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UNIONE EUROPEA ULTIMA EDIZIONE DANIELE, Appunti di Diritto dell'Unione Europea

Diritto dell'Unione Europea di Daniele

Tipologia: Appunti

2010/2011

Caricato il 18/02/2011

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4.3

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Scarica UNIONE EUROPEA ULTIMA EDIZIONE DANIELE e più Appunti in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! LUIGI DANIELE DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA SOMMARIO tra gli Stati membri (atti che necessitano di ratifica per essere attuati). Le convenzioni concluse in seno a questa organizzazione sono numerose: la più rilevante è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 1950). L'Unione Europea è vincolata al rispetto dei diritti da essa enunciati (ex art. 6,par 2 TUE). 2. L'integrazione secondo il metodo comunitario: le origini. 2)metodo comunitario: risponde all'esigenza di superare il principio dell'unanimità e attribuire maggiore autonomia alle organizzazioni. Caratteristiche: - prevalenza degli organi di individui: rappresentano se stessi e compiono scelte in modo indipendente (indipendenza sancita nei Trattati istitutivi) - prevalenza del principio maggioritario: deliberazioni a maggioranza (di solito qualificata). Vincolano anche gli Stati che hanno votato contro l'approvazione. - ampiezza del potere di adottare atti vincolanti: non solamente atti di natura raccomandatoria ma atti vincolanti che creano obblighi a carico degli Stati membri. - sistema di controllo giurisdizionale di legittimità: nei confronti degli atti delle istituzioni. La nascita del metodo comunitario è tradizionalmente fatta risalire al 9 maggio 1950 (Giornata dell'Europa). A quel giorno risale la Dichiarazione Schumann: parla di un'Europa organizzata e vitale che sorgerà attraverso realizzazioni concrete che creino una solidarietà di fatto (c.d. Europa dei piccoli passi). La proposta contenuta nella Dichiarazione Schumann viene accolta: - nasce la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) istituita con il Trattato di Parigi del 1951.Vi aderiscono Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi e Italia (c.d. Piccola Europa). Essa istituisce un mercato comune del carbone e dell'acciaio (libero scambio, divieto di discriminazioni, divieto di sovvenzioni e aiuti statali alle imprese). Dal punto di vista istituzionale la CECA si basa su quattro istituzioni: l'Alta Autorità (penetranti poteri deliberativi: decisioni,pareri,raccomandazioni), il Consiglio speciale dei ministri (funzioni consultive), un'Assemblea comune (riunisce i rappresentanti dei Parlamenti nazionali, con funzioni consultive) e la Corte di giustizia (controllo giurisdizionale su atti e comportamenti delle istituzioni). Si tratta di un ente sovranazionale, infatti la CECA ha il potere di vincolare oltre gli Stati membri anche soggetti degli ordinamenti interni (imprese del settore carbo-siderurgico). - nasce la Comunità Europea di Difesa (CED): istituita a Parigi nel 1952. Prevede un organo indipendente (Commissariato) al quale spetta il comando unificato delle forze armate di tutti gli Stati membri. Stesse istituzioni della CECA. Questo avrebbe comportato il trasferimento immediato di sovranità dagli Stati membri alla CED. Tuttavia il progetto è fallito. - viene firmato a Roma nel 1957 il Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (TCE) e il Trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica (CEEA), detta anche Euratom.(in seguito al Trattato sull'Unione Europea firmato a Maastricht nel '92,il TUE,la denominazione della maggiore delle tre Comunità è mutata in Comunità Europea,CE) Le comunità diventano così tre. Struttura di entrambe le comunità rispecchia quella della CECA (Commissione, Consiglio, Assemblea e Corte di giustizia). Tuttavia diverso è l'equilibrio istituzionale: il TCE è un trattato quadro, le discipline in esso contenute, riguardano tutti i settori dell'economia, pertanto si limita spesso all'enunciazione di obiettivi e principi che devono essere poi attuati attraverso atti normativi. Per cui risulta un potere legislativo delle istituzioni CE (mentre le istituzioni della CECA hanno un potere amministrativo,trattato legge). L'organo principale non può essere un'autorità indipendente (la Commissione) ma è infatti il Consiglio, a cui spetta l'adozione degli atti (normativi soprattutto). 3. Lo sviluppo dell'integrazione comunitaria europea: l'unificazione del quadro istituzionale e l'allargamento a nuovi Stati membri. Dopo i Trattato di Roma il quadro dell'integrazione comunitaria europea comincia a risultare complesso: tre Comunità distinte ciascuna con proprie istituzioni e regole. Emerge quindi la necessità di semplificare la struttura: l'obiettivo è la fusione delle tre Comunità (ancor oggi non completamente raggiunto). Questo processo di fusione consta di tre tappe: - nei Trattati di Roma viene anche firmata la Convenzione su alcune istituzioni comuni delle Comunità europee: riguarda Assemblea parlamentare e Corte di giustizia. - Trattato istitutivo di un Consiglio e una Commissione unici delle Comunità europee firmato a Bruxelles nel 1965. - scaduto il Trattato CECA (nel 2002) e non essendo stato rinnovato, anche settore carbo-siderurgico rientra nel campo di applicazione del mercato comune generale disciplinato dal TCE. I tre Trattati istitutivi prevedono una procedura che permette l'adesione di ulteriori Stati europei. Ora sono 27 Stati membri (in partenza erano 6). Emerge la necessità di una riforma istituzionale radicale. 4. Segue: la riduzione del deficit democratico. L'istituzione dotata di maggiori poteri è il Consiglio, composto dai rappresentanti del Governo degli Stati membri. In esso è Anche l'introduzione dell'Unione Europea quale realtà che incorpora le Comunità europee e le altre forme di cooperazione tra Stati comunitari, avviene secondo il metodo intergovernativo. Gli Stati membri avvertono progressivamente il bisogno di estendere la loro cooperazione in settori inizialmente non rientranti nel campo di applicazione dei Trattati istitutivi (in molti casi modifiche al TCE, con conseguenti nuove competenze alla CE). Nuovi settori vengono così assoggettati ai principi del metodo comunitario: per ognuno di essi vi sono modalità di esercizio particolari, tuttavia i principi del metodo comunitario sono, almeno in parte, rispettati. Nel settore della politica estera generale, si assiste a forme di cooperazione tra Stati comunitari, collegate con l'attività della Comunità, ma svolte secondo il metodo della cooperazione intergovernativa. Art. 30 AUE: disciplina la Cooperazione Politica Europea (CPE) in materia di affari esteri. La CPE si svolge in maniera del tutto indipendente rispetto alla cooperazione comunitaria (prevista soltanto una forma di coordinamento tra l'azione comunitaria e l'azione CPE a cura della Presidenza del Consiglio). Successivamente il TUE trasforma la CPE in Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e le affianca la Cooperazione in materia di Giustizia e affari interni (GAI). PESC, GAI più le tre Comunità europee (di allora) vengono ricondotte ad una realtà comune, l'Unione Europea, al cui sviluppo le varie componenti sono chiamate a contribuire (Ue composta da tre pilastri: cooperazione comunitaria, PESC e GAI). I tre pilastri sono distinti ma funzionalmente legati: vengono gestiti da un quadro istituzionale unico: Consiglio, Commissione, Parlamento europeo. Queste istituzioni operano nell'ambito di tutti e tre i settori (diverse sono però le modalità di azione per ciascuno di essi). Con il Trattato di Amsterdam e, seppur in maniera minore, con il Trattato di Nizza prosegue la tendenza volta all'assimilazione dei tre pilastri: trasferimento di molte materie dalla GAI alla cooperazione comunitaria (nella GAI permane la sola Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), l'introduzione parziale nella PESC e GAI di alcuni principi caratterizzanti la cooperazione comunitaria (maggioranza qualificata), assimilazione degli atti GAI a quelli tipici comunitari, introduzione della Corte di giustizia nella GAI. 7. Segue: l'Europa a più velocità. Purtroppo la progressiva riconduzione al metodo comunitario delle forme di cooperazione che in passato avevano carattere puramente intergovernativo ha avuto come prezzo una certa contaminazione dello stesso metodo comunitario. Nel TCE si sono infiltrate così soluzioni dal sapore chiaramente intergovernativo, in palese contrasto con le caratteristiche originarie. Esempio di ciò è dato dal crescente ruolo che viene riservato nel pilastro comunitario al Consiglio europeo, ma soprattutto, dal ricorso sempre più frequente a forme di cooperazione differenziata, così detta perché applicabile ad un numero ristretto di Stati membri (Europa a geometria variabile,o a più velocità). Talvolta quindi si preferisce rinunciare all'idea di un'integrazione uguale per tutti e permettere agli Stati che lo volessero, di andare avanti senza gli Stati contrari. Primo esempio del fenomeno si è realizzato in ambito non comunitario. Si tratta dell'Accordo di Schengen (1985), finalizzato a ridurre drasticamente i controlli fisici sulle persone alle frontiere, con misure di accompagnamento per coordinare la politica di immigrazione da Paesi terzi e la polizia degli stranieri (vi aderiscono inizialmente solo 5 Stati membri, altri vi aderiranno più tardi). Altro esempio è costituito dall'Accordo sulla politica sociale, con il quale vengono assegnati maggiori poteri in questo campo alle Comunità (opposizione del Regno Unito). Successivi esempi sono forniti dall'Unione Economica Europea (UEM) (alcuni Stati non sono ammessi a causa del mancato rispetto dei parametri, altri non hanno voluto aderire), e altri si sono moltiplicati con il Trattato di Amsterdam: misure comunitarie nel settore dei visti, diritto di asilo,immigrazione e circolazione dei cittadini di paesi terzi (non vincolano Gran Bretagna e Danimarca). Da segnalare infine, l'istituto della Cooperazione rafforzata, anche questo introdotto dal Trattato di Amsterdam: è un istituto di applicazione generale che permetterà l'adozione di iniziative di integrazione comunitaria limitate ad alcuni Stati membri. 8. Gli sviluppi futuri dell'integrazione europea: il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa. Si è visto come negli ultimi decenni le riforme dei Trattati si sono succedute in maniera incalzante (AUE nel '86, TUE nel '92, Trattato di Amsterdam nel '97 e il Trattato di Nizza nel 2001). Con il TUE inizia una prassi: inserire in ciascun trattato di revisione una clausola che fissa l'anno di convocazione della CIG per approvare un ulteriore riforma. Nel Trattato di Nizza, sono allegate due Dichiarazioni: - Dichiarazione relativa all'allargamento dell'Unione Europea (definisce la composizione di alcuni organi e istituzioni una volta completato l'ingresso dei nuovi Stati membri) - Dichiarazione relativa al futuro dell'Europa: delinea un percorso per avviare un dibattito più approfondito e più ampio sul futuro dell'Unione Europea (v. punti relativi alle questioni del dibattito). Inoltre stabilisce l'adozione da parte del Consiglio europeo, a Laeken nel dicembre 2001, di una dichiarazione contenente iniziative appropriate. Dichiarazione di Laeken: documento che si occupa di definire con più precisione le questioni da risolvere. Convoca una Convenzione con il compito di esaminare le questioni essenziali del futuro dell'Unione e ricercare le soluzioni possibili. La Dichiarazione prevede che,terminati i lavori, la Convenzione dovrà redigere un documento finale che costituirà il punto di partenza della Conferenza intergovernativa che prenderà le decisioni finali. IL QUADRO ISTITUZIONALE 1. Considerazioni generali. L'Unione Europea si regge su una struttura complessa. Al suo interno si distinguono alcuni organi (istituzioni): Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia e Corte dei conti (la Costituzione ha introdotto alcune varianti riguardo a organi e denominazioni). L'insieme del sistema è gestito da un quadro istituzionale unico: le istituzioni sono le stesse per la CE quanto per l'UE (art. 5 TUE e art. 7 TCE). L' art. 3.1 TUE sancisce l'unità del quadro istituzionale. L' art. 3.2 TUE sancisce il principio di coerenza: il carattere unitario del quadro istituzionale assicura che le azioni svolte nell'ambito dei tre pilastri dell'Unione siano tra loro coordinate. Particolari responsabilità spettano al Consiglio (art. 13 TUE) e Presidenza (artt. 21 e 39 TUE), alla Commissione (art. 27 e 36 TUE) e inoltre al Consiglio europeo (art. 4.1 TUE). Principio delle competenze di attribuzione: attiene ai rapporti tra le varie istituzioni e impone a ciascuna di esse di rispettare le competenze attribuite dai Trattati alle altre istituzioni (art. 5 TUE e art. 7 TCE). La violazione di tale principio causa un vizio di incompetenza (art. 230.2 TCE) e conseguente illegittimità dell'atto (omonimo principio previsto dall’art. 5.1 TCE, ma esso riguarda la determinazione della competenza tra Comunità e Stati membri, non tra istituzioni della Comunità). Principio della leale collaborazione (desunto ex art. 10 TCE): le istituzioni devono collaborare lealmente tra di loro e con gli Stati membri. Esso prevede espressamente solo un dovere di cooperazione a carico degli Stati membri (astensione da misure che ostacolino gli scopi del trattato) ma è interpretato come un principio generale, vincolante anche per le istituzioni nei rapporti tra di loro e con gli Stati membri. Principio del rispetto dell' acquis comunitario (art. 3 TUE): si riferisce all'insieme del diritto comunitario, e in particolare agli atti delle istituzioni che sono stati adottati nel tempo e alla giurisprudenza comunitaria. Impone alle istituzioni di operare rispettando e sviluppando nel contempo l'acquis comunitario (circa i negoziati di adesione, gli Stati candidati devono dare prova di riuscire a rispettare tale principio. Inoltre risulta problematico il rapporto tra tale principio e il principio di sussidiarietà). Per quanto riguarda le istituzioni politiche dell'Unione Europea, esse sono: Parlamento europeo, Consiglio e Commissione (hanno funzioni di politica attiva, che si sostanzia nell'adozione di atti normativi/ amministrativi). Corte di giustizia e Corte dei conti sono istituzioni di controllo. 