, spiegava l’autore) seguita dal termine scientifico latino corrispondente, nonché da una valanga di dottissime nozioni. E questo dà un’idea del livello del pubblico a cui si rivolgeva. Il lettore doveva avere non solo la pazienza ma anche la scienza necessaria per avventurarsi nella selva di nozioni raccolte in quelle fittissime pagine. C’era dell’ardimento nella volontà dell’autore di divulgare le conoscenze scientifiche basilari per l’agricoltura. Conoscenze di cui fu non solo raccoglitore ma anche autore: fu lui a scoprire come sconfiggere la pebrina del baco da seta che spesso mandava in malora un raccolto prezioso per il contadino. Ma non lo attirava l’ambizione dello scienziato quanto piuttosto l’obiettivo di innalzare il livello della cultura agronomica nelle campagne. E così quella sua scoperta rimase poco nota: doveva essere Pasteur a raggiungere autonomamente stesso risultato a diffonderlo sotto il proprio nome. L’esperienza del Quarantotto trovò proprio in Giovanni Cantoni un osservatore particolarmente attento. Due anni dopo, in esilio in Svizzera, fu lui a pubblicare sul giornale “L’Italia del popolo” due articoli sul fallimento del Quarantotto milanese. Si tratta di un’analisi di grande interesse. Vi si rievocava la risposta corale data dai contadini lombardi all’invito a unirsi alla città nella lotta contro gli austriaci. Un episodio importante, generalmente occultato nella retorica sabauda della storiografia risorgimentista, ma anche in seguito rimasta in ombra per altre e diverse ragioni. Eppure, c’era quella testimonianza de visu di uno spettatore che si chiamava Carlo Cattaneo (p. 95) Un passo straordinariamente suggestivo con quelle strade bianche di polvere che improvvisamente si oscurano mentre parte la fucileria. Era una lotta per la libertà, non solo per l’indipendenza dell’Austria. E ancora si ribadiva il modello del “buon contadino”: era colui che sapeva stare al suo posto e obbedire al padrone, evitava lussi superflui, frequentava la Chiesa, non bestemmiava, mandava i fili alla dottrina cristiana. E soprattutto evitava ogni tentazione di salire i gradini della scala sociale. Dalle parole di Martini emerge anche la sua concezione del posto della donna e di come si dovessero regolare i consumi sessuali: l’importante era tenersi lontani dalla città, luogo di pericolose contaminazioni. Siamo davanti a un “paternalismo autoritario cattolico”, in netto contrasto con l’evoluzione in atto nei costumi del mondo bracciantile padano. Tuttavia, almeno per un aspetto si aggrappava quanto di buono era stato concepito dai riformatori e agronomi del Settecento: il ricorso alla scuola e alla stampa per diffondere nelle campagne un sapere utile. La preoccupazione di Martini era quella di frenare piuttosto che di promuovere l’accesso al sapere dei contadini. Poche le cose che nel loro ambiente si dovevano sapere: p.103 Della classe di cui era figlio vedeva solo i difetti: contadino come sinonimo di mancanza d’igiene che ormai stava diventando generale. C’erano poi tutte le altre carenze o le vere e proprie colpe che macchiavano quella condizione sociale e la rendevano impresentabile: per esempio, l’abitudine alla bestemmia, l’assenza ai riti religiosi, i vizi come il tabacco, la pipa, il fazzoletto da collo. Il popolo delle campagne stava vivendo qualcosa di nuovo, il mutamento investiva la figura e la condizione della donna, anello forte della famiglia contadina e garante tradizione del vincolo tra la famiglia e la Chiesa. Le donne di campagna col loro lavoro a parte – filatura, tessitura, ricamo, allevamento del pollame – si guadagnavano del denaro e con questo si pagavano qualche fronzolo dai venditori ambulanti. Era un rivolo di economia monetaria che cominciava a entrare nel sistema chiudo delle famiglie di coltivatori e che da tempo preoccupava il clero. Di quel mondo delle campagne monsignor Martini raccolta molte cose. Ricorda tra altre cose il rito dell’ultimo giorno di febbraio Quando si bandivano in pubblico gli amorazzi giovanili al suono di un “menare di maciulle ossia di gramole, ed n battere di coperchi da tegghie”. Ma non dimenticava di parlare della dura vita quotidiana delle risaie e del colera. Il sacerdote mantovano non vedeva di buon occhio l’avanza di una nuova figura, il medico. Medicina, igiene: due parole che stavano diventando di attualità nell’Italia di quegli anni. Martini li riteneva incapaci di farsi ascoltare di contadini. Figura presente da secoli nella società italiana, insediato nella fitta rete di parrocchie rurali grazie al disegno di una Chiesa tridentina tesa al radicamento in profondità nel mondo delle classi popolari, era diventato l’indispensabile punto di riferimento per le fondamentali occorrenze della vita di chiunque, dalla nascita alla morte. Così entrava nella vita quotidiana del popolo, conosceva i problemi materiali delle persone e i loro sentimenti e i pensieri. Il parroco, inserito com’era nell’assetto istituzionale della Chiesa, era anche colui che di tutto doveva rendere conto al vescovo per la compilazione dello “stato delle anime” negli atti della periodica visita diocesana. Vi si registravano nomi e dati di un’anagrafe che solo con l’avanzata dello Stato moderno stava passando in mano a funzionari pubblici: quanti erano i nati e i morti, quanti i battezzati e i confessati, quanti i coniugi. Ed era lui che svolgeva l’ufficio di insegnante nella scuola parrocchiale, per molto tempo l’unica esistente per i contadini. Ebbene, basta un breve controllo sugli atti delle visite diocesane e su ciò che i vescovi scrivevano nelle loro lettere pastorali per constatare che visi parlava solo della pratica sacramentale dei contadini, dei loro vizi e peccati piu diffusi, della superstizione e dell’ignoranza religiosa. Tale è il silenzio su tutto il resto che perfino uno degli editori di questo genere di documenti ha espresso la sua meraviglia quando ha dovuto registrare le assenze nelle carte ecclesiastiche di riferimenti alla realtà degli scioperi e delle rivolte dei braccianti degli anni Ottanta del secolo. PARTE SECONDA: L’INIZIATIVA DEI MEDICI E QUELLA STATALE 7. PROBLEMI DI SANITÀ NELLA NUOVA ITALIA Il cambiamento che allontana quell’Italia del 1861 dalla nostra è stato per universale consenso no dei piu radicali e profondi che si conoscano. L’indizio principale riguarda il benessere collettivo, un dato al quale si guarda sempre piu come a una conquista oggi in pericolo: “in un secolo e mezzo il reddito medio degli italiani è cresciuto di quasi 13 volte”. Tuttavia seguendo la logica dei valori medi si rischia di perdere la scala delle differenze interne, la possibilità di capire se la crescita ha coinvolto l’intera società nazionale. Si è così sostenuto che “la disponibilità di calorie per abitante fu relativamente abbondante fin dagli inizi del Regno” e che “la popolazione italiana non avrebbe mai sofferto – mediamente – di un deficit energetico e avrebbe sperimentato miglioramenti significativi tanto in termini di disponibilità energetiche quanto di qualità della dieta anche nei primi cinquant’anni di stori unitaria”. Mediamente appunto. Ma solo attraverso una lettura analitica delle fonti sarà possibile capire chi mangiava due polli e chi nulla, chi occupava palazzi e chi abitava sotto un tetto di erbe e di canne. Basta leggere le statistiche sanitarie dell’Ottocento per constare che su molti italiani gravarono necessità estreme di alimentazione e di protezione dalle intemperie. Se la barriera dell’igiene può servirci da guida, si tratta di capire quando e come si avvertì la necessità che le campagne italiane la superassero. Tuttavia, non c’è dubbio sul fatto che col mutamento sociale del paese è intervenuta anche una trasformazione antropologica dei suoi abitanti. Qualcosa ce lo possono dire i dati statistici: da cui impariamo che l’esistenza degli italiani si è allungata. Inoltre gli italiani in un secolo sono cresciuti in altezza media di almeno dieci centimetri e lo sappiamo grazie ad un generale messo a capo delle operazioni di reclutamento che raccolse sistematicamente il dato della statura. Ma c’è una scoperta importate che permette di capire la ragione dell’accrescimento dell’altezza media: un saggio dimostrò lo stretto rapporto di causa ed effetto esistente tra alimentazione, igiene e crescita fisica. Dai dati di quelle visite di leva dopo l’Unità emerge l’alto numero di giovani (per lo piu contadini) risultati inadatti per deficienze fisiche: la bassa statura, ma anche il gozzo, il rachitismo, la pellagra ecc. attraverso le descrizioni ritroviamo gli italiani che si riscontravano nei campi: corpi non solo piu piccoli di quelli dei loro discendenti, ma piegati e deformati dalle posture del lavoro dalla fatica, i volti precocemente invecchiati, solcati da infinite rughe. Nella nuova Italia nata come monarchia sabauda i problemi del lavoro e della salute si resero subito evidenti, prendendo atto dei dati gravi rilevati dal primo censimento datato 1861. Fino ad allora, solo all’interno della classe medica si era fatta strada quella “consapevolezza di un radicato e diffuso malessere sanitario che condannava l’Italia ad una avvilente posizione di inferiorità rispetto ai piu evoluti paesi europei”. Ma ora furono i governanti liberali del paese a doverne prendere atto e a concepire modi e forme per ridurre tale inferiorità. Strategie del mascherare furono usate nei confronti di tutto ciò che appariva offensivo dell’Italia: esempio dei piccoli migranti affidati dalle famiglie a imprenditori della miseria che li portavano in giro anche all’estero, una di quelle migrazioni stagionali che portavano all’estero nei mesi invernali figli di famiglie che non avevano di che vivere in Italia. L’ostilità delle autorità politiche scoraggiò quell’itineranza fuori dai confini e bollò quei fenomeni con gli stereotipi lombrosiani delle razze inferiori. Cominciava intanto anche così un esercizio: il confronto assillante fra i dati del paese Italia e quelli di nazioni di piu lunga esistenza e piu robusta costituzione – Francia, Belgio, Inghilterra. Dalle statistiche emergeva il ritratto di un paese nuovo, carico di tanti problemi ma che risultava anche anagraficamente giovane. Nel primo decennio dell’Unità, l’età media della popolazione era di 27 anni. Ma proprio i dati relativi all’infanzia erano negativi: altissima mortalità infantile, che toccava un 95% nel primo mese di vita. L’incidenza delle malattie infantile era altissima. I tipi prevalente di affezioni mortali parlavano di ambienti freddi e malsani e di assenza di igiene. Quelli che sopravvivevano erano nella loro stragrande maggioranza destinati a sperimentare molto presto un’infanzia senza scuola e con precoce avvio alla fatica del lavoro. Le statistiche dei primi anni dell’Italia unitaria ci dicono che l’alfabetismo come fenomeno generale riguardava il 70% della popolazione maschile e l’80% di quella femminile: ma se lo si misurava sui contadini la percentuale si avvicinava al 100%. Al momento dell’unità, la classe dirigente del paese ne conosceva bene almeno due contadini analfabeti, Renzo e Lucia, i protagonisti scelti da Alessandro Manzoni per il suo romanzo. E così qualcosa fu fatto per aprire la scuola ai figli delle classi popolari. Ma solo sulla carta, perché a fronte della legge Casati del 1859 restava la dura legge del bisogno a costringere al lavoro i minorenni delle campagne e delle fabbriche anche là dove i Comuni furono disposti a investire i mezzi necessari. Il divario con altre realtà statali europee si ravvisò però soprattutto nei dati sulla mortalità infantile: il fenomeno grave non risparmiava neanche la piu evoluta realtà contadina della Lombardia. Stefano Jacini nella sua opera sull’agricoltura lombard aveva segnalato l’incidenza della mortalità perinatale e infantile e l’aveva spiegata così: “ne son causa gli stenti delle donne incinte e delle puerpere, e la mancanza di tempo a cui sono ridotte le madri, in alcuni luoghi per le occupazioni campestri, in altri per il soverchio lavoro estivo delle filande”. Era di fondamentale importanza garantire la consistenza numerica e la salute dei sudditi, visti come il nerbo dello Stato non solo per l’economia nazionale ma anche e soprattutto per la formazione di un esercito adeguato alle ambizioni militari della tradizione sabauda. Fu il ministro della Guerra a inviare circolari su circolari ai prefetti del Regno per raccogliere dati statistici sullo stato di salute dei giovani. P. 113 Fu con la visita di leva dei figli maschi che gran parte degli abitanti della penisola e delle isole scoprirono di essere diventati italiani. Questa doveva risultare una delle novità piu amare per il mondo meridionale e delle isole dove l’obbligo non esisteva. Fu soprattutto di giovani contadini che i dati raccolti dalle prefetture dell’Ottocento rivelarono le deficienze gravi di salute, di robustezza, di altezza. Il germe del nazionalismo aggressivo e l’ambizione di dotarsi di un esercito forte presero forma con le frustrazioni e le tragedie della guerra civile nel Mezzogiorno e della campagna militare del 1866. Ma intanto da piu aprti e d auna pluralità di voci si indicavano i gravi problemi delle classi popolari nella società italiana. Erano gl istessi membri dell’amministrazione che inviati in varie parti del nuovo Stato, si dedicavano all’esplorazione della realtà sociale. Di pertinenza è stato sottolineato il caso di Giacinto Scelsi che i n20 anni elaborò ben sette di queste monografie. P. 114 Non siamo lontani dalla descrizione offerta anni prima dal dottor Salvatore De Renzi; ma qui traspare il disgusto del coscienzioso e attento funzionario statale di origine Piemonte davanti agli odori e alla sporcizia. E all’igiene era strettamente legato anche l’obiettivo primario dei governi: la riduzione della mortalità infantile, in primo luogo le molte e diverse epidemie che periodicamente aggredivano la popolazione. Nel corso del XIX secolo si aprirono nuove prospettive di vita con le scoperte della microbiologia, che rivelarono l’esistenza di aggressori micidiali quanto fino allora invisibili. Erano nemici concreti: diventava possibile combattere piu efficacemente le malattie endemiche. Ma non per questo si faceva minore importanza di prestare attenzione ai fattori di infezione. Camillo Golgi, diventato celebre per le scoperte sul sistema nervoso che gli fecero meritare il premio Nobel. A lui si dovettero le fondamentali ricerche sulla malaria che gli permisero di individuare il momento giusto in cui ricorre ala chinino; egli compì le sue ricerche sulla malaria nell’ambiente delle risaie. Il suo è uno dei tanti esempi dell’impegno profuso dai medici nell’Italia appena unificata politicamente per colmare il divario esistente con le nazioni piu antiche e piu progredite. L’impegno dei medici si legò allora nell’Italia di recente costituita a Nazione a un impegno direttamente politico e sociale. Fu allora che l’igiene legandosi a filo doppio alla statistica divenne la stella polare della cultura della corporazione sanitarie nell’opera di stimolo all’azione del governo. La parola “igiene” conobbe una vasta diffusione e acquisì una importanza fino ad allora sconosciuta. Se ne elaborarono teorie e slogan e la si incontra nelle leggi e nella saggistica medica, ma anche nelle gazzette e nella letteratura d’epoca. Era nei nuovi cimiteri che la si incontrava. Da qui la definizione di “sacerdozio” per l’ufficio del medico. Anche perché il fatto stesso dell’ingresso nelle case portava a renderlo il confidente dei segreti piu intimi. Naturalmente anche il solo potere di lenire i dolori conferiva al medico una posizione di assoluto rispetto nella gerarchia morale delle classi popolari. Ci fu un altro terreno sul quale l’opera del medico condotto doveva assumere caratteri simili a quella dei parroci: proprio a lui venne affidato il compito di redigere informazioni sulle condizioni sanitarie degli abitanti dei Comuni. Così si venne costituendo un patrimonio di dati parallelo rispetto a quello che intanto si depositava negli atti delle visite diocesane grazie alle informazioni del parroco al vescovo in visita. E questo è solo un esempio di come nelle condizioni date delle cultura dell’Ottocento, scienza e fede erano destinate a incontrarsi e a scontrarsi. Intanto l’ambiente culturale e sociale dei medici fu importante anche perchè nelle loro case, austeramente arredate ma spesso ricche di libri, avveniva la prima formazione dei figli, i quali si incontrarono poi nella storia della cultura e di quella letteraria. C’era poi un terzo protagonista, il proprietario terriero: il quale poteva condividere col medico la fiducia nella scienza positiva, ma aveva bisogno della Chiesa per garantirsi la soggezione del popolo. Figure eminenti della cultura cattolico-liberale, come Gino Capponi, gran difensore della mezzadria, teorizzarono e praticarono forme paternalistiche di gestione dei rapporti di proprietà, ma il padrone non dimenticava mai che era la religione la arma piu sicura contro la rivolta sociale nelle campagne. Lo si vede quando nel tardo Ottocento la nascita di leghe contadine e la protesta contro la tassa sul macinato resero inquieti i sonni della borghesia liberale anche i proprietari terrieri liberali che della religione tradizionale avevano scarso rispetto non rinunziarono a servirsi dell’aiuto del clero per tenere a freno il popolo delle campagne. Del resto quando il pericolo sembrò incombente ricorsero all’imposizione della religione come materia d’obbligo nella scuola pubblica. Fu esattamente ai proprietari terrieri e ai parroci che i medici si trovarono costretti a rivolgersi quando tentarono di intervenire nella vita quotidiana dei contadini. Il che accadde sempre piu a partire dal momento storico in cui prese forma l’assetto del governo dell’Italia unita e vi si dovette regolare la forma del controllo sanitario della società. Lo strumento ordinario fu la statistica. Fu così che nell’avvio del nuovo Stato si registrò un forte impulso dato alla misurazione dei fatti sociali. Già nel 1858 era cominciato a uscire a stampa “l’annuario statistico italiano”. Intanto la Divisione di statistica, istituita nel 1861 pose attenzione alle differenze regionali e ai problemi sociali. La suddivisione in Italia in 18 compartimenti statistici – poi sostituiti dalle Province – mise in evidenza una volontà di rispecchiare le differenze tra quelle che solo faticosamente vennero prendendo forma di Regioni. A capo della cellula elementare della costruzione, il Comune, fu insediato un sindaco, non elettivo ma di nomina regia. La conseguenza è che sulla testa dell’amministrazione comunale piovvero moltissime incombenze – in modo speciale quelle relativa all’organizzazione sanitaria e alla questione dell’igiene – e un diluvio di richieste di dati: numero di abitanti, distribuzione per età, sesso, condizioni sociali, loro attività, risorse disponibili nell’agricoltura e nelle attività produttive. La statistica si legò fin dal suo sviluppo iniziale con le informazioni offerte dalla storia e dalla geografia, procedendo una scienza integrata dei luoghi, la topografia. Intanto nasceva l’Associazione medica italiana (1862) s i infittiva la presenza dei medici nel paese e in Parlamento. In quell’insieme aggregato di dati con cui la statistica