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Unità e paradosso nel medioevo. Sintesi Antologia di storia della filosofia medievale., Appunti di Storia Della Filosofia

Sintesi/appunti per lo studio dell'Antologia di storia della filosofia medievale "Unità e paradosso nel Medioevo" dalle lezioni a. 2021/2022. Analisi dei testi: Scheda Etienne Gilson. Opere Etienne Gilson. Struttura manuale del Gilson. L’essere e l’essenza. Index Scolastico-Cartesien. Schema Somma Teologica. Schema Trattato 1. Opera logica Jacobi Zabarellae e rielaborazione del professore. Porfirio, Isagoge. L’albero, Giuseppe Girgenti. De Veritate, I, 1 e rielaborazione del professore. Somma teologica, trattato 1, questione 11 e rielaborazione del professore. Avicenna, Metafisica, III,2 de uno. Aristotele, Metafisica V, 6. Scoto, trattato sul primo principio capitolo IV. Ibn Arabi e il Wahdat al-wujud. Umberto Eco e il nome della rosa. Umberto Eco e dieci modi di sognare il medioevo. Bonaventura e Itinerarium mentis in Deum. Bonaventura e Reductio. Bonaventura e Christus, unus omnium magister. Przywara, Analogia Entis. Tyn, Metafisica della sostanza, partecipazione e analogia entis.

Tipologia: Appunti

2021/2022

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Scarica Unità e paradosso nel medioevo. Sintesi Antologia di storia della filosofia medievale. e più Appunti in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! Antologia, Indice: Unità e paradosso nel Medioevo. 1. Gilson: • Scheda Etienne Gilson. • Opere Etienne Gilson. • Struttura manuale del Gilson. • L’essere e l’essenza. • Index Scolastico-Cartesien. 2. L’unità in Filosofia e teologia: Aristotele, Avicenna, Tommaso: • Schema Somma Teologica • Schema Trattato 1. • Opera logica Jacobi Zabarellae e rielaborazione del professore. • Porfirio, Isagoge. L’albero, Giuseppe Girgenti. • De Veritate, I, 1 e rielaborazione del professore. • Somma teologica, trattato 1, questione 11 e rielaborazione del professore. • Avicenna, Metafisica, III,2 de uno • Aristotele, Metafisica V, 6. • Scoto, trattato sul primo principio capitolo IV. 3. Il concetto di uno nella mistica: • Ibn Arabi e il Wahdat al-wujud. • Umberto Eco e il nome della rosa. • Umberto Eco e dieci modi di sognare il medioevo. • Bonaventura e Itinerarium mentis in Deum. • Bonaventura e Reductio. • Bonaventura e Christus, unus omnium magister. 4. L’analogia entis. • Przywara, Analogia Entis. • Tyn, Metafisica della sostanza, partecipazione e analogia entis. Unità e paradosso nel medioevo. Il titolo: ci si interroga il medioevo sulla congiunzione “unità e paradosso”. Unità è un nome che qualifica qualcosa, un nome di qualità, indica un modo di essere. Paradosso è un nome composto da parà+doxon, ossia da una preposizione più un aggettivo, ossia dok→dokéo (credere e immaginare)→doxa, quindi opinione, oppure sembrare e apparire. Il paradosso ha a che fare con questo tipo di doppio significato, del credere e dell’immaginazione e dall’altra quella dell’apparire e del sembrare. Parà è invece una preposizione che ha il suo significato in ciò che mi sta accanto, in ciò che è altro rispetto a me, ma l’accanto è anche ciò che mi sta talmente vicino per cui costituisce il mio percorso naturale di movimento; l’idea dell’essere di fronte fino al fronteggiare, ossia quella della contrarietà. Unità e paradosso è la relazione tra un nome di qualità e uno nome che sostantivizza un aggettivo che ha a che fare con il credere e l’apparire. Gilson. Il capitolo VIII è centrale e le motivazioni sono da rintracciare negli interessi di ricerca dell’autore, Etienne Gilson. Gilson è filosofo e storico della filosofia. Fine dell’800 e 900, francese. Filosofo neotomista. Neotomismo: tentativo di far rinascere e conoscere la visione filosofica intestata a Tommaso d’Aquino. La sua prigionia in seno alla prima guerra mondiale è un’esperienza fortemente formativa, studia il russo e si approccia alle opere di Bonaventura. Fu professore a Strasburgo, alla Sorbona, al College de France e ad Harvard. Fu uno dei rappresentanti più importanti con Maritain del neotomismo cattolico romano che tende a riproporre la filosofia tomistica a partire dal 1879 con l’AETERNI PATRIS di Leone XIII in cui si sottolinea l’importanza di recuperare nella cultura cattolica lo studio delle sue opere. Collabora con l’editore Joseph Brin creando una sezione senza la quale sarebbe difficile ricercare nell’ambito della filosofia araba. Partecipa alla conferenza di San Francisco per l’istituzione delle nazioni unite. I suoi interessi orbitano attorno alla filosofia medievale, la rinascita del tomismo e gli studi su Cartesio (la sua scommessa è formare una concezione della storia della filosofia per continuità e non rottura o rivoluzione: contro quella interpretazione che dimentica come Cartesio si sia formato sui testi della scolastica. Concetto di filosofia per continuità, senza cercare il fattore innovativo rispetto al periodo precedente o il fattore di discontinuità). 1. La struttura del Manuale: ▪ I primi 2 capitoli riguardano le origini patristiche. ▪ Dal III al VII abbiamo invece la messa in evidenza degli elementi che confluiscono nella Scolastica (interpretata come struttura compiuta di tutta la cultura medioevale). Gli elementi sono: • Dal Capitolo VI la descrizione della filosofia araba ed ebraica, centrale per l’incontro tra filosofia e rivelazione e la domanda cruciale: è possibile una filosofia islamica ebraica e cristiana? • Capitolo VII si discute esplicitamente dell’influenza greco-araba nel XIII e la fondazione delle università. • Capitolo V si discute del 12° secolo. Dell’origine della cultura delle scuole, Chartres. • Capitolo IV si discute del 11° secolo, quindi dell’ingresso della dialettica nell’interpretazione della sacra pagina. • Capitolo III la trasmissione della cultura latina e greca. ▪ Dopo il capitolo VIII la filosofia nel XIV secolo e il ritorno delle belle lettere con la chiusura nel terzo paragrafo. 2. Index Scolastico-Cartesienne. Già alla Sorbona Gilson sostenne la tesi sull’origine lessicale di Cartesio nella scolastica latina. Il punto era ricostruire gli elementi di continuità tra Cartesio e la tradizione scolastica medievale al fine di valutare l’esatta portata della sua “rivoluzione”. Rinvenire matrici medievali consistenti alla base del suo pensiero, quindi va a cercare quali sono i concetti scolastici presenti nelle opere di Cartesio con l’intento di produrre una ricerca da un punto di vista realista che non dica che Cartesio è libero da ogni debito con la scolastica (giudizio storiografico errato). Per dimostrare questa tesi elenca tutte le opere che hanno a che fare direttamente o indirettamente con il lessico cartesiano: vengono citate le opere da cui i riferimenti cartesiani hanno la loro fonte, ad esempio i frammenti in cui il concetto di “Accidente” passa dal testo di San Paolo, fino a Suarez e poi Cartesio. 3. L’essere e l’essenza. Saggio pubblicato nel periodo in cui Heidegger e l’esistenzialismo cristiano combattono l’essenzialismo che percorre tutta la tradizione occidentale. Mette al centro la nozione di essere seguendo l’elaborazione di Tommaso per superare il declino della filosofia avviata a ridursi a scienza che porta l’uomo a rinunciare alla sua capacità di giudizio di fronte alla materia, in quanto semplice parte. Realismo di Tommaso come mezzo di rinascita. prefazione. 