2. Il Parlamento europeo. Originariamente denominata Assemblea, assume la denominazione di Parlamento europeo in virtù dell'art. 3 TUE. I suoi membri sono eletti a suffragio universale e diretto (art. 190 TCE): il passaggio a questo sistema è avvenuto con la decisione n. 76/ 787 cui è allegato l'"Atto relativo all'elezione dei rappresentanti nell'Assemblea a suffragio universale e diretto". (Esso si limita a dettare alcune regole minime relative al regime di incompatibilità, periodo di svolgimento elezioni e spoglio schede elettorali, quindi non detta una procedura elettorale uniforme, che resta affidata in massima parte alla competenza dei singoli Stati. Tuttavia la decisione del Consiglio n. 2002/772 ha introdotto dei principi comuni a tutti gli Stati membri. Due sono le novità: la scelta a favore di un sistema elettorale di tipo proporzionale e il divieto del doppio mandato). La durata del mandato è di cinque anni (art. 190 TCE). La composizione (art. 190 TCE) deve essere tale che il numero dei rappresentanti eletti in ciascuno Stato membro garantisca un'adeguata rappresentanza dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità. Attualmente sono 732 (numero massimo previsto ex art. 189 TCE). Riguardo agli organi del Parlamento europeo: - Presidente: dirige lavori del Parlamento e lo rappresenta. È assistita da 14 vice-presidenti e da un Ufficio di Presidenza. - Gruppi politici: in cui sono organizzati i membri del Parlamento (numero minimo è di 19, di almeno 1/5 degli Stati membri). - Conferenza dei presidenti: composta dai Presidenti dei gruppi e dal Presidente del Parlamento. Il Parlamento lavora in aula o in commissione, quest'ultime sono di due tipi: - Commissioni permanenti; - Commissioni temporanee d'inchiesta. Le funzioni più importanti del Parlamento europeo possono essere raggruppate in due categorie: 1) controllo politico e 2) partecipazione all'adozione degli atti dell'Unione (parte II). In questa tratteremo solo della prima categoria. Funzioni di controllo politico: numerosi sono i canali attraverso i quali il Parlamento riceve informazioni sull'operato delle altre istituzioni (anche degli Stati membri e dei privati ma in misura minore) (si parla di canali istituzionali): - relazioni o rapporti di altre istituzioni/organi: per es. la relazione generale annuale presentata dalla Commissione (art.200 TCE), oltre a relazioni della Commissione su specifici campi e la relazione presentata dal Consiglio europeo sulla propria attività. Inoltre il Governo, Regioni ordinarie e Regioni speciali stipulato in sede di Conferenza Stato-Regioni. Il processo di formazione della posizione del Governo italiano nel Consiglio è ora oggetto di disposizioni che hanno lo scopo di coinvolgere a) Parlamento, b) Regioni e Province autonome, c) altri enti territoriali, d) parti sociali e categorie produttive. È previsto un obbligo di informazione a carico del Presidente del Consiglio o del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie, soprattutto attraverso la trasmissione ai soggetti sopra menzionati delle proposte di atti comunitari e degli altri documenti preparatori. È previsto inoltre un obbligo di consultazione: nel caso del Parlamento è istituito lo strumento della "riserva di esame parlamentare" apposta dal Governo in sede di Consiglio. Strumento analogo è previsto per le Regioni e le Province autonome) Il Consiglio non è organo permanente, infatti si riunisce di volta in volta. Uno Stato membro può quindi designare persone diverse a seconda della riunione. Solitamente viene designato il ministro competente per la materia iscritta all'ordine del giorno (nessun obbligo però). Nella prassi si parla quindi di formazioni specializzate (es. Consiglio Agricoltura, Consiglio Trasporti, Consiglio Ecofin...) che hanno una notevole stabilità e agiscono secondo calendari differenziati. Consiglio Affari generali e relazioni esterne: costituito dai ministri degli Esteri (si occupa di problemi di politica estera e questioni non riferibili a specifici settori). (In alcune ipotesi però l'art. 203 prescrive che il Consiglio si riunisca e deliberi nella composizione dei capi di Stato e di Governo: es. art. 121 TCE, art. 7 TUE, ovvero in caso di decisioni di tale importanza politica per cui si è preferito coinvolgere le massime cariche degli Stati membri. In altre ipotesi il Consiglio si riunisce in composizione ridotta, es. art. 122 TCE riguardo alla terza fase UEM e art. 44 TUE circa la cooperazione rafforzata. L'art. I-24 della Costituzione accentua le tendenze a differenziare le diverse formazioni del Consiglio, introducendo varianti sia per quanto riguarda la composizione, sia per quanto riguarda le funzioni esercitate. L'articolo prevede direttamente il Consiglio Affari generali e il Consiglio Affari Esteri) La Presidenza è esercitata a turno da ciascuno Stato membro per una durata di sei mesi (art.203 TCE). Lo Stato membro che detiene la Presidenza svolge un ruolo importante, perché il suo rappresentante assume anche la Presidenza del Consiglio europeo (art. 4.2 TUE) e degli organi la cui composizione riflette quella del Consiglio. Il Presidente convoca le riunioni del Consiglio (art.204 TCE) e ne stabilisce l'ordine del giorno, rappresenta l'istituzione nella sua unità (firma gli atti del Consiglio), tiene i rapporti con le altre istituzioni (importante il suo ruolo riguardo alla PESC, artt. 18, 21 e 24 TUE). Modi di deliberazione (art. 205 TCE): maggioranza semplice (assoluta), maggioranza qualificata e l'unanimità. Il modo di deliberare da seguire dipende dalla norma dei Trattati dalla quale il Consiglio trae il potere che intende esercitare. La maggioranza semplice si applica quando la norma dei Trattati non dice nulla, ipotesi che è rara (es. art. 48 TUE: parere favorevole alla convocazione della CIG per la riforma dei Trattati). In origine il sistema più frequente era l'unanimità, tuttavia col susseguirsi delle riforme dei Trattati sono prevalse le delibere a maggioranza qualificata (progresso dato dall'introduzione della procedura di cooperazione e di codecisione, che consentono al Consiglio deliberazioni a maggioranza qualificata). La maggioranza qualificata viene calcolata attraverso un sistema di ponderazione dei voti: il voto di ciascuno Stato ha un peso differenziato in base all'applicazione di un coefficiente. Il grado di rappresentatività del meccanismo della maggioranza qualificata è stato sensibilmente innalzato dalle modifiche previste dal Trattato di Nizza (emendato dal penultimo atto di adesione: modifiche entrate in vigore il 1º novembre 2004). Nel nuovo regime il raggiungimento della maggioranza qualificata richiede la presenza di tre condizioni (la 3ª diviene applicabile solo se ne è richiesta la verifica): a) raggiungimento di una soglia minima di voti ponderati è pari a 232 (su 321) secondo una tabella di ponderazione nuova (aumento dei voti totali che favorisce gli Stati più grandi i quali passano a 29 voti ciascuno rispetto ai 10 di prima mentre l'aumento dei voti per gli Stati minori è meno significativo). La nuova soglia minima costituisce il 72, 27% circa del totale dei voti (prima 71,26% mentre con l'adesione di Romania e Bulgaria passerà a 73,91%); b) voto favorevole di almeno la maggioranza dei membri, qualora le deliberazioni in virtù del presente Trattato, debbano essere prese su proposta della Commissione. Qualora non sia richiesta occorre il voto favorevole di almeno 2/3 dei membri; c) gli Stati membri che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare almeno il 62% della popolazione totale dell'Unione (criterio demografico). La richiesta costituisce un'arma alla quale gli Stati contrari all'adozione di una proposta ricorreranno sistematicamente. (Vedi anche il progetto approvato dalla Convenzione sul futuro dell'Europa circa il metodo per calcolare la maggioranza qualificata: puntava ad una notevole semplificazione del meccanismo, riducendo a due le condizioni) Terzo sistema di deliberazione è costituito dall'unanimità: quando è richiesta dai Trattati, il voto contrario di un solo Stato membro è sufficiente ad impedire l'approvazione. Tuttavia le astensioni non costituiscono un impedimento all'adozione delle deliberazioni del Consiglio per le quali è richiesta l'unanimità. (astensione costruttiva: forma particolare di astensione prevista nell'ambito del II pilastro dall'art. 23 TUE) Occorre distinguere il Consiglio da altri organi che hanno una composizione simile, se non identica: - alcune deliberazioni, in base al TCE (es. nomina giudici e avvocati della Corte di giustizia o scelta sede istituzioni della Comunità) sono riservate agli Stati membri nella loro individualità di soggetti di diritto internazionale. Nella prassi accade che i rappresentanti dei governi si riuniscono in coincidenza delle riunioni del Consiglio: è invalso l'uso di il Presidente e un numero imprecisato di vicepresidenti (artt. 214 e 217). (Nel sistema attuale tutti gli Stati membri sono infatti posti su un piede di parità, a differenza del regime precedente, nel quale gli Stati maggiori avevano attribuiti due membri. La tendenza è un ulteriore riduzione dei membri, per mantenere l'efficienza dell'istituzione: il Protocollo sull'allargamento stabilisce che, a partire dal momento in cui l'Unione avrà 27 Stati membri, l'attuale art. 213 sarà sostituito da un nuovo testo. Se il Consiglio deciderà in tal senso alcuni Stati membri potrebbero restare privi di rappresentanza diretta nella Commissione per la durata del turno di rotazione. Anche il progetto approvato dalla Convenzione sul futuro dell'Europa sposava quest'ottica: l'art. 25 prevedeva una Commissione di soli 15 membri e sistema di rotazione, più dei commissari privi di diritto di voto. Proposta solo parzialmente accolta nel testo della Costituzione, cioè nell'art. I-26 che stabilisce un regime transitorio, che mantiene lo status quo, e un regime definitivo, nel quale il numero dei membri corrisponderà ai 2/3 degli Stati membri). Requisiti membri della Commissione (art. 213 TCE): sono la professionalità e l'indipendenza. Anche gli Stati membri si impegnano a rispettare e non cercare di influenzare i membri della Commissione nell'esercizio del loro compiti. I doveri di indipendenza vanno tenuti presenti anche dopo la cessazione dal mandato (art. 213.3 , par. 2). La Corte di giustizia può, su istanza del Consiglio e della Commissione, pronunciare le dimissioni d'ufficio dei membri della Commissione in caso di violazione dei loro obblighi. Mandato: i membri della Commissione durano in carica cinque anni (art. 214). Può terminare anticipatamente per: dimissioni individuali o collettive, pronuncia della Corte di giustizia e dimissione d'ufficio, approvazione della mozione di censura da parte del Parlamento (art. 201 TCE). Procedura di nomina (art. 214 TCE): in passato dominata dagli Stati membri, con il Trattato di Nizza è stata ricondotta nell'ambito istituzionale. Essa distingue tra la posizione del Presidente della Commissione rispetto agli altri membri. Procedura: - prima fase: designazione del solo Presidente della Commissione compiuta dal Consiglio riunito a livello di Capi di Stato o di Governo, con decisione assunta a maggioranza qualificata; - seconda fase: approvazione di tale designazione da parte del Parlamento; - terza fase: deliberazione del Consiglio (in composizione libera) a maggioranza qualificata presa di comune accordo con il Presidente designato con la quale adotta l'elenco delle altre persone che intende nominare membri della Commissione, redatto conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro. - quarta fase: Presidente e membri designati sottoposti collettivamente ad un voto di approvazione da parte del Parlamento europeo (tuttavia il Parlamento procede ad audizioni separate per ciascuna persona proposta come membro; notevoli innovazioni previste dalla Costituzione circa la procedura) Presidente della Commissione: ha un ruolo centrale. Posizione di primazia sottolineata (oltre con riferimento alla procedura di nomina) dall'art 217 che gli attribuisce il compito di definire (oltre agli orientamenti della Commissione) anche l'organizzazione interna della Commissione, per garantirne la coerenza, l'efficacia e la collegialità della sua azione. Ad egli spetta determinare le funzioni attribuite ai membri e da esercitare sotto la sua autorità. Inoltre dispone del potere di obbligare un membro a rassegnare le dimissioni, previa approvazione del collegio. Partecipa al Consiglio europeo. Deliberazioni della Commissione (art. 219.2 TCE): vengono prese a maggioranza del numero dei suoi membri. L'attività della Commissione è suddivisa in varie Direzioni generali, per ognuna delle quali vi è un commissario responsabile (ampia delega di funzioni). Compiti della Commissione (art. 211 TCE): - custode della legalità comunitaria: vigila sull'applicazione delle disposizioni del presente trattato e delle disposizioni adottate dalle istituzioni in virtù del trattato stesso. Compito questo esercitato nei confronti degli Stati membri (strumento del ricorso per infrazione, artt. 226 e ss. TCE), nei confronti delle altre istituzioni (ricorsi d'annullamento o in carenza ai sensi degli artt. 230 e 232 TCE), nei confronti delle persone fisiche o giuridiche nella misura in cui ciò sia previsto dal TCE o da atti derivati; - potere generale di raccomandazione: formula raccomandazioni o pareri in settori definiti dal presente trattato, quando questo lo preveda o quando la Commissione lo ritenga necessario; - potere autonomo di decisione: (poche ipotesi previste dal TCE) dispone di un proprio potere di decisione e partecipa alla formazione degli atti del Consiglio e del Parlamento europeo alle condizioni previste dal presente trattato; - competenza di esecuzione di atti del Consiglio (art. 202 TCE): esercita le competenze conferite dal Consiglio per l'attuazione delle norme da esso stabilite (art. 202.3: il Consiglio può sottoporre l'esercizio delle competenze d'esecuzione conferite alla Commissione a determinate modalità che devono rispondere ai principi e alle norme che il Consiglio avrà stabilito in via preliminare. Modalità ora disciplinate dalla decisione n. 1999/468 nota come decisione sulla comitologia). 