rappresentava lo Stato unitario, fondamentali fra tutti apparvero fin dall’inizio quelli che mostravano come la povertà e la pessima qualità dell’alimentazione e delle condizioni di vita dei popoli inflissero sulla salute e sulla durata dell’esistenza. Furono le statistiche a sfornare le informazioni sintetiche, dettate da numeri di cui si sono visti alcuni esempio, sullo stato precario di salute degli italiani. Il compito di governar il territorio dei dipartimento in cui fu divisa all’inizio l’Italia venne dunque affidato agli Uffici di igiene. E l’anello destinato a connettere l’apparato sanitario dello stato con la popolazione, fu il medico condotto, figura non nuova, presente in gran parte del paese ben prima dell’Unità, anche se in forme diverse e con diversi nomi. In Sicilia c’era l’antica istituzione del protomedicato risalente al Quattrocento che si articolava in presenza di protomedici in ogni Comune. Il protomedico aveva il dovere di curare gratuitamente i “miserabili” cioè la categoria dei piu poveri, ma poteva in compenso esigere un compenso dalle classi piu ricche. In lombardia nel 1842 si fruiva dell’esercente sanitario. Nel lombardo-Veneto e in Toscana da secoli la condotta era l’atto o il contratto con cui si conduceva qualcuno a esercitare un ufficio pubblico – medico o maestro e altro ancora. Ora si tese a renderla sistematica presente, se ne precisarono i compiti, l’accesso all’incarico e la retribuzione. Il compito riguardava la cura della salute dei singoli e l’attenzione alla salubrità dei contesti, servendosi dell’opera di figure istituzionali come il farmacista, il lobotomo e la levatrice. Lo stipendio per le condotte variava a seconda del luogo di destinazione e dei mezzi richieste al medico per raggiungere i suoi pazienti: il cavallo, la carrozza. Is capisce cos che se non ci fu un rande entusiasmo da parte dei canditati per quella carriera, non fu grande nemmeno la diligenza dei Comune nel bandire i relativi concorsi. Si calcolava che a ogni medico condotto spettasse il compito di provvedere un territorio di 23 chilometri quadrati; ed erano ben cinque le regioni dove l personale medico scarseggiava in rapporto alla superficie. (p. 130) Esempi concreti dei rischi e della durezza della professione: il titolare della condotta, obbligato com’era a curare gratis tutti “i poveri miserabili” dell’area comunale, si trovava di davanti a situazioni come quella della Maremma, dove una moltitudine di agricoltori si affollava durante l’estate in villaggi provvisori di quattro o cinquecento abitanti, infestati dalla malaria. Ma era pur vero che i contadini si rivolgevano al medico solo per i gravi e per i morenti. Il che riduceva il carico di lavoro. Il memoriale del dottor Feroci dava espressione a un sentimento di appassionata e convinta dedizione a una missione del cui valore morale e civile era profondamente convinto. E trovava motivo di orgoglio nazionale nel fatto che le campagne italiane potevano contare su di numero di medici condotti piu alto di quello delle campagne della Francia: un dato confermato dagli studi storici. Testimone della presenza e della diffusione di questa figura sociale, la letteratura del tempo ne fece un personaggio di commedie, epigrammi e racconti che ne misero in evidenza tratti fra l’eroico e il caricaturale: un’arte, quella del medico condotto, mal pagata, esposta a tutti i rischi e le fatiche di chi era costretto a cavalcate notturne per quella minoranza di clienti che pagava, magari in mezzo alla neve e al fango di sentieri di montagna. Tuttavia nessuno dei nostri scrittori riuscì nemmeno lontanamente a cogliere le dignitose strettezze e il desolato paesaggio sociale della vita un medico condotto come fece Flaubert: il quale guardò a quello scenario attraverso lo specchio dei sentimenti di Madame Bovary. Nell’Italia unita la categoria del medico condotto doveva conoscere un forte impulso di crescita numerica e di organizzazione istituzionale. L’offerta di un impiego pubblico si legò all’incremento dei laureati in Medici. Intanto emergeva la coscienza del legame profondo che il medico poteva costruite col popolo. Uomo del popolo talvolta anche per le origini sociali; ma uomo che col popolo doveva comunque instaurare rapporti di protezione e di solidarietà. Del resto, non fu per caso se alla fine dell’Ottocento si registrò tra i medici una diffusa tendenza politica socialista. I medici furono una speciale ricchezza italiana se confrontati con quelli di altri paesi. C’erano sei dottori per ogni 10mila abitanti, una percentuale pari a quella inglese, di lunga superiore a quella tedesca e francese. Dallo speciale rapporto instaurato con il popolo, deriva l’inevitabile collaborazione – ma anche concorrenza – del medico con il parroco. La qualità del lavoro nelle campagne stava rapidamente mutando proprio in quegli anni. Perfino nella descrizione che ne faceva monsignor Luigi Martini, così nostalgicamente dominata dalla memoria della figura paterna, abbiamo colto diffidenze e timore per qualcosa che stava accadendo. Dalle relazioni e dalle proposte dei medici su quell’area dell’Italia padana venne emergendo un quadro grave e preoccupante, molto diverso da quello dipinto da Martini. Il sacerdote mantovano aveva descritto un mondo contadino ideale, fatto di buoni sentimenti e di placida serenità patriarcale, dove le uniche macchie preoccupanti si riducevano a qualche segno di pratiche moralmente negative. Invece lo sguardo dei medici di quei primi anni postunitari colse in quelle stesse campagne una gravissima situazione di povertà e di malattie diffuse. Se ne ha un’idea leggendo quello che scriva nel 1864 un medico, il dottor Ercole Ferrario (già incontrato). Il tema era la condizion del popolo dei lavoratori delle campagne nelle sue dimensioni non solo oggettive ma ance soggettive all’interno di un ambito delimitato da Ferrario con lombard concretezza. E un’eco del suo Cattaneo si avverte fin dal tema proposto, quello dell ostato materiale, intellettuale, morale dei contadini. Qui si ha un esempio della visione che un medico aveva della realtà sociale dei lavoratori dei campi ma anche del giudizio che dava della loro economia morale. Ferrario invitava il colto pubblico borghese e cittadino a capire la morale “loro” a partire dalla differenza con “la nostra”, in modo da penetrare davvero all’interno della prospettiva di quel mondo. E anche sulla religione dei contadini ci sono dei passaggi notevoli per l’acutezza con cui Ferrario analizzava l’intreccio fra la ritualità esteriormente cattolica e le convinzioni degni di una setta catara medievale. P.134 Al fondo di tutto quello che gli appariva incomprensibile o criticabile, riconosceva almeno una causa grave e incancellabile: la miseria. Come porre rimedio a quello stato di cose non era chiaro per l’autore: a meno di non imboccare la strada delle fantasie pedagogiche, tutte concordi nell’individuale la necessità di educatore benevoli che si dedicassero a dialogare coi contadini portando loro un sapere concreto fatto di regole di buona condotta ma anche di nozioni agronomiche. Tali educatori il Ferrario li vedeva nelle due figure obbligate ad apparire sempre in questi casi: il buon prete e il buon padrone. Perché ad esempio i padroni invece di avviare tutti i figli alle professioni liberali, non ne formavano uno nelle scienze agronomiche per farlo diventare amministratore dell’azienda agraria paterna? Piu concreto e piu efficace diventa lo scritto del dottor Ferrario quando affronta l’esame delle condizioni materiali del popolo delle campagne. La sua base di esperienza era costituita da quello che aveva visto e conosciuto nelle terre tra Milano e Como. Vi distingueva quattro classi di agricoltori: i proprietari di grandi tenute, i fittavoli, i piccoli proprietari coltivatori, i nullatenenti. Era su quest’ultima categoria che si concentrava il suo esame. Scorrendo le sue pagine ci si imbatte in descrizione che già abbiamo letto, veri e propri stereotipi: case poco sane, sudice, concime nei cortili. Il dottor Ferrario registrava quei dati materiali senza ricavarne sentimento di disprezzo e senza ritirarsi a schifosa distanza. Quel che era chiaro per lui era la causa primaria di tutto, la povertà. Vediamo intanto qualche aspetto oggettivo della miseria. In primo luogo, l’alimentazione. Quella dei contadini rimane limitato a quanto censito dalle indagini precedenti: frumento cotto in polenta, patate, verdure, carne solo a Natale. Trovava dannoso il costume di passare i mesi invernali senza far nulla, chiusi nelle stalle a respirare l’aria umida, ma piena miasmi delle feci dei bovini, causa, secondo lui, del cattivo stato di salute. Erano lì che venivano messi in circolazione tanti “sciocchi racconti“ capaci solo di diffondere superstiziose credenze in streghe e malocchio. Lo scritto del dottor Ferrario rivela anche uno sguardo attento ai cambiamenti nel breve periodo: fu lui a notare che con l’avvento del nuovo regime politico i contadini avevano peggiorato la loro condizione: tasse dei comuni erano aumenti, era venuta a mancare la filatura del cotone e per di piu la malaria delle viti aveva ridotto gli introiti del vino. Così mentre si accendeva il contrasto politico tra la nuova Italia e il papato, i contadini avevano cominciato a rimpiangere il passato regime austriaco perché allora avevano conosciuto migliori condizioni di vita e minori gravami. È registrata anche il fallimento dell’educazione scolastica e del tentativo di imporre ai giovani il fiorentino di Manzoni: un esame delle lettere dei coscritti alle famiglie gli mostrava regressione alla solo lingua che conoscevano, il dialetto. Ritornando a distanza di anni a trattare delle moralità dei contadini in uno scritto col quale concorse a un premio bandito dall’Istituto lombardo per un libro “diretto al miglioramento morale de’ campagnuoli”, il dottor Ferrario riprese alcuni temi di quel saggio richiamando ancora l’attenzione sulla povertà e sulla fame dei contadini. Un altro caso è quello del dottor Carlo Nardi che nella sua ricerca sull’argomento pubblicata nel 1836 aveva registrato con cura i sintomi rilevanti nelle migliaia di contadini curati nel suo reparto. Nardi ne aveva riconosciuto i caratteri sintomatici del malanno. P.147 non era contagiosa seconda lui. L’unico dato certo era il nesso con l’alimentazione a base di mais. Ma la fonte del malanno non era il cibo: era la povertà, il “cattivo e scarso nutrimento”. E c’era una sola cura: bisognava tenere gli individui in case quiete, lontane dalle campagne e dalla fatica, con una sano alimentazione. Ne era così convinto da elaborare un complicato e macchinoso progetto di esperimento sociale, da affidare a medici, parroci e proprietari terrieri: bisognava costruire case contadine fornire di vasche per i bagni necessari contro la pellagra e impedire ai coltivatori della terra di superare rigidi limiti orari di lavoro, secondo uno schema che richiedeva però una complessa organizzazione sociale. La descrizione è lunga e dettagliata. Siamo davanti a un disegno che sembra uscito dagli scritti di Fourier. Si erano lette descrizioni di società perfette, dotate nello stesso misto di disciplina tirannica e di benessere collettivo, come quello del macchinoso sistema ideato dal dottor Nardi. Né parroci è proprietari dettero segni di interesse per la proposta. Non c’è da stupirsi se nemmeno i tanti medici che affrontarono il problema della pellagra dedicarono qualche segno di attenzione all’opera del dottor Nardi. Davanti all’utopia sociale c’era come sempre pronta a levarsi l’obiezione del buon senso: come si potevano curare i contadini “con ciò che non hanno”?. La società liberare rispondeva indicando le bronzee catene della miseria e della subalternità sociale. Quali fossero le cause del peggioramento divenne una questione molto discussa. Si riaffacciò innanzitutto l’opinione che ci fosse un rapporto tra la malattia e l’alimentazione a base di mais: fin dal 1776 un proclama dei provveditori di Sanità della repubblica di Venezia aveva denunciato i nefasti effetti alla “salute dei piu poveri abitanti” delle campagne causati dal “cattivo alimento dei sorghi turchi immaturi e guasti” recuperati dai terreni dopo alluvioni e rotte di fiumi. Dopo questo, che è stato definito il primo periodo delle ricerche pellagrologiche, ne seguì un secondo dal 1840 al 1870, caratterizzato da un 2significativo incremento degli studi” ma anche da un forte incremento della malattia “in concomitanza con il graduale peggioramento delle condizioni di vita e di alimentazione della popolazione rurale”. E fu col successore del dottor Menis nel ruolo di medico provinciale di Brescia, il dottor Lodovico Balardini (1796-1891), che la questione venne di nuovo posta all’ordine del giorno. Sulla questione pubblicò una memoria presentata nel 1844 al sesto Congresso degli scienziati italiani a Milano. Ne ribadì gli argomenti piu e piu volte fino all’ultimo saggio del 1871. La certezza di avere individuato la causa del malanno spicca. La ribadì in piu occasione e ritroviamo le sue argomentazioni di nuovo edite in un opuscolo che vide la luce a cavallo tra la fine dello Stato lombardo-veneto e la formazione del nuovo Stato nazionale italiano. In questi scritti Balardini dimostrava di avere imparato la lezione di Ramazzini: operava nella stessa arra, ne condivideva la sensibilità per il mondo del lavoro e guardava con viva partecipazione alle sofferenze del popolo delle campagne. E già nella scelta delle parole si avverte subito un tono diverso da quello di monsignor Martini: il medico parla non del contadino ma della “classe dei lavoratori”. Ma non si rivolgeva direttamente a loro perché sapeva che non lo avrebbero ascoltato: mettere un libro nelle mani del “villico, il quale non sa leggere sarebbe rimasto vuoto d’effetto”. Condivideva l’opinione di Ramazzini, secondo il quale era non solo inutile ma addirittura ridicolo dare consigli ai contadini, vista la loro abitudine di non consultare i medici e di non mettere in atto i suggerimenti che eventualmente ne ricevevano. Ma c’era una differenza nella realtà che i due medici avevano sotto gli occhi. Al tempo del dottor Balardini, c’era una minaccia grave che incombeva sulla popolazione delle campagne. Per questo egli aveva ritenuto necessario rivolgersi all’attenzione di chiunque godesse di autorità politica e intellettuale: cioè a quella dei parroci, medici condotti, maestri delle scuole, padroni. Era qualcosa di simile all’appello di Carlo Nardi, sia pure senza la componente utopistica. Del resto, una volta accantonata l’idea di rivolgersi ai contadini, restavano aperte solo le strade della carità paternalistica e della lungimiranza governativa. Di quel ‘funesto malanno’ che era la pellagra, detta anche “salso” tra i contadini, nel suo scritto il dottor Balardini fornì un resoconto dettagliato: cause, ambiente sociale e geografico, manifestazioni. Un primo punto da lui chiarito fu che si trattava di una malattia recente: a riprova ricordò che Ramazzini non la conosceva. Due altri punti doveva sottolineare, il primo era che non si trattava di una malattia contagiosa; dunque, non si poteva parlare di epidemia per contagio. Il secondo punto riguardava la speciale caratteristica della malattia di mietere vittime in una fascia sociale ben individuata e solo in quella: i lavoratori nei campi. Inoltre, colpiva una specifica area geografica: la vasta zona delle pianure lombarde, venete e Piemonte. Questo era l’argomento che doveva risvegliare l’attenzione delle “superiori autorità”. Un tempo – scriveva il dottor Balardini – la casse degli agricoltori era stata la piu robusta e sana, ora non piu. Non si poteva certo parlare di un numero limitato dicasi: a titolo di prova, il dottor Balardini esibiva una statistica sanitarie della Lombardia relativa alla fine del 1856. Al numero di malati di pellagra c’eran oda aggiungere altri ricoverati in ospedali e manicomi lombardi, oltre ai suicidi. L’inizio scatta con l’equinozio di primavera. Proprio quando era l’ora di riprendere i lavori nei campi l’agricoltore avvertiva un improvviso senso di debolezza associato a una insolita depressione morale. Si sentiva triste, incapace di resistere alla fatica consueta. Poi ecco che sul dorso delle mani e sulle altre parti del corpo esposte al sole la pelle diventava lucida, si arrossava, si faceva secca e se ne staccavano squame bianche. Quei sintomi sparivano in autunno, per riaffacciarsi però di nuovo con l bella stagione. Allora ritornavano ma piu gravi, complicandosi con altre manifestazioni fisiche e morali: diarrea forte, visioni spaventose, vertigini, tremore agli arti, delirio, “invincibile malinconia tale da fargli desiderare la morte perfino spingerlo al suicidio. E qui il medico affrontava la questione della causa del male. Cominciava con l’escludere il “miasma”, l’antico paradigma capace di spiegare ogni forma di contagio che per qualcuno era ancora valido, ossia un qualche principio “sparso nell’atmosfera” che fosse la causa di vaste epidemie. Per il dottor Balardini invece la causa primaria era la povertà. Descriveva poi l’implicazione del granturco malsano, coperto da una muffa chiamata “verderame”. P. 153 Da quel cibo “l’affamato bifolco ben poco ed insalubre nutrimento ne ritrae a riparazione delle giornaliere perdite, bastando appena a far tacere l’imperioso senso della fame”. Dunque, il mais è il colpevole indiziato, lo è a pari merito con molte altre avversità della vita del contadino, la causa fondamentale resta la miseria congiunta con la fatica e con tutti i suoi corollari – alimentazione, acqua, aria, abitazione: p.154 La cura proposta era semplice, almeno in apparenza: bisognava che i contadini si nutrissero di pane di frumento ben cotto e che carne e latte entrassero nella loro alimentazione. I malati di pellagra dovevano essere curati in speciali ricoveri e qui dovevano fare anche una cura di bagni. Lo scritto del dottor Balardini confermava alcune osservazioni del suo concittadino e predecessore Wilhelm Menis (che però non aveva citato). Oltre alla causa generale, d’origine sociale, la povertà del contadino, quella su cui Balardini vuole attirare l’attenzione fu l’individuazione del fattore scatenante: il mais guasto. E questo contro i dubbi e la disquisizione di Carlo Nardi (anche lui non citato). Nella fitta serie di dibattiti sulla pellagra che durarono a lungo oltre la fine del secolo, mentre il malanno si aggravava, certamente il merito di averne individuato il veicolo gli doveva venire riconosciuto da voci autorevoli come innanzitutto quella di Cesare Lombroso. Ma i riconoscimenti tributati all’opera del dottor Balardini in realtà finirono per oscurare la portata delle sue ricerche. Vale la pena segnalare l’ampiezza e i toni accesi della discussione che alla natura del flagello e sul modo di combatterlo si aprì allora in Italia. Si raccolsero dati, si confrontarono terapie. Quello che si verificò allora nel nostro paese fu un episodio importante sul piano scientifico, ma lo divenne anche quello delle strategie politiche e sociali del popolo e della classe dirigente. I medici, come singoli e come corporazione, si trovarono davanti alla divaricazione tra causa sociale della pellagra (malattia della povertà) e causa propriamente medico- scientifica. Bastava