1-3. La parcellizzazione del soggetto della metafisica, la metafisica va incontro alle sue sconfitte perché ha parcellizzato il suo soggetto. C’è un assunzione da parte di Gilson che il soggetto o il primo principio della metafisica è l’essere, senza nessuna determinazione. La prima proposizione del libro l’essere e l’essenza ci sprofonda di fronte alla questione del soggetto/principio primo e la metafisica; c’è la metafisica perché c’è un suo soggetto o un suo primo principio e c’è un primo principio ovvero un soggetto proprio perché c’è la metafisica. E’ la metafisica che fa da principio al suo principio o al suo soggetto? Oppure il principio primo ovvero il soggetto proprio fanno da fondamento e da principio alla metafisica? Questo è l’avvio del discorso di Gilson, in questo la filosofia nel suo pellegrinaggio medievale fornisce testi all’infinito sul tema appena sottolineato. “Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto. Ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo. Invece sono dette sostanze secondo le specie nelle quali esistono quelle che vengono dette sostanze in senso primario; queste ed i generi di questa specie. Ad esempio un certo uomo esiste nella specie uomo, e il genere di questa specie è animale. Pertanto sono queste che sono dette sostanze seconde: ad esempio uomo e animale.” Sostanza prima=in quanto né si dice di un soggetto né è in un soggetto. Ha una doppia negazione, la sostanza è ciò che non è in; non si dice di molti. Socrate si dice solo di uomo, uomo si dice invece di molti. Sostanza seconda=in quanto in essa è la sostanza prima. C’è un modo della sostanza prima di essere nella sostanza seconda, il concetto entro cui rientra la specie dentro cui rientra la sostanza prima è la sostanza seconda. Abbiamo quindi recuperato il concetto di soggetto, che fa da sostrato a ciò che è in qualche cosa, l’accidente. Chiedendoci se l’uno si aggiunga all’ente abbiamo ricavato uno schema per cui abbiamo da una parte un ingranaggio di predicazione per cui c’è da una parte un soggetto su cui si può fare una predicazione o a cui inerisce qualcosa, dall’altra abbiamo qualcosa che può essere predicato del soggetto o che può inerire al soggetto. La predicazione può leggersi dunque come il dirsi di o come l’essere in. Quindi l’unità sopravviene all’essere? E’ un accidente che capita all’essere? Oppure ogni volta che parliamo dell’essere abbiamo pure l’unità? 3. Tommaso: questioni disputate sulla verità. Le “quaestiones disputate de veritate” furono originariamente scritte intorno al 1256–1259, durante il primo periodo di Tommaso d'Aquino a Parigi. Si chiamano così ma in realtà solamente le prime 20 questioni trattano del problema della verità e nascono sia dal confronto in presenza sia mediante quelli che erano gli strumenti dell’epoca. La prima questione disputata si rivolge alla verità, ossia si chiede fin dal primo articolo: Cos’è la verità? Si prendono anzitutto delle obiezioni, tesi diverse da quella che vuole sostenere Tommaso, poi c’è la confutazione delle opinioni diffuse e infine la risposta di Tommaso. La sua risposta può essere suddivisa in 5 sezioni: SCIENZA E CONOSCENZA DELLE COSE→quando vogliamo conoscere abbiamo 2 binari, uno che ci porta ai principi e uno che ci porta all’essenza; ci sono due domini del conoscere, due percorsi: uno segue la domanda di Socrate “che cos’è” e uno segue il “perché”. Seguendo il cos’è cerchiamo l’elemento, mentre se cerchiamo il perché tendiamo al principio. Abbiamo due termini distinti. ➢ Elemento: l’elemento è ciò che dapprima l’intelletto concepisce come la cosa più nota e in cui risolve tutte le concezioni. Tutto ciò che è intricato o complesso può essere riportato a quello che è primario. Con Avicenna scopriamo che è l’ente, il più noto di tutti gli elementi. Quando l’intelletto concepisce qualcosa concepisce sempre l’ente, anche quando parla del non ente. Primo suggerimento sulla q.11= occorre che tutte le altre concezioni dell’intelletto siano assunte secondo un’addizione all’ente; ogni volta che ho una concezione questa non è primaria, perché è primaria è solo la concezione dell’ “ente”, è il nucleo originario. ➢ Principio: Il punto di partenza o il fondamento di un processo qualsiasi. Punto di partenza, fondamento o causa. Aristotele fu il primo a enumerare esaurientemente i significati. Punto di partenza di un movimento, punto di partenza migliore, punto di partenza effettivo di una produzione, causa esterna di un processo di un movimento, ciò che con la sua decisione determina movimenti o mutamenti, ciò da cui parte un processo di conoscenza. Aggiunge poi Aristotele che anche causa ha gli stessi significati. Ciò che tutti i significati hanno in comune è che, in tutti, Principio è ciò che è punto di partenza o dell’essere o del divenire o del conoscere. ADDIZIONE ALL’ENTE→ “Ma all’ente non possono essere aggiunte alcune [cose] quasi [fossero] estranee”. Qualsiasi fenomeno che ci appare è essenzialmente ente, abbiamo l’ente come materia onnicomprensiva. Non si può mai perdere l’ente, non possiamo considerare alcuna cosa come estranea all’ente. Cosicché il filosofo prova che l’ente non può essere un genere; Tommaso richiama l’autorità di Aristotele che ha dimostrato che l’essere non può essere un genere, ha un’estensione che non può essere limitata al genere, l’essere è trans-generico; l’essere attraversa tutti i generi. “Ma secondo ciò si dice che alcune cosa aggiungano sopra l’ente in quanto esprimono un modo di essere dell’ente stesso che dal nome ente non è espresso” (Arriviamo a ciò che ci interessa per la questione della relazione tra unità ed essere). L’ente in quanto ente è talmente ricco per cui lo stesso nome “ente” è deficitario, abbiamo bisogno di altri nomi che riescono ad esprimere altri modi dell’ente. L’aggiunta è nominale, l’imposizione di nomi che ci permettono di acchiappare aspetti dell’ente che altrimenti ci sfuggirebbero. “Il nome ente esprime qualcosa dell’ente, un nome altro rispetto al nome ente esprime ciò che non è espresso dal nome ente.” DUE MODI DI ESPRIMERE L’ENTE→ Tutto ciò che non è espresso dal nome ente è espresso da un altro nome, secondo una doppia prospettiva: l’affermazione e la negazione; ma tutto ciò che un altro nome dice dell’ente non riesce ad esprimere ciò che esprime il nome ente. C’è da studiare quale sia il rapporto tra ente e tutte le cose che si aggiungono all’ente. Ogni volta che accenniamo a “ente” dobbiamo distinguere da una parte il concetto e dall’altra il nome legato a quel concetto. Ma sulla base di cosa sono in grado di fare la differenza tra il nominare e il concepire? Il nome e il termine ente sono in relazione tra loro ma l’ente è sempre eccedente rispetto al nome. Oltre il modo “ente” ne trovo altri due: ❖ I modi speciali nascono dall’osservazione che ci sono diversi gradi di entità, ci sono diversi modi di essere ai quali corrispondono diversi generi delle cose. Ovviamente Tommaso si riferisce al grande lavoro sul tema della logica fatto da Aristotele, siamo infatti di fronte alla grande differenza tra sostanziale e accidentale proposta da Aristotele. L’ente si dice ente per sé o ente per altro. • Quando prendo la sostanza come modo di essere non aggiungo nulla, la sostanza è l’ente. L’atto che compie la sostanza non è quello di aggiungere qualcosa, ma diventa il nome attraverso cui viene espresso un certo modo speciale di essere, ossia non va preso come specie, ma è al modo della specie. Come la specie si relaziona con il genere, così la sostanza si relaziona all’ente. C’è un rapporto di analogia, ossia trovando tutte le convergenze si colgono tutte le differenze; questa è la sua grandezza. Un meccanismo logico che supera la rigidità di una logica astratta, determinata; una logica che fruisce