5. La Corte di giustizia. La Corte si articola al suo interno in più rami (nonostante l'art. 5 TUE e l'art. 4 TCE menzionino la Corte come un'unica istituzione) dotati di autonomia funzionale (piena) e amministrativa (parziale): Corte di giustizia (in senso proprio), Tribunale di primo grado e Camere giurisdizionali (art. 220.2). (La procedura dinanzi alla Corte di giustizia è divisa in due fasi: una fase scritta, che può consistere nello scambio o nel deposito di memorie scritte. Una fase orale, che può essere esclusa,consistente in un'udienza con le parti e nella lettura o deposito delle conclusioni dell'avvocato generale. Successivamente vi è la riunione in camera di Consiglio per deliberare, infine la lettura della sentenza in pubblica udienza). Funzioni della Corte di giustizia: - natura giurisdizionale (sono le principali - art. 220 TCE): la Corte di giustizia e il Tribunale di primo grado assicurano il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del presente trattato; - natura consultiva: esprime pareri, che hanno un valore parzialmente vincolante. Il loro contenuto condiziona il comportamento di istituzioni e Stati membri (ipotesi più importante è prevista dall'art. 300 TCE in materia di accordi internazionali della Comunità). 6. Il Tribunale di primo grado e le Camere giurisdizionali. Fonti normative che disciplinano organizzazione e funzionamento del Tribunale di primo grado: - TCE (artt. 224 e 225 in particolare); - Statuto Corte di giustizia (titolo V: funzionamento e giudizi di imputazione dinanzi alla Corte di giustizia); - regolamento di procedura: approvato dai membri del Tribunale in concerto con la Corte di giustizia e poi sottoposto all'approvazione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata (art. 225 TCE). (In origine la Corte di giustizia era stata concepita come giudice di prima e ultima istanza ma la necessità di ricorso dinanzi alla Corte di giustizia si rese evidente per due ragioni: a) migliorare il sistema comunitario di tutela giurisdizionale b) alleviare l'onere di lavoro dalla Corte di giustizia e abbreviare così i tempi del giudizio dinanzi ad essa) Rapporto istituzionale: Corte di giustizia e Tribunale coesistono all'interno della medesima istituzione. Alla Corte spettava tuttavia una posizione di primazia. Il testo previgente dell'art. 225 delineava per il Tribunale il ruolo di organo ausiliario della Corte. Con il Trattato di Nizza viene tuttavia ridimensionata questa posizione di dipendenza: il nuovo testo dell'art. 220 affida alla Corte e al Tribunale il compito di assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del presente trattato. Rapporto giurisdizionale: il Tribunale è subordinato alla Corte, in quanto le sue decisioni sono soggette ad impugnazione dinanzi ad essa. La previsione del giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale, con riserva di ricorso alla Corte, non introduce tuttavia nell'ordinamento comunitario il principio del doppio grado di giudizio: perché l'impugnazione dinanzi alla Corte (ricorso) non costituisce un giudizio d'appello, esso infatti può solo riguardare motivi di diritto (art. 225.2), ovvero mezzi relativi all'incompetenza del Tribunale, vizi di procedura recanti lesioni di interessi delle parti, nonché violazione del diritto comunitario. Pertanto il giudizio sul fatto si esaurisce dinanzi al Tribunale ed è perciò oggetto di un unico grado. Termine di ricorso: due mesi a decorrere dalla notifica della decisione impugnata. Composizione (art. 224. 1): il Tribunale di primo grado è composto di almeno un giudice per Stato membro e il numero dei giudici è stabilito dallo Statuto della Corte di giustizia (art. 48 Statuto: ne stabilisce 27, tuttavia vi è la possibilità, peraltro non ancora sfruttata, di nominarne ulteriori, superando il numero degli Stati membri). Nomina: i giudici sono nominati di comune accordo dai Governi degli Stati membri (art. 224. 2). Mandato: dura sei anni. Eletto anche un Presidente, in carica tre anni. Il Tribunale non dispone attualmente di avvocati generali, tuttavia l'art. 224.1 stabilisce che lo Statuto possa prevedere che il Tribunale sia assistito da avvocati generali. Requisiti di professionalità: analoghi ai membri della Corte (art. 224.2) ma il livello richiesto è meno elevato. Formazioni di giudizio: - sezioni: composta da tre o cinque giudici (funzionamento ordinario); - il regolamento di procedura disciplina i casi in cui il Tribunale si riunisce in seduta plenaria, in grande sezione o giudice unico. Competenza di primo grado del Tribunale: la sua definizione risulta complessa (rilevanti e ripetute modifiche). Essa incontra due limiti: a) azioni riservate alla competenza esclusiva e in grado unico della Corte; b) Tribunale della funzione pubblica dell'UE (TFP) (ad esso spetta la competenza di primo grado sul contenzioso con il personale delle istituzioni e degli organi UE: in questo settore il Tribunale è giudice di secondo grado). Occupandoci per ora soltanto della ripartizione di competenza tra Tribunale e Corte va da subito precisato che la competenza del Tribunale non copre tutte le azioni sottoposte al giudizio della Corte (alcune cause sono pertanto soggette al giudizio di unico grado della Corte). Per quanto riguarda la c.d. competenza diretta (in seguito alla modifica dell'art. 225 TCE e 51 Statuto), attualmente il Tribunale è competente in primo grado: a) in generale per ricorsi proposti dalle persone fisiche o giuridiche contro le istituzioni (salvo settori di competenza della camera giurisdizionale); b) per i ricorsi d'annullamento (art. 230) e per inazione (art. 232) proposti dagli Stati membri contro la Commissione (eccetto atti in materia di cooperazione rafforzata); - Corte dei conti: organo di individui, composto (art. 247) da un cittadino di ciascuno Stato membro. I membri sono nominati dal Consiglio con delibera unanime, previa consultazione del Parlamento europeo. Il loro mandato dura sei anni. I requisiti sono analoghi a quelli dei giudici della Corte. Funzioni (artt. 246 e 248): controllare la legittimità e la regolarità di entrate e spese ed accertare la sana gestione finanziaria. (Atti rilevanti: Dichiarazione presentata al Parlamento su affidabilità dei conti e legittimità operazioni, relazione annuale redatta alla chiusura dell'esercizio finanziario e trasmessa alle istituzioni). - Altri organi che si inseriscono nel quadro istituzionale dell'Unione, con funzioni consultive o preparatorie, che meritano di essere segnalati sono: Comitato economico e sociale: strumento di espressione degli interessi delle varie componenti di carattere economico e sociale della società civile organizzata. Conta attualmente 353 membri, nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata e su proposta degli Stati membri. La composizione deve assicurare un'adeguata rappresentanza alle diverse categorie. Comitato delle regioni: composto da membri rappresentativi delle collettività regionali (353), i quali devono essere titolari di un mandato elettorale nell'ambito di una comunità regionale o locale, oppure politicamente responsabili dinanzi ad un'assemblea eletta (art. 263). Nomina e composizione sono analoghi al Comitato economico e sociale, entrambi inoltre devono essere consultati dal Consiglio o dalla Commissione quando ciò sia previsto dal TCE (parere obbligatorio ma non vincolante) o quando tali istituzioni lo ritengano necessario. - Vanno poi menzionati gli organi creati dal TUE nell'ambito dell'UEM: Banca centrale europea (BCE): articolata in Comitato esecutivo (presidente, vicepresidente e 4 membri nominati dai governi degli Stati membri su raccomandazione del Consiglio) e Consiglio direttivo (membri Comitato esecutivo più i Governatori delle Banche centrali nazionali degli Stati membri). Sistema Europeo Banche Centrali (SEBC): entrambi(BCE e SEBC) sono oggetto del Protocollo sullo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea, allegato al TCE (art. 34: potere regolamentare; art. 249: decisioni della BCE). Banca Europea degli Investimenti (BEI): disciplinata dagli artt. 266 e 267 TCE e da apposito Protocollo allegato al TCE. La BEI è dotata di propria personalità giuridica distinta dalla comunità: ne sono membri gli Stati membri che ne sottoscrivono il capitale. Funzioni: facilitare il finanziamento di progetti indicati ex art. 267, finalizzati allo sviluppo del mercato comune. - Agenzie indipendenti: create attraverso atti del Consiglio o, secondo i casi, del Parlamento e del Consiglio. La maggior parte sono state istituite attraverso regolamenti basati su disposizioni del TCE (Autorità europea di sicurezza alimentare e Ufficio di armonizzazione a livello di mercato interno), ma non mancano esempi di organi dello stesso tipo il cui atto istitutivo trova il proprio fondamento in norme del II o del III pilastro (Centro satellitare dell'Unione Europea, Ufficio europeo di polizia,l'Eurojust). LE PROCEDURE INTERISTITUZIONALI PER L'ADOZIONE DI ATTI DELL'UNIONE 1. Considerazioni generali. Con il termine procedura interistituzionale si intende la sequenza di atti o fatti provenienti da più di un'istituzione, richiesta dai Trattati affinché la volontà dell'Unione si possa manifestare attraverso determinati atti giuridici (il carattere interistituzionale è dato dal fatto che gli atti giuridici risultano dalla combinazione degli interventi di più istituzioni, in particolare di quelle politiche). I Trattati prevedono numerose procedure interistituzionali. Alcune riguardano soltanto l'approvazione di atti specifici: la procedura di bilancio e la procedura per la conclusione di accordi internazionali. Le procedure più frequentemente utilizzate non si distinguono invece in funzione della natura del potere esercitato dalle istituzioni coinvolte o in relazione al tipo di atti da adottare. Un'identica procedura può risultare pertanto applicabile per atti di varia specie (ad esempio stessa procedura applicabile sia ad atti di portata generale che di portata individuale). La Costituzione corregge questo difetto d'origine prevedendo una " procedura legislativa ordinaria ". La distinzione tra le procedure di applicazione generale risulta piuttosto dal ruolo che in essa spetta alle varie istituzioni in particolare al Parlamento (potere consultivo nella procedura di base mentre potere di codecisione nella procedura omonima). Il modello di procedura da seguire influisce anche sui modi di deliberazione delle varie istituzioni (ad esempio quando è applicabile la procedura di codecisione il Consiglio può generalmente deliberare a maggioranza qualificata). Per stabilire quale procedura vada seguita di volta in volta, occorre definire la base giuridica dell'atto che si intende adottare. Occorre cioè individuare la disposizione dei Trattati che attribuisce alle istituzioni il potere di adottare un determinato atto. Sarà la disposizione così indurlo ad approvare una mozione di censura ai sensi dell'art. 201 TCE). Analogo potere di sollecitazione viene riconosciuto anche al Consiglio dall'articolo 208 TCE. Proposte possono essere sollecitate anche da parte di altri organi, ed in particolare dal Consiglio europeo. Si ricordi che le proposte della Commissione prima di giungere al Consiglio passano attraverso il filtro del COREPER. L'art. 250, par. 1. TCE limita il potere del Consiglio di modifica della proposta della Commissione. Soltanto il consenso dei rappresentanti di tutti gli stati membri consente al Consiglio di discostarsi dalla proposta della Commissione (dal termine " emendamento " utilizzato dall'art. 250 si può desumere la volontà di limitare il potere del Consiglio, nel senso che questi non possa allontanarsi in maniera radicale dalla proposta. Ciò infatti significherebbe deliberare senza proposta della Commissione, quindi violazione di forme sostanziali e conseguente annullabilità mediante ricorso ai sensi dell'art. 230). Il fatto che il Consiglio possa emendare la proposta della Commissione soltanto all'unanimità, potrebbe causare una situazione di stallo (l'art. 250 par. 2 per evitare tale rischio prevede che " fintantoché il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può modificare la propria proposta in ogni fase delle procedure che portano all'adozione di un atto comunitario "). Tra i poteri riconosciuti alla Commissione dall'art. 250 par. 2 rientra anche il potere di ritirare la proposta. La fase della consultazione viene prevista da singole disposizioni del TCE, che specificano di volta in volta se, per l'adozione di atti di determinate materie, il Consiglio debba assumere il parere di un'altra istituzione o organo, ed in particolare del Parlamento europeo. Esistono tre tipi di parere: parere facoltativo (l'ipotesi si verifica quando la disposizione in base alla quale il Consiglio intende agire non prevede la consultazione del Parlamento europeo ma il Consiglio ne chiede comunque il parere, il quale è facoltativo e non vincolante potendosene quindi il Consiglio liberamente discostarsene) parere consultivo (la consultazione del Parlamento è richiesta dalla disposizione del Trattato rilevante. Il parere è obbligatorio ma non vincolante) parere conforme (procedura limitata a pochi ma importanti casi, introdotta dall' AUE, in cui il parere del Parlamento è obbligatorio e vincolante. In realtà quando è richiesto il parere conforme del Parlamento, il potere deliberativo non appartiene più soltanto al Consiglio, ma è condiviso con il Parlamento, come avviene nella procedura di codecisione prevista dall'art. 251. Tuttavia nella procedura di parere conforme il Parlamento si limita ad approvare o a respingere l'atto). La giurisprudenza della Corte di giustizia ha contribuito ad accrescere grandemente l'importanza della consultazione del Parlamento, affermando che essa è lo strumento che consente al Parlamento l'effettiva partecipazione al processo legislativo della Comunità. La consultazione del Parlamento, quando richiesta dal Trattato, deve essere quindi una consultazione effettiva e regolare. Il TCE ammette la possibilità di stabilire un termine per l'emanazione del parere del Parlamento soltanto in materia di accordi internazionali. Al di fuori di questa materia nessun termine è previsto. Tuttavia si deve ritenere che, pur in mancanza di un termine previsto dal TCE, il Parlamento sia tenuto, in osservanza al principio di leale collaborazione con le altre istituzioni, a emanare il parere entro un termine ragionevole e a tenere conto delle eventuali richieste avanzate dal Consiglio per ottenere una delibera urgente. L'esigenza di una consultazione effettiva e regolare si avverte anche qualora il Consiglio intenda deliberare un atto diverso da quello sul quale il Parlamento è stato chiamato ad esprimere il proprio parere, se quindi la consultazione sia sufficiente o si renda invece necessaria una seconda consultazione. Il principio è il seguente: il parere del Parlamento deve essere dato sull'atto poi effettivamente adottato dal Consiglio. Se, pertanto, dopo la consultazione del Parlamento, il Consiglio decide di modificare l'atto nella sostanza o la Commissione ritira la proposta e ne presenta un'altra diversa da quella su cui il Parlamento si è espresso, è necessaria una seconda consultazione. 