eliminare il mais guasto per cancellare il flagello della pellagra o era necessario migliorare le condizioni di vita dei contadini, dare loro case, cibi e condizioni di lavoro tali da risolvere il problema alla radice? Le autorità politiche dell’Italia liberale seguirono una o l’altra delle opzioni: da un lato si propose di integrar o correggere la composizione chimica dell’alimentazione contadina, dall’altro si sottolineò l’urgenza della questione sociale, con l’implicito riconoscimento che quelli da correggere erano i rapporti di classe nella società italiana. P. 156 Nelle esperienze di medico di Cesare Lombroso la questione della pellagra appare a ogni passo: tale è il numero di persone sofferenti di questa malattia che si sottoposero ai suoi controlli e così continua è la traccia delle sue riflessioni sull’argomento. Uno degli effetti della pellagra a uno stadio avanzato era le demenze e molti uomini e donne pellagrosi finivano nei manicomi, e nei manicomi criminali, istituzione prediletta da Lombroso: è qui che tra i devianti e i delinquenti oggetto delle sue ricerche, incontrò i pellagrosi allo stadio terminale della loro malattia, la follia. Lombroso cercò di raggiungere direttamente il mondo dei contadini componendo Dialogo sulla cura della pellagra, dedicati ai contadini, dove spiegò come si potesse curare la malattia ricorrendo all’acido arsenioso: era com’era stato notato, la via per riservare la soluzione del problema “alla competenza specialistica del medico”. La sua penna indugiava in una descrizione di gusto veristico dei pellagrosi p. 157. Piu della descrizione fisica è la conclusione del profilo a rendere evidente la convinzione dell’autore: il pellagroso è un essere che la malattia fa regredire allo stadio primitivo, quello che caratterizza il delinquente nato. Il medico mantovano Achille Sacchi scrisse in una sua relazione del 1878 che la pellagra, manifestatasi all’inizio come una sorta di malinconia poteva condurre alla pazzia con tendenza al suicidio, all’omicidio. Ma la sua conclusione era che per debellare la malattia occorreva risolvere il problema della miseria e di una deprivazione alimentare che colpiva specialmente le donne (perché rinunciavano alla parte migliore del poco cibo per i loro uomini). Nel richiamarsi alla tesi del dottor Balardini – che, cioè, la causa della malattia fosse l’alimentazione a base di mais guasto – Lombroso volle contestare decisamente la tesi della pellagra come malattia della povertà. Era il mais guasto la causa unica della pellagra, una testi che andava contro una percezione ormai diffusa del legame stretto esistente tra pellagra e povertà. Per fare un esempio, in un periodico di Torino fu pubblicata una carta della diffusione della malattia che mostrava, secondo gli editori, come essa fosse l “termometro della povertà”. Invece Lombroso tenne a dimostrare sulla base della tabella alimentare quotidiana di un bracciante ferrare che non c’era alcun bisogno di arricchire l’alimentazione per evitare la minaccia della pellagra. Secondo lui, il rimedio consisteva in un apparto di acido arsenioso, che poteva essere fornito con semplici integrazioni farmaceutiche, oppure riducendo la porzione di polenta e sostituendola con piu pasta, piu pane, piu formaggio parmigiano. E soprattutto negò che ci fosse bisogno di ricorrere a quella cura del riposo e dell’abbondante nutrizione con proteine nobili che veniva proposta dai medici convinti che tutto nascere dalla povertà alimentare. Che lo Stato dovesse occuparsi di curarli con riposo e con cibo scelto e abbondante era follia anche il solo pensarlo. “dire al colono, se vuol premunirsi dalla pellagra, bisogna che mangi bene e beva meglio è affermare una verità, ma inutile. Il poveretto, a cui noi dal comodo seggiolone diamo questo consiglio, non può metterlo in pratica” P. 160 L’immagine del ”comodo seggiolone” era venuta in mente a un altro medico, Antonio Maria Gemma, convinto che per guarire dalla pellagra ci fosse solo la via di buona alimentazione. Alcuni rimedi che ci volevano, secondo lui: istruzione, meno fatica, alimentazione adeguata negli istituti di cura (“somministrazione giornalmente una razione di carne”). Era qui che secondo il dottor Gemma si collocava la differenza tra “la falsa e la vera igiene del contadino”. Falsa quella di Balardini (dietro il quale appare l’ombra di un Lombroso prudentemente non citato); vera quella proposta da lui. Dall’altra parte quel modo di porsi davanti alla questione della pellagra non fu un caso isolato per Lombroso. Prendiamo ad esempio il problema dell’ignoranza e dell’analfabetismo. Ebbene, nei suoi scritti ci troviamo davanti a una chiusura simile a quella di monsignor Martini. Se per il prete mantovano i figli dei contadini non dovevano perdere tempo in studi che non riguardavano il loro mestiere, per lo scienziato positivista l’educazione scolastica era pericolosa in sé specialmente per le classi subalterne. Gli studi classici e quelli di storia familiarizzavano i giovani con idee pericolose. 10. IGIENE: VANGELO BORGHESE DELLA SALUTE O DIFFERENZA DI RAZZA. MANTEGAZZA E LOMBROSO Nell’Italia dell’Ottocento “igiene” fu la parola che garantì un successo strepitoso a un medico che non era di quelli “condotti”: Paolo Mantegazza (1831-1910) fu una celebrità costruita dall’intelligenza e dall’abilità di un medico capace di intercettare al volo le occasioni offertegli dai tempi e dalle mode. Lo si vede quando ancor giovane fu capace di fiutare l’importanza dell’Origine delle specie di Darwin ed instaurò un rapporto personale con l’autore. Ma il suo campo prediletto fu quello della divulgazione dei segreti dell’igiene e del sesso. Come presidente della Società italiana di antropologia e di etnologia, nel 1872 indirizzò a tutti i sindaci del paese un questionario di sedici domande, relativo all’altezza, al colore degli occhi e dei capelli e altre caratteristiche analoghe di uomini e donne. L’obiettivo era simile a quello della “carta igienica” di Lombroso. Mantegazza però non voleva curare i malanni: intendeva confrontare l’etnia italica con quella tedesca, su cui intanto si era svolta una ricerca analoga. I criteri erano poco rigorosi: se pe gli uomini si faceva riferimento a caratteri registrati all’età della leva militare, per le donne si chiedevano dati “di qualunque età”. L’esito fu però deludente: ad anni di distanza, invece delle piu di ottomila schede che si attendevano ne erano arrivate solo 540, per di piu incomplete. Non per questo Mantegazza rinunziò a sfruttare quel manipolo di dati. Ne ricavò una sistemazione delle “razze italiche” in base all’altezza – la maggiore in Toscana e nel veneto, la minore in Sardegna. Ma fu soprattutto predicando il “Vangelo della salute” (come lo chiamò lui), che Mantegazza si costruì una fama e una popolarità diffusa. Fu lui a rinnovare per il pubblico colto della nuova nazione unita quel genere della letteratura di viaggio che aveva goduto di una grande stagione nella cultura italiana ai tempi di Ramusio e delle scoperte geografiche. Per immaginare il lontano futuro dell’anno 3000 raccontò un viaggio: quello di due giovani, che partono da una Roma capitale degli Stati uniti d’Europa e visitano altre grandi città del mondo per raggiungere alla fine il luogo delle nozze, la città ideale di Andropoli, capitale degli Stati uniti planetari. Qui governa il sistema un supremo consesso che ha abolito la guerra e instaurato la pace perpetua. Superati i conflitti fra conservatori e socialisti, al potere si è insediata una eletta aristocrazia degli spiriti. I due giovani viaggiano a bordo dell’”aereotachi”, una navicella mossa dall’elettricità capace di raggiungere i 150 chilometri l’ora si nutrono di succhi e frullati di sostanze nutritive, respirano profumi di fiori e di frutta, bevono elisir stimolanti che favoriscono il pensiero, il movimento e l’amore. In quel sogno di società perfetta Mantegazza vi immagina realizzata l’abolizione del dolore fisico, ma anche la legalizzazione dell’eliminazione di neonati difettivi, fossero mostri o creature recanti i degni sull’appartenenza alla razza dei delinquenti nati. Ma il fine ultimo da raggiungere era il controllo totale della salute dell’ambiente e delle persone. Una valle ridente, nelle vicinanze di Andropoli sarà dunque il luogo della città dei morti. Qui, tra alberi secolari e i cipressi ci sarà un tempio dominato da una statua. Nella casa dei morti sarà permesso “ogni metodo di distruzione e di conservazione dei cadaveri umani, purché non sia nocivo alla salute”. Quello prediletto sarà la dissoluzione del corpo nell’acido nitrico. Altrimenti sarà possibile accedere al “tempio crematorio” dove regnerà quel fuoco purificatore a cui Ghisleri levò un inno all’ingresso del cimitero di Livorno. Medici e igiene, aria e acqua pure, viaggi e piaceri: questi i temi e queste le proposte che Mantegazza venne ripetendo in un tambureggiante imperversare di iniziative autopromozionali e di pubblicazioni divulgative, aiutato dall’aspetto gradevole, dalla barba curata di vero scienziato e dalla oratoria dotta e rassicurante, capace di conquistare le folle degli ascoltatori. La piccola borghesia italiana, le famiglie della città, i ceti proprietari delle campagne, i professionisti, i banchieri, i partecipanti al gioco degli affari e della politica, erano attirati dal messaggio ambiguo e trasgressivo di uno sguardo di piaceri del sesso. Le trame delle grandi banche e quelle dei tradimenti coniugali riempivano le cronache del tempo, gli aristocratici salotti intellettuali fiorentini criticati da Leopardi succedevano quelli dei nuovi ricchi della cronaca romana di cui si scandalizzava la poesia di Carducci. In quell’Italia, Mantegazza fu l’uomo che intuì e coltivò le attrattive di una nuova offerta di divulgazione scientifica su temi alla moda, intorno alla domanda di saperi e di piaceri. E il filone dominante e ininterrotto della sua creatività letteraria fu quello di pubblicazioni divulgative in materia di igiene pubblica. L’autore si rivolge in apparenza a tutti, parla anche della dieta dell’operaio e di quella del contadino, ma lo fa di straforo, aprendo una finestra sul cortile della famiglia borghese. Oltre quel cortile ci sono i contadini, coloro che mangiano poco e male. Ma non è il caso di farsene motivo di inquietudine. Il contadino mangerà poca o niente carne, ma agli occhi del borghese di città ha un individuabile vantaggio: lavora all’aria aperta, dunque la carne non gli serve. “il contadino, che respira spesso un’aria salubre e lavora a campo aperto, ha minor bisogno di una dieta animale dell’operaio, che lavora in un’officina chiusa e vive in una casa povera d’aria e di luce”. Banalità persuasive, destinate a diventare senso comune e a proteggere la serenità delle coscienze dei benestanti. P. 175 I contadini ritornano in queste pagine di casa e cucina come un rimorso, come un vizio: vi sono sempre chiamati “i poveri contadini”. Mantegazza sa che mangiano pane secco di frumento vecchio di due settimane e si preoccupa di spiegare che “quell’alimento, già tanto povero per fabbricare un buon sangue, diviene piu duro, e nelle stagioni umide di ammuffisce e si fa acido”. Secondo lui non è vero che “l’uso continuo della polenta e del pan giallo valga a produrre la pellagra” però è vero che “questo brutto malanno può ben nascere quando si mangia del frumento guasto dal ‘verderame’”. Sono tutte questioni dibattute negli anni della discussione sulla pellagra. L’amabile scienza di Mantegazza le riversa nella mente dei lettori: alla scienza e al progresso spetterà dare casa e cibo ai poveri, per ora non si può. Quello che si può fare è bere acqua, ma anche sia quella giusta, non quella stagnante di palude. E tuttavia quando si passa dall’igiene della cucina a quella della casa vediamo affacciarsi ancora lo spettro del contadino, quello che col suo apparire evoca sempre il pensiero della capanna coperta di strame – che per lui è la casa -, della stalla dove cerca calore e rifugio nell’inverno, del letame ammucchiato sotto la finestra, del porco, della vacca e della pecora che “vivono, mangiano e fanno il resto dove vive e mangia e dorme una famiglia” l’autore, che scrive da Milano, guarda con ribrezzo a quella vita bestiale. Preferisce argomenti piu lieti: abbandona la cupa materia contadinesca e chiede al lettore di avvicinarsi a lui e di guardarlo affacciato alle finestre della sua casa milanese. P. 177 Se per millenni era stato lo spettro della morte a minacciare ogni illusione di felicità umana ora ce n’era un altro piu minaccioso che si era installato nel cuore dell’interno borghese: il cesso. L’orrore del “sucidume” non era stato vinto: ostracizzato e respinto nel mondo dei poveri delle campagne e nei quartieri miserabili delle città, nelle campagne e nei borghi, aveva trovato sede nell’ “oscuro e celato cantuccio” che costituiva il piu segreto mistero ma anche la piu consolante certezza dell’igiene borghese. Quella del luogo innominabile dei bisogni corporali era una fessura appena visibile nella costruzione dell’igiene diventata – da pubblica che era stata – una privata ossessione del cittadino. Ma la piccola falla aperta di quel luogo segreto fa intravedere al lettore del tempo futuro la marea di rifiuti privati destinata a rovesciarsi sulla collettività. Quello doveva diventare il prezzo da pagare quando il costume della città borghese avrebbe invaso tutta la società fino a toccare le antiche dimore dei contadini, diroccate o mascherate da agriturismi. Solo allora, davanti ai boschi invasi da televisori e frigoriferi in disuso, alle devastanti alluvioni di torrenti fuoriusciti da letti invasi dal cemento, ci sarebbe ricordati dell’opera svolta da quel popolo di contadini che ripuliva fosse e torrenti e si preoccupava di aprire ai viandanti strade campestri ben tenute. E nella valli del Po e del Regno qualcuno si sarebbe ricordato della sapienza racchiusa nei proverbi contadini, l’immemoriale sapienza della “classe oggetto”. In quell’Italia da poco unificata dietro la retorica dell’Unità c’era la realtà della disunione del paese e delle differenze che attraversavano cose e persone delle sue tante province. In primo luogo, era necessario individuare le diverse carenze e i diversi bisogni. La proposta di Cesare Lombroso fu la costruzione di una mappa: la “carta igienica d’Italia”. Ma invece di fare riferimento alla statistica civile ancora ai suoi primi inizi, Lombroso propose di affidare la raccolta dei dati di tipo sanitario ai medici militari, quelli che facevano parte delle commissioni di leva e che avevano la responsabilità degli ospedali dell’esercito. Il che in quei primi anni dell’Italia unita era quanto di piu realistico si potesse immaginare. Nella sua mente, la “carta igienica” doveva registrare le osservazioni e i dati sulla mancata o rinviata accettazione della nuova recluta per realizzare una mappatura precisa della diffusione di malattie o affezioni che mietevano allora vittime in Italia: dalla tisi alla malaria, dalla pellagra al gozzo, al cretinismo e così via. Questo era il progetto che Lombroso aveva affidato all’attenzione dei medici militari italiani. Erano loro che avrebbero potuto compilare una statistica dettagliata delle condizioni sanitarie dei giovani che si presentavano alla visita di leva o che erano ricoverati negli ospedali militari. Facendo così avrebbero raccolto informazioni precarie tali da permettere di conoscere quale rapporto ci fosse tra l’ambiente di provenienza dei giovani e determinate malattie. E sicuramente c’era un collegamento tra l’aria, l’acqua, il cibo, l’igiene e le malattie: di questo Lombroso si diceva certo. Alla lettura di quei testi Lombroso doveva sommare l’esperienza personale maturata percorrendo tanti parti della penisola e registrando luogo per luogo le affezioni degli abitanti. Nel corso degli anni visitò molti ospedali militari. E lo fece per misurare i diametri cranici. Era sulla base di quelle ossessive misurazioni dei crani che Lombroso avanzava l’ipotesi di come sarebbe apparsa la topografia sanitaria nazionale. Una mappa delle patologie poteva servire a indirizzare meglio una “piu adatta legislazione igienico preventiva” dell’Italia. L’appello di Lombroso ai medici militari riguardava proprio questo mondo malato e folle che lui voleva snidare dai suoi nascondigli, portare alla luce e curare -sia pure a modo cioè, cioè rimuovendolo e segregandolo: separandolo dalla parte sane. Dai lavori di altri medici si era fatto un’idea delle malattia degli italiani. Ma ora, “compiuta da sì poco tempo la nostra sospirata unità”, aveva avvertito l’urgente bisogno di un “trattato completo di geografia medica di tutta Italia, una vera ed intera forma patologica di questa penisola, ch’è finalmente nostra”. E i medici militari, formati con gli stessi metodi di studio degli autori delle ricerche, erano in grado di distinguere “nelle malattia dell’influenza del clima da quella della razza”. Prendessero coscienza, dunque, della grandezza dell’opera che potevano compiere. Occorreva un impegno collettivo della loro corporazione per raccogliere ogni informazione utile. L’Italia aveva tante zone dal clima diverso, era abitata da popolazioni di molte “razze”: una “zona delle vallate, comprensiva di valli lombarde, liguri e calabrese, dove si contavano alti numeri di affetti da gozzo e cretinismo); una zona marittima (coste liguri, calabro-sicule e romagnole) dove la tisi scarseggiava e invece abbondavano altre patologie; una zona vulcanica in cui erano diffuse le malattie di petto e di cuore; una zona miasmatica (paludi, risaie); e infine una zona del granturco estesa dalla Toscana all’Emilia al Piemonte e culminante nella Lombardia in cui la pellagra assume le piu terribili proporzioni. Accanto a questa suddivisione del territorio italiano in base a un misto di dati reali – patologie umane riscontrate personalmente o da altri, conformazione e collocazione naturali dei luoghi – e di congetture talvolta dettate da acri passioni ideologiche, c’era poi da mappare la linea confinaria tra zona italica e zona straniera, anche laddove si intrecciavano e si confondevano, come accadeva per quegli stranieri d’origine italianizzati “dal clima e dal tempo”. Il grandioso progetto lombrosiano non si arrestava alla fase della mappatura: la conoscenza scientifica doveva per lui tradursi in azione: singoli ma anche interi gruppi umani affetti da malattie dovuti all’acqua che bevevano si potevano curare sposandoli in luoghi piu adatti. Lombroso ritagliava sulla carta la popolazione e immaginava di poterla spostare nei luoghi confacenti alle esigenze della salute. Per esempio, se si fosse scoperto che la tisi migliorava sulle coste della Sicilia, si potevano creare stabilimenti ad hoc e ricoverarvi i malati provenienti da altre regioni. E così questa “carta igienica d’Italia” finiva col prospettare un territorio nazionale punteggiato da sanatori e luoghi di contenimento e di cure coatte, come quei manicomi per i quale Lombroso nutriva una speciale attrazione. Nel saggio già citato in cui propose un elenco di misure di crani raccolte da lui personalmente nel corso di viaggi per monti e valli, in mezzo ai borghi e alle campagne ma soprattutto visitando i ricoverati degli ospedali militati, aveva condensato una