di questa dialettica di una relazione che tanto va a trovare le somiglianze, quanto più scandisce le distanze. • Accidente. San Tommaso annota in virtù della contrapposizione con la sostanza, che l’accidente è ciò che è in altro, il suo modo d’essere è l’inerire a qualche soggetto, in opposizione al subsistere della sostanza che non ha bisogno di poggiarsi ad altro per esistere. Il termine accidente diventa coestensivo con quello di qualità in generale, senza riferimento al carattere casuale e gratuito di esso, che Aristotele aveva illustrato. ❖ Accanto ai modi speciali che riguardano gradi dell’entità nel possesso della qualità di essere ente abbiamo i modi generali che non si basano sui gradi ma sull’immediatezza dell’apparire e del manifestarsi dell’ente. Quando parliamo di modi generali stiamo parlando di quello che consegue all’ente: • Ciò che consegue all’ente in sé: o Proprietà espresse affermativamente in cui l’ente fa da soggetto e mettiamo noi un predicato in modo affermativo. Abbiamo l’essenza dell’ente e la chiamiamo RES. Cosa è il nome che esprime l’essenza dell’ente, non l’entità, la quiddità. Quindi dicendo “questo è un ente” sottolineo l’essere; dicendo “questa è una cosa” ne sottolineo la quiddità, la caratterizzazione. o Il nome che esprime una proprietà in senso di negazione è l’indivisione, l’appartenersi tutto a se stesso. Affermativamente considerato sono una cosa, negativamente considerato sarà tutto esterno a me. UNO. • Ci sono poi le proprietà che conseguono all’ente in rapporto ad altro: o Sia come divisione rispetto a quello che è altro, quindi come distinzione da ciò che è altro, ossia è ALIQUID, è qualcosa. Uno perché è indiviso in sé e qualcosa perché è diviso dagli altri. o Convergenza rispetto a quello che è altro: quando osservo il rapporto dell’ente con l’altro lo posso considerare anche nel suo essere in comune con l’altro. In questo senso, secondo la convenienza di un ente ad altro, questo è possibile perché c’è qualcosa esterno all’ente e all’altro che considera l’ente e l’altro. Il convenire ha bisogno di un elemento che unisce, l’anima, che secondo Aristotele è ciò attraverso cui tutto quello che è molteplice si unifica. L’anima ha due vis: cognitiva e appetitiva, due potenze, una vuole conoscere e l’altra possedere. L’appetitiva si rivolge verso qualcosa altro per raggiungerlo, la conoscitiva si rivolge verso altro a sé. Seguono un movimento trascendente e uno immanente. Il convenire dell’ente rispetto all’appetito è il BENE, quando tende alla conoscenza il suo nome sarà VERO. In conclusione, sei sono (contando anche ens) le nozioni trascendentali: ens, res, unum, aliquid, verum, bonum. Ogni ente possiede modi speciali e generali. I modi speciali immediati che esprimono i gradi dell’ente, quindi sostanza (modus essendi per sé) e accidenti (modi essendi per aliud). I modi generali conseguenti all’ente sono invece: res (che esprime l’essenza o la quiddità), unum (che esprime l’indivisione), aliud (che esprime la divisione da altri), verum (in quanto conoscibile), bonum (in quanto desiderabile). Sono 5 trascendentali, l’ente li possiede, segue quindi una posizione realista. Nel de veritate scopriamo i trascendentali, un termine che ha acquisito una ricchezza di valenza a partire da Kant, come tutto ciò che è custodito dall’intelletto, ma il trascendentale moderno è ovviamente radicato in quello medievale. Ed è alla luce di questo rapporto che ci chiariamo il nesso tra unità ed essere, abbiamo scoperto che c’è un nesso di trascendentalità, non c’è bisogno di pensare all’uno staccato dall’ente. Abbiamo guadagnato che l’uno aggiunge soltanto il nome ma nient’altro all’ente, l’uno è una proprietà, un accidente necessario, trascendentale dell’ente. E’ il nome del trascendentale dell’indivisione per sé. La verità→Anche il vero ha una sua definizione: è il nome che condividiamo alla convenienza dell’ente all’intelletto. Ogni conoscenza si attua per assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta, l’assimilazione è l’addetto alla causa della conoscenza. Il vero aggiunge all’ente quest’idea della conformità e adeguazione delle cose e dell’intelletto. A questa conformità segue la conoscenza. Così abbiamo la triplice definizione di verità o del vero: o Secondo ciò che precede l’essenza della verità e su cui è fondato il vero. Possiamo definire il vero se consideriamo il fondamento, l’ente. Perché senza l’ente non c’è nessuna verità. o Secondo ciò in cui si attua formalmente l’essenza del vero. o Secondo l’effetto conseguente. L’effetto della verità è la conoscenza. L’ente è la causa della verità, la conoscenza è il suo effetto, la verità è il medio tra questi due, l'accordo dell'ente con l'intelletto. Se affermo “io sono bianco” dico una verità nel caso in cui il bianco mi appartenga davvero, in questo senso il mio intelletto si sta adeguando al mio essere e sto producendo una conoscenza. L’ente, costituisce il fondamento della verità: “l’entità della cosa precede la ragione di verità”. Chiamiamo la conoscenza “vera” perché essa manifesta e chiarifica l’essere delle cose e così facendo ci riferiamo all’effetto di tale rapporto di fondazione. Se invece consideriamo il fondamento stesso, possiamo chiamare “veri” anche gli enti, in tal senso diciamo che vero è ciò che è: gli enti si dicono veri in quanto causano la verità. La verità è l’adeguazione dell’intelletto alla cosa, ma che ha da una parte la causa, cioè l’ente, dall’altro la definizione non più causale ma effettuale che è appunto la conoscenza. 4. Summa Theologiae, I, q. 11. La trascendentalità dell’uno ci chiarisce la prima articolazione della questione undicesima. “Dopo quanto si è detto rimane da trattare dell’unità di Dio”. Questa questione la posso affrontare se la articolo in 4 domande divise in due gruppi: la prima sezione di due articoli considera l’uno in sé, l’uno nell’ente in quanto ente; la seconda sezione di due articoli considera l’uno in divinis, l’uno in Dio. I. L’aggiunta, ci si chiede se l’uno aggiunge qualcosa sopra l’ente. Giunge a concludere che il concetto di uno indica l’indivisione dell’ente, quell’aspetto dell’ente per cui è sempre indiviso. Ogni volta che diciamo uno aggiungiamo la negazione della divisione, dunque l’ente in quanto indiviso. Uno non aggiunge nulla all'essere di una cosa, ma rappresenta soltanto la negazione della divisione, poiché uno significa nient'altro che un essere indivisibile. SEMBRA che l'unità aggiunga qualche cosa all'essere. Infatti: 1. Tutto ciò che è posto in un genere determinato (di realtà), vi è posto perché si aggiunge (come determinazione) all'ente, il quale abbraccia tutti i generi. Ora l'uno appartiene ad un genere determinato, perché principio del numero, il quale è una specie del genere quantità. Dunque l'uno aggiunge qualche cosa all'ente. = io ho a che fare con un genere, la quantità, se considero l’uno come genere di quantità, finisce che quando aggiungo “uno” ad “essere” e dico “un ente”, sto effettivamente aggiungendo qualcosa perché aggiungo la quantità. 2. Ciò che divide o distingue qualche cosa di generico, risulta da un'aggiunta al dato generico. Ora, l'ente si divide in uno e molti. Dunque l'uno aggiunge qualche cosa all'ente. = Nel primo caso è l’uno ad essere considerato un genere, qui è l’ente ad essere il genere, che si dividerebbe in uno e molti. 