3. La procedura di cooperazione. La procedura di cooperazione è disciplinata nell'art. 252 TCE. Essa è stata introdotta nel TCE dall'AUE. Il campo di applicazione è stato notevolmente ristretto, tant'è che oggi si applica soltanto nel campo dell'UEM. (La descrizione tuttavia facilita la comprensione della procedura di codecisione). Si basa su un sistema per cui la proposta della Commissione è sottoposta ad una doppia lettura da parte del Parlamento e del Consiglio. La prima fase si apre con una prima lettura del Parlamento, il quale emette un parere (consultivo) sulla proposta della Commissione, segue la prima lettura del Consiglio il quale deve limitarsi ad approvare, a maggioranza qualificata, una posizione comune. Si passa quindi alla seconda fase dove si susseguono una lettura del Parlamento e una del Consiglio. Il Parlamento ha tre possibilità: 1) approvare la posizione comune od omettere di pronunciarsi nel termine di tre mesi; 2) respingere la posizione comune; 3) proporre degli emendamenti alla posizione comune. In quest'ultimo caso la Commissione viene nuovamente coinvolta: dovrà formulare una proposta riesaminata che viene trasmessa al Consiglio. Nella seconda lettura, il Consiglio ha più possibilità, a seconda di come il Parlamento ha deliberato. Nel primo caso il Consiglio adotta definitivamente l'atto in questione in conformità della posizione comune. Nel secondo caso il Consiglio può comunque adottare l'atto, ma all'unanimità. Nel terzo caso, infine, il Consiglio ha tre possibilità: 1) a maggioranza qualificata, può approvare la proposta riesaminata dalla Commissione; 2) all'unanimità, può approvare gli emendamenti del Parlamento non accolti dalla Commissione; 3) sempre all'unanimità, può modificare la proposta riesaminata. Riguardo al ruolo riservato alle varie istituzioni in questa procedura, il potere deliberativo resta saldamente nelle mani del Consiglio. Gli emendamenti parlamentari alla posizione comune hanno effetto solo nella misura in cui essi vengono recepiti dalla Commissione nella proposta riesaminata, dovendo il Consiglio deliberare sempre all'unanimità per modificarla. Il ruolo della Commissione risulta alquanto indebolito rispetto alla procedura di base. alla PESC e alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale proprio per l'utilizzo del metodo comunitario: a) ruolo degli organi di individui assai rilevante; b) principio maggioritario accolto largamente; c) carattere vincolante di molti atti adottati dalle istituzioni; d) controllo di legittimità sugli atti produttivi di effetti giuridici vincolanti da parte della Corte di giustizia. In origine queste caratteristiche erano completamente assenti nei pilastri non comunitari. Con il Trattato di Amsterdam e di Nizza, tuttavia, è avvenuta una certa "contaminazione" del secondo e del terzo pilastro da parte del primo. Importanti differenze permangono tuttora: a) delibere del Consiglio prese in prevalenza all'unanimità (le deliberazioni a maggioranza qualificata sono previste per l'adozione di atti di secondo grado). Sono inoltre presenti clausole di salvaguardia, che consentono agli Stati membri contrari di evitare una delibera a maggioranza qualificata; b) presenza del Consiglio europeo (nella PESC); c) potere di iniziativa della Commissione non esclusivo e limitata consultazione del Parlamento, diverse tipologie di atti adottabili, competenza della Corte di giustizia quasi inesistente nei due pilastri. Riguardo alla PESC, il Consiglio europeo non si limita a dettare i principi e gli orientamenti generali di essa, ma adotta anche dei veri e propri atti giuridici: le strategie comuni (art. 13, par.2). Le deliberazioni del Consiglio in ambito PESC sono disciplinate dall'art. 23 TUE. Come regola generale si segue il principio dell' unanimità. Posto che le astensioni non escludono l'unanimità si è cercato di indurre i membri contrari alla proposta ad astenersi, piuttosto che esprimere voto contrario. L'art. 23 introduce l'istituto dell'astensione costruttiva, che consiste in una deroga al principio secondo cui le delibere del Consiglio obbligano tutti gli Stati membri, anche quelli che si sono astenuti. Quindi la delibera del Consiglio è validamente assunta, ma l'atto adottato non vincola lo Stato membro astenuto, che rimane escluso dall'ambito di applicazione personale della delibera (altro esempio di Europa a più velocità). Il meccanismo diviene tuttavia inapplicabile allorquando il numero degli Stati membri che vi hanno fatto ricorso è rilevante (1/3 dei voti secondo la ponderazione di cui all'art. 205). L'art. 23 par. 2, prevede la possibilità che talune deliberazioni vengano assunte dal Consiglio a maggioranza qualificata, per l'ipotesi in cui manchi la proposta della Commissione (infatti mai necessaria nel settore PESC). Ciò può avvenire in tre casi: a) quando adotta azioni comuni, posizioni comuni o quando adotta decisioni sulla base di una strategia comune; b) quando adotta decisioni relative all'attuazione di un'azione comune o di una posizione comune; c) quando nomina un rappresentante speciale ai sensi dell'art. 18 par. 5. Le prime due ipotesi riguardano casi in cui si tratta di adottare atti che costituiscono attuazione di un atto adottato all'unanimità (strategia comune adottata all'unanimità dal Consiglio europeo nella prima ipotesi e azione comune o posizione comune adottata autonomamente dal Consiglio all'unanimità nella seconda ipotesi). Analogamente il trattato di Nizza ammette che il Consiglio possa deliberare a maggioranza qualificata anche riguardo agli accordi internazionali, "quando l'accordo sia previsto per attuare un'azione comune o una posizione comune". Peraltro la pur limitata possibilità di assumere le deliberazioni a maggioranza qualificata può essere paralizzata grazie alla clausola di salvaguardia prevista dal secondo comma dell'art 23 par. 2 . Con la dichiarazione di opposizione da parte di un membro del Consiglio, giustificata da importanti motivi di politica nazionale, si impedisce al Consiglio di adottare l'atto a maggioranza qualificata e gli consente soltanto, con la stessa maggioranza, di deferire la questione al Consiglio europeo, il quale delibererà all'unanimità (non è tuttavia da escludere che esso possa spingersi fino all'approvazione formale dell'atto). Per quanto riguarda il ruolo della Commissione l'articolo 27 TCE dispone che essa sia pienamente associata ai lavori nel settore della PESC. Tuttavia il potere di proposta viene condiviso con gli Stati membri, ai sensi dell'articolo 22. Anche il ruolo del Parlamento europeo è molto ridotto: la consultazione è limitata alle sole scelte fondamentali della PESC, pertanto non è sistematica. Riguardo al pilastro relativo alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, va ricordato che esso originariamente contemplava anche disposizioni relative alla cooperazione nei settori della giustizia civile e degli affari interni, materie ora incluse nel primo pilastro, quindi di competenza della CE. Anche in questo pilastro troviamo alcune delle caratteristiche già evidenziate con riguardo alla PESC, ma a differenza di questa, nel terzo pilastro non viene riconosciuto un ruolo specifico al Consiglio europeo. Analoga è invece la disciplina riguardante le deliberazioni del Consiglio. L'unanimità è la regola di base ed è richiesta per l'adozione di quattro tipi di atti: posizioni comuni, decisioni quadro, decisioni e convenzioni tra gli Stati membri. A maggioranza qualificata sono invece approvate soltanto le misure necessarie all'attuazione delle decisioni. Come nella PESC il potere di proposta della Commissione è condiviso con gli Stati membri. Il ruolo del Parlamento europeo risulta invece accresciuto rispetto a quanto previsto nella PESC, anche se inferiore al pilastro comunitario. A differenza del pilastro comunitario, il Parlamento europeo esprime il suo parere entro un termine che il Consiglio può fissare; tale termine non può essere inferiore a tre mesi. In mancanza di parere entro detto termine, il Consiglio può deliberare. 6. La cooperazione rafforzata. L'ORDINAMENTO COMUNITARIO 1. Considerazioni generali. La Comunità Europea è un ente portatore di un proprio ordinamento giuridico. L'ordinamento comunitario infatti si distingue sia dall'ordinamento internazionale sia da quello interno degli Stati membri. Anche l'ordinamento comunitario si fonda su un sistema di fonti di produzione del diritto, all'interno del quale la distinzione fondamentale è quella tra fonti di diritto primario e fonti di diritto secondario o derivato. Fonti di diritto primario sono il TCE le altre fonti cui il TCE riconosce pari natura. Fonti di diritto secondario o derivato sono gli atti che le istituzioni della Comunità hanno il potere di adottare in virtù del TCE. Tra i due livelli si collocano le fonti intermedie, la cui giuridicità deriva dal TCE, ma esse prevalgono sul diritto secondario (categoria assai eterogenea: principi generali del diritto, norme di diritto internazionale generale, accordi internazionali). Tra le fonti di diritto derivato figurano categorie di atti molto diversi, in particolare l'articolo 249 TCE contempla tre categorie di atti vincolanti (regolamenti, direttive e decisioni) ma non prevede alcuna gerarchia tra di loro. Tuttavia molto spesso il TCE specifica, materia per materia, il tipo di atto che può essere adottato, evitando così conflitti tra atti appartenenti a categorie diverse. Una distinzione importante è quella tra atti di base e atti di esecuzione (o di attuazione), distinzione che rileva non solo dal punto di vista della procedura decisionale applicabile, ma ha anche un valore gerarchico (l'atto di attuazione deve rispettare l'atto di base). Gli atti di diritto derivato si distinguono anche in funzione dell'istituzione o delle istituzioni dalle quali sono adottati. L'articolo 249 prevede infatti che gli atti delle categorie ivi previste possono essere emanati dal Parlamento, congiuntamente con il Consiglio, dal Consiglio o dalla Commissione (oltre che dalla BCE). Al di fuori dell'ipotesi di atti che diano attuazione ad atti di base, manca una regola, ancorché implicita, che stabilisca la prevalenza degli atti adottati da un'istituzione rispetto a quelli adottati da un'altra. L'eventuale conflitto tra due atti indipendenti l'uno dall'altro ma adottati da istituzioni diverse andrà pertanto risolto in termini di corretta individuazione della base giuridica di ciascun atto. (La Costituzione modificherà notevolmente la tipologia delle fonti di diritto derivato, prevedendo non soltanto atti con denominazione e caratteristiche nuove, ma anche introducendo una netta differenziazione tra atti legislativi e atti di altra natura). 2. Le fonti di diritto primario: in particolare il Trattato CE. Le fonti di diritto primario comunitario sono in massima parte contenute nel TCE, come emendato dai Trattati di revisione e modificato dai Trattati di adesione che si sono succeduti nel tempo. Natura di fonti primarie hanno anche i Protocolli allegati al TCE. (articolo 311 TCE). È da ritenersi che pari natura abbiano anche i Protocolli allegati non soltanto al TCE ma contemporaneamente anche ai trattati CECA e CEEA, nonché quelli allegati al TCE e al TUE insieme. Per prassi, l'atto finale delle CIG, convocate per approvare i Trattati di revisione del TCE e del TUE, reca in allegato alcune Dichiarazioni, aventi ad oggetto una o più disposizioni del Trattato. Ne esistono almeno di tre tipi: a) dichiarazioni della Conferenza, cioè di tutti gli Stati membri; b) dichiarazioni di uno o più Stati membri; c) dichiarazioni di una o più istituzioni. Alle prime può riconoscersi un ruolo importante per quanto riguarda l'interpretazione delle disposizioni alle quali si riferiscono. Esse tuttavia non costituiscono per l'interprete un vero e proprio vincolo. Minore rilevanza hanno le altre due tipologie,tuttavia, non si esclude che anche queste possano essere prese in considerazione dall'interprete(in particolare dalla Corte di giustizia). Questione centrale nello studio dell'integrazione europea è l'individuazione della natura giuridica del TCE. Il Trattato va considerato: 1) come trattato istitutivo di un'organizzazione internazionale; oppure 2) come carta costituzionale di un'entità di tipo statuale. A sostegno della prima soluzione si può addurre che il TCE (come pure i successivi Trattati di revisione, compreso il TUE) è stato concluso nelle forme e secondo i procedimenti propri di un normale trattato internazionale. Gli articoli inoltre sono stati redatti in un linguaggio che risulta essere tipico dei trattati internazionali, prevalendo infatti norme che hanno come destinatari gli Stati membri. In questa prospettiva la Comunità costituirebbe nient'altro che un'organizzazione internazionale tra Stati sovrani, benché di nuovo tipo, considerate le non comuni caratteristiche di autonomia. Gli Stati membri manterrebbero la propria sovranità, il cui esercizio sarebbe soltanto delegato agli organi comunitari. Infatti, ai sensi