vasta sequenza di cifre che indicavano il diametro cranico di piu di duemila alienati: che cosa ci poteva essere di piu scientifico dei numeri? La rilevazione dettagliata di circonferenze e curve lo aveva convinto che dentro i confini di ciascuna provincia italiana i dati oscillavano intorno agli stessi valori, mentre si divaricavano nel confronto tra le diverse province. Da queste diversità Lombroso ricava diagnosi sulla maggiore o minore capacità intellettuale. Perciò ci si era mossi a operare con intervento generale deciso dal centro. Erano due i capisaldi del progetto: si doveva obbedire ai “precetti della igiene” e di doveva disporre di una vasta “statistica sanitaria”. Una volta conosciuta la realtà delle situazioni locali grazie ai dati risultanti dalla statistica, si doveva ricorrere alla sistematica messa in atto di quei precetti. A questo punto il regolamento abbandonava l’asciuttezza del linguaggio prescritto e si apriva a una specie di dialogo con ipotetici interlocutori. Era la statistica sanitaria con la sua “logica inesorabile” che poteva mostrare a colpi di cifre gli effetti nefasti della trascuratezza dell’igiene pubblica: applicate le norme dell’igiene e vedrete che chi sta discretamente migliorerà ancora, non osservatele e vedrete come si possa precipitare in basso. Questo era il compito che spettava al Comune, mentre al medico condotto, toccava il compito di curare i malati e di illuminare le menti dei suoi assistiti intorno ai precetti dell’igiene. Il medico condotto finiva con l’essere da un lato in responsabile delle inefficienze del sistema e dall’altro il demiurgo destinato a portare l’igiene pubblica ovunque, abolendo così l cause della cattiva salute degli italiani. Talvolta un solo medico è costretto a prestare l’opera sua a piu comuni: il che accadeva proprio la dove la dispersione degli abitanti e la difficoltà delle strade ne avrebbero richiesto un numero adeguato. Il medico condotto era il “fondamento principale” di tutto l’ordinamento sanitario. Un eroe ingiustamente misconosciuto, “condannato a campare stentamento la vita” restando privo di ogni prestigio sociale. La gente vedeva in lui solo “l’uomo mercenario anziché il benefico consigliere e l’amico”. Dunque, bisognava correggere l0opinione: ed ecco la circolare ministeriale celebrare e ringraziare il medico condotto come l’uomo votato al sacrificio umile e silenzioso. P. 194 In queste righe si può cogliere tutta la inadeguatezza dell’iniziativa ministeriale: pensare che i problemi della povertà e dello sfruttamento potessero venire affrontati con l’opera demiurgica del medico condotto era segno di impotenza o del potere politico. Chi viveva in abituri miserabili, si nutriva poco e male e si faceva sfruttare, sapeva benissimo di cosa avrebbe avuto bisogno. I genitori potevano facilmente immaginare che sottoporre i figli a troppi gravosi e protratti lavori nelle officine esponeva quella loro tenera età al rischio di venire troncata sul fiore. Ma l’unico riparo esibito dall’alto del ministero restava il medico coi suoi autorevoli consigli ed utili insegnamenti. Per il resto, il ministero suggeriva alle “classi meno fortunate” che “per quanto è possibile si riparino e si difendano”. E alludeva all’immediato riscontro economico che si sarebbe avuto dall’applicazione di quei consigli: l’esempio dei municipi dove funzionava l’assistenza medica domiciliare mostrava che lì si era visto “accrescersi le giornate utili di lavoro”. Insomma, toccava ai padri contadini e operai, seguendo i consigli paterni e illuminati del medico, aprire gli occhi sui guai a cui andavano ciecamente incontro nella loro colpevole ignoranza. Ascoltassero dunque le istruzioni del medico. Gli uni avrebbero finalmente deciso di cambiare le capanne fatiscenti con autentiche case e gli alimenti poco nutrienti con diete abbondanti; e gli altri di non mandare piu i figli minori nelle fabbriche, di cui evidentemente ignoravano i danni per i loro pargoli. Ignorante qui appare piuttosto l’avvocato Cavallini: mostrava di voler ignorare che per i poveri la necessità non aveva legge; e ignorava la violenza di cui era la capace la classe dei “favoriti dalla fortuna”. Ma una cosa è certa: a quella data l’antico stereotipo del contadino ignorante e superstizioso che non ascolta il medico cominciava a non essere piu sostenibile. Dunque, al ministero restava il solo appiglio del medico condotto. E questo presupponeva una condizione fondamentale: che la sua presenza fosse garantita in ogni Comune, cosa che in molti casi non avveniva, e si aveva un medico per piu comuni. Inoltre, il medico non sempre poteva contare su di una adeguata farmacia. Ma il ministero prometteva tra le altre misure piu urgenti una 2radicale riforma della attuale organizzazione delle condotte mediche” in modo da creare una migliore condizione di vita e un adeguato prestigio sociale per il medico condotto. Intanto però quella che arrivava sul tavolo delle prefetture e da lì su quelle dei sindaci era una valanga di obblighi e di adempimenti. Ecco le incombenze da affidare ai medici condotti: P. 196 Ci si trova qui davanti a una accelerazione imposta all’amministrazione statale periferica che faceva leva su di un apparato sanitario della cui precarietà e rarefatta presenza territoriale si era appena finito di lagnarsi. Si ci chiede che cosa ne sia nato nella realtà. E incuriosisce soprattutto l’ultima richiesta, pensando a quale impulso dovesse dare all’attività scrittoria dei medici. Dopo tanti riconoscimenti e promesse, veniva la richiesta ultimativa, di autorità. Quel vizio originario del centralismo si vede aggiornare nel disegno della circolare Cavallini e nella catena di comando a cui era demandato il progetto. Si volevano offrire suggerimenti per la compilazione dei regolamenti municipali. M quasi subito le paterne considerazioni generali si trasformarono in tassative norme di legge. Norme disparate che andavano da quelle relative ai piu minuti spetti dei comportamenti individuali – come il gettare dalla finestra liquidi o solidi – fino a quelle che toccavano questioni di grande importanza sociale, come il lavoro dei minori e delle donne. Realtà troppo eterogenee tra di loro; e che tanti articoli che non hanno forza di legge sono affidati alla volontà e capacità di governo delle amministrazioni provinciali e comunali. L’esercizio dell’ “arte salutare” veniva vincolato al possesso di un attestato di università o scuola statale, la condizione obbligatoria per essere ammessi ai concorsi era disporre il diploma o patente rilasciati da una università o una scuola statale e farli registrare presso l’ufficio municipale. Nell’atto stesso in cui si delimitavano i campi dell’esercizio della medicina si faceva divieto assoluto au curatori empirici, detti anche “ciarlatani”, di praticare sulle pubbliche piazze alcune forma di cura – il salasso, l’estrazione di denti… - o di dedicarsi alla vendita di “segreti” e sostanze medicamentose d’ogni tipo. Quella condanna non bastò a far scomparire la medicina dei “segreti” ma nemmeno ciarlatani. Ma con la vittoria della scienza positiva e l’avanzata dello Stato liberale il ciarlatano doveva abituarsi a trovare davanti a sé l’antagonista ufficiale nel dottore e nel veterinario, due figure legittimate alla professione dal titolo di studio e dotate del valido e supporto di un farmacista operante legalmente quale pubblico servizio. Al farmacista spettavano in esclusiva la vendita di sostanze medicinali e il potere di preparare medicamenti, previa regolare ricetta emessa dal medico. La ricetta diventava un documento avente valore giuridico. All’epoca della circolare, la nozione ufficiale condivisa dal governo del paese in materia di salute e malattia aveva accolto da tempo la convinzione della cultura medica per cui l’aria libera era salute, l’aria chiusa era fonte di malattia. Sulla base di questo principio la circolare fissava i criteri relativi all’assetto delle case: la questione delle abitazioni e delle condizioni igieniche dell’abitare era un problema grave ed era evidente per il ministero che la salute delle persone dipendeva dalle condizioni abitative. Era noto quanto fosse normale per la maggioranza degli italiani vivere in case umide, buie, mal ventilate. Ed era altresì chiaro che non si poteva impedirlo a suon di divieti, visto che tali erano quasi sempre le case dei poveri e soprattutto le case dei contadini. E tali dovevano restarlo ancora a lungo. Si pensi che alla metà del secolo scorso una su cinque delle case rurali nei comuni emiliano-romagnoli risultava essere “in condizioni di totale deficienza igienica”. Intanto però le disposizioni ministeriali ordinavano che per il futuro non si costruissero piu case di abitazioni che non avessero almeno latrine e coperte e pozzi neri da cui non uscissero né esalazioni né infiltrazioni nel terreno a poca distanza dai pozzi e dalle acque potabili. Una norma speciale riguardava le manifatture: il proprietario era tenuto a costruirvi le latrine per gli operai. E molto precise e dettagliate erano le regole da seguire per le case da dare in affitto: bisognava che fossero dotate di cessi e di acquai, e che le acque chiare residuate dagli usi domestici e le acque nere venissero incanalate e raccolti in luoghi separati. C’erano norme dettagliate su come doveva essere fatto il focolare: luogo dove si concentrava la vita della famiglia. Ci si raccoglieva intorno per scaldarsi d’inverno o per cuocere il cibo quotidiano, ma anche per riconoscersi come comunità di memoria e di affetti e per raccontarsi storie. Ma per il ministero la preoccupazione igienica era quella di regolare le cose in modo da evitare i danni del fumo: perciò le case dovevano avere in dotazione cappe e tubi conduttori dei camini in modo che il fumo non restasse nell’interno dell’abitazione. Una disposizione riguardava anche gli animali: tori, maiali, mucche, capre, pecore potevano essere tenuti solo in case coloniche poste in aperta campagna. Igiene voleva dire separazione, in primo luogo fra persone e animali. Il freddo invernale nelle case dei contadini non aveva alternativa che il ricorso alle presenze indispensabili che popolavano le stalle – ricorso che peraltro trovava conforto nelle immagini di un sant’Antonio eremita col suo porco o nella tradizione francescana e medievale de presepe, da secoli diffusa nelle culture popolari d’Italia. Bisognava anche che il letame di quelle stalle venisse cambiato ogni giorno e che i letamai fossero collocati a debita distanza dalle case. Tutto questo discendeva dal principio di garantire la salubrità dell’aria. C’era da tenere in considerazione anche il secondo pilastro dell’igiene: l’acqua. I divieti disegnavano in negativo tutti gli usi cattivi: proibito bagnare in cisterne o depositi di acque destinati a usi potabili, proibito costruirvi vicino latrine e pozzi neri, proibito gettare animali in acque pubbliche o private. Capitoli e capitoli per fissare le regole dell’igiene relative a scuole, chiese, teatri, alberghi, carceri, ospedali. Seguivano le disposizioni sul lavoro dei minori e delle donne: alle donne si vietava di farle lavorare per piu di dodici ore. Per i bambini il limite d’età per il lavoro era fissato a nove anni, dopodiché potevano lavorare per otto ora ma non consecutive. Dopo i dodici anni era consentito lavorare per dodici ore. Ma quanto la materia fosse ardua da controllare e sanzionare appare evidente quando si legge un articolo conclusivo che lasciava al sindaco del Comune la possibilità di controllare se qualche minorenne venisse danneggiato nella salute da un lavoro troppo pesante. Non si vedevano altre difese o altri colpevoli per una pratica dilagante regolata dall’arbitrio dei datori di lavoro. Piu facile era arginare la povertà escludendo dalla vita sociale malati, vagabondi. L’igiene tornava in primo piano nei successivi quaranta articoli dedicati alla pulizia dei luoghi pubblici come le strade: era lì che si gettava dalla finestra acque “impure” ma anche spazzature. Si parla anche della macerazione del lino e della canapa che si imponeva avvenisse solo in aperta campagna, lontano da cisterne e canali dell’acqua potabile. La questione delle marcite richiama quella delle risaie: erano ambe imputate tra le cause di cattiva salute. Nel 1866 era stata approvata una legge sulla risicoltura elaborata da una commissione mista di avvocati e medici. Ma la legge aveva lasciato ogni potere nelle mani delle amministrazioni locali, dominate dai padroni. Era stata un regalo agli imprenditori del settore, l’esito di uno scontro tra forze ineguali, “l’economico e l’igienico” o anche “il guadagno e la salute” secondo un commento dell’epoca. Il dottor Mantegazza aveva fatto parte della commissione, aveva poi definito quella legge “una bestemmia vivente contro la pubblica igiene”. Sulla stessa linea si collocò il regolamento imposto dalla circolare Cavallini. L’articolo 98 fissò come norma da osservare l’obbligo per i comuni di ispezionare le case coloniche piu vicine a risaie e marcite per accertare se le stanze del pianterreno fossero o no fornite di pavimentazione e sollevate abbastanza dal suolo da proteggere gli abitanti dal freddo umido della notte e se i pozzi non fossero inquinati fa infiltrazione delle acque stagnanti. Tante buone intenzioni, in realtà prive in partenza di efficacia: se le case non erano adeguate che cosa poteva fare il Comune? Di fatto, la famiglia contadina avrebbe pagato con la salute. Altro tema importanze di cui si parla nel regolamento Cavallini sono le norme per gli alimenti. Protagonista è il pane: vietate la segale cornuta e la melica cioè saggina; il frumento se malsano non doveva finire tra gli alimenti; vietato mettere in vendita pane muffito, specie se fatto di segale. Così abbiamo l’idea di quello che i consumatori poveri potevano comparare a buon prezzo nella bottega dei fornai e venditori di pasta. I quali potevano vendere non solo pane di frumento ma anche pane misto di farine varie. Siamo qui davanti al tentativo di imporre norme igieniche nel vasto campo della fabbricazione e vendita di alimenti d’ogni genere: tentativo legittimo e doveroso nella misura in cui si doveva garantire l’igiene di locali, persone, procedimenti. L’igiene pubblica e la scienza dei medici avevano trovato lo strumento operativo necessario nella statistica combinata con la topografia come scienza dei luoghi: bisognava raccogliere tutte le informazioni possibili sulla diffusione delle malattie e sulle condizioni di vita della popolazione locale. C’erano dei nessi tra l’ambiente di lavoro e di vita e la presenza di determinate malattie. Lo strumento si chiamava statistica. Fu proprio intorno al cerniere degli anni Settanta che la statistica ottenne un riconoscimento decisivo da parte del governo e trovò l’uomo adatto per guidarne gli sviluppi: accadde quando nel 1872 l’onorevole Luzzati suggerì il nome del professore Luigi Bodio come segretario della Giunta centrale di statistica. Dette all’istituto un impulso straordinario potente contare sull’ampia disponibilità delle strutture statali grazie all’appoggio del potere politico. Fu in questo decennio che si ebbe lo sviluppo parallelo di due forme di indagine sulle condizioni di vita degli italiani e specialmente sulla realtà del mondo contadino: da un lato quella organizzata centralisticamente dalla Direzione di statistica, dall’altro quella sviluppata luogo per luogo da volenterosi medici condotti con le loro topografie sanitarie. Quanto fosse desiderata l’iniziativa dal centro per promuovere le esplorazioni delle realtà locali lo mostra una lettera aperta indirizzata nel 1875 a Luigi Bodio dal medico napoletano Fazio. In quella lettera si appellava al modello di statistica sanitaria proposta al Reichstag di Berlino per sostenere che anche in Italia si doveva procedere con altrettanta decisione politica in quella materia. Aveva ammirato in quel modello la scelta di uno schema rigido da proporre ai medici, per evitare la confusione di linguaggi e la varietà di termini che rendono inutilizzabili le informazioni accolte. Secondo lui, soltanto seguendo quella procedura si potevano ottenere dati corretti e comprensibili da una inchiesta per ricavarne un colpo d’occhio complessivo su diffusione di malattie e carenze di assistenza. Ricordava poi che in Italia da molto tempo si progettava una statistica medica: c’era stato un preciso articolo della legge sulla sanità pubblica del 1865 che aveva affidato ai Consigli provinciali e circondari di sanità la raccolta di dati in collegamento con la Giunta centrale di statistica. Secondo il dottor Fazio era mancato sino ad allora un riconoscimento politico dell’importanza della questione. Pochi mesi prima c’erra stato un fatto nuovo: l’allora ministro dell’Agricoltura Gaspare Finali aveva nominato una commissione composta da personaggi autorevoli in materia statistica e medica, per dare vita a una “inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola”. Sembrava dunque ormai prossima l’attesa e lungamente auspicata iniziativa politica destinata a sostenere e mettere in pratica quello che i medici proponevano. Bisognava lasciare alle spalle il “cieco empirismo” a e affrontare col metodo del calcolo sperimentale la diffusione dei morbi nelle collettività, studiando clima, composizione del suolo, abitudini sociali, professioni. Certo, si pubblicano statistica sull’andamento delle morti e sule loro cause, ma era necessario che tra i dati della statistica medica e le regole dell’igiene pubblica si creasse il piu stretto rapporto: tale rapporto poteva diventare efficace solo registrando l’igiene della popolazione con criteri rigorosi. Non sappiamo se di questo suggerimento si tenne conto nella commissione nominata dal ministero Finali e presieduta da Bodio. Sulla base del generico darwinismo sociale diffuso all’epoca, ci si aspettava un continuo miglioramento dell’umanità per effetto della legge naturale della lotta per l’esistenza e delle scoperte della medicina. Secondo Picchiotti, i medici costituivano una categoria particolarmente importante nell’assetto contemporaneo della scienza. Spettava a lor svolgere una nobile funzione all’interno dell’organismo sociale. Da testimonianze come queste appare evidente che u medico condotto, obbligato a confrontarsi ogni giorno coi problemi delle malattie delle precarie condizioni di vita delle classi popolari, era come un testimone in cerca di chi lo ascoltasse. Quello che accumuna le tante e autorevoli voci che si levarono allora dall’ambiente medico è un vivo senso di urgenza. Dopo la proposta lombrosiana della “carta igienica d’Italia” tanti altri colleghi dell’illustre scienziato intervennero nei congressi e sulle riviste per chiedere una inchiesta sanitaria estesa a tutta la Nazione. La materia occupava grande sazio negli altri paesi europei e così fu naturale rivolgere lo sguardo agli esempi inglesi e tedeschi. Sulla questione dell’igiene e dei contadini si doveva ascoltare in quello scorcio di secolo ancora molte voci dell’ambiente medico. Basta segnalare al riguardo due prolusioni pronunziate nell’inaugurazione dell’anno accademico. Particolarmente autorevole per l’autore e per la sede universitaria di quella del professor Giuseppe Sormani, rettore dell’università di Pavia. P. 215 Per il professore era