3. Se l'uno non aggiunge nulla all'ente, dire uno e dire ente sarebbe la stessa cosa. Ora, è un gioco di parole dire ente ente. Dunque sarebbe un gioco anche il dire ente uno: il che è falso. Dunque l'unità aggiunge qualche cosa all'ente. = se l’uno non aggiungesse nulla all’ente dire un ente sarebbe dire “ente ente”, gioco di parole che mi rivela che è falso. RISPONDO: L'unità non aggiunge all'essere nessuna realtà, ma solo la negazione della divisione; poiché uno non altro significa che ente indiviso. E da ciò appare chiaro che l'uno si identifica con l'ente. Infatti, ogni ente o è semplice o composto. Quello semplice non è attualmente diviso e neppure è divisibile. Quello composto non esiste finché le sue parti sono divise, ma solo dopo che l'hanno costituito e composto. Quindi è manifesto che l'essere di qualsiasi cosa consiste nell'indivisione. Di qui deriva che ogni cosa come conserva il proprio essere, così conserva la propria unità. II. Ci si chiede se l’uno si contrappone o si oppone ai molti, cioè se nel concetto di uno è contenuta l’opposizione. Considera il concetto di opposizione all’interno dell’ente e abbiamo l’opposizione dell’uno ai molti. L’ens indivisum è uno per sé ma l’uno per sé lo è attraverso l’opposizione al diviso. Nell’uno è contenuta tutta la forza di privazione della divisione, cioè ho dovuto attraversare la divisione. Uno è opposto a molti, ma in modi diversi. Infatti, uno, che è il principio del numero, è opposto alla moltitudine che è il numero, come la misura al misurato. Infatti, uno ha la natura della prima misura, e il numero è la moltitudine misurata attraverso l'uno, come evidenziato nella Metafisica libro X. Ma uno che è convertibile con l'essere è opposto alla moltitudine mediante un modo di privazione, come l'indivisibile è opposto al diviso. SEMBRA che l'uno e i molti non si oppongano. Infatti: 1. Nessun contrario si afferma del suo contrario. Ora, secondo il già detto, ogni molteplice è in qualche modo uno. Dunque l'uno non si oppone ai molti. 2. Nessuna cosa è costituita dal suo opposto. Ora, l'unità costituisce la moltitudine. Dunque non si oppone ad essa. 3. Ad una cosa se ne oppone un'altra sola. Ora, al molto si oppone il poco. Dunque non gli si oppone l'uno. 4. Se l'uno si oppone alla moltitudine, le si oppone come l'indiviso al diviso: e così le si oppone come la privazione alla qualità corrispondente. Ora, ciò sembra che ripugni, perché ne verrebbe che l'unità sia posteriore alla moltitudine e che si definisca per mezzo di essa, mentre invece la moltitudine si definisce per mezzo dell'unità. Vi sarebbe quindi un circolo vizioso nella definizione: il che non si può ammettere. Dunque l'uno e i molti non sono tra loro opposti. RISPONDO: L'uno si oppone ai molti, ma in maniere diverse. L'uno, infatti, che è principio del numero, si oppone alla pluralità numerica, come la misura al misurato; poiché uno include il concetto di prima misura, e il numero è la moltitudine misurata dall'uno, come dimostra Aristotele. L'uno, invece, che si identifica con l'ente, si oppone alla molteplicità a modo di privazione, cioè come l'indiviso si oppone a ciò che è diviso. III. Spunta un soggetto nuovo, Dio, l’uno diventa il predicato di Dio. Quando scatta questa predicazione dell’uno rispetto a Dio succede che noi ci troviamo a dover moltiplicare la questione e approfondire l’uno in divinis. Tommaso mette in crisi l’unità di Dio, ha il dramma della molteplicità all’interno. Averroè lo dice esplicitamente: i cristiani moltiplicano Dio, lo considerano uno e trino. Tommaso deve rispondere ad Averroè proponendosi la questione: l’articolo terzo ci dice che dobbiamo affrontare il tema dell’unità che si frappone al tema della composizione, ossia all’essere un insieme costituito di parti e l’unicità nel senso che non c’è nessun altro Dio se non quel Dio. Che Dio sia uno è dimostrato da tre argomenti. In primo luogo, dalla sua semplicità. È evidente che ciò da cui scaturisce un singolo essere non può in nessun modo essere condiviso con molti. Questo attributo si applica a Dio, poiché Egli è Dio per natura, come precedentemente illustrato. Quindi, lo stesso è Dio, questo Dio. In secondo luogo, dalla sua infinita perfezione. È’ stato dimostrato precedentemente che Dio comprende in sé tutta la perfezione dell'essere. Se ci fossero più dèi, dovrebbero differire tra loro, e ciò che è conveniente a uno non lo sarebbe per un altro. In terzo luogo, dall'unità del mondo. Infatti, tutte le cose che esistono sono ordinate tra di loro, servendosi reciprocamente. Le cose diverse non converrebbero in un unico ordine se non fossero ordinate da un'unica entità. Pertanto, poiché ciò che è primo è il più perfetto e lo è per sé, non per caso, è necessario che colui che unifica tutte le cose in un unico ordine sia unico. E questo è Dio. SEMBRA che Dio non sia uno. Infatti: 1. S. Paolo dice: "Ci sono molti dei e molti signori". 2. L'uno che è principio del numero non si può attribuire a Dio, perché a Dio non si può attribuire nessuna quantità. Parimente non gli si può attribuire l'uno che si identifica con l'ente, perché esso importa privazione, e ogni privazione è un'imperfezione, che disdice a Dio. Non deve dirsi, dunque, che Dio sia uno. IN CONTRARIO: Nel Deuteronomio sta scritto: "Ascolta, Israele: Il Signore Dio tuo è uno solo". Duns Scoto. Autore del XIII secolo anche lui, per avvicinarci alla novità della metafisica Scotiana possiamo partire dalla sua critica all’analogia entis: agli occhi di Scoto non è possibile fondare un rapporto analogico come strumento atto a conoscere ad esempio il rapporto tra creato e creatore; l’analogia al massimo certifica rapporti tra ciò che è già conosciuto. Per la fondazione della filosofia prima il concetto fondamentale è quello di univocità dell’ente: l’ente come una specie di porta che mette in comunicazione anche cose radicalmente lontane come la condizione finita dell’uomo e la condizione infinita del Dio. Questa nozione di ente come cosa comune di Dio e dell’uomo. Muove dall’idea che l’ente possa essere un concetto generale che accoglie in sé tutti i possibili enti, anche quindi l’ente divino; l’idea di un discorso trans- categoriale e che riguardi l’istanza di una scienza trascendentale; cioè andare a individuare tutte quelle categorie dell’ente comuni a tutte le cose che sono a prescindere dal fatto che si tratti dell’ente finito dell’uomo o dell’ente divino. Quest’idea dell’ente come ponte che collega un ordine teologico con quello filosofico. Quindi, abbandono in Scoto di ogni punto di vista riguardo cui l’ente si dice in tanti modi, ma c’è un significato univoco che rende possibile il discorso umano su Dio, proprio perché Dio e uomo condividono lo spazio dell’ente. 6. Tractatus de primo principio. Il Tractatus de primo principio è incentrato sull’analisi dell’essere e di Dio, che si propone di dedurre razionalmente, mediante un procedimento dimostrativo quia, ossia a posteriori, le determinazioni metafisiche di Dio. L’intento di quest’opera come Scoto dichiara, è infatti quello di dedurre, con l’ausilio della ragione naturale, le determinazioni metafisiche di Dio5. Il processo dimostrativo di cui Scoto si avvale a questo fine risale dalla molteplicità degli esseri finiti all’unità/semplicità/infinità del Primo principio degli esseri. Capitolo primo: Nozione e divisione dell’ordine essenziale. Inizia il suo discorso su Dio con l’ordine dell’ente che si presenta come concetto all’insegna di un ordine fondamentale. L’ente è una struttura ordinata. Dio dice all’uomo, io sono colui che sono; ossia la sua essenza coincide col fatto stesso di essere, essenza ed esistenza non si distinguono; Dio è tutto l’essere, Dio si fa pensabile all’uomo in quanto ciò che è, sotto il segno di ente. Il discorso riguardo cui Scoto pone un