dell'articolo 48 TUE, il potere di revisione è riservato alla comune volontà degli Stati membri. Tuttavia non si può negare che il TCE assolve ad una funzione di natura costituzionale, definendo la struttura istituzionale della Comunità, le procedure per l'adozione degli atti di diritto derivato e le caratteristiche di tali atti, nonché i principi e le regole di base applicabili ai vari settori sottoposti alla competenza comunitaria (tuttavia ciò non è sufficiente a trasformare la natura del Trattato in quella di una carta costituzionale di tipo statuale). Ciò che invece fa del TCE qualcosa di diverso da un mero trattato internazionale sono le caratteristiche dell'ordinamento che dal Trattato trae origine. Le norme di cui l'ordinamento comunitario si compone non si limitano infatti a disciplinare rapporti giuridici tra soggetti di diritto internazionale, ma regolano anche rapporti tra soggetti degli ordinamenti interni degli Stati membri (in altre parole o restringendo la portata della competenza della stessa , non sarebbe consentita, nemmeno ricorrendo alla procedura di revisione di cui all'articolo 48 TUE. Si ritiene che siano parimenti immodificabili le norme che costituiscono il "nocciolo duro" dell'ordinamento comunitario quali quelle sulla libertà di circolazione e sulla concorrenza e quelle che sono espressione di principi generali del diritto comunitario. Escludendo i limiti appena citati, la procedura di revisione ha portata generale, potendo quindi essere utilizzata per modificare qualsiasi disposizione dei Trattati. Accanto ad essa, i Trattati prevedono delle procedure semplificate di revisione, applicabili soltanto per la modifica di specifici articoli. L'elaborazione e l'approvazione del testo delle modifiche è riservata al Consiglio o, talvolta, al Consiglio europeo. Il testo così definito entra in vigore soltanto in seguito alla ratifica da parte di tutti i Parlamenti nazionali. (Esempio di procedura di revisione semplificata è offerto dall'articolo 22 TCE, che autorizza il Consiglio con deliberazione unanime, su proposta dalla Commissione e previa consultazione del Parlamento, ad adottare disposizioni intese a completare i diritti spettanti ai cittadini dell'Unione, raccomandandone l'adozione da parte degli Stati membri, conformemente alle loro rispettive norme costituzionali. Accanto alla procedura di revisione ordinaria la Costituzione prevede anche due procedure di revisione semplificate). Altro modo per modificare i Trattati è previsto dall'articolo 49 TUE, che disciplina la procedura di adesione all'Unione da parte di nuovi Stati. Ai sensi di tale articolo può presentare domanda di adesione all'Unione: a) ogni stato europeo (condizione geografica) b) che rispetti i principi sanciti dall'articolo 6 par. 1 (condizione politica). Anche la procedura di adesione si articola in due fasi: 1) prima fase: si svolge all'interno dell'apparato istituzionale. La domanda di adesione è approvata all'unanimità dal Consiglio, previa consultazione della Commissione e su parere conforme del Parlamento europeo. 2) seconda fase: affidata gli Stati membri. Essa ha il solo scopo di stabilire le condizioni per l'ammissione e gli adattamenti da apportare ai Trattati. In proposito viene concluso tra gli Stati membri e lo stato candidato un trattato di adesione, che deve essere ratificato da tutti gli stati contraenti. Attraverso questa procedura possono quindi essere apportati soltanto degli adattamenti, delle modifiche minoris generis, che normalmente consistono in un ampliamento della composizione delle istituzioni e degli organi per assicurare la rappresentanza del nuovo Stato membro. (Anche nel caso della procedura di adesione la prassi ha dato vita ad una procedura alquanto diversa da quanto previsto dall'articolo 49. In particolare, le due fasi si svolgono contemporaneamente. Negli ultimi due allargamenti si è affermata una fase preliminare, detta dei negoziati di pre-adesione, nel corso della quale lo Stato candidato deve dimostrare di rispondere ad alcuni criteri. Soltanto quando la Commissione attesta la capacità dello Stato candidato di rispettarli al momento dall'adesione, il Consiglio europeo autorizza l'apertura dei veri e propri negoziati di adesione. I criteri da verificare sono stati fissati dal Consiglio europeo di Copenhagen del giugno 1993. Si tratta di criteri politici, economici e criteri relativi all'acquis comunitario. La procedura di adesione all'Unione disciplinata dalla Costituzione rispecchia molto quella prevista dall'articolo 49. Interessante innovazione consisterà nella possibilità di recesso dall'Unione (unilaterale)). Per quanto riguarda la modifica dei Trattati al di fuori della procedura di revisione o delle altre procedure previste a questo scopo, se si tiene conto della funzione costituzionale svolta dal Trattato, ne consegue che la procedura prevista dall'articolo 48 TUE non può non essere considerata obbligatoria e che eventuali modifiche che si tenti di introdurre senza rispettarla sono prive di qualsiasi valore giuridico (ad esempio il Compromesso di Lussemburgo sebbene incida sulle norme del TCE va considerato come un accordo di natura esclusivamente politica). La Corte di giustizia non ha mai avuto occasione di pronunciarsi espressamente riguardo ciò, tuttavia è da presumersi che, la risposta della Corte sarebbe negativa. In proposito va ricordata la ripetuta e netta presa di posizione della Corte contro il riconoscimento della possibilità che il Trattato venga modificato da una prassi difforme degli Stati membri o delle istituzioni. 3. I principi generali del diritto. Tra le fonti intermedie si segnalano anzitutto i principi generali del diritto, comprensivi dei principi relativi alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo. Questi svolgono un ruolo più importante negli ordinamenti di più recente formazione o in quelli nei quali il sistema di produzione di norme è poco efficiente. La tipologia dei principi generali è ampia. Una prima categoria è costituita dai principi generali del diritto comunitario. Tali principi trovano espressione in determinate norme del TCE, alle quali vengono assegnati grande importanza e carattere assolutamente imperativo e inderogabile. Un esempio è dato dal principio di non discriminazione, il quale trova specifica applicazione in diverse disposizioni del TCE: l'articolo 12 (vieta le discriminazioni legate alla nazionalità), articolo 13 (discriminazioni fondate su sesso,razza,origine etnica,religione etc.), articolo 34 e articolo 141. Secondo la Corte di giustizia le disposizioni citate sono specifiche applicazioni del principio generale di non discriminazione e vanno pertanto interpretate in maniera ampia. Riguardo alla definizione della portata della nozione di discriminazione, alle discriminazioni palesi o dirette sono state infatti assimilate le discriminazioni occulte o indirette. Anche il campo d'applicazione del principio di non discriminazione è stato interpretato in senso estensivo. L'aver stabilito che quello di non discriminazione è un principio generale ne consente anche l'applicazione ad ipotesi che non sono espressamente contemplate da alcuna delle norme richiamate (autonomia del principio di non discriminazione). La Corte invece non ritiene che rientrino nel campo d'applicazione del principio generale di non discriminazione, le discriminazioni alla rovescia (situazioni che si creano quando norme di uno Stato membro prevedono per i propri cittadini un Sul fronte comunitario, si cerca di porre rimedio a questa situazione in due modi. Da un lato le manifestazioni solenni di adesione ai diritti fondamentali da parte delle istituzioni politiche della Comunità (si segnala la Dichiarazione comune adottata a Lussemburgo nel 1977, che però è priva di valore giuridico). D'altro lato, la Corte di giustizia recupera in via giurisprudenziale una forma comunitaria di tutela dei diritti fondamentali. La soluzione elaborata dalla Corte si basa su due postulati: a) rifiuto di ammettere che la validità di un atto di un'istituzione possa essere vagliata alla luce di norme nazionali, benché di rango costituzionale ("la validità degli atti delle istituzioni può essere stabilita unicamente alla luce del diritto comunitario"); b) la Corte riconduce la tutela dei diritti fondamentali ai principi generali del diritto che le istituzioni comunitarie devono rispettare e la cui osservanza è sottoposta al controllo della Corte. Secondo l'impostazione della Corte: 1) i diritti fondamentali vanno tutelati nell'ordinamento comunitario in quanto rientranti nei principi generali del diritto; 2) al fine di definire il contenuto di tali diritti e la portata della tutela che deve essere accordata ad essi, la Corte utilizza, quale fonti di ispirazione i) le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e ii) i trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell'uomo. In quanto mere fonti di ispirazione, le tradizioni costituzionali comuni e i trattati internazionali non hanno valore normativo immediato nell'ordinamento comunitario, non vincolanti quindi direttamente la Corte. Ciò vale anche per quanto riguarda la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950. Benché la Corte l'abbia eletta a riferimento privilegiato e quasi inevitabile per il proprio controllo sul rispetto dei diritti fondamentali, la Convenzione non è in quanto tale vincolante per la Comunità, non essendo la Comunità stessa parte contraente. (Numerose sono state le proposte miranti a permettere l'adesione alla Convenzione europea di salvaguardia da parte della Comunità, tutte però ci sono arenate La Costituzione supererà la posizione assunta dalla Corte, con una norma che conferirà espressamente all'Unione la competenza a negoziare la propria adesione alla citata Convenzione). La soluzione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria è stata poi recepita e consacrata dall'articolo 6 TUE. La formalizzazione in una norma di diritto primario del richiamo alla Convenzione europea di salvaguardia non ne comporta il recepimento formale nell'ordinamento comunitario. D'altra parte, la circostanza che soltanto la Convenzione citata sia menzionata nell'articolo 6 par. 2, non può non accrescere l'importanza di tale strumento. Il fatto di considerare i diritti fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto comunitario comporta che alla Corte è riservato un ruolo determinante. Ad essa spetta il compito non soltanto di individuare quali diritti siano da considerare fondamentali, ma anche di delineare il contenuto e la portata dei diritti così individuati. La circostanza che la Corte non sia tenuta ad applicare un testo scritto, attribuisce un elevato grado di flessibilità ai suoi interventi in materia di diritti umani. Da un lato questo le consente di adattare alla realtà di un ente sopranazionale come la Comunità, norme redatte per essere applicate all'azione di Stati, ma dall'altro accrescere l'imprevedibilità dei risultati cui la Corte perviene di volta in volta. Proprio per ovviare a questo difetto, il Consiglio europeo di Colonia (giugno 1999) decide di promuovere l'elaborazione di una Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea che sancisca "l'importanza capitale e la portata" di tali diritti. La Carta è attualmente priva di valore normativo autonomo, ma la solennità del processo di elaborazione e l'ampiezza di consensi che il suo testo ha riscosso ne fanno comunque uno strumento interpretativo privilegiato per ricostruire la portata dei diritti fondamentali protetti nell'ambito dell'ordinamento comunitario. La giurisprudenza si è mantenuta fedele a questa impostazione. Invero il Tribunale di primo grado ha più volte evocato alcuni articoli della Carta, mentre l'atteggiamento della Corte di giustizia si era caratterizzato in passato per una particolare cautela. Ogni formale richiamo alla Carta veniva infatti evitato. (Secondo gli ultimi precedenti la Carta assumerebbe carattere vincolante non di per sé ma in virtù dell'intenzione espressa dal Consiglio, nel preambolo, di volerla rispettare). Occorre segnalare come l'impostazione data dalla giurisprudenza della Corte di giustizia al problema della tutela dei diritti fondamentali nell'ordinamento comunitario non sembra avere del tutto soddisfatto le corti costituzionali italiane e tedesco federale e non le ha indotte a rinunciare alla pretesa di assicurare un autonomo controllo sul rispetto di tali diritti da parte delle istituzioni. La mancata adesione formale della Comunità alla Convenzione europea di salvaguardia solleva inoltre il problema della responsabilità degli Stati membri di fronte a gli organi della Convenzione in conseguenza di attività delle istituzioni comunitarie ovvero di attività poste in essere dagli Stati membri in esecuzione di norme comunitarie. Il problema è stato affrontato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in numerose pronunce. La Corte ha anzitutto ribadito che gli Stati membri i quali abbiano trasferito a un'organizzazione sopranazionale come la CE taluni poteri sovrani non sono sottratti, per quanto riguarda l'esercizio dei poteri sovrani oggetto del trasferimento, all'obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla Convenzione. La Corte tuttavia non intende esercitare il proprio controllo riguardo ad ogni e qualsiasi attività intrapresa da uno Stato in attuazione degli obblighi derivanti dalla sua appartenenza a una tale organizzazione. In proposito la Corte distingue tra a) casi in cui gli Stati membri si limitano ad attuare atti della CE (in questi casi manca ogni discrezionalità in capo agli Stati membri e la Corte considera in linea di principio il suo intervento non necessario. Infatti secondo la Corte, la CE tutela i diritti fondamentali in maniera almeno equivalente a quella della Convenzione. Presunzione tuttavia passibile di prova contraria);b) casi in cui gli Stati membri godono di un certo margine di discrezionalità nel dare attuazione agli obblighi CE (intervento necessario, lo stato risulta essere pienamente responsabile nei confronti della Convenzione). 