possibile intravedere un grande rivolgimento sociale in arrivo: il riscatto del popolo di miserabili aggredito dai microbi, vittima di un ambiente immondo, di bevande e civi poveri e infetti, l’igiene era la scienza positiva che illuminava come una nuova stella l’orizzonte della società italiana, promettendo di superare quell’antitesi tra falsa e vera igiene di cui aveva scritto il dottor Gemma. Il profetto era davvero grandioso: nell’enfasi dell’illustre medico si avverte tutto il senso di un vasto impegno e di una straordinaria opportunità offerta alla scienza medica. L’igiene pubblica era diventata una scienza esatta e i medici si sentivano i protagonisti di una grande missione salvifica. p. 216 La prova di quanto la classe medica fosse pronta ad impegnarsi su questo terreno è offerta dai tanti opuscoli e saggi che uscirono dagli studi dei medici condotti dedicati alla realtà dei comuni dove operavano. Questa letteratura, finora mai oggetto di un’indagine sistematica, è di non facile reperibilità data anche la mancanza di bibliografie della produzione medica dell’Ottocento. In quel secondo Ottocento ci fu il trionfo delle topografie sanitarie, nella convinzione della funzione nazionale di quelle ricognizioni locali, idealmente scorrette dal desiderio di contribuire alla formazione di una specie di archivio diffuso di conoscenze intorno alla dispersa e varia realtà sociale italiana. Particolarmente operoso in questo campo fu proprio quel medico condotto che rispose alla chiamata ministeriale del settembre 1870 e che poi dette all stampe la sua relazione: si chiamava Gisberto Ferretti, operava non lontano dalla Firenze del ministro e del prefetto – e forse anche questo ebbe a che fare con la sua pronta risposta. Dedicò accurate indagini igienico – statistico in due luoghi del comune di Terra del Sole e Castrocaro e Comune di Borgo San Lorenzo. Fu uno dei tanti medici impegnati a studiare e celebrare le proprietà delle numerose sorgenti di acque minerali che costituiscono un patrimonio speciale dell’Italia. Conosceva e ammirava in particolar modo le statistiche di Salvatore de Renzi a Napoli nonché quella di Giuseppe Ferraio su Milano, e volle rendere omaggio a maestri da cui aveva imparato dedicando il libro a Mantegazza ed altri. I suoi densi libretti costituiscono una testimonianza della fase piu matura dell’ideale ottocentesco dell’igiene come filtro per guardare alla condizione contadina. Nelle premesse allo scritto del 1872 il dottor Ferretti si dichiarò favorevole senza riserve alla redazione di statistiche e topografie mediche. Solo raccogliendo e registrando con scienza positiva i tanti fattori della realtà fisica e naturale, ma anche di tipo culturale, si potevano individuare le diverse cause che incidevano sulla salute delle persone. P. 219 Fu sulla base del modello proposto da Giuseppe Ferrario nella sua Statistica medica di Milano che il medico condotto di Castrocaro riempì ordinatamente le sue tabelle di dati su popolazione, nascite, morti, matrimoni. Il libro su Castrocaro si apriva con una prima sezione dedicata alla composizione del suolo, all’altitudine e alla meteorologia come fattori primari e decisi degli influssi dell’ambiente sulla salute degli abitanti. Si passava poi all’esame degli “agenti estrinseci naturali e artificiali” (strade e fabbricati, illuminazione, alimenti) per concentrare le ultime due parti sulle “varietà antropologiche degli abitatori” (censimento, movimento nel numero di malati, morti) e sugli “agenti modificatori della salute” derivati dai modi di funzionamento della società (allevamento dei bambini, educazione e istruzione, religione e beneficenza, scienze, lettere, associazioni). Una ordinata serie di tabelle offriva al lettore informazioni precise sull’andamento delle piogge, sull’andamento demografico e sulle differenze interne alla società locale quanto a mestieri, religione e malattie: la maggioranza assoluta era costituita da agricoltori, divisi tra proprietari, mezzadri, vignaioli, braccianti. Era una popolazione distribuita nei due centri e nelle campagne circostanti. Pochi i membri di età avanzata (sopra i 60 anni). Gli emigranti superavano il numero degli immigrati. Alta l’incidenza della mortalità infantile, anche il numero dei nati morti che però non distingue i nati morti a termine dagli aborti. E qui il medico lamentava la mancata distinzione perché vi leggeva la volontà di occultare la piaga delle gravidanze interrotte, che invece bisognava individuare e a suo parere “per dar campo a studiare le cause ed a combatterle possibilmente”. Molti i dichiarati inabili al servizio militare per la mancanza di statura adeguata e per gracilità di costituzione. Quella del dottor Ferretti era una cultura dal fondamento umanistico, attenta alla storia e alla politica contemporanea, pur nella salda adesione alla radice positivista della scienza. Si parte, come abbiamo visto, dall’analisi del suolo, si descrivono le colture dominanti – cereali, ortaggi e frutta in pianura, vigneti in collina, gelsi per bachi da seta. Dopo la terra, le acque: torrenti di origine appenninica, sorgenti di acque semplici, salate e minerali. La “costituzione atmosferica” predominante è quella umida. Da qui, per il dottore, le malattie piu diffuse: rachitide, scrofola, febbri intermittenti. Quanto alle attività, l’unificazione italiana aveva cancellato di colpo la principale e piu lucrosa che per secoli aveva impegnato gli abitanti: il contrabbando. P. 220 Adesso, dopi la svolta per la rovinosa unificazione, agli abitanti del luogo non erano rimasti che il lavoro dei campi e l’allevamento dei bachi da seta. Di fatto la società locale, accanto a pochi proprietari e a un artigianato di borgo dai cento poverissimi mestieri, contava quasi solo mezzadri e braccianti. Lo sguardo del medico si preoccupava per l’igiene pubblica: si beveva acqua salata, si mangiava la piada(la versione romagnola della pizza) per colmare i morsi della fame, si lavava la biancheria alla fontana pubblica inquinata da scarichi di liquami, si cucinava in pentole di rame velenose perché stagnate male. Le donne, prigioniere della tradizione che le voleva remissive e chiuse in casa, non conoscevano l’esercizio del camminare respirando aria libera; i neonati erano destinati all’incuria e ai rimedi di balie. Il dottor Ferretti guardava con spirito anticlericale al perdurare nello Stato liberarle della presenza del prete, e notava con amarezza che le feste del santo patrono erano oggetto del massimo impegno da parte della popolazione. Anche la sepoltura dei morti era regolata dal clero e avveniva a poca distanza dal decesso, ignorando le disposizioni statali. Insomma, in barba ai regolamenti sanitari e alle leggi dello Stato le cose andavano malissimo. Le pagine scritte e pubblicate dal dottore erano ricche di proteste e di proposte. Questo suo libro offre una buona occasione per accostarsi ancora una volta alla cultura dei medici condotti. Quello che si affaccia in queste pagine è una moralità in apparenza rispetto della religione cattolica ma in sostanza fortemente critica della funzione svolta dalla Chiesa e dai preti nella storia e nel presente della società. Per il dottor Ferretti niente distingueva le superstizioni di chi credeva alle streghe e al malocchio o si curava con decotti e medicine di ciarlati dalle devozioni delle donne che affollavano la chiesa per la prima messa. In ambedue i casi vedevano solo rischi per la salute. Il suo giudizio si faceva severo davanti all’arretratezza del popolo: lo attribuiva alla responsabilità della chiesa. Ancora ai suoi tempi la percentuale degli analfabeti era altissima, senza che le due scuole maschili delle due località del comune potessero fare qualcosa di serio per cambiare la realtà. Il dottor Ferretti si augurava che finalmente le cose potessero cambiare e che le famiglie potessero mandare i loro figli alle università di Bologna e di Firenze. E tuttavia un medico condotto non poteva prescindere dal clero parrocchiali nel rapporto con la comunità. P. 222 L’uomo di chiesa provava a dirottare verso la pulizia delle anime la minaccia di una igiene che rappresentava la porta d’ingresso di una scienza razionalistica e materialistica. Ma qui il medico non poteva seguirlo, Ferretti, di convinzioni laiche, non nascondeva le sue molte riserve. Ne viene che essi hanno in casa un piccolo schiavo che li serve, li paga per servirli. L’istituto si affidava al parroco per l’attestato che i piccoli fossero vivi, sani e il parroco attestava tutto, senza scomodarsi a controllare una verità dei fatti che poteva portare a sospende quel guadagno. Miseria morale e materiale, dunque, quella del popolo contadino di Borgo San Lorenzo: quella materiale si misura coi due parametri consueti, l’alimentazione e l’abitazione. P. 231 Era la ben nota alimentazione a base di farina di un mais quasi sempre raccolto immaturo e poi muffito nei luoghi dove veniva conservato dai contadini. E il sospetto gravava sempre piu su di un simile nutrimento era quello di causare la pellagra che devastava tante famiglie. Quanto alle “povere abitazioni”, vediamo apparire ancora temi e termini famigliari. Erano le stanze senza camino dove l’inverno il fumo rifluiva e ristava e le donne ricorrevano alle braci dello scaldino. Quanto agli uomini, la speranza era risposta nelle scuole volute dal governo: che però erano poche e insegnavano poco. Ma di fatto regnava un analfabetismo generale. Ma quello che accendeva l’ira del medico era la misera morale del popolo: ne produceva a titolo di un documento non solo un elenco di feste e giochi abituali, tutti elencati con precisione, ma soprattutto la descrizione della quantità di pregiudizi e di superstizioni che spingevano le famiglie a rivolgersi a stregoni per le piu diverse malattie. Per loro il medico condotto era come se non ci fosse: vigeva ancora quello che per l’Italia dei secoli precedenti è stato definito un “pluralismo medico”, cioè il ricorso a una quantità di figure di guaritori, tra ciarlatani e stregoni, a cui ci si rivolgeva peri interventi spesso assurdi sui corpi. Quanto alle superstizioni, un posto importante vi trovava la credenza nelle streghe. Ecco cosa accadeva se ci si convinceva che qualcuno in famiglia fosse stato stregato: si aspettava che qualcuno si affacciasse alla porta e “la prima persona che vi capitava, deve essere la colpevole della malia, e, senza tante cerimonie, le si impone sotto pena d’essere gettata nel forno ben caldo si lavare con acqua santa il bambino, del quale è così assicurata la guarigione.” Ma c’era un particolare che riusciva incomprensibile per il medico: quelle famiglie, poverissime, erano capace di versare spontaneamente ogni anno tutti i soldi necessari per rendere pu splendida la festa del santo patrono. Le confraternite delle parrocchie c’erano e qualche volte funzionavano anche per interventi di aiuto reciproco, come quando uno dei confratelli sia ammalava o quando si dovevano farei traslochi di mezzadri cacciati dal padrone. Ma al di là di queste elementari forme di aiuto dato per garantirsi un capitale di gratitudine da riscuotere all’occorrenza, c’era la barbarie di un mondo rimasto al di fuori della storia. Di fatto le molte pagine in cui il dottor Ferretti descrisse con grande precisione le pratiche di cura per determinate affezione vere o immaginarie, insieme a credenze, rituali, feste dei contadini, riportano alla memoria del lettore gli elenchi di superstizioni, devozioni e forme di vita popolazione dei secoli della prima età moderna. Quello che si svolge davanti a lui gli appare come il dramma di un mondo congelato, rimasto fermo nel frattempo, deprecabile frutto di una incancellabile ignoranza e di pregiudizi che avevano preso il posto del vincolo sociale necessario. P. 233 Da queste parole appare chiaro l’esaurirsi delle speranze che il corpo dei medici condotti aveva investito in un riscatto delle plebi contadini o almeno in un loro spostarsi verso la classe operaia. Quanto ai contadini, la barriera dell’igiene sommandosi a quella dell’ignoranza e della superstizione si configurava sempre piu come un muro invalicabile. 2. Operai e contadini a Pisa p. 233 Le relazioni dei medici finivano con l’essere un termometro delle mutazioni in atto nelle periferie e tra le classi popolari. Ne è un esempio quella topografia sanitaria del dottor Antonio Feroci che il suo collega Ferretti fece in tempo a leggere. Si trattava di una indagine sulle condizioni igieniche di Pisa e del circondario uscita a stampa nel 1873. Vi si raccoglievano informazioni e analisi con le quale l’autore intendeva rispondere alle richieste di circolari che andavano da quella del 1863 del ministero della guerra e una recente del 1° ottobre 1872 che aveva per oggetto le condizioni delle industrie e la salute degli operai. Il dottor Antonio Feroci: uomo di vasta cultura, attestata da una biblioteca costruita con ampiezza di orizzonti scientifici e interessi storico-umanistici che volle regalare agli studiosi e alla sua città, si mantenne fedele alla tradizione inaugurata da Bernardino Ramazzini. Lo mostra l’attenzione che dedicò al problema dell’organizzazione del servizio sanitario e alla condizione del medico condotto non solo nell’ambiente urbano ma in quelle zone di montagna e di campagna a cui dedicò il memoriale. Ma nella sua statistica sanitaria di Pisa e del circondario ebbe presente un preciso contesto dove il mondo del lavoro aveva notevole varietà di forme. Per delinearne le condizioni igieniche mosse intanto da una diligente esposizione di tutti i dati consueti e necessari: assetto del suolo, andamento climatico, precipitazioni, temperatura e così via. Ma si concentrò soprattutto sulla situazione dei lavoratori. Nella realtà di una città di studenti e lavoratori, dove vivaci tendenze anarchiche e nuove organizzazioni socialiste si scontravano con le tendenze liberali e filogovernative, il confronto tra la vita dei campi e quella delle fabbriche fu al centro dello scritto del dottor Feroci. In città e nei borghi vicini la fioritura di fabbriche meccaniche, opifici tessili, fabbriche di mobili e laboratori di abbigliamento doveva dare origine a un mondo operaio dotato di grandi vivacità politica. Sullo scorcio del secolo Pisa dovette conoscere l’infiammata oratoria e gli incitamenti allo sciopero e all’”odio di classe” che portarono in galera Pietro Gori e lasciarono tracce profonde nella tradizione locale. Di fatto, lo sguardo di Feroci sul mondo delle campagne fu piu distratto. Ma non perché i problemi die contadini gli apparissero piu trascurabili: solo che, ai suoi occhi, quelli degli operai erano piu gravi. Quanto al colono, per lui è un uomo che respira pur sempre l’aria dei campi. P. 236 Gravissima gli appariva la condizione dell’operaio costretto a passare ore in sale chiuse. Al confronto, la vita dei campi portava con sé “la calma dello spirito”. A descrivere la condizione di vita vediamo ritornare quella serie di questioni igieniche incontrato di continuo e s configurava il vecchio stereotipo del “sudicio”. Nelle case si affolla un numero sproporzionato di inquilini rispetto alle dimensioni degli ambienti e l’abitudine di tenere concimi ammassati presso la casa di abitazione, da lì emanavano miasmi nocivi alla salute. Quanto al cibo, quella che si avanza è ancora la dieta contadina a base di pane e acqua. Il problema ancora piu serio era proprio l’acqua: su 197 località del circondario solo 84 disponevo di acqua di buona qualità. Nelle città, quella che aveva sotto gli occhi era invece una società animata da fermenti novità: accanto a quelli di carattere politico c’erano anche indizi di ricercatezza nel vestire. E qui il medico vedeva insinuarsi la minaccia del lusso. Dunque, anche per il dottor Feroci si presentava qui il problema di come educare il popolo e dargli una norma morali o almeno delle istruzioni per l’igiene. La soluzione per lui era intanto l’istruzione obbligatoria. Quello a cui pensava era un popolo di lettori, finora mai apparso come realtà nella prospettiva dei medici condotti. 3. Il medico condotto e la violenza dello Stato: Sanluri Con l’opera d’un altro medico condotto, il dottor Salvatorangelo Ledda, titolare della condotta del piccolo comune cagliaritano di Sanluri, il dialogo a distanza fra i medici si arricchì di qualcosa di nuovo. La sua statistica fu il frutto di un lungo lavoro e di una osservazione attenta dei costumi del paese nel decennio dal 1871 in poi: ricchezza dei dati demografici, sociali e sanitari. Un forte orgoglio isolano e municipale circola nella descrizione dei costumi e della vita sociale del paese, che metto in primo piano la robustezza e la sanità collettiva di un popolo laborioso e fiero e non sopporta l’ingiustizia quando vede il suo popolo non solo sfruttato ma anche bestialmente punito quando osa protestare. Nella Sanluri dei suoi anni era accaduto un fatto importante: sapeva bene che i fatti narrati sarebbero risultati “assai amari” a “persone alto locate ed a talune autorità” ma lui decise di raccontarle lo stesso. Sanluri aveva vissuto una traffica giornata destinata a lasciare il segno nella storia d’Italia: 7 agosto 1881. Quel giorno c’era stata una rivolta popolare contro una fiscalità esosa e vessatoria in una situazione resa drammatica dalla povertà e dalla fame. Il suo racconta mostra come ben prima della giornata di Milano del 1898 fosse diventato abituale disperdere le manifestazioni popolari col piombo. L’animo del narratore vi si rivela tutto dalla parte dei “pacifici e laboriosi contadini di Sanluri” P. 238-239 Ma il popolo sardo non sopportava la prepotenza e non fuggiva davanti al fuoco delle armi. Gli spari furono la scintilla della rivolta: la folla “armata di bastoni, di zappe e di tridenti” aggredì e uccise il sindaco dell’epoca del provvedimento di aumento delle tasse, ritenuto responsabile delle malversazioni. Le conseguenze furono durissime. Un battaglione di carabinieri accorso in serata sparò sui sanluresi ancora presenti in piazza e mosse all’assalto con le baionette innestate. Furono fatti arresti indiscriminati. Al termine della dedica al lettore dove il dottor Ledda riportò questo testo si legge la data: 1° maggio 1884. Difficile dire se la scelta della data fosse del tutto causale. Quel giorno godeva di una antichissima tradizione speciale di tipo folklorico legata al lavoro dei campi e ai culti della fertilità, su cui la Chiesa aveva innestato una devozione speciale alla Madonna. Di lì a qualche anno l’attrazione esercitata da quella data doveva coagularsi nella scelta di farne il giorno della grande manifestazione del 1° Maggio 1886 a favore della giornata lavorativa di otto ore, da cui nacque com’è noto l’appuntamento annuale della Festa del Lavoro. Quell’aggressione dello Stato ai lavoratori di Sanluri nel racconto del dottor Ledda appare come una violenza freddamente decisa contro una popolazione pacifica che viveva del suo lavoro e intendeva tutelare una tradizione antica contro la sopraffazione di un sistema fiscale vessatorio. Quanto ai problemi igienici e sanitari di Sanluri, dalla sua narrazione non ne emergono di preoccupanti. L’igiene secondo il dottor non era per nulla trascurata. Le loro case erano di modesto aspetto, in genere vaste e pulite. Quella dei poveri sono senza pavimento. Problemi di igiene si affacciano invece nella fornitura dell’acqua perché i pozzi sono vicini ai letami. Ma della rude vita dei contadini il medico ha una percezione come di un mondo mitico che sopravvive: “nelle fredde serate invernali, tutta la famiglia accede in cucina stando attorno al focolare, avvolto spesso in una nebbia densa di fumo e da una soffocante aria irrespirabile”. Pastori e coltivatori possono contare su di una alimentazione ricca e variata. Sulle loro mense non manca né la carne né il pesce. Quanto all’igiene personale “puliti, si lavano mani e faccia ogni giorno”. Nella domenica mutano la biancheria delle persone ed ogni quindici giorni quella del letto. Ci sono dei poveri, non molti: però tra i braccianti nelle annate cattive la miseria è grave. Inoltre il dottore, con orgoglio, registra una vittoria sull’analfabetismo. 