ponte tra la teologia rilevata e la ricerca razionale si dia già tutta in questo passo, c‟è un elemento teologico forte, c‟è un discorso legato all‟esortazione, vale a dire, Scoto non sta parlando di Dio in terza persona, sta parlando con lui, cosa che si può fare quando si è dentro un ordine teologico legato al credere. Quindi da questo punto di vista il parlare con Dio, la forma del TU è una confidenza che si può concepire solo all‟interno di un discorso religioso. Ma cosa chiede? Gli chiede di fornire un aspetto di sé che possa essere compreso dalla ragione umana. L’ente è caratterizzato da un ordine essenziale, e Scoto è in cerca di quest’ordine senza il quale non avrebbe senso neanche parlare di ente; è un ordine che si dà secondo delle divisioni: La prima divisione di quest’ordine, cioè la divisione più generale nel discorso sull’ente è: ordine di eminenza e ordine di dipendenza. o Quando parliamo di enti c’è sempre un ente che è più eminente rispetto ad un altro, invece l’altro è posteriore, non ha la caratteristica di quella eminenza, è meno perfetto. Scoto ci sta dicendo che tutto ciò che è implica la relazione con qualcosa di più eminente e con qualcosa rispetto a cui si è più eminente; questo implica un rapporto di anteriorità e posteriorità, ciò che è eminente è anteriore, ciò che è ecceduto è per definizione il posteriore. Fa l’esempio su Aristotele dicendo che l’atto è anteriore alla potenza, l’atto è in rapporto alla potenza nello stesso modo in cui ciò che è eminente è in rapporto a ciò che è ecceduto. Dove c’è ordine c’è anteriorità e posteriorità; che si danno o nei termini di eminenza o nei termini di dipendenza. È una struttura pervasiva dell’ente. o Nell’ordine di dipendenza possiamo parlare di due casi: Possiamo avere un rapporto di dipendenza diretto. Cioè nel rapporto tra causa e causato la dipendenza è ovvia, ciò da cui la cosa dipende è la causa e la cosa che dipende è la causa, ciò che noi moderni chiamiamo leffetto. Questo è un ragionamento immediato. Nel secondo caso abbiamo una causa, il causato anteriore e il causato posteriore. Anche se il causato anteriore non è causa di quello posteriore, il rapporto tra i due è un rapporto necessario. Es: il figlio minore rispetto al figlio maggiore, la causa dei due figli è il padre, ed il figlio minore non può essere causato dal figlio maggiore, ma senza il figlio maggiore non avremmo il figlio minore; quindi tra i due c‟è un ordine di dipendenza. Quindi abbiamo un’ulteriore divisione tra causa anteriore e posteriore. o Infine c’è una divisione tra le cause che riprende sostanzialmente il discorso aristotelico. Ciò che è ordinato a un fine viene detto finito, il finito viene definito come ciò che è ordinato a un fine; questa è una definizione che dà Scoto al fine. Qui Scoto applica il metodo della divisione presentando la dottrina Aristotelica delle quattro cause che è in: ▪ Causa→causato. ▪ Fine→finito. ▪ Forma→formato. ▪ Materia→materiato. Capitolo quarto: Semplicità, infinità e spiritualità del primo principio. Il quarto capitolo (che ha per altro un'estensione in pratica pari a quella dei primi 3 messi insieme) sviluppa almeno due punti fondamentali. In primo luogo, l'idea che Dio produce in modo contingente tutto ciò che produce (o, nel più rigoroso lessico del Trattato, che il primo causante causa in modo contingente tutto quel che causa). Scoto vi perviene dopo aver dimostrato che la prima natura è in sé semplice, possiede ogni perfezione in senso assoluto e al massimo grado, ed è dotata di intelletto e volontà. “Signore, Dio nostro, con il tuo aiuto vorrei. dimostrare le perfezioni che — ne sono certo — appartengono alla tua natura unica e veramente prima. Credo che sei semplice, infinito, sapiente e dotato di volontà. Ora, per non cadere in un circolo vizioso durante la dimostrazione, formulerò anzitutto alcune conclusioni riguardanti la semplicità, conclusioni che si possono dimostrare subito; le altre, pure riguardanti la semplicità, saranno rinviate fino al momento in cui possono essere dimostrate. Pertanto, la prima conclusione da dimostrare di questo capitolo è la seguente.” Il fine è quello di dimostrare delle conclusioni che riguardano la natura divina, partengo dal concetto di semplicità. Ambito è quello della conoscenza razionale di Dio e il fine è andare oltre la dimostrazione della sua esistenza e indagare gli attributi di Dio in sé o assoluti. La natura prima è essenzialmente semplice, il primo attributo è quello della semplicità essenziale perché le perfezioni non sono realmente distinte, sono formalmente necessarie, non esistono indipendentemente l’una dall’altra e ciascuna è essenzialmente infinita e l’infinità essenziale è un modus essendi che fonde tutte le perfezioni nell’identità assoluta di Dio. L’altro punto fondamentale prima citato è la dimostrazione dell'infinità divina, che rappresenta forse la parte più complessa dell'intero Trattato; Scoto fornisce almeno sette argomenti in proposito e una conseguenza dell’infinità divina è quella di confermare la semplicità essenziale perché sottintende l’esclusione di qualsiasi accidente, dando vita ad una semplicità assoluta, come dimostrato nella conclusione 10: L’infinità implica l’assoluta semplicità perché: l’infinità implica la semplicità intrinseca dell’essenza. Infatti, se l’essere infinito non fosse semplice nella sua essenza, egli sarebbe composto o di parti di natura loro finite, o di parti di natura loro infinite. Nel primo caso, sarebbe finito; nel secondo, la parte (infinita) sarebbe minore del tutto (infinito), cioè non sarebbe infinita. Dio poi, seguendo l’undicesima conclusione, essendo infinito e assolutamente semplice è anche numericamente uno. 7. La questione della semplicità assoluta in Tommaso. ST I, 3, 7. Proemio: “Conosciuta l'esistenza di una cosa, resta da ricercare il suo modo di essere, per giungere a conoscerne la natura. Ma siccome di Dio non possiamo sapere che cosa è, ma piuttosto che cosa non è, non possiamo indagare come egli sia, ma piuttosto come non sia. È quindi necessario considerare per prima cosa i suoi modi di non essere; secondo, come noi lo conosciamo; terzo, come lo denominiamo. Si può dimostrare come Dio non è, scartando le cose che a lui non convengono, come sarebbe la composizione, il movimento e simili. Studieremo dunque: primo, la sua semplicità, per la quale viene esclusa da lui ogni composizione. E siccome negli esseri corporali le cose semplici sono le meno perfette e parti incomplete, secondo, la sua perfezione; terzo, la sua infinità; quarto, la sua immutabilità; quinto, la sua unità. Circa la divina semplicità ci poniamo otto quesiti” Il settimo quesito: SEMBRA che Dio non sia del tutto semplice. → RISPONDO: Si prova in più modi che Dio è del tutto semplice: Primo, da quel che si è detto sopra. Siccome in Dio non vi è composizione alcuna, non quella di parti quantitative, perché non è corpo; né quella di forma e materia; non distinzione tra natura e supposito; né tra essenza ed esistenza; né vi è composizione di genere e di differenza; né di soggetto e di accidente; è chiaro che Dio non è composto in nessun modo, ma è del tutto semplice. Secondo, perché ogni composto è posteriore ai suoi componenti e da essi dipende. Ora, Dio, come abbiamo dimostrato sopra, è il primo ente. Terzo, perché ogni composto è causato; infatti, cose per sé diverse non vengono a costituire una qualche unità se non in forza di una causa unificatrice. Ora, Dio non è causato, come si è già dimostrato, essendo la prima causa efficiente. Quarto, perché in ogni composto è necessario