5. Segue: la funzione dei principi generali del diritto. comportamento delle istituzioni assunto in violazione di una tale norma costituirebbe pertanto un illecito internazionale. È bene precisare che le norme di diritto internazionale generale vincolano la Comunità soltanto nei confronti di soggetti terzi. Gli Stati membri non possono invece invocare tali principi nei loro rapporti reciproci, quando agiscono nel campo d'applicazione del Trattato. La Corte ha più volte affermato che uno Stato membro non può invocare la violazione di un obbligo comunitario da parte di un altro Stato membro per giustificare, a sua volta, la violazione dello stesso o di altri obblighi comunitari (principio inadimplenti non est adimplendum). Le norme di diritto internazionale generale applicabili alla Comunità fanno parte dell'ordinamento giuridico comunitario. Esse sono utilizzate per l'interpretazione delle norme comunitarie, comprese quelle del Trattato. Inoltre costituiscono un parametro per verificare la legittimità degli atti di diritto derivato. In questa duplice funzione esse possono essere invocate dai soggetti degli ordinamenti interni e debbono essere utilizzate dai giudici degli Stati membri quando si trovano a giudicare su controversie che coinvolgono norme comunitarie. Gli accordi internazionali con Stati terzi che vengono in rilievo rispetto all'ordinamento comunitario sono di tre tipi: a) accordi internazionali conclusi dagli Stati membri: generalmente non fanno parte dell'ordinamento comunitario, ma assumono rilevanza soltanto nella misura in cui un accordo del genere, può essere invocato dallo Stato membro contraente come causa di giustificazione per il mancato rispetto di obblighi comunitari. Tale possibilità vale anzitutto per quanto riguarda gli accordi conclusi da uno Stato membro con uno stato terzo prima della data in cui il trattato è entrato in vigore rispetto allo Stato membro in questione. Pertanto il trattato concluso da due Stati non può essere emendato, né tantomeno abrogato per l'effetto della successiva conclusione di altro trattato tra due Stati, di cui uno soltanto sia parte anche del primo trattato. Il principio comporta che lo Stato che ha concluso tanto il primo quanto il secondo trattato resta tenuto a rispettarli entrambi. Riconoscendo l'esistenza di tale principio, l'articolo 307 TCE contiene un'apposita clausola di compatibilità. Nel caso di accordi con Stati terzi conclusi anteriormente al Trattato e aventi ad oggetto materie comprese nella competenza esclusiva della Comunità, è stata configurata una sorta di sostituzione della Comunità dei diritti e negli obblighi che gli Stati membri contraenti traevano dagli accordi in questione (fenomeno di sostituzione si è verificato rispetto al GATT e con riferimento alla Carta delle Nazioni Unite). È bene osservare che la clausola di compatibilità consente allo Stato membro interessato di sottrarsi agli d'obblighi derivanti dal Trattato soltanto nella misura strettamente necessaria per permettergli di rispettare gli obblighi assunti nei confronti dello stato terzo; b) accordi internazionali conclusi dalla comunità con Stati terzi o con altre organizzazioni internazionali: occupano un posto molto importante all'interno dell'ordinamento comunitario. In quanto soggetto autonomo di diritto internazionale la Comunità ha senza dubbio la capacità di concludere accordi internazionali senza dover passare attraverso i propri Stati membri. Tuttavia la competenza esterna della Comunità non ha portata limitata. Essa infatti soggiace al principio della competenza d'attribuzione. Inoltre la soggettività di diritto internazionale della Comunità coesistere con quella degli Stati membri; c) accordi internazionali conclusi dalla comunità e dagli Stati membri (accordi misti): sono molto diffusi. Questo strumento si è rivelato utile di fronte ad ipotesi di accordi riguardanti anche materie che non rientravano affatto nella competenza comunitaria ovvero materie sottoposte alla competenza concorrente di comunità e Stati membri. L'articolo 300 paragrafo 7 dispone che gli accordi conclusi sono vincolanti per le istituzioni della Comunità e per gli Stati membri. Le istituzioni non possono quindi adottare atti che non rispettino un accordo concluso dalla Comunità. In caso contrario l'atto confliggente può essere annullato o essere dichiarato invalido. Esiste però un'eccezione all'utilizzabilità degli accordi internazionali per mettere in discussione la validità di atti delle istituzioni: gli accordi allegati all'accordo istitutivo dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC), i quali non sono presi in considerazione a tal fine a causa della loro natura flessibile. 7. Gli atti delle istituzioni. L'articolo 249 TCE contiene un'elencazione degli atti più importanti delle istituzioni (atti tipici). Alcuni articoli del Trattato prevedono l'emanazione di atti diversi, altri autorizzano le istituzioni ad adottare atti rispondenti ad una delle denominazioni utilizzate dall'articolo 249, ma con caratteristiche proprie (atti atipici). (Es. del primo tipo è costituito dal bilancio della Comunità, es. del secondo l'istituzione di camere giurisdizionali di primo grado). Accanto agli atti atipici vanno annoverati alcuni tipi di atti alcuni tipi di atti affermatisi soltanto in via di prassi, soprattutto nel settore della disciplina della concorrenza e degli aiuti di Stato alle imprese. In entrambi questi settori la Commissione gode di poteri diretti di controllo e di sanzione, ma anche di un ampio margine di discrezionalità. Per orientare i comportamenti dei destinatari di tali poteri la Commissione pubblica periodicamente delle comunicazioni, le quali, pur non avendo un vero e proprio valore normativo, sono considerate dalla giurisprudenza come atti attraverso cui la Commissione definisce i limiti del proprio potere discrezionale. Ne consegue che la Commissione non può discostarsene nella valutazione dei casi concreti. Gli atti tipici descritti nell'articolo 249 sono 5: regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Essi si dividono in: a) atti vincolanti: regolamenti direttive e decisioni. Attraverso i quali le istituzioni hanno il potere di porre nuovi obblighi a carico dei destinatari (istituzioni comunitarie, Stati membri o soggetti degli ordinamenti interni). Gli atti vincolanti si distinguono ulteriormente in atti normativi (producono un'innovazione dell'ordinamento se adottato congiuntamente da entrambi, ovvero dal solo Presidente del Consiglio, se adottato dal solo Consiglio. È pubblicato nella gazzetta ufficiale dell'europea ed entra in vigore venti giorni dopo la pubblicazione, salvo che sia disposto diversamente). 9. Le direttive. Art. 249.3 TCE: " la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e i mezzi". La direttiva pur essendo un atto vincolante ha portata individuale. Essa infatti ha dei destinatari definiti in ciascuna direttiva, consistenti in uno più Stati membri. (Spesso la direttiva è rivolta tutti gli Stati membri, in questo caso si parla di direttive generali). In prevalenza le direttive mirano ad ottenere il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in determinate materie. Esse rappresentano uno strumento di normazione in due fasi: la prima accentrata livello comunitario, dove vengono fissati gli obiettivi e i principi generali, la seconda decentrata a livello nazionale, dove ciascuno Stato membro attua, attraverso strumenti normativi completi e dettagliati, gli obiettivi e i principi generali fissati dalla direttiva. Come il regolamento, essa è obbligatoria in tutti i suoi elementi (obbligatorietà integrale) ma differenza di quello, la direttiva si limita ad imporre agli Stati membri un risultato da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere le misure di adattamento necessarie per realizzare il risultato prescritto. Quanto alla diretta applicabilità, occorre distinguere tra i due profili individuati a proposito dei regolamenti. La direttiva non gode della diretta applicabilità: il meccanismo descritto nel terzo comma dell'articolo 249 richiede che la direttiva riceva attuazione da parte degli Stati membri attraverso apposite misure. Gli Stati membri sono dunque tenuti ad adattare l'ordinamento interno in modo da assicurare che il risultato voluto dalla direttiva sia raggiunto. In mancanza, l'atto comunitario non è in grado, da solo, di ottenere il risultato voluto. Si tratta quindi di uno strumento che risponde ad una visione internazionalistica dei rapporti tra ordinamenti. Quanto al secondo profilo, perché possa parlarsi di efficacia diretta di una direttiva è necessario che siano soddisfatte alcune condizioni temporali e sostanziali individuate dalla giurisprudenza della Corte. Inoltre l'efficacia diretta delle direttive ha una ridotta portata ratione personarum. L'attuazione da parte degli Stati membri costituisce quindi un momento centrale e problematico per ciascuna direttiva. L'obbligo di attuazione di una direttiva è assoluto per ciascuno Stato membro al quale la direttiva rivolta (salvo che l'ordinamento interno non sia già perfettamente conforme alla direttiva, unica ipotesi in cui lo Stato membro può omettere di attivarsi). L'obbligo va adempiuto entro il termine di attuazione fissato dalla direttiva stessa, il quale, può variare a seconda dell'importanza della materia oggetto della direttiva e delle difficoltà che gli Stati membri possono incontrare nell'attuazione. Il termine è imperativo è perentorio. Gli Stati membri sono competenti quanto alla scelta delle forme e dei mezzi di attuazione. La scelta non è peraltro del tutto libera. È infatti anzitutto necessario che gli strumenti scelti dal legislatore nazionale siano idonei a produrre la modificazione degli ordinamenti interni voluta dalla direttiva. Nella scelta si deve quindi tenere conto della gerarchia delle fonti di diritto interno. In secondo luogo, devono essere scelti strumenti di attuazione che garantiscano trasparenza e certezza del diritto (evitando procedure agevolate di attuazione, come circolari o semplici istruzioni rivolte agli uffici amministrativi). Per quanto riguarda il contenuto delle direttive, come si è visto, il meccanismo previsto dal art. 249 TCE si articola intorno al binomio risultato/ forme e mezzi. Tuttavia determinati risultati non possono essere definiti limitandosi ad indicare obiettivi i principi generali, ma richiedono l'elaborazione di un quadro normativo alquanto dettagliato, che lascia alla libera determinazione degli Stati membri soltanto interventi limitati ad aspetti di secondaria importanza. Si parla a tal proposito di direttive dettagliate, le quali, benché simili nel contenuto e regolamenti, non soltanto mantengono la struttura di qualsiasi direttiva (obbligo d'attuazione e termine) ma si giustificano in base al risultato voluto (adottate fino a gli anni '80, soprattutto nel campo dell'armonizzazione delle legislazioni tecniche, caratterizzate da una disciplina particolarmente precisa e particolareggiata). (Requisiti formali: sono gli stessi di quelli previsti per i regolamenti. Con una differenza: le direttive a) adottate congiuntamente dal Parlamento e dal Consiglio e b) adottate dal solo Consiglio o dalla Commissione rivolte tutti gli Stati membri sono pubblicate nella gazzetta ufficiale dell'Unione Europea ed entrano in vigore dopo venti giorni dalla pubblicazione. Le altre direttive sono notificate ai loro destinatari e danno efficacia in virtù della notificazione). 10. Le decisioni. Art. 249.4: "la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati". La decisione coniuga due caratteristiche, l'una propria dei regolamenti e l'altra delle direttive. Come il regolamento è obbligatoria in tutti i suoi elementi, come la direttiva non ha portata generale, vincolando i soli destinatari da essa designati. A differenza della direttiva può essere rivolta non solo agli Stati membri, ma anche ad altri soggetti, compresi i singoli. Le decisioni rivolte agli Stati membri sono nella sostanza simili alle direttive, qualora impongano un obbligo di facere. Tuttavia l'obbligo di facere è spesso molto più specifico dell'obbligo di attuare una direttiva che lascia quindi allo Stato membro un margine di discrezionalità molto più ristretto. Esistono anche decisioni che si limitano a prescrivere un obbligo di non facere. In questo caso lo Stato membro destinatario è tenuto ad astenersi dall'attività vietata. (Ad esempio le decisioni della Commissione in materia di aiuti statali delle imprese possono avere l'uno e l'altro contenuto). dell'Unione. A differenza delle strategie comuni, si estrinsecano in un'azione concreta dell'Unione nel settore della politica estera. Hanno un valore vincolante nei confronti degli Stati membri, i quali non se ne possono discostare nelle loro prese di posizioni e nella conduzione della loro azione. 3) posizioni comuni: previste dal art. 15 TUE. Si limitano a definire l'approccio dell'Unione su una questione particolare di natura geografica o tematica. Non sembrano essere vincolanti (si dice "gli Stati membri provvedono affinché le loro politiche nazionali siano conformi alle posizioni comuni", quindi la forma verbale "provvedere" risulta essere sinonimo di non cogenza). 4) accordi internazionali: l'articolo 24 TUE prevede infine la possibilità di concludere accordi internazionali con uno o più Stati od organizzazioni internazionali. 12. Gli atti delle istituzioni nella Costituzione. Le innovazioni che il progetto di Costituzione introduce riguardo alla tipologia degli atti delle istituzioni sono notevoli. La nuova tipologia è contenuta nell' art. I-33, che elenca le seguenti categorie di strumenti giuridici: legge europea, la legge quadro europea, il regolamento europeo, la decisione europea, raccomandazioni e pareri. Subito differenzia gli atti legislativi dagli atti di altra. Tale differenziazione si ripercuote anche sulle istituzioni, cui è riservata l'approvazione di atti legislativi e sulla procedura applicabile. 1) atti legislativi: a loro voltasi distinguono in: a) leggi europee: hanno le stesse caratteristiche degli attuali regolamenti comunitari; b) leggi quadro europee: corrispondono alle direttive. Essere vincolalo tutti gli Stati membri destinatari. Da ciò potrebbe desumersi che una legge quadro deve rivolgersi a tutti gli Stati membri e non potrebbe avere come destinatari Stati membri definiti. (Contrariamente al regolamento europeo). 