4. Romentino nella topografia di Giuseppe Gnocchi L’opera del dottor Giuseppe Gnocchi, titolare della condotta del Comune di Romentino in provincia di Novara, ci dà un nuovo saggio di quante differenze fossero concentrate nello spaio della giovane nazione italiana: La sua Topografia medico igienico statistica. Gnocchi fa un uso accorto dell’agilità della sua penna e del ricorso all’ironia e all’autoironia: si permette così di denunziare i comportamenti sbagliati dei romentinesi e le continue infrazioni al regolamento sanitario comunale nonché la disattenzione del sindaco: ma lo fa senza alzare la voce. Il suo libro di apre con informazioni di carattere statistico e ambientale. Secondo il dottor Gnocchi, abitavano nel piccolo centro 2158 persone, mentre 218 abitavano nelle cascine. A una popolazione di agricoltori, per lo piu coltivatori in proprio (proprietari e fittavoli, con pochi braccianti) si sommavano i soliti esercenti e professionisti di un borgo agricolo. Vi si produce frumento, mais, lino, riso. Il sistema dei navigli del Ticino e il cavo Belletti dedotto dal canale Cavour garantiscono acqua in abbondanza all’irrigazione. Ma quelle acque hanno anche inquinato i pozzi da cui si attinge l’acqua da bere. È uno dei tanti casi in cui dovrebbe intervenire il Comune coi necessari lavori per scavare pozzi piu profondo. E c’è ben altro che richiederebbe attenzione dai poteri pubblici ma anche dagli abitanti. Tra le malattie dominanti c’è la scabbia: la riportano a casa le figlie dei contadini che vanno a lavorare nella cartiera di Serravalle Sesia. Colpa dei padroni, prima di tutto, perché dovrebbero curarsi della salute e dell’igiene degli operai; ma colpa anche dei padri: se quelle figlie se le tenessero a casa, la “morale e la salute ne guadagnerebbero”. Nella parte seconda del libro si descrive l’abitato e si analizzano le carenze della nettezza di strade e abitazioni. La descrizione degli interni delle case dei contadini è accurata quanto inesorabile. Il dottor Gnocchi la fa seguendo i testi dell’autore sommo, Paolo Mantegazza; e quelle camere senza aria, quei letti con biancheria lavata ogni due mesi, l’assenza di latrine suscitano la prevedibile riprovazione del medico. P. 243 Il dottor Gnocchi ricorda subito che i contadini non hanno i mezzi per dotarsi di una stufa. E dunque “ogni consiglio igienico riguardo alla dimora nelle stalle, riesce per lo meno ozioso”. Non resta che sperare nell’avvenire “chi sa anche nei paesi non si aprano pubblici scaldatori. Ma per ora è giuocoforza permettere al povero contadino di sgranchirsi nelle stalle”. Tuttavia, il medico deve almeno richiamare all’osservanza che l’aumento dei casi di malattie come il tifo è un segnale d’allarme. Ecco il primo esempio: i contratti agrari praticati nel circondario di Torino sono distinti in tre modelli: 1) Mezzadria: con la divisione a metà del prodotto del suolo, restando a carico del mezzadro l’acquisto del bestiame e degli attrezzi e il costo dell’affitto dei pascoli. 2) Terzaria: due terzi di spese per bestiame e attrezzi al padrone e due terzi di prodotto a lui, 3) Affittanza: per piu anni; il fittavolo è il padrone di tutto il prodotto. Ci sono poi i contratti per manodopera salariata, come la boaria o schiavenderia, si tratta di figure che si collocano un poso al di sopra del semplice bracciante. Ma è soprattutto il bracciante agricolo che attira l’attenzione dell’informatore. Si tratta di una figura diffusa generalmente nelle campagne dove si andava affermando un’economia capitalistica. Quello di cui si analizza la condizione è il bracciante della Valle Padana, un’area dove “il lavoro salariato aveva sostituito in breve volgere di tempo la mezzadria o il piccolo affitto coltivatore”. Il bracciante viene compensato per il suo lavoro con una quantità di prodotti del suolo e di denaro adeguata alle opere stagionali e alla forza e capacità individuale. Ecco cosa guadagna il tipo ideale del bracciante tra i 24 anni e i 55 anni: da 10 a 11 lire a settimana nei mesi dei grandi lavori; meno tra settembre e ottobre e ancora meno da novembre a marzo. Un totale di 408 lire l’anno, che diventa 384 lire deducendo un tanto per i giorni di pioggia o di malattia. P. 251 Una notazione finale, solo apparentemente priva di connessione con quanto è stato detto prima: “da alcuni anni si va sviluppando un movimento di emigrazione all’esterno”. E intanto la manodopera si è fatta piu costosa e le campagne producono di meno. Di volta in volta i relatori si soffermano su punti speciali. Per esempio, l’alimentazione dei contadini, le loro abitazioni. Nel circondario di Pinerolo p. 252 Ma intanto si affaccia la piccola proprietà di poderi a conduzione diretta: una componente del mondo dell’agricoltura italiana destinata a riaffacciarsi di continuo accanto alle grandi aziende e alle forme diffuse di mezzadria, colonia parziaria e affitto. Scarsi guadagni ma una certa tranquillità nell’orizzonte della famiglia; se invece manca tra i braccianti, come mostrano i bilanci annui di alcuni luoghi dove nonostante il lavoro nei vigneti e l’abbondanza del vino, si raggiunge a stento il pareggio tra entrate e uscite. Nelle Langhe il vitto del contadino è “meschino”: pane e carne vi compaiono solo “nelle solennità” e il vino che si beve in zona di produzione è un liquido “dove predomina in grande abbondanza l’acqua”. Invece nel circondario di Vercelli il contadino sta “mediocremente bene” grazie al riso e può bere vino e mangiare carne di maiale. In lombardia si affacciano nuovi modelli di patti agrari che ci avvertono di una realtà sempre piu evidente: l’Italia non è unita nemmeno in questa materia. Cibo e bevande sono miseri come al solito e i bilanci di famiglia sono precari, la diffusa frequenza di debiti col proprietario è un problema che in genere apre la via al licenziamento. Regole particolari riguardano i contadini del milanese residenti nelle grandi cascine. In provincia di Pavia è del tutto scomparsa la mezzadria, vi predomina l’affitto. Qui ci si nutre a riso, frumento, segale, ma il frumento lo si raccoglie con la spigolatura. Un certo ingegner Trabucco, informato sulla situazione del comune di Ronchetto, descrive nei dettagli le differenze interne alla categoria dei braccianti, tra “giornalieri” e “salariati”, i primi pagati a giornata e i secondo con un contratto annuale; differenze margini, visto che ambedue ricevono dal padrone l’alloggio, la legna, il riso e il granturco per mangiare. Quanto ai contratti, tra le caratteristiche positive di quelli del circondario di Bergamo è sottolineata la tradizione che richiede un preavviso di un anno da parte del padrone per la disdetta, perché rispetta una tradizione di “stabilità di dimora e di abitudini” che lega affettivamente il coltivatore alla terra. Nell’avvicendarsi di scenari simili spicca la novità registrata dalla relazione sul Lodigiano, dove l’azienda rurale ha assunto un carattere di tipo industriale, perché vi si è introdotto la specializzazione delle mansioni e la divisione del lavoro: il “garzone cavalcante” cura il bestiame impiegato nel lavori, il “garzone bergamina” governa la mandria lattifera, il “paesano” lavora i campi usando badile e falce fienaia. Così il lavoro ha assunto qui “l’andamento ed i caratteri di una vera industria, col vantaggio altresì di avere interessato gli operai in alcune speciali coltivazioni. La relazione sul distretto di Mantova è firmata dal professor Enrico Paglia, antico allievo di monsignor Luigi martini che dal 1873 aveva lasciato l’abito sacerdotale per dedicarsi all’insegnamento. Vi si descrive una realtà sociale dove la mezzadria è sostanzialmente assente perché l’estensione delle proprietà richiederebbe famiglie di mezzadri ricche di braccia e invece è in atto un processo di disgregazione parentale che divide figli da genitori e impoverisce il nucleo familiare. Quanto al bilancio annuale delle famiglie contadine, va male: di rado si sfugge a debiti. Quanto all’alimentazione: quasi esclusivamente si nutre il contadino di polenta di mais. Notizie che si ripetono per il Veneto: in provincia di Verona, domina l’affitto e il contadino si nutre di mais. Nel distretto di Thiene la congiuntura di cattive stagioni e di malattie delle viti e dei bachi da seta e il peso delle tasse “hanno ridotto queste popolazioni ad un grado di miseria assai piu sentita di un tempo”: vi si vive di sola polenta mentre l’arrivo della “civiltà” ha creato attese e desideri di un “vivere migliore”. Col mutare del paesaggio cambia la forma del rapporto tra padroni e lavoratori della terra. nel distretto di Adria spicca la categoria dei boattieri: si occupano di mandrie di dodici o quattrodici animali, percepiscono un salario in contanti, hanno una casa in dotazione gratuita e un appezzamento di terra da coltivare in proprio. Un gradino piu basso lo occupano i braccianti obbligati che lavorano dall’alba al tramonto per il padrone. In generali qui i contadini vivono in pessime condizioni economiche: per colpa loro, scrive il relatore, perchè sono infingardi e lavorano poco. Ignoranti e pigri, hanno tuttavia un merito: “questa popolazione si può calcolare fra le piu tranquille d’Italia”. Come si vede, il relatore aveva un preciso punto di vista di classe, non ardeva dal desiderio di vedere progredire quella umanità. A queste relazioni frettolose e sommarie si contrappone quella dettaglia per l’area di Venezia, firmata Pier Luigi Stivanello. Il contratto di affitto in generi e denaro è da lui indicato come il piu diffuso e il piu favorevole alla condizione del contadino con il quale abita in case di mattoni. Il bracciante è a un livello piu basso: si indebita, spende il salario prima di esserselo guadagnato, è analfabeta. P. 256 Meglio di lui vive l’operaio delle manifatture, che ha il lavoro garantito tutto l’anno. Dalla relazione prendiamo la pagina sullo “stato deplorabile” delle abitazioni contadine “vecchie, sgretolate, con mura formati di rottami e di cocci, prive di camino”. Le residenze degli animali poco differiscono da quelle degli umani. Singolari è il giudizio che Stivanello dette nel suo libro sulla capanna del bracciante.: “le abitazioni coloniche dei braccianti sono per la maggior parte di canne, mal riparate”. L’avvocato guardava con simpatia al mondo contadino veneto e ai segni di ripresa dovuti da un lato all’impegno da parte dei proprietari piu coscienziosi e dall’altro alla diffusone di società di mutuo soccorso che sappiamo in atto allora da parte del movimento cattolico del Veneto. Stivanello registra anche segni di miglioramento nelle nuove costruzioni che vanno coprendo le campagne, almeno nei luoghi dove si praticano colture e si registrano condizioni materiali di livello superiore – un movimento che li appare come una “progressione continua e costante”. Dal veneto si passa al Friuli, dove troviamo la descrizione ampia e dettaglia di patti agrari diversi e complessi legati alle tradizioni locali: l’affitto – con la specificazione di obblighi per il colono come quelli di procurarsi animali e attrezzi rurali, di pagare le decime ecclesiastiche e portare col carro i materiali per il restauro della casa – la mezzadria, la colonia parziaria. Si descrive la struttura della famiglia, dove il posto di capofamiglia spetta al figlio maggiore ma è garantito uno speciale rispetto per le capacità del figlio piu abile; si elencano i “molti lavori e faticosi” che competono alla donna. In questa parte d’Italia si vive in “case comode ed aerate”. Ma l’alimentazione resta quella che conosciamo. Varietà di contratti anche in Emilia: mezzadria, terziareccio, e “famigli di spesa”. Ma il vitto è sempre polenta e minestre, rare la carne. Si emigra d’inverno dal Reggiano in Maremma. Note positive anche per la parte della Toscana. Il contratto d’uso generale resta la mezzadria. Nel pisano e sulle colline livornesi si mangia pane di semola, ma anche carne. Invece sull’isola d’Elba che le “condizioni economiche del contadino mezzaiolo, affittuario o giornalieri sono infelicissime”. Nel Senese, si lamenta la mancanza di una regolamentazione per legge delle consuetudini vigenti nella mezzadria per colpa loro, è difficile mandare via il mezzadro in tempi rapidi, col risultato che lo sfrattato ha tutto il tempo di sfruttare malamente le colture. E qui, oltre alla notizia delle pessime condizioni in cui si trovano le abitazioni agricole, troviamo un giudizio particolarmente severo sull’igiene, piuttosto raro in questa statistica. Di Umbria e Marche abbiamo una scheda sommaria. Per il Napoletano, significativo il bilancio annuo del contadino: può essere considerata fortunata la condizione del contadino quando il lavoro annuo gli basta per fare fronte alle esigenze di una stretta sussistenza. Nel circondario di Vasto, al frutto del suo lavoro il coltivatore aggiunge in passato l’emigrazione estiva in puglia per mietere il frumento; ve lo accompagnava la moglie che si dedicava a spigolare per riportare a casa un po’ di grano. Ma ora ha preso campi l’emigrazione in Argentina. In provincia di Avellino le cose vanno molto male: l’affitto e la colonia perpetua hanno sostituito la mezzadria, il sogno del benessere è come un voto religioso “difficile da realizzarsi”. Nelle annate cattive inedia e malattie decimano la popolazione. “squallido l’aspetto degli abituri, scarso il cibo, alimento principale un pane”. Le note diventano sempre piu cupe e le informazioni si rarefanno man mano che si scenda al sud. In Basilicata la condizione dei contadini è definita miserabile, vi si registra un grande movimento di emigrazione. Invece la descrizione si fa dettagliata per il mandamento di Catanzaro dove domina la grande proprietà e le terre vanno in affitto a speculatori che le ripartiscono poi in poderi da tre a otto ettari dandoli a lavorare a braccianti: però agrumeti, castagneti e vigne restano a sfruttamento diretto da parte dei proprietari. Man mano che ci si inoltra nelle terre del Sud si incontrano sempre piu spesso paesaggi e costumi legati all’abitudine dei coltivatori di vivere in paesi lontani dal luogo di lavoro. Nelle relazioni sulla Sicilia si fa avanti un popolo di lavoratori della terra distinto in salariati (boveri, campari, pastori) e giornalieri. Donne e ragazzi non vanno a lavorare nei campi. Tutte le relazioni rinviano alle tante variazioni da luogo a luogo tipiche dell’isola addentrandosi solo eccezionalmente nei dettagli delle divisioni tra padroni e lavoratori: ad esempio, nel messinese se il terreo della vigna è ottimo il mezzadro avrà solo un quarto del raccolto, mentre prenderà la metà se il terreno è sterile. L’autore spiega che, mente sui monti si vive male perché il disboscamento ha reso l terre sterili, nei colli e sui piani si vive da parte di proprietari e mezzadri una vita “discretamente agiata”. Sbarchiamo in Sardegna con una relazione generale redatta dal signor Egidio Marzorati, che si diffonde sulla estrema varietà dei paesaggi e del clima dell’isola. Si sofferma a descrivere un aspetto speciale della cultura sarda: il generale “amore immenso al possesso della terra”. è un amore che porta al frammentarsi infinito della proprietà e al moltiplicarsi di muretti di confine tra un pezzo e l’altro di terra, ol risultato di renderli ancora piu minuscoli. A questo si aggiunge la presenza di grandi latifondi di privati e di vaste aree detenute dai comuni e dallo Stato dove spadroneggiano i pastori. Sono loro che alimentano una conflittualità continua coi coltivatori: da qui si ha la formazione di speciali consorzi fra proprietari. Dettagli come questi danno un’idea della difficoltà del tentativo di inserire all’interno della statistica nazionale una parte d’Italia dai costumi e delle tradizioni del tutto peculiari. Si doveva alla formula di quel vincolo che legava padroni e contadini la garanzia della pace sociale da secoli tipica della toscana. Di Sonnino sapeva che la mezzadria non era limitata alla sua regione e non ne nascondeva le diverse forme. Ma c’è un punto su cui la tesi di Sonnino non ha convinto né gli studiosi né la classe mezzadrile: dove lui vedeva il regno dell’armonia perfetta tra padrone e contadino, la realtà era quella di un rapporto paternalistico che cancellava il rischio del conflitto sociale ma lasciava il contadino nella condizione di un servo obbedienza, privo di quella libertà che da secoli caratterizzava il cittadino. Gli articoli dei contratti pur nella loro variabilità storica e geografica mettono sempre ben in chiaro che il contadino “deve”, “è obbligato” ecc. Nel variare le formulazioni, quello che resta immobile nel tempo è il vincolo di completa subordinazione che lega il mezzadro al padrone: il quale può aggravare il carico delle prestazioni e mandare via dal podere la famiglia contadina a suo piacimento alla consueta scadenza calendariale del santo dei traslochi, san Martino o san Michele. La condizione del mezzadro era di tale dipendenza dalla volontà e dai prestiti del proprietario che ben si capisce perché quel regime di gestione delle colture si sia dissolto come neve al sole nell’Italia del secondo dopo guerra, negli anni Cinquanta. P. 270 Sonnino non aveva dovuto fare ricerche faticose per comporre questo accattivante quadretto. Si era limitato a prendere spunto dalla famiglia mezzadrile che lavorava per lui e abitava proprio sotto la sua villa. E tuttavia, pur con questi limiti le se pagine documentano quanto poco unitaria fosse quell’Italia unita se considerata dall’angolo visuale del mondo contadino: quell’area centrale della mezzadria era una specie di divisorio tra un Sud che sprofondava nell’arretratezza e un Nord in piena trasformazione capitalistica. La realtà del Mezzogiorno e della Sicilia appariva specialmente drammatica, soprattutto sul piano della criminalità coi fenomeni della camorra e della mafia. Non fu per caso se Franchetti dedicò proprio alla Sicilia un altro dei suoi viaggi di esplorazione in compagnia di Sonnino mentre si avviava faticosamente una commissione parlamentare d’inchiesta. Si confrontavano forme diverse di soluzione per un problema che era fondamentale di conoscenza. Era stato per questo che nel 1870 si era deciso di commissionare ai medici condotti la redazione di topografie e statistiche sanitarie dei loro comuni. Ma ormai era giunto il tempo di fare qualcosa di piu. Perché era anche in atto nella cultura delle classi dominanti quel mutamento dell’immagine dell’Italia segnalato da Benedetto Croce: dalla convinzione dell’abbondanza di ricchezza di un “giardino della natura” si stava passando alla deprimente idea della povertà naturale” del paese. 