che vi sia la potenza e l'atto, ciò che non può verificarsi in Dio. Infatti, o una delle parti è atto rispetto all'altra, o per lo meno tutte le parti sono in potenza relativamente al tutto. Quinto, perché ogni composto è un qualche cosa che non conviene ad alcuna delle sue parti. Ciò è evidentissimo nei composti di parti eterogenee; infatti nessuna parte dell'uomo è uomo, e nessuna parte del piede è piede. Nei composti invece di parti omogenee, qualche cosa che si dice del tutto, si dice anche della parte, come una parte dell'aria è aria, ed una parte dell'acqua è acqua; tuttavia, qualche cosa si dice del tutto, che non conviene alla parte: come se tutta la massa dell'acqua è di due cubiti, altrettanto non può dirsi delle sue parti. E così abbiamo che in ogni composto vi è sempre qualche cosa che non gli è identico. Ora, se ciò può dirsi di un essere il quale ha la forma (ma non è la sua forma), che cioè abbia qualche cosa che non è esso stesso (p. es., in un essere bianco vi è qualche cosa che non appartiene alla natura del bianco); tuttavia nella forma stessa non vi è niente di eterogeneo. E perciò essendo Dio la sua stessa forma, o meglio, il suo stesso essere, in nessun modo può dirsi composto. Accenna a questa ragione S. Ilario quando dice: "Dio, che è potenza, non è costituito di debolezze; lui, che è luce, non è composto di oscurità". Il concetto di Unità nella Mistica. 1. Ibn Arabi. Filosofo Andaluso nato nel 1165 e morto nel 1240. Viene considerato il mistico per eccellenza della cultura araba; un tratto molto significativo è che in Andalusia ha potuto non solo conoscere la cultura strettamente islamica, ma anche la concezione ellenistica, Ibn Arabi è all’incrocio di due dati storici fondamentali: il dato della rivelazione e il dato del deposito della filosofia; si trova alla confluenza di questi due. In quanto sufi tiene conto del testo coranico e si fa esegeta e avviene una reazione culturale molto interessante dall’incontro con il lessico ellenistico. Il sufismo è una forma di misticismo e spiritualità nell'Islam, che si concentra sull'aspetto interiore della fede e sulla ricerca dell'esperienza diretta e personale di Dio. I praticanti del sufismo sono noti come sufi. Questa tradizione è spesso descritta come la dimensione mistica dell'Islam. Ma attenzione, il mistico è colui che è talmente bravo nello spogliarsi di tutte le proprie capacità, quindi della sensazione, dell’immaginazione e dell’intellezione per poter restare esposto aspettando che altro si manifesti, aspettando qualcosa che superi gli strumenti a sua disposizione; non è colui che conosce Dio per predisposizione contingente, è colui che conosce Dio in quanto Dio si unisce a lui. Quando parliamo di mistica infatti non parliamo di irrazionalità o irrazionalismo, i mistici sono coloro che forzano il più possibile la ragione e la usano in modo ancora più coraggioso rispetto a un razionalista che è fideista nei confronti della ragione e si dimentica che la ragione possiede i limiti dell’essere uno strumento. Ibn Arabi scrive un’opera che si intitola “le rivelazioni meccane” ma ovviamente si tratta delle rivelazioni di tutto il cammino della sua vita, la cifra della sua filosofia è quella del proporre una radicalizzazione dell’abbandono a Dio, una riconduzione di tutte le arti e le capacità dell’uomo verso Dio, quello rivelato a Maometto. Gli scritti di Ibn 'Arabî rimasero sconosciuti in Occidente fino ai tempi moderni, ma si diffusero in tutto il mondo islamico entro un secolo dalla sua morte. I primi orientalisti, con una o due eccezioni, gli prestarono poca attenzione perché non aveva alcuna influenza percepibile in Europa. Le sue opere, inoltre, sono notoriamente difficili, il che rende facile liquidarlo come un “mistico” o un “panteista” senza provare a leggerlo. Solo grazie ai libri di Henry Corbin (1958) venne riconosciuto come un pensatore straordinariamente ampio e altamente originale, con molto da offrire al mondo della filosofia. Il Corano è fonte d’ispirazione centrale per Ibn Arabi, dedicò infatti i suoi sforzi cercando di assorbire la parola di Dio ma anche cercando di essere assorbito da questa. Ma la parola di Dio si manifesta non solo nella Scrittura, ma anche nell’universo e nell’anima; c’è un rapporto di identità tra la parola e la creatività che si manifesta anche nell’uso frequente da parte del Corano del termine “segno” per designare i fenomeni dell’universo, le vicende interiori dell’anima e i suoi versetti. Ibn Arabi considera la creatività di Dio come un analogo del linguaggio umano. Proprio come noi creiamo parole e frasi nel substrato del respiro, così Dio crea l'universo articolando parole nel Soffio del Misericordiosissimo (nafas al-rahmân). I nomi/attributi di Dio che il Corano menziona forniscono i punti di riferimento per la teologia islamica. Ibn Arabi fa una distinzione tra i nomi dei nomi che sono i nomi espressi nel linguaggio umano e i nomi in sé che sono realtà in divinis. Le caratteristiche uniche degli esseri umani derivano dalla loro capacità di nominare le cose, che a sua volta deriva dal fatto che loro soli sono stati creati nella forma del nome tutto-comprensivo. Wahdat al-Wujûd. Ibn Arabi è considerato fondatore della dottrina di Wahdat al-Wujûd che si traduce con: unicità dell’essere, ma in realtà la traduzione è un po' più complessa: • Wahdat ha due significati, indica la non composizione, quindi l’indivisione ma anche unicità. Unità si riferisce ovviamente all’entità indivisibile, mentre l’unicità si riferisce allo stato di essere l’unico o senza eguali. • Wujûd sarebbe invece essere e esistenza, quindi l’essere generico e l’esistenza come atto d’essere, una caratterizzazione più forte. Ma è anche una parola del lessico preislamico, viene da una radice araba che significa trovare, imbattersi, prendere coscienza e addirittura godere ed essere estasiati; già qui si rintraccia un senso fondamentale; addirittura essere talmente presi dall’oggetto che si contempla da dimenticarsi di sé e raggiungere un’unità fisica e metafisica rispetto all’oggetto che ho di fronte, per cui non c’è più un fronteggiarsi ma un essere uniti. L’atto di trovare infatti implica consapevolezza e coscienza, non è solamente imbattersi, ma è impossessarsi, percepire, definire e concettualizzare. Ovviamente il suo utilizzo “filosofico” parte da Avicenna che rappresenta il punto di arrivo di un grande lavoro di traduzioni dei testi ellenistici e di una rielaborazione di questi testi, soprattutto di Aristotele, Platone e Plotino. Nel momento in cui la cultura islamica che si era sviluppata in oriente, si trasferisce in occidente, si porta anche il segno di Avicenna e il suo lessico filosofico costituì lo strumentario attraverso cui si comincia a pensare o si continua a pensare. Quindi Wahdat al-Wujûd presenta 4 termini piuttosto che due: unicità, unità, essere ed esistenza. Wujud è utilizzato in due sensi fondamentali: in primo luogo si riferisce a Dio, che è il Vero Essere o l’Essere Necessario che non può non essere; in secondo luogo può riferirsi anche all’universo o alle cose al suo interno. Ma quando parla del Wujud di ciò che è diverso da Dio sta usando il termine in senso metaforico, Wujud appartiene solo a Dio e se le cose sembrano esistere è perché Dio ha concesso loro wujud. Anche se siamo giustificati nel parlare di molte cose esistenti per rivolgerci alla molteplicità che percepiamo nel mondo fenomenico in realtà c’è un solo essere, un wujud, e tutto ciò che è diverso da Dio è inesistente di per sé, anche se esiste nella misura in cui manifesta