2) atti non legislativi: a loro voltasi distinguono in: a) regolamenti europei: atti normativi di secondo grado. Hanno portata generale che sono rivolti a dare attuazione agli atti legislativi ovvero a specifiche disposizioni della Costituzione. Può essere configurato come un attuale regolamento comunitario, in questo caso è obbligatorio in tutti su elementi e direttamente applicabile. Può invece essere configurato come un attuale direttiva, in questo caso vincola lo Stato membro destinatario circa risultato da raggiungere. I regolamenti europei possono essere adottati tanto dal Consiglio, quanto dalla Commissione, oltre che dalla BCE, ove previsto. I regolamenti europei delegati sono emanati dalla Commissione in forza di una delega contenuta in una legge europea o in una legge quadro europea. Possono infatti completare o modificare determinati elementi non essenziali della legge o legge quadro. I regolamenti europei d'esecuzione contengono misure necessarie per l'attuazione di atti giuridicamente obbligatori dell'Unione, quando si sia ritenuto che gli stessi richiedano condizioni uniformi di esecuzione. Sono adottati dalla Commissione, su autorizzazione conferita nell'atto da eseguire, o dal Consiglio in casi specificatamente motivati; b) decisioni europee: obbligatoria in tutti i loro lamenti. A differenza di quelle previste dal art. 249.4 TCE, esse non hanno sempre destinatari specifici. In questo senso la sua obbligatorietà e generale. Qualora invece siano designati dei destinatari, la decisione è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. Possono essere adottate dal Consiglio, dalla Commissione, ma anche dal Consiglio europeo, nei casi specificatamente previsti, e dalla BCE. Le decisioni europee possono essere anche di secondo grado: ciò avviene quando la decisione di base attribuisce alla Commissione o al Consiglio la competenza ad adottare misure uniformi d'esecuzione attraverso una decisione europea d'esecuzione. Aspetti positivi della nuova tipologia: - la scelta di distinguere anche dal punto di vista formale gli atti legislativi da quelli di altra natura; - il riconoscimento di un tipo di decisioni che non hanno nulla a che fare con le decisioni di portata individuale di cui parla l'art.249.4 TCE. Aspetti negativi: - la previsione di un unico atto normativo, ma non legislativo (il regolamento europeo); - la distinzione tra regolamenti delegati e regolamenti d'esecuzione. 13. L'adattamento dell'ordinamento italiano al diritto comunitario. Come si è visto i Trattati si presentano nella forma di normali trattati internazionali. Più precisamente l'ordine di esecuzione di ciascun trattato è stato dato con la medesima legge con cui il Parlamento ha autorizzatola ratifica del trattato stesso da parte del Capo dello Stato, ai sensi dell'art. 80 Cost. Il ricorso ad una legge ordinaria per eseguire trattati così importanti come quelli europei ha dato luogo difficoltà. La legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3 si limita a dare già per acquisitala partecipazione italiana alla Comunità. Il nuovo art. 117 Cost. stabilisce infatti che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e da gli obblighi internazionali (altri Stati membri hanno invece modificato la propria Costituzione Nazionale, inserendo apposite "clausole europee"). In assenza di una norma costituzionale specifica, si è ritenuto di poter ricondurre l'adesione italiana alla Comunità e poi all'Unione all'art. 11 Cost. Questa possibilità ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale l'articolo 11 non è solo una norma permissiva, ma è anche una norma procedurale: consente di accettare limitazioni di sovranità, senza necessità di procedere ad una revisione costituzionale. materie di competenza concorrente, è compito dello Stato la determinazione dei principi fondamentali in secondo luogo gli artt. 117.5 e 120.2 Cost. prevedono a favore dello Stato un potere sostitutivo nel caso di inadempimento regionale riguardante la normativa comunitaria. Per quanto riguarda l'attuazione di atti normativi comunitari, la legge n. 11/2005 ribadisce il sistema precedente, consistente in un meccanismo di sostituzione preventiva. Lo Stato in pratica adotta decreti legislativi o regolamenti di attuazione anche riguardo a direttive che ricadono nelle materie di competenza regolamentare o legislativa delle regioni o delle province autonome. Tali provvedimenti hanno natura cedevole. Una procedura di sostituzione successiva, disciplinata dall'articolo 8, prevede la messa in mora preventiva della Regione che versi in situazione di mancato rispetto della normativa comunitaria, con l'assegnazione di un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari. Decorso invano detto termine, il Consiglio dei ministri provvederà direttamente o nominando un'apposita commissione. Alla riunione del Consiglio, partecipa il Presidente della Giunta regionale o provinciale interessata). FONTI COMUNITARIE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI 1. Considerazioni generali. Abbiamo visto come la caratteristica propria dell'ordinamento comunitario, consiste nel riconoscere come titolari di soggettività giuridica non solo gli Stati membri, ma anche coloro ai quali tale soggettività spetta nell'ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri. Tale caratteristica comporta che le norme comunitarie presentano due dimensioni: - dimensione internazionale: sono di tipo internazionalistico i rapporti giuridici che il diritto comunitario fa sorgere in capo agli Stati membri e alla Comunità. Il contenuto di tali rapporti è costituito da una serie di diritti e obblighi che la Comunità, o lo Stato membro può far valere nei confronti di un altro Stato membro o istituzione. Nell'ambito di tali rapporti, lo Stato membro interessato si presenta in maniera unitaria, analogamente a quanto avviene nell'ordinamento internazionale. I rapporti di tipo internazionalistico sfociano, in caso di controversia, nei procedimenti giudiziari di soluzione, il più importante dei quali è disciplinato dagli artt. 226 e 227 TCE. - dimensione interna: appartengono ad una dimensione interna all'ordinamento di ciascuno Stato membro, i rapporti giuridici interessati dal diritto comunitario che coinvolgono soggetti di tali ordinamenti. Talvolta si tratta di rapporti orizzontali (contrapposti sono soggetti privati), più spesso si tratta di rapporti verticali (sorgono tra un soggetto privato e un soggetto pubblico). Il diritto comunitario può intervenire su tali rapporti con intensità variabile. In primo luogo, può darsi che il diritto comunitario fornisca la disciplina di tali rapporti. Ciò avviene, in particolare, nel campo d'applicazione dei regolamenti, i quali, essendo direttamente applicabili, disciplinano un'intera materia e si sostituiscono alle eventuali norme interne preesistenti (effetto di sostituzione). Tale effetto, seppur su scala più limitata, può derivare anche da altre fonti di diritto comunitario. In secondo luogo il diritto comunitario può interessare la disciplina di un rapporto giuridico dettando principi o regole che si limitano ad impedire l'applicazione di norme interne ad esse contrarie (effetto di opposizione). In questi casi, la disciplina del rapporto resta soggetta al diritto interno, dal quale vengono eliminate soltanto le norme incompatibili con il diritto comunitario. In entrambi i casi precedenti si suole dire che la norma comunitaria produce effetti diretti ovvero gode di efficacia diretta negli ordinamenti interni (non è possibile definire a priori il contenuto degli effetti diretti che una norma comunitaria può produrre, essendo questi strettamente legati al contenuto della norma stessa e al contesto in cui la norma è invocata). L'efficacia diretta di una norma comunitaria implica che il soggetto nei cui confronti la norma produce effetti favorevoli può pretenderne il rispetto da parte dell'altro soggetto del rapporto (efficacia diretta in senso sostanziale). In caso di mancato rispetto, l'efficacia diretta comporta anche l'invocabilità in giudizio: i soggetti favoriti della norma comunitaria possono chiedere al giudice nazionale l'applicazione in giudizio della norma stessa, ottenendone la corrispondente tutela giurisdizionale. Occorre rilevare che in passato, la Corte usava indistintamente i termini efficacia diretta e applicabilità diretta. In realtà l'applicabilità diretta in senso stretto è riservata dall' art. 249 TCE ai soli regolamenti. L'efficacia diretta è invece una caratteristica che può essere presente anche in altre fonti comunitarie, appare quindi opportuno distinguere le due nozioni ed utilizzare soltanto il termine efficacia diretta per riferirsi all'oggetto della presente Parte. Non sempre le norme comunitarie presentano le caratteristiche necessarie per produrre effetti diretti (persino di regolamenti). L'efficacia diretta non costituisce tuttavia l'unica forma attraverso cui le norme comunitarie assumono rilevanza normativa interna. In Manfredi). Quindi anche norme del Trattato formalmente rivolte agli Stati membri possono produrre effetti diretti qualora siano dotate delle caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Van Gend & Loos,Defrenne,Van Duyn e Reyners). Le norme del Trattato producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali, quanto nei rapporti orizzontali. Si parla pertanto di efficacia diretta verticale e di efficacia diretta orizzontale (v. sentenza Angonese e sentenza Deliège). - Accordi internazionali conclusi dalla Comunità (art. 300): anche per essi si pone il problema dell'efficacia diretta. È infatti possibile che soggetti privati siano interessati a far valere la disciplina contenuta in tali accordi, per contestare la legittimità di comportamenti o di provvedimenti degli Stati membri o delle istituzioni (v. sentenza Kupferberg e sentenza Sevince). La verifica svolta dalla Corte per decidere circa l'efficacia diretta delle disposizioni contenute in accordi internazionali si caratterizza per una particolare attenzione rivolta al contesto. Dapprima occorre dimostrare che la natura e la struttura dell'accordo permettono di riconoscere effetti diretti alle sue disposizioni in generale. Successivamente, è necessario provare che la specifica disposizione invocata presenti le caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Kupferberg). - Regolamenti: per essi il problema dell'efficacia diretta ha scarsa consistenza. Infatti la caratteristica della diretta applicabilità implica che, normalmente, le disposizioni dei regolamenti siano anche capaci di produrre effetti diretti. Il principio subisce una certa attenuazione nel caso di regolamenti che richiedono l'emanazione da parte degli Stati membri di provvedimenti di integrazione o di esecuzione. In mancanza quindi dei provvedimenti nazionali, non si può fare a meno di verificare che la disposizione regolamentare in questione presenti i presupposti della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Leonesio e sentenza Azienda Agricola Monte Arcosu). Anche i regolamenti producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali (efficacia diretta verticale) quanto in quelli orizzontali (efficacia diretta orizzontale). 3. Segue: il caso delle direttive e delle decisioni. - Direttive: per quanto riguarda i presupposti sostanziali, anche le direttive per essere direttamente efficaci, devono presentare le caratteristiche della sufficiente precisione ed incondizionatezza (v. sentenza Marshall). Le differenze dai casi precedenti riguardano invece il momento a partire dal quale l'efficacia diretta si produce e i soggetti nei cui confronti può essere fatta valere. 1) portata temporale: per sua natura la direttiva non è concepita come fonte di effetti diretti. La disciplina dei rapporti giuridici interni rientranti nel suo oggetto viene posta dalle norme di attuazione emanate da ciascuno Stato membro (hanno un'efficacia normativa interna meramente indiretta o mediata). Tuttavia, capita spesso che gli Stati membri attuino le direttive in ritardo oppure in forme non corrette o sufficienti, in modo da impedire il raggiungimento del risultato voluto. Solo in casi del genere si pone il problema di stabilire se, nonostante la mancanza o l'insufficienza delle misure nazionali d'attuazione, la direttiva possa produrre effetti diretti. Quindi di effetti diretti di una direttiva non può parlarsi se non dopo la scadenza del termine per l'attuazione concesso agli Stati membri. Prima di questo momento l'unico effetto giuridico che produce è quello di obbligare gli Stati membri ad attuarla. (L'unico caso di efficacia diretta anticipata potrebbe darsi nell'ipotesi di attuazione completa effettuata prima della scadenza del termine. V. sentenza Inter-Environnement Wallonie, sentenza Mangold e sentenza Adeneler). 2) portata soggettiva dell'efficacia diretta di una direttiva: la giurisprudenza ha seguito un percorso argomentativo alquanto vario, ma coerente nel sottolineare il nesso tra efficacia diretta e violazione dell'obbligo d'attuazione che grava sugli Stati membri. (Inizialmente, la Corte ha puntato sul carattere obbligatorio della direttiva, avvicinandola in tal modo al regolamento, ma anche sulla teoria dell'effetto utile, che porta ad interpretare le norme comunitarie in maniera da consentire che esse esplichino i loro effetti nella maggior misura possibile.V. sentenza Van Duyn.