17. AGOSTINO BERTANI E LE INCHIESTE AGRARIE Il fatto nuovo nella storia delle inchieste sul mondo delle campagne fu l’aggravarsi della crisi in agricoltura mentre si moltiplicavano i segni dell’uscita dei contadini dall’isolamento e dal silenzio. L’apparizione di società di mutuo soccorso nelle campagne e la diffusione di idee e di associazioni politiche di estrema sinistra nell’area padana furono una scossa tellurica per le classi dominanti. Anche perché venivano dopo la comune di Parigi e mostravano il radicarsi di idee e tendenze apertamente rivoluzionarie. E così all’improvviso si moltiplicarono le proposte di inchieste agrarie. Tra i protagonisti vi furono ancora impegnati i medici. P.273 Quella che incontriamo su questa strada è la personalità di Agostino Bertani (1812-1886), colui che accanto a Garibaldi, Mazzini, Pisacane, fu il protagonista di tutta una stagione di lotte per la libertà e per la giustizia in Italia. Bertani in quello scorcio di secolo fu l’unico che riuscì a investire davvero la classe dirigente e le autorità di governo del compito di guardare seriamente al mondo di coloro che definì i lavoratori delle campagne. Dopo Lombroso, lo scienziato dei devianti e dei pazzi, e dopo Mantegazza, l’igienista della nuova borghesia, lo possiamo definire il medico dei contadini. Fu lui che riuscì nell’obiettivino fino ad allora mancato di mettere al lavoro la rete dei medici condotti per realizzare la “carta igienica” delle campagne italiane. Quella contro l’occupazione austriaca lo portò alla direzione dell’ospedale militare di Sant0Ambrogio durante le Cinque giornate di Milano. Amico e allievo di Carlo Cattaneo, si accostò ben presto a Mazzini, seguì Garibaldi nell’impresa dei Mille, incarnò l’anima piu riformatrice della Sinistra democratica italiana. Nacquero non pochi conflitti personali anche come capi come Garibaldi, col quale fu in disaccordo a proposito dell’annessione al Piemonte delle regioni conquistate. E così gli accadde pure con Cavour, di cui fu un interlocutore importante durante l’impresa dei Mille ma col quale si trovò in conflitto quando cercò di orientare Garibaldi a portare vanti l’impresa tentato la conquista degli Stati pontifici. Su allora che Cavour ritenne necessario il suo allontanamento. Eletto in parlamento, dalla Sinistra dell’arco parlamentare si era staccato entrando a far parte dell’Estrema sinistra. Fu in tale veste che elaborò e presentò un progetto di legge per l’avvio di una inchiesta agraria. Era un tipo di iniziativa che si era già affermata fuori d’Italia. Il ministro dell’Agricoltura Minghetti aveva concepito e avviato una proposta di inchiesta che aveva come obiettivo il problema che stava a cuore alla classe dominante: la produttività agricola come questione economica nel contesto di una concorrenza internazionale che spingeva a incentivare la redditività della proprietà terriera. Fu invece il tema delle condizioni sociali di quella che volle chiamare la “classe agricola” che figurò al centro della proposta presentata da Bertani nel giugno del 1872. Era una richiesta che veniva ormai anche dalle voci di un’opinione pubblica illuminata e consapevole delle condizioni del mondo contadino. Ma continuava a non trovare ascolto in un governo dominato dal dogma della libertà d’impresa e determinato a tutelare gli interessi dei proprietari terrieri. La relazione ministeriale intorno alle condizioni dell’agricoltura nel quinquennio 1870-74 offrì un ampio quadro che metteva a frutto i dati raccolti da una numerosa serie di monografie di tipo statistico ed economico. E altrettanto dicasi per le successive notizie “intorno alle condizioni dell’agricoltura”. Il resoconto dell’inchiesta del 1887 riproduceva i dati analitici relativi al rapporto tra spese e proventi per ogni ettaro coltivato a frumento nelle diverse aree italiane. Le risposte, redatte da proprietari o da professori di agronomia, illustravano le diverse tecniche di coltivazioni e i ricavi ottenuti dai diversi tipi di suoli, confermando una situazione difficile. Nel frattempo, però Bertani aveva continuato a battersi perché ci si occupasse delle classi popolari e delle loro condizioni. Nel discorso con cui aveva presentato in Parlamento la sua proposta di inchiesta agraria da cui era nata la grande Inchiesta Jacini, ricordò la famiglia contadina dell’Agro romano che lo aveva ospitato e nascosta nel 1867 durante la fallita impresa garibaldina. Per convincere i moderati della maggiore urgenza del problema sociale – le condizioni dei contadini – rispetot a quello economico, fece balenare il rischio di disordini e rivolte in assenza di politiche adeguate: tenessero ben conto i membri del Parlamento che non si trattava solo di un problema di giustizia ma anche di una scelta dovuta “all’opportunità, alla prudenza”. Bisognava “prevenire i danni che il disagio della numerosa classi agricola può cagionare all’ordine sociale”. Perciò si doveva deliberare una Inchiesta sulle condizioni attuale della classe agricola. Con queste parole si era aperto la presentazione della proposta di legge avvenuta nel giugno 1872. È ben noto quale idea ci si facesse della maniera di affrontare la “questione sociale” da parte dei governi della destra e della sinistra storica. E Francesco Crispo doveva sottolinear e in seguito che è per risolverla bisognava “rendere facile il lavoro, col diminuire le difficoltà al proprietario e al fabbricante dai quali il lavoro è alimentato. Questioni complesse dalla cui soluzione dipenderò la fine del socialismo”. Socialismo, ecco lo spettro che faceva paura. E alla paura fece ricorso Bertani per evitare il rischio che l’inchiesta si risvolgesse solo al versante degli interessi dei proprietari terrieri. P. 278 In realtà, il governo era sensibile alle minacce di pericoli quale la violenza di organizzazioni segrete e sconosciute, come la mafia. E fu proprio in quella direzione che operarono le indagini della Giunta per l’inchiesta sulle condizioni della Sicilia. Qui toccò i grandi proprietari dare informazioni sul sistema dei latifondi e sulle miniere. Il marchese Francesco Paternò di Raddusa, richiesto di cosa pensasse “di quei ragazzi che lavorano nelle miniere, e della legge che è proposta di stabilire l’età, in cui i ‘carusi’ possono entrare a lavorare, e le ore di lavoro” risposte che “questo sarebbe una rovina per la coltra delle miniere”. Quanto ai contadini, se ne parla solo in un distratto passaggio per tributare un elogio alla loro “vivida intelligenza”. Ci vollero anni, l’avvento della Sinistra al potere e il consenso personale di Agostino Depretis, amico e già compagno di studi di Bertani, perché si desse seguito alla sua proposta. Intanto il ministero dell’Agricoltura si dedicava a raccogliere e pubblicare informazioni sullo stato della produzione agricola, allo scopo di “trar profitto dai prodotti agrari delle diverse parti d’Italia”. 1. I contadini nell’Inchiesta Jacini Alla questione che era al centro della proposta di Bertani i relatori fornirono risposte che variano da brevi appunti a lunghe e analitiche esposizioni. Tra il 1879 e il 1880 affluirono alla giunta 174 monografie. Quella del geometra Lorenzo Fantino dedicata al circondario di Alba, fornì un quadro sommario. Assoggettati a fatiche troppo pesanti, incorrevano in difetti fisici, come l’ernia che poi li rendevano inabili al servizio militare. Anche se quell’obbligo di due o tre anni di assenza dal lavoro era una vera calamità per lavoratori di tutte le categorie. Ma il suo contadino resta confinato aldilà della barriera dell’igiene: non si pettina né si lava. Il geometra su una cosa non aveva dubbi: non c’era bisogno di nessun intervento statale per migliorare la condizione dei lavoratori della terra. Il che non poteva che andare nel senso voluto dalle classi dominanti. Ben diversamente accurata la monografia sulla provincia di Mantova, redatta da Enrico Paglia. Qui alle condizioni dei lavoratori della terra furono dedicate pagine densi di informazioni. Non mancavano certo problemi: c’era quella della mortalità infantile ma c’era anche la pellagra. Si legge la descrizione di case coi muri di mattoni crudi, o anche di canne intonacate di fango e coperte di canne. Il regime alimentare non è mutato dai tempi della statistica di Melchiorre gioia per la categoria dei braccianti: ridotti a vivere di sola e scarsa polenta. Altri problemi frutto della miseria: poca pulizia, permanenza dell’analfabetismo, segni di disgregazione sociale, l’emigrazione in Brasile, l’abbandono della religione per reagire a un clero oscurantista e reazionario, la diffusione di furti. La conclusone sottolineava “il bisogno di migliorare la condizioni economica e morale dei contadini”. Tra le monografie inviate alla giunta c’era anche altro su Mantova: tre volumi manoscritti redatti dal conte Gerolamo Romilli: L’agricoltura e le classi agricole nel Mantovano. Risposta al programma per l’Inchiesta agraria. Opera portata a termina nel 1879. Il conte Romilli in questo scritto individuò con precisione le diverse categorie dei lavoratori della terra: bifolco, castaldo, bracciante, risarolo, caporale, mandriano e avventizio. Il piu precario e miserabili era l’avventizio, chiamato a lavorare solo nei “pochi dì che dura la mietitura” e solo allora nutrito dal padrone con pane, minestra e vino: ma per il reto condannato all’ozio alla ricerca di lavori sempre mal pagati. Ma quando deve descrivere il contadino, per lui quel popolo di lavoratori dei campi è una specie piu animale che umana. Il suo modello è quello dell’antropologo Lombroso, impegnato a dedurre da indizi fisici l’appartenenza a una razza diversa e immutabile. Il suo contadino è un oggetto fisico: p.283, 284 Quella che si avanza senza veli è l’ormai matura idea della imputabile regressione razziale del vinto nella lotta per la vita. Il contadino del conte Romilli è privo di intelletto, partecipa alla messa senza capirne nulla. Non conosce sentimenti e idealità nobili – l’amore per la patria, il senso dello stato; si sposa per avere una campagna nelle sue fatiche. Il ritratto morale della donna è quello di un essere stupido e superstizioso. Pacifici e inoffensivi, ma privi di intelligenza e di sentimenti morali, facili da guidare e da tenere a bada. Di diverso tenore le pagine che il commendator Emilio Morpurgo dedicò ai contadini del Veneto. La sua relazione offre un caso esemplare di quanto lo sguardo del relatore potesse superare i condizionamenti di classe e concepire la realtà dei lavoratori dei campi come mondo pienamente umano. Nella dedicata a Francesco Crispi, datata 1° maggio Panizza spiegava che quella sua sintesi aveva lo scopo di rendere noti al paese i risultati piu importanti dell’inchiesta: era necessario “illuminare le popolazioni sui veri loro bisogni”. Era convinto che i provvedimenti presi dal governo Crispi in materia di emigrazione, cooperative di braccianti e altro avessero già avviato la soluzione dei problemi emersi nell’inchiesta. C’era stata anche la legge del dicembre 1888 per la Tutela della igiene e della sanità pubblicata, elaborata da Pagliani sulla base dello studio svolto da Bertani per incarico di Depretis. Benedetto Croce la ricordò nella sua Storia d’Italia come una pagina memorabile “con la quale la vigilanza igienica in Italia fece molti passi innanzi, concorrendo alla sparizione o attenuazione delle epidemie e degli altri morbi, e all’abbassamento della mortalità”. Mario Panizza si trovò davanti al compito di sintetizzare materiali diversi, relativi a una popolazione spesso dispersa nelle campagne le cui malattie, coi ricoveri ospedali e l’eventuale morte, non risultavano da serie specifiche ma restavano confuse nei censimenti generali. Qui si trattava di descrivere le condizioni di vita di una popolazione agricola che contava, al censimento del 1881, circa quindici milioni di persone. Da un lato vi si consideravano come veri e proprio lavoratori circa cinque milioni di uomini, dato che il resto era costituito da bambini, donne e vecchi. Dall’altro, nel corso dell’inchiesta era apparso con tutta evidenza che il lavoro di fanciulle e donne faceva parte integrante della fatica contadina. Per dare un ordine al materiali in modo da esporre in sintesi i risultati dell’inchiesta, Mario Panizza organizzò il suo libro in tre parti: la prima fu dedicata al “tenore igienico normale dei lavoratori della terra”, cioè alle condizioni dell’ambiente di lavoro; nella seconda si occupò dello stato effettivo di salute dei lavoratori e delle cause speciali dei loro malanni, nonché le condizioni di vita; nella terza espose le proposte avanzate dai medici condotti per porre rimedio alle cause economiche, igieniche e morali delle cattive condizioni di quella classe. Affrontando le condizioni di vita dei contadini, vennero subito in primo piano i tre criteri fondamentali con cu ida tempo i medici definivano le cause di salubrità o insalubrità dell’ambiente: l’altitudine del suolo, l’aria e l’acqua. Risulta così che le vere vittime della malaria non erano gli abitanti delle zone infette, quelle censite dalla Carta della malaria, la grande opera realizzata dall’onorevole Luigi torelli sulla base di un’accurata inchiesta e pubblicata nel 1882. Ma erano i lavoratori che vi emigravano temporaneamente, in operazioni di raccolta di messi, bonifica o costruzioni di strade. Nel capitolo II di questa parte si parla del lavoro della terra. solo un cenno all’uso delle macchine in agricoltura, un fenomeno ancora marginale ma giudicato positivo perché capace di stimolare l’intelligenza dei lavoratori attraverso la necessaria istruzione tecnica. La griglia del lavoro si articola in colture miste, allevamento del bestiame, boschi, riso, canapa e lino, e infine miniere. E comincia l’esame dei rischi speciale che in ciascuno di questi settori gravano sul lavoratore: l’uso di attrezzi come vanga, zappa, la fatica del sollevare, comportano precise minacce alla salute. Per esempio, la mietitura è causa di congiuntivi, otiti con le polveri che trasporta. Ma ci sono minacce come l’insolazione e il tetano. Dall’inchiesta si affaccia un’Italia non coltivata, di boschi e di prati, ma si avanza anche l’Italia delle risaie. È qui che nell’autunno, quando si fa la sarchiatura dei terreni emersi, un misto di fattori ambientali e di ause sociali porta al pericolo della malaria. Lo stesso accade per la macerazione ella canape e del lino. Ne sono infestate le campagne di Piemonte, Lombardia e Veneto. Ma le considerazione finali di questo capitolo suonano positive: il lavoro dei campi è piu sano di quello delle fabbriche, il contadino potrebbe essere considerato piu fortunato dell’operaio se non ci fossero circostanze speciali come il lavoro dei fanciulli, quello delle donne gravide, il contesto e l’eccessiva fatica. Affrontando il capitolo III il tema del prodotto del lavoro, Panizza richiamata l’attenzione sul regime alimentare dei lavoratori. Il pane di frumento e di varie mescolanze di cereali risulta l’alimento comune a tutta l’Italia. Ma nella mescolanza si scopre subito che domina il granturco, con la polenta che è alimento integrativo e molto spesso sostitutivo del pane. Insomma, ci sono mille modi di fare il pane in Italia e spesso il frumento vi è segnalato come ospite assente. Mentre per quel che riguarda il companatico, incontriamo la presenza diffusa delle ministre, in molte parti d’Italia “la base principale dell’alimentazione del contadino”. Della minestra è citata la variante della pasta asciutta, condita col pomodoro. Quanto alla carne, quella bovina risulta di raso nell’alimentazione, mentre è diffuso il consumo di quella salata di suino. Diffuso invece il ricorso al latte, formaggio e uova. E anche per quello che riguarda il vino, prodotto generalmente in tutta l’Italia, accade qualcosa di simile al pane di frumento: il contadino che lo produce beve solo vinelli di infima qualità o ne manca del tutto. Un consuntivo finale pone la domanda se questo cibo, pur nella sua povertà, sia almeno sufficiente. E qui si ricorre ai dati sulla tassa del macinato per avere una indicazione, che comunque è negativa. Passando all’abbigliamento, emerge che nella maggior parte dei luoghi i contadini indossano vestiti fatti in casa, usano poco le scarpe, molti gli zoccoli e spesso non calzano nulla perché vanno a piedi. Per quanto riguarda la descrizione delle abitazioni: si parla di case e capanne di abitazione in orribile stato, miseria che contribuisce a generare un abbrutimento che porta all’assoluta incuria. La causa è la miseria economica. Lo spazio abitativo, il rapporto tra casa e stalla, casa e letamaio, l’esistenza delle fognature, la vicinanza dei cimiteri sono la realtà censite provincia per provincia. I risultati descrivono un vero disastro igienico: nei circondari di Torino, di Alessandria, di Novara, di Pavia si segnalano stanze di pochi metri dove dormono da cinque a otto persone, mancanza totale di cessi sostituiti da fosse scavate presso la casa, contadini che all’uopo vano in aperta campagna, nessuna sogna. La parola ricorrente è “sudiciume” D’altra parte, però seppure a Modena le stalle fanno corpo con le case, si vanno separando ovunque con le nuove costruzioni e la nettezza pubblica vi appare curata. Dunque, emergono anche segni di novità positive qua e là, ma in un contesto in cui domina sempre l’inadeguatezza degli spazi e le problematicità degli ambienti, tanto dal punto di vista igienico quanto da quello della protezione per gli abitanti. Nella provincia di Catanzaro i medici dicono che non c’è pericolo di asfissia per gli abitanti perché il cattivo stato delle case, le tegole, le imposte delle finestre e le porte sconnesse ammettono aria da ogni parte. E la sporcizia domina nelle pagine relative all’uso della biancheria. Segue una dettagliata ricognizione della distanza che separa i cimiteri dagli abitanti nelle diverse province. Vi si constata che in massima parte la distanza minima di 200 metri non è osservata. La conclusione generale è che le condizioni igieniche espongono la popolazione rurale al rischio di malattie contagiose e di vere e proprie epidemie: tanto che c’è da meravigliarsi se qualche località è sfuggita a tale sorte. Anche se la dispersione del popolo contadino lo ha protetto dall’attacco dei germi infettivi che hanno colpito i centri abitanti. Segue in dettaglio l’elenco delle malattie prevalenti tra i lavoratori della terra: tubercolose, il morbillo, la scarlattina, il vaiolo, la malaria. Sulle cause della diffusione della malaria il compilatore non si azzarda a entrare nella discussione scientifica né in quella dei progetti di riforma discussi in Parlamento. Si limita però a far notare che “dove si può avere acqua potabile salubre”, non si notano piu gli effetti della grave intossicazione”. Il successivo capitolo si occupa delle cause che portano a un permanente deperimento degli organi. E queste vengono individuante nell’alimentazione e nella miseria. Esaminando la qualità dei cibi dati ai bambini in tenera età si scopre che quasi ovunque vengono nutriti con pane inzuppato nel latte o bollito nell’acqua, oppure pane nel vino. La conclusione generale è che in Italia “la povertà del