il Reale. In sé le creature sono entità o cose ma non possiedono un’esistenza propria: nel cercare di spiegare questo punto, non si può fare di meglio in una breve discussione che fare riferimento all'analogia dell'arcobaleno, dove la molteplicità dei colori non nega l'unità della luce. Il rosso e il blu non hanno un'esistenza propria, poiché solo la luce è manifesta. Possiamo parlare della realtà o dell'entità o della cosa (shay'iyya) del rosso e del blu, ma non della loro esistenza propria e indipendente; la loro esistenza è solo una modalità dell'esistenza della luce. Dio è simile a tutte le cose, poiché, mediante i Suoi nomi, Egli mostra le proprietà dei Suoi attributi nell'universo. L'universo è solo la manifestazione esterna delle proprietà innate del "wujud", così come i colori, le forme e le figure sono solo la manifestazione esterna della luce. Dio è contemporaneamente incomparabile, perché assolutamente non manifesto, e simile, perché mostra i Suoi nomi e attributi mediante le cose esistenti. madre, e poi di Francesco. Francesco fu il repetitor, colui che ha percorso la strada del grande maestro Gesù Cristo. Da una parte poi c’è il simbolo del trono di Salomone, dall’altra ci sta il simbolo della stigmatizzazione di Francesco: • “Egli, infatti, sapeva che il trono di Salomone si fondava soltanto sulla pace, poiché è scritto: «Nella pace è stata posta la sua sede, e la sua dimora in Sion»” Salomone è il prototipo della regalità sapiente o della sapienza regale, figlio di David, il primo re di Israele. Salomone è il sapiente che diventa re, il suo trono ha questo fondamento, quello della sapienza. • Altro elemento importante è la Verna, il monte in cui Francesco riceve le stimmate, ossia riceve i stigmata, i segni, in questo caso la stigmatizzazione è la designazione da parte di chi dà questi segni. Francesco guadagna una perfezione della propria identità, in quanto diventa alter cristus, altro/secondo, quello che chiude la corrispondenza rispetto a Dio. Tra i due simboli Bonaventura ricorda che le stigmate hanno un mediatore, il serafino. Quindi da una parte il trono di Salomone da un’altra parte la stigmatizzazione serafica che porta alla visione, alla contemplazione e alla via. Termini interscambiabili. La sapienza e l’essere designati. Guardando il serafino, questo ha sei ali, comincia a nascere la struttura dell’opera, il numero 6, a significare 6 elevazioni illuminanti, ma non si tratta di semplici elevazioni, un venir portati di peso dal basso verso l’alto e perdere la gravità, dove il peso è quello che impedirebbe la via e la contemplazione. Tutto ciò che è un peso di gravità priva la possibilità di vedere, quindi è come se ci fosse una sospensione del peso che si ripete per 6 volte che corrispondono alle 6 illuminazioni. La sospensione di gravità è un essere acchiappati, il rapimento, l’essere afferrati verso l’alto. Sono tappe o stadi preparatori; c’è una scala, sono gradini, e percorsi. Il serafino è mediatore di un’ identificazione divina. Non si tratta di un momentaneo rapimento, ma di una dinamicità che eccede nettamente la natura dell’uomo tanto da “exstaticos”, da farlo stare fuori, l’uscir fuori dal proprio stato e condizione; processo proprio della sapienza cristiana, quindi il trono di Salomone. “E la sola via che ad essa conduce è quell’ardentissimo amore per il Crocifisso”. La sapienza cristiana è il crocifisso, e la via è unica, non c’è nessun altra via se non attraverso l’amore del Crocifisso. “Le sei ali del Serafino fanno comprendere, pertanto, le sei successive illuminazioni spirituali, che, a partire dalle creature, conducono fino a Dio, al quale nessuno giunge per la via retta se non per mezzo del Crocifisso.” Le immagini delle sei ali insinuano a forma di scalari che hanno l’incipit dalle creature (non vengono colti gli enti esistenti in quanto enti in movimento, si parla di creature, hanno una relazione intrinseca a un atto che è la creazione) e l’excipit è Dio. Partiamo dalle creature e giungiamo a Dio, queste illuminazioni scalari conducono perfezionando fino a Dio, come se fosse quasi acchiappato e l’atto stesso in cui viene acchiappato ti porta oltre. Questa è la caratteristica del Dio mistico, quello dell’essere raggiungibile solo attraverso uno sforzo infinito per raggiungerlo, disponibile sempre e altrettanto indisponibile. Nessuno riesce ad entrare se non attraverso la mediazione del Crocifisso. Dal prologo dell’itinerario capiamo che si tratta di un’opera che affronta il tema della relazione, della difficoltà del paradosso dell’unità attraverso i signa, i segni. Ma ci proiettiamo nell’explicit dell’opera, saltiamo tutti i gradini e arriviamo dopo finisce l’opera. Il Capitolo VII, non è una tappa ma un gradino, quindi in realtà non è finale, c’è una tensione ulteriore. De excessu mentali et mystic, il rapimento mistico dell’anima, si passa dall’attivo al passivo, non è un eccesso personale, si viene rapiti. Il rapimento mentale e mistico, in cui all’intelletto è dato il riposo mentre l’affetto passa oltre totalmente in Dio. “Le sei considerazioni trascorse sono come i sei gradini del trono del vero Salomone, per mezzo dei quali si giunge alla pace, dove colui che è veramente pacifico riposa nell'anima piena di pace, come in una Gerusalemme interiore. Esse sono anche come le sei ali del Cherubino, in virtù delle quali l'anima del vero contemplativo, ricolma dell'illuminazione della sapienza celeste, è in grado di elevarsi verso l'alto. Esse sono, altresì, come i primi sei giorni, durante i quali l'anima deve esercitarsi per pervenire infine alla quiete del sabato.” “La nostra anima ha avuto la contuizione di Dio fuori di sé, attraverso le sue vestigia e nelle sue vestigia; in sé, attraverso la sua immagine e nella sua immagine; sopra di sé, attraverso la similitudine della luce divina, che risplende sopra di noi,” Abbiamo con grande chiarezza il passaggio dall’extra, all’intra e al supra. Tutta l’ascesi è incompiuta perché l’uomo non è capace di lasciare se stesso, le cose, il mondo e dedicarsi solamente al Crocifisso; si sforza e se Dio vuole lo acchiappa e lo “spoglia” totalmente, perdere se stessi per guadagnare Dio. Il testo si chiude con una citazione di Dionigi l’aeropagita, un inno al Dio-trinità: “Oh trinità, che trascendi ogni essenza, o Dio che trascendi la divinità, o supremo mastro della teologia cristiana, guidaci al vertice di ogni colloquio mistico, che supera ogni conoscenza, ogni luce, ogni altezza; dove gli estremi, assoluti e immutabili misteri della teologia si celano nella tenebra al di là di ogni luce, di un silenzio che insegna nascostamente, in una oscurità profondissima, che trascende ogni chiarezza e ogni luce, nella quale ogni realtà risplende, e che ricolma oltre ogni misura l'invisibile intelletto con lo splendore di inimmaginabili beni invisibili”. “super” che si accompagna a tutti gli attributi, si scavalca ogni linguaggio. Con Ibn Arabi abbiamo distinto tra unità teofanica e unità trinitaria; l’unità trinitaria è proprio quella che cogliamo con Bonaventura. Ibn Arabi ci porta alla relazione extradivina per cui è esclusa la relazione intradivina, la relazione non può stare dentro Dio perché c’è un monoteismo assoluto, la relazione è solo esterna e trova fondamento solamente nel meccanismo come manifestazione divina. Con Bonaventura e l’unità trinitaria abbiamo invece una relazione intradivina, e quindi questa relazione diventa atto fondativo della relazione extradivina. Il medioevo effettivamente vive una polivocità in tutti i sensi, fino alla posizione di Umberto Eco