- Successivamente la Corte introduce un nuovo argomento che sembra assimilare l'efficacia diretta ad una sorta di sanzione a carico dello Stato membro inadempiente. V. sentenza Ratti). Dal momento che l'efficacia interna della direttiva inattuata è conseguenza dell'obbligatorietà della stessa nei confronti degli Stati membri, si comprende perché la Corte abbia limitato tale l'efficacia ai soli rapporti verticali e, più specificatamente, ai rapporti in cui la direttiva è invocata contro un'autorità pubblica.Ogni autorità pubblica, infatti, è tenuta, nel proprio ambito di competenza, ad attuare la direttiva ai sensi dell'art. 249.3 (ad essa è perciò possibile rimproverare di non averlo fatto). Viceversa, la direttiva inattuata, non può produrre effetti diretti dei rapporti orizzontali o comunque in modo da addossare obblighi ai soggetti privati, i quali non possono essere in alcun modo considerati responsabili della mancata attuazione. La direttiva pertanto ha soltanto efficacia diretta verticale, mentre è priva di efficacia diretta orizzontale (v. sentenza Ratti, sentenza Marshall, Faccini Dori e Pfeiffer). Di fronte ad una direttiva inattuata , risulta pertanto determinante stabilire se il soggetto nei cui confronti si intende invocare la direttiva è un soggetto pubblico o un soggetto privato. La Corte considera che l'obbligo di attuare la direttiva non incombe soltanto sugli organi dello Stato centrale, ma anche su qualsiasi articolazione della struttura pubblica, indipendentemente dal se si tratti di entità dotate di poteri autoritativi ovvero di entità che agiscano con gli strumenti dell'autonomia privata (v. sentenza Marshall, sentenza Foster, sentenza Ratti,sentenza Johnston e Van Duyn). Il mero fatto che l'applicazione di una direttiva inattuata comporti effetti sfavorevoli nei confronti di singoli non sempre conduce a classificare la fattispecie come un'ipotesi di efficacia diretta orizzontale. In proposito vi sono tre ipotesi: a) rapporti triangolari: rapporti in cui un privato invoca l'applicazione di una direttiva inattuata nei confronti di un organo pubblico, a titolo principale, ma anche nei confronti di altri soggetti privati, la cui posizione verrebbe compromessa dall'applicazione della direttiva. In contrario si avrebbe la produzione di effetti diretti orizzontali). L'obbligo di interpretazione conforme è stato affermato anzitutto quando il giudice nazionale si trova a dover interpretare e ad applicare le disposizioni che uno Stato membro ha specificatamente adottato per attuare una direttiva (sentenza von Colson). Successivamente l'obbligo di interpretazione conforme è stato esteso anche a disposizioni nazionali più antiche rispetto alla direttiva e pertanto prive di qualunque legame funzionale con la direttiva stessa(sentenza Marleasing). Da ultimo la Corte ha chiarito che l'obbligo in questione riguarda tutto il diritto nazionale. L'obbligo di interpretazione conforme incontro alcuni limiti. In primo luogo esso resta subordinato all'esistenza di un margine di discrezionalità che consenta l'interprete di scegliere tra più interpretazioni possibili della norma interna. Se, invece, la norma interna è inequivocabilmente contraria alla norma comunitaria e questa è priva di efficacia diretta, l'obbligo in esame viene meno (in sintesi l'obbligo di interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale - sentenza Adeneler). Il secondo limite è di carattere temporale: l'obbligo non sorge prima della scadenza del termine di attuazione della direttiva in questione. In terzo luogo la giurisprudenza ha precisato che nel riferirsi al contenuto delle direttive quando interpreta le norme di diritto interno, il giudice deve rispettare i principi generali che fanno parte del diritto comunitario(sentenza Kolpinghuis Nijmegen). La Corte nega pertanto la possibilità che le direttive, finché restano inattuate, possano avere l'effetto, anche solo sotto profilo interpretativo, di aggravare la responsabilità penale degli individui (sentenza Arcaro e precedente cit.). La Corte ha affermato che tale obbligo sussiste anche riguardo alle decisioni quadro adottate nell'ambito del III pilastro, nonostante che l'art.34 par.2 TUE specifici che tali atti non hanno efficacia diretta (sentenza Pupino). 5. Il risarcimento del danno. Un'altra forma di efficacia indiretta consiste nel riconoscere che la norma comunitaria, anche se non direttamente efficace, può essere fonte di un diritto al risarcimento del danno. Secondo la Corte il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli in violazione del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato (sentenza Brasserie du Pècheur). Non vi è dubbio che, qualora gli organi di uno Stato membro ledano il diritto attribuito ad un singolo da una norma comunitaria direttamente efficace, provocando un danno, tali organi siano tenuti al risarcimento. In questi casi il diritto al risarcimento costituisce un corollario necessario dell'effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie. Più problematica è l'ipotesi di mancata attuazione di una direttiva priva di efficacia diretta. In questi casi, il comportamento omissivo degli organi statali impedisce il sorgere stesso del diritto che la direttiva intendeva garantire ai singoli, per cui si può parlare di efficacia indiretta della direttiva, posto che il diritto al risarcimento costituisce un diritto a sé stante (il diritto ad ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza della mancata attuazione di una direttiva non direttamente efficace è stato affermato per la prima volta nella sentenza Franchovich). Le condizioni dettate dal diritto comunitario perché il diritto al risarcimento sorga sono tre: 1) la norma comunitaria violata deve essere diretta a conferire diritti ai singoli danneggiati, il cui contenuto possa essere individuato in base alla norma stessa; 2) la violazione della norma deve essere sufficientemente grave e manifesta; 3) tra la violazione e il danno deve esistere un nesso di causalità diretto (vedi sentenza Francovich, sentenza Dillenkofer,Brink- mann,Lomas) (si ricordi che non è richiesta la presenza di un particolare elemento psicologico, dolo o colpa che sia, da parte degli organi statali responsabili del danno). Quanto egli organi che, con il loro comportamento omissivo o commissivo, possono mettere in gioco la responsabilità per danni dello Stato membro, può trattarsi degli organi legislativi di uno Stato, di autorità fiscali, di una cassa di previdenza, di un ente locale, ma anche del potere giudiziario (sentenza Kobler - per gli altri casi vedi sentenze relative). Condizioni formali sostanziali per l'esercizio del diritto al risarcimento: dipendono dalle varie legislazioni nazionali, salvo il rispetto dei limiti che tali legislazioni devono rispettare quando si applicano ad azioni aventi ad oggetto diritti di derivazione comunitaria (sentenza Francovich cit.). 6. La disciplina processuale della tutela dei diritti di origine comunitaria. Salvo eventuali interventi di armonizzazione da parte delle istituzioni comunitarie, la definizione degli aspetti processuali spetta all'ordinamento nazionale dello Stato membro nel cui ambito la norma comunitaria è azionata. Tale principio (definito dell'autonomia processuale degli Stati membri) incontra tuttavia alcuni limiti: 1) principio di equivalenza: le modalità definite dal diritto nazionale per l'esercizio di posizioni di derivazione comunitaria non possono essere meno favorevoli di quelle applicate per la protezione in via giudiziaria di posizione analoghe, di origine puramente interna; 2) principio di effettività: le modalità non possono essere tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti di derivazione comunitaria. Le due condizioni sono cumulative (vedi sentenza Rewe,sentenza Peterbroeck,Emmott,Fantask,Santex,Manfredi). Il principio dell'autonomia processuale degli Stati membri e i limiti a tale principio si applicano anche nel caso di azioni per ottenere il risarcimento del danno imputabile agli organi statali per violazione del diritto comunitario (sentenza Francovich,Traghetti del Mediterraneo,Kobler). La circostanza che una norma interna sia incompatibile con il diritto comunitario e vada pertanto disapplicata dal giudice nazionale in forza del principio del primato, norme esime lo Stato membro interessato dal provvedere alla abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica. In mancanza, la permanenza della norma nell'ordinamento dello Stato membro mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità loro garantita di fare appello al diritto comunitario (sentenza 24 marzo 1988, Commissione c. Italia - sentenza San Giorgio, sentenza Provincia autonoma di Bolzano). L' 8. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana. La piena accettazione del principio del primato da parte della Corte costituzionale italiana è risultata particolarmente difficoltosa. Inizialmente la Corte parte dall'assunto che, secondo l'ordinamento costituzionale italiano, l'unico procedimento attraverso cui una legge in vigore può essere resa inapplicabile è la dichiarazione di incostituzionalità ai sensi dell'art. 134 Cost. (Sentenza Costa c. Enel) L'attenzione della Corte si focalizza sulla legge di esecuzione del Trattato,la quale, come si è visto, è una legge ordinaria. Da ciò la Corte costituzionale deduce che anche le norme del Trattato hanno il rango di legge ordinaria e sono pertanto destinate a cedere di fronte ad una norma di legge successiva (la Corte infatti esclude che la legge contenente disposizioni difformi dal Trattato sia incostituzionale per violazione indiretta dell'art. 11 attraverso il contrasto con la legge esecutiva del Trattato. Ne consegue che deve rimanere saldo l'impero delle leggi posteriori e quindi in caso di legge incompatibile con il Trattato, si pone una mera questione di successione di leggi nel tempo, che deve essere risolta dal giudice di merito e non dalla Corte costituzionale). Il contrasto è netto: secondo la Corte di giustizia il giudice nazionale deve applicare le norme del Trattato, disapplicando qualsiasi norma interna contraria, mentre, secondo la Corte costituzionale, il giudice italiano può applicare le norme del Trattato soltanto se non sia intervenuta una legge interna successiva incompatibile. Un primo avvicinamento avviene con la sentenza I.C.I.C. La Corte costituzionale, valorizzando maggiormente l'articolo 11 Cost., ne deduce che tale norma non soltanto consente all'Italia di accettare limitazioni di sovranità con legge ordinaria, ma esige altresì che il legislatore rispetti le limitazioni di sovranità così accettate e, in particolare, non ostacoli, attraverso l'emanazione di leggi successive incompatibili o anche meramente riproduttive, la diretta applicabilità dei regolamenti prescritta dall'art. 249.2 TCE. In simili evenienze, la norma di legge è incostituzionale per violazione dell'articolo 11, ma tale vizio non può portare alla sua disapplicazione da parte del giudice ordinario, rendendosi invece sempre necessario l'intervento della Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 Cost. Riassumendo, il giudice italiano, per effetto del principio della successione delle leggi nel tempo, ha il potere di disapplicare una norma di legge interna contraria al diritto comunitario qualora la legge preceda nel tempo la norma comunitaria, ma non ha il potere di fare altrettanto qualora il rapporto temporale sia inverso: in questo caso il giudice non potrà fare altro che sollevare la questione di legittimità costituzionale e attendere la decisione della Corte costituzionale (la soluzione elaborata dalla Corte costituzionale presenta il seguente vantaggio: le sentenze di incostituzionalità hanno valore generale e privano la norma incostituzionale di efficacia, rimuovendola definitivamente dall'ordinamento; ma anche rilevanti difetti: riduce il ruolo della Corte ad una funzione puramente notarile e inoltre l'intervento della Corte costituzionale ritardava il momento a partire dal quale il giudice poteva applicare direttamente la norma comunitaria). Il sopravvenire della sentenza Simmenthal (in cui la Corte di giustizia prende posizione proprio contro la soluzione contenuta nella sentenza I.C.I.C.) costringe la Corte costituzionale a modificare nuovamente il proprio orientamento. L'occasione viene fornita dalla sentenza 8 giugno 1984 n. 170, Granital. La novità del ragionamento della Corte costituzionale consiste nel rifiuto di assimilare le norme comunitarie a norme nazionali di legge. Da ciò discende l'impossibilità di applicare ai conflitti tra norme comunitarie e norme di legge i metodi di risoluzione previsti per l'ipotesi di conflitto tra norme entrambe appartenenti all'ordinamento italiano, compresa la dichiarazione di incostituzionalità. Trattandosi di norme di ordinamenti diversi, gli eventuali conflitti vanno risolti in base ad un diverso criterio: il criterio della competenza (l'ordinamento della C.e.e. e quello dello Stato, pur distinti e autonomi sono necessariamente coordinati). Occorrerà pertanto stabilire se la materia disciplinata rientri tra quelle in relazione alle quali l'Italia ha accettato, in conformità con l'articolo 11, di limitare la propria sovranità in favore della Comunità. Tale compito va svolto dal giudice ordinario e non richiede l'intervento della Corte costituzionale. Qualora risulti che la materia rientra effettivamente nella competenza che il Trattato attribuisce alle istituzioni comunitarie, il giudice italiano,accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame e ne applica di conseguenza il disposto, con l'esclusivo riferimento al sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. La soluzione vale soltanto se e quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca in una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno (come nel caso dei regolamenti) (la giurisprudenza successiva ha riconosciuto che il potere del giudice di applicare direttamente le norme comunitarie, lasciando inapplicate le leggi interne incompatibili va esteso a tutte le fonti comunitarie capaci di produrre effetti diretti). La soluzione elaborata dalla Corte costituzionale nella sentenza Granital benché molto vicina a quanto richiesto dalla Corte nella sentenza Simmenthal, lascia sopravvivere alcune differenze (separatezza dell'ordinamento statale rispetto a quello comunitario su cui esiste la Corte costituzionale mentre visione integazionista della Corte di giustizia nella sentenza Simmenthal. Secondo la Corte costituzionale la norma di legge confliggente con la norma comunitaria non è invalida come sostiene la Corte di giustizia, quindi la legge interna resta in vigore ma non interferisce nella sfera occupata da tale atto). La Corte costituzionale esclude in due ipotesi il potere del giudice di applicare immediatamente la norma comunitaria e di disapplicare
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