latte materno obbliga le famiglie a sostentare il bambino con altri alimenti” da ciò si comprende perché c’era una predisposizione alla rachitide. L’alimentazione povera e sbagliata veniva individuata anche come una causa predisponente alla pellagra, la circostanza ricorrente era “l’uso del grano turco di qualità inferiore ed avariato, nel quale può ritenersi sia contenuta la causa specifica di tale malattia”. Da qui si procedeva raccogliendo sistematicamente dati sul numero dei casi di pellagrosi e ragionando sull’andamento del malanno negli ultimi anni. Ne risultava che le vittime erano quasi esclusivamente contadini dell’area padana, per lo piu gli avventizi e in genere “di preferenza i piu poveri”, nutritiva a base di mais immaturo. Dunque, non era il lavoro la causa ma la nutrizione. Il lavoro diventava causa di danni gravi all’organismo quando si svolgeva in ambienti e in condizioni non adeguati. Tale era la fatica eccessiva degli uomini malnutriti, ma anche quella delle donne nello stato di gravidanza che andavano incontro a parti immaturi. Ed eccessiva era anche la fatica del lavoro per i bambini. Il paesaggio che affiora da queste pagine è quello di un mondo campestre dove i fanciulli in generale fino all’età di dieci anni si vedono scalzi, vagabondi. Ai bambini spettava precocemente lavorare, nel badare al bestiame, che poteva essere sopportabile, alla zappatura, al trasporto di pesi nelle fabbriche di mattoni. E per legge a partire dagli 11- 12 anni, poteva essere l’orario di lavoro uguale a quello degli adulti. P. 300 Vi sono indicati il numero degli asili infantili, chi li gestisce, il numero delle scuole tra pubbliche e irregolari, il numero dei frequentanti, la percentuale degli analfabeti tra i contadini di leva. È una radiografia dello stato di alfabetizzazione ma anche qualcosa di piu: è un atto di accusa allo Stato per l’assenza delle scuole e per le condizioni in cui funzionano. Prendiamo un caso eccezionalmente buono, quello del Mantovano. Qui ci sono asili aperti in tutti i 68 comuni (Tutti tranne uno sono laici). Li frequentano 8000 fanciulli. L’obbligo scolastico è garantito ovunque. Ma nella realtà la classe dei lavoratori delle campagne “non può, a causa della distanza, per mancanza di strade, di ponti, approfittare delle scuole”. Così molte scuole sono state chiuse perché restavano deserte. E non c’erano solo gli ostacoli materiali di strade e ponti: il fatto è che i fanciulli lavoravano per gran parte dell’anno. Per quanto riguarda la quantità di asili infantili attivi nelle diverse province, accanto al caso eccezionale del Mantovano, si va ad esempio dai 154 aperti su 443 a Torino. Una realtà ulteriore si affaccia con casi come quello di Trapani, dove nessun comune rurale dispone di asili infantili e diversi comuni non hanno scuole aperte, né strade, e dove l’analfabetismo dilaga. Anche perché pur dove c’erano scuole, i genitori preferiscono di applicare i fanciulli ai piccoli lavori campestri, e in molti luoghi nutrono pregiudizi contro le scuole non affidate al clero. Panizza riconosceva che saper leggere e scrivere non era la cultura che serviva all’agricoltore. E il difetto di cultura era rivelato dalla diffusione di superstizioni e pratiche religiose dannose per la salute delle persone: tale era il portare il bambino appena nato alla chiesa per il battesimo anche se la stagione fredda lo sconsigliava. Quanto ai pregiudizi e alle cure superstiziose piu strane: manipolare il cranio dei neonati per dargli la forma desiderare, tenere sassi in bocca per la balbuzie, applicare sterco di bue contro dolori di denti, e altri ancora. Questi pregiudizi sono comuni alla popolazione agricola di tutta Italia, piu radicati nelle donne. Ecco uno specchio dell’unità culturale delle campagne italiane, preesistente a quella politica e destinata a resistere ancora a lungo. Ma si tratta di una realtà non piu statistica e fuori dal tempo. Ci sono segni di mutamento: superstizioni e pregiudizi vanno rapidamente scomparendo dove piu si diffonde l’istruzione. Si giunge così alla parte terza dell’opera dedicata ai provvedimenti che si ritengono necessari, divisi in Provvedimenti d’orine economico e Provvedimenti d’ordine generico. La materia è vasta. Il suo intendo è dimostrare che tocca ai poteri pubblici – comuni e Stato – ma anche ai proprietari terrieri intervenire con misure adeguate per risollevare le condizioni di esistenza dei coltivatori. Che lo si possa fare sta a dimostrarlo da un lato l’opera già svolta da parte dei Comuni e dall’altro quella che lo Stato si è impegnato a fare con la nuova legge sanitaria. A quest’ultimo riguardo si segnalano le misure piu urgenti: per esempio, contro la malaria non basta provvedere alla bonifica ma intanto è importante garantire acqua potabile agli abitanti delle zone infestate. Quanto ai proprietari terrieri si propone che siano obbligati per legge a modificare le colture quando portano nocumenti ai coltivatori: per esempio, sarebbe da limitare l’estensione delle risaie nell’area padano-veneta. Per ciò che concerne i provvedimenti d’ordine igienico, le proposte avanzate coralmente dai medici condotto e qui riferite toccano soprattutto il lavoro dei minori, i quali dovrebbero prima completare il corso di scuola elementare e poi essere avviati a lavori tali da non minacciarne la crescita e la salute. Quanto agli adulti, la richiesta è che per legge si fissi la durata dell’orario lavorativo e si limiti in modo rigido a quella di lavori speciali, come la brillatura del riso. Ma intanto si possono prevedere misure di sorveglianza e di controllo sui luoghi dove molti lavoratori si raccolgono insieme – cave, filande, fornaci e così via. Il principio guida è che dell’integrità fisiologica del lavoratore dipendono non solo la salute degli individui ma il benessere dell’intero paese e l’eliminazione della criminalità. Quello che accadeva nel Mantovano era una svolta storica: l’uscita dei contadini da una secolare condizione di supina obbedienza a padroni e al clero. Sia la classe padronale sia le categorie sociali deputate alla tutela morale e fisica dei lavoratori delle campagne – il clero e i medici – avevano a lungo testimoniato di quella condizione, seppure con sentimenti assai diversi. Perché proprio nel Mantovano? P. 312 Questa la realtà, che non piaceva nemmeno a chi ne stendeva questa così lucida diagnosi. Era stato a partire dal 1878 che nel Mantovano le Società di mutuo soccorso avevano messo radici nelle campagne trovando consensi anche tra borghesi di idee democratiche e di antica militanza patriottica. Ma davanti alla vittoriosa lotta dei braccianti e alla minaccia del socialismo nelle campagne la risposta dello Stato liberale era stata dura: l’intervento dei carabinieri e l’arresto di ben duecento scioperanti. Ma quella che è stata definita la grande peur dei ceti abbienti e dei tutori dell’ordine continuò a incombere sull’Italia di quegli anni, insieme al fatto nuovo dell’affacciarsi del legame collettivo di reciproca assistenza e di lotta tra i contadini. L’altra vicenda che scatenò una crisi ancora piu violenta fu la formazione dei Fasci siciliani, movimento nato intorno agli anni Novanta come reazione alla drammatica condizione economica e sociale dei contadini, braccianti senza terra e mezzadri proletarizzati. Nell’isola la prima apparizione dei Fasci dei lavoratori si era avuto a Messina nel 18889. Ma fu tra il ’92 e il ’93 e a partire da Palermo che i Fasci dei lavoratori conobbero una rapida diffusione. E il 1° maggio del ’93 si dovette registrare il fatto nuovo: improvvisa e dilagante nascita di fasci contadini. La crisi produttiva siciliana del grano, del vino e dello zolfo, nella cornice di una depressione economica internazionale, portò alla rottura del fragile equilibrio sociale italiano nel punto piu debole. Ma fu la reazione violenta del Capo di governo Francesco Crispi, convinto dell’esistenza di un complotto internazionale, che esasperò il conflitto. Mentre, in un contesto di agitazioni crescenti, il Partito socialista si poneva l’obiettivo di conquistare il popolo delle campagne e guardava alla prospettiva di una rivoluzione sociale, il decreto di stato d’assedio del 3 gennaio 1894 dava alla crisi uno sbocco violento, tale da minacciare la stessa recente costruzione unitaria. Nel movimento siciliano accade finalmente di ascoltare la voce autentica dei contadini. Furono loro a portarvi un contributo nuovo e originale, con l’affiorare di antiche e radice tendenze di un cristianesimo millenaristico: fu una contadina di Piana dei Greci, insediamento di emigrati albanesi di fede ortodossa, a dire: “Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci”, mentre invece erano i preti ad essere contrari. Di fatto, fu una svolta epocale quella che si verificò allora nella storia dei contadini italiani: con la nascita delle organizzazioni collettive di solidarietà e di mutua assistenza e con la partecipazione diretta alla lotta sociale, il popolo dei lavoratori delle campagne cessò di essere una classe oggetto. Si deve chiudere qui dunque il viaggio attraverso le rappresentazioni, le statistiche e le proposte di aiuti e di rimedi per i malanni dei lavoratori delle campagne elaborate da coloro che per il loro stesso ufficio dovettero viverci a fianco e insieme – i parroci e i medici condotti. Leggendone le testimonianze raccolte nelle topografie e nelle statistiche sanitarie abbiamo registrato un ricorrente motivo guida nella considerazione di quel contesto come un mondo altro, non solo per le gravi carenze di nutrimento e di riposo e per la minaccia di malanni figli della miseria, ma anche e soprattutto per il suo collocarsi al di là di una speciale barriera di confine col resto della società: una barriera culturale fatta non solo di ignoranza dell’igiene, ma anche di impenetrabilità per chi cercava di aprire un canale di comunicazione con quel mondo e di portarvi la luce della ragione e le conoscenze della scienza. E la sensazione di estraneità a volte aveva assunto toni di rifiuto, cine davanti a una specie animale. 18. I CONTADINI: UNA CLASSE SOCIALE O UNA RAZZA? Proprio in apertura della lunga nota introduttiva di Mario Panizza al volume dell’inchiesta Bertani si legge un’osservazione insolita che merita attenzione. Vi si contestava in via preliminare quella concezione politica che negava alla società il potere di eliminare o mitigare “ciò che nelle condizioni delle classi operaie vi è di piu crudele per esse e di piu pericoloso per la civile convivenza”. Secondo Panizza, senza voler negare la dottrina liberale dei limiti del potere dello Stato, si trattava di conciliarla con gli ideali di umanità, in modo da mantenere in vita la democrazia politica. L’opera che presentava mirava pertanto a dimostrare che le gravi condizioni sanitarie del mondo contadino erano la conseguenza della miseria e che tale causa poteva essere rimossa solo con l’azione del governo. La società aveva il diritto e il dovere di intervenire con leggi e provvedimenti in una situazione di miseria non priva di pericolo per la società stessa. Crudele la miseria, dunque, ma anche pericolosa. Lo sguardo gettato sul mondo delle campagne era pietoso ma anche attraversato da un fremito di paura. Il tema delle “classi pericolose” circolava da tempo nell’opinione pubblica e negli incubi delle classi dominanti. Le paure della società borghese erano alimentate soprattutto dalle crescenti agitazioni e proteste di operai e contadini, dall’incubo di quel grande bagno di sangue che c’era stato poco prima con la comune di Parigi. Panizza era consapevole che l’ideologia liberale rigettava l’idea di affrontare con leggi le condizioni igienico e sanitarie, appellandosi al principio dei limiti dell’autorità dello Stato. Ora c’è un altro argomento: per rigettare ogni intervento statale a favore delle classi popolari si avanzavano dottrine di tipo biologico. Erano, secondo Panizza, quelle dottrine che, risalendo ai fondenti della biologia, pretendono di stabilire che la miseria è un fatto neutrale, che sarebbe vano ed inopportuno il pensare di apprestarvi rimedio, che anzi per le sorti della collettività, la miseria si deve considerare un rimedio a sé stessa. Non che li intendesse negare il rispetto dovuto alla verità scientifica. Gli era chiaro però che, se quelle dottrine di tipo biologico avessero avuto un qualche fondamento, tutta l’impresa dell’inchiesta sulle condizioni miserabili del mondo contadino si sarebbe rivelata del tutto inutile. Ci imbattiamo qui in uno degli sviluppi tardo-ottocenteschi della teoria dell’evoluzione, cioè di quel miscuglio di darwinismo e sociologia spenceriano che leggeva i rapporti sociali come una lotta per l’esistenza dove il debole era destinato a soccombere. Su questo si era innestata una concezione di quella lotta come un conflitto di razze. Quella che Panizza riassumeva nelle sue pagine era la tesi di un conflitto tra ricchi e poveri che aveva assunto l’aspetto di una lotta per l’esistenza tra razze superiori e razze biologicamente inferiori, destinate a scomparire. Era stato Cesare Lombroso che tra le due edizioni dell’Uomo delinquente aveva proposto la sua tesi su follia e delinquenza come dati congeniti ed ereditari, iscritti dalla natura nel cervello di una razza rimasta ferma a un livello inferiore nella storia dell’evoluzione – una razza individuabile sulla base di precise misurazioni fisiche. Su quel terreno si erano sviluppate scuole di psichiatria, si era acceso un vivo dibattito ed era stata avviata la costruzione di una rete nazionale di manicomi. La discussione sui problemi della società capitalistica e sulla criminalità dell classi subalterne coinvolge in quei primi anni Ottanta nome come quelli di Filippo Turati ecc. e fu allora che venne affermandosi quell’ideologia del rapporto tra Nord e Sud d’Italia dove - come scrisse Antonio Gramsci - “il mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce piu rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale”. Basta sfogliare gli scritti di Enrico Ferri per trovarci davanti alla tesi con la quale Panizza si trovava a discutere. Era lui il difensore dei contadini mantovani nel processo contro il movimento “La Boje!”. Eppure quella idea era proprio la sua: affrontando la questione del rapporto tra socialismo e criminalità nel suo libro si era servito di una citazione da Taine per sintetizzare la sua tesi: nulla è piu pericoloso di una grande idea in un piccolo cervello. Grande idea il socialismo: che però nel ristretto cervello di certi seguaci poteva produrre l’effetto di spingerli ad anticipare con la violenza l’abolizione della proprietà privata invece di attendere l’evoluzione pacifica della società. P. 318 Nel contesto dei dibattiti di una cultura che meritò la definizione di “socialismo degli imbecilli” si avanzava anche in Italia una concezione dell’igiene della società – veicolata soprattutto dall’opera di Lombroso – che portava a considerare tutti i comportamenti devianti e contrari all’ordine stabilito come forme di degenerazione e di inferiorità naturale. Nell’opinione di Ferri, buon testimone di quella ricezione del marxismo che Gramsci bollò come “lorianesimo”, il pericolo doveva essere estirpato bloccando la trasmissione di quella razza per via naturale e – quando si fosse in presenza di comportamenti violenti – eliminando fisicamente i colpevoli. Il “tipo criminale” lombrosiano su cui si concentrò la critica di Gabriel Tarde in un saggio del 1885 rappresentava una malattia sociale che doveva essere combattuta senza falsa pietà. Il dissenso di Mario Panizza nei confronti di opinioni come queste era netto: si esprimeva tuttavia in modo causo e deferente e tacendo il nome di chi le sosteneva perché il professor Ferri era pur sempre il penalista che aveva accettato di difendere i contadini nel processo sui fatti del movimento “La Boje!”. Di Fatto Panizza nel suo scritto cercò di prendere le distanze dall’incipiente versione razzista del conflitto di classe- segno che ne avvertiva la strisciante diffusione nella sua stessa parte politica. Fu così che, discutendo con chi negava il diritto dello Stato di intervenire nei rapporti sociali, si limitò a contestare l’idea che le condizioni fisiche e morali del popolo delle campagne fossero tali da caratterizzarlo come una razza a parte, erede di tratti immutabili. P. 319 Resta il fatto che qui per la prima volta è possibile registrare il profilarsi della nuova barriera che si stava alzando tra il contadino e il resto dell’umanità: a quella dell’igiene subentrava ora quella della razza. E del resto la parola “razza”, che a lungo aveva sonnecchiato nel linguaggio storico e scientifico dell’epoca precedente come sinonimo di popolo o di cultura, si andava piegando proprio in quegli anni ad assumere il significato di differenza morale e fisica incancellabile, di natura, tra gruppi umani, come e non solo nel caso noto dell’antisemitismo. P. 320 Ma la parola aveva ormai assunto un significato molto diverso: quella che si prestava col suo affiorare quasi sommesso a sostituire il confine divisivo dell’igiene era una categoria capace di irrigidire e assolutizzare oltre ogni precedente le barriere erette fino ad allora tra i diversi gruppi sociali e culturali spostandole ancora piu decisamente dal piano storico e sociale a quello non modificabile delle differenze di natura. In tal modo la violenza del dominio di classe e di potere politico si vedeva aperta la strade all’esercizio illimitato del diritto di vita e di morte come iscritto nella logica della lotta per la sopravvivenza della specie. EPILOGO p. 321 Abbiamo sottolineato nella pagina di Huizinga le indicazioni relative da un lato alla barriera tra sporco e pulito, dall’altro a quella tra rassegnata accettazione del proprio stato e volontà del cambiamento. Pulizia della persona da un lato, imputridimento, cattivi odori dall’altro: il tempo passato appariva a Huizinga nella percezione della memoria tanto apparentemente vicino quanto remoto e irraggiungibile nell’esperienza. La barriera era fatta di tanti dettagli di vita quotidiana e tra di loro spiccava un termine: igiene. La fitta cortina calata tra la vita sociale della sua Olanda degli anni Venti e quella degli avi ottocenteschi era fatta di cose a prima vista quasi impercettibili – odori, pratiche, abitudini nella cura della persona e nelle forme dell’ambiente. Forse l’osservazione potrebbe venire confinata fra le normali prese di coscienza del tempo passato. Ma c’è quel riferimento all’igiene e al processo di “adattamento sanitario dell’ambiente”: questi i fattori el brusco allontanarsi del passato che a poco distanza di anni separò una persona del primo Novecento dall’epoca dei suoi nonni: qui la sensibilità di storico autentico di Huizinga si rivela nella capacità di avvertire dietro il pulviscolo della quotidianità i segni di un piu vasto e generale mutamento intervenuto in pochi decenni nella società europea. La parola igiene indica una soglia tra presente e passato. Con lei appare davanti ai nostri occhi un’idea dell’assetto dell’esistenza, del punto d’incontro fra le regole private di vita e le norme di funzionamento della società che si impone con la forza di una nuova fede alla cultura europea nel suo insieme.
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