del nominalismo assoluto, della vuotezza del nome che manca di referente reale per la conoscenza dell’uomo, quindi l’interpretazione di vari autori, a partire da Guglielmo d’Ockham. De reconductione artium ad theologiam. L’opuscolo, il cui titolo non è bonaventuriano, datato quasi all’unanimità tra il 1255 e il 1257, difende la tesi secondo cui tutte le conoscenze sono originate da una sola luce fontale, Dio stesso, e a loro volta sono ordinate alla conoscenza della Scrittura. Ogni conoscenza è una vera e propria “luce”, che illumina colui che conosce riguardo a quelle forme che ne sono l’oggetto. Quest’opera inizia con la citazione con cui iniziava l’itinerario e si sviluppa tutta la tematica delle illuminazioni. Distingue 4 specie di conoscenze, da lui chiamate illuminazioni: una conoscenza esteriore, una inferiore, una interiore e una superiore. • La prima (quella esteriore) riguarda le cosiddette arti meccaniche. • La seconda (inferiore) le conoscenze sensitive. • La terza (interiore) le conoscenze filosofiche. • La quarta (superiore) la Grazia e la Sacra Scrittura. E sebbene dalla prima divisione apparisca quadruplice il lume che discende dall’altro, tuttavia, sei sono le sue differenze: cioè il lume della Sacra Scrittura, il lume della cognizione sensitiva, il lume dell’arte meccanica, il lume della filosofia razionale, il lume della filosofia naturale ed il lume della filosofia morale. Sta prendendo tutto lo scibile sia pratico che teoretico e lo sta riordinando a partire dall’emanazione della luce di Giacomo I, 1: “In principio invoco il primo Principio, dal quale discende ogni illuminazione come dal «Padre della luce», «ogni cosa eccellente e ogni dono perfetto»” per cui tutta la sapienza umana è manifestazione della luce divina, è Dio che dona. Christus unus omnium magister. A partire dalla citazione del capitolo 23 di Matteo, uno solo è il vostro maestro, il Cristo; parole che esprimono chiaramente qual è il principio sorgivo dell’illuminazione conoscitiva. “La conoscenza è sempre illuminazione conoscitiva, cioè il Cristo è irradiazione della gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola” Verso della lettera agli Ebrei scritto da un vero sapiente perché presenta vari termini della filosofia ellenistica. “Egli infatti è la via, la verità e la vita” dal quarto capitolo di Giovanni. “C’è una triplice modalità del conoscere, la prima si realizza attraverso un’adesione fiduciosa di religioso consenso; la seconda si attua con la certezza che deriva dal ragionamento sicuro; la terza si ottiene dallo splendore della pura contemplazione. La prima riguarda l’abito della virtù, che è la fede; la seconda l’abito del dono, che è l’intelletto; la terza concerne l’abito della beatitudine, che è la purezza del cuore. Vi sono dunque tre diverse forme di conoscenza; di fede, deduttiva, contemplativa, e di tutte queste Cristo ne è il principio e la causa; della prima in quanto è la via, della seconda in quanto è verità; della terza in quanto è vita.” L’analogia Entis. Se in ambito filosofico l'analogia ha per oggetto l'analisi del rapporto fra enti di natura diversa, cioè delle loro somiglianze e dei tratti in comune, in religione l'analogia entis designa il trasferimento di quest'analisi all'eventuale nesso fra i singoli enti e l'Ente supremo, quale è Dio o l'Uno Il tema dell'analogia entis affronta così la questione, che si estende dalla filosofia logica e ontologica alla religione e alla teologia, dell'analogicità come via intermedia fra univocità ed equivocità, ossia della possibilità di utilizzare la similitudine come concetto equidistante dall'identità e dall'alterità, dall'omogeneità e dall'eterogeneità, per arrivare a comprendere l'Uno a partire dai molti, il Creatore a partire dalle sue creature. 1. Erich Przywara. Nato a Katowice (oggi Polonia) nel 1889, teologo gesuita, appassionato conferenziere e scrittore assai fecondo, si interessò di musica, di poesia, di filosofia della religione, di culture mondiali. Fu mentore di Edith Stein, tramite la quale influenzò il pensiero di Hans Urs von Balthasar; ma dialogò anche Husserl, Heidegger, Buber, Barth, Rahner. Fra gli innumerevoli scritti, nella sua opera sviluppò una vasta produzione di taglio teologico-spirituale. Analogia entis è una raccolta di alcuni suoi saggi in un’opera il cui titolo completo è: “analogia entis, metafisica, la struttura originaria e il ritmo cosmico”. Riordina i suoi saggi perché deve passare per la fondazione dell’analogia come struttura originaria dentro cui finisce per essere inglobata ogni interpretazione, non solo della metafisica, ma della religione; intesa non solo come speculazione teologica, ma alla maniera della pratica rituale, della contemplazione e dell’esperienza. Prova a dimostrare che l’analogia è custodita pienamente nella sua originalità solamente all’interno della chiesa cattolica, perché la questione dell’analogia entis è diventata una questione importantissima per tutta la filosofia e la teologia del 900 e in avanti. Metafisica, religione, analogia. L’oggetto della riflessione è il rapporto tra metafisica e religione, la metafisica è una scienza e l’altra è una pratica, un atto di fede; hanno in comune il fatto di collocarsi in un piano che sta tra il sotto e il sopra, una descrizione topografica, una metafora per cercare di acchiappare il piano di pensiero in cui si trova il legame tra metafisica e religione. Tra ciò che è immanente e ciò che trascende, ciò che vedo e ciò che non vedo. La metafisica si trova in un piano intermedio tra sotto e sopra perché è inserita nelle cose reali, gli oggetti esperibili e fa riferimento a un fondamento ultimo, l’archè degli Ionici. “Per la religione esso è invece il piano che sta tra la creature e il Dio vivente. La disamina di questa duplice collocazione tra il sotto e il sopra sfocerà alla fine nella questione dell’analogia.” E’ chiaro che se si dice che metafisica e religione hanno qualcosa in comune, questo qualcosa in comune lo riescono ad avere non in base a un discorso logico, ma a un discorso analogico. Religione e metafisica stanno in corrispondenza non perché ad esempio sono uno causa dell’altro; ma sfocerà nella questione dell’analogia. Logos, logica, dialettica, analogia. Articolo anteriore rispetto a quello di prima (nella disposizione del libro) ma è stato scritto dopo come collegamento rispetto a tutti i discorsi. “il legame tra ana-logia ed ens esprime un atto di ordinare che manifesta intenzionalmente un ordinamento oggettuale dell’essere e nel quale, questo stesso ordinamento dell’essere manifesta se stesso.” Prima osservazione molto importante: quando leggo analogia, e leggo poi analogia dell’ente, è come se mi si presentasse un ordine secondo il logos; il logos ha la capacità di raccogliere e mettere in ordine; mentre “ana” dà l’idea della successione, c’è un cercare di dare un ordine che manifesta intenzionalmente un ordinamento oggettuale (che si trova oggettivamente nell’essere) dell’essere; come funziona il rapporto tra gli enti così funziona il rapporto tra i discorsi e le parole, c’è una corrispondenza. In quest’atto dell’ordinare si manifesta l’ordinamento oggettuale dell’essere e l’ordinamento dell’essere come principio. Nello spirito delle conclusioni a cui siamo giunti trattando della metafisica meta-noetica [filosofia della coscienza o dell’essenza] e della metafisica meta-ontica [filosofia dell’essere] possiamo dire, in senso assolutamente generale, che il legame tra ana-logia ed ens esprime un atto di “ordinare” (anà logon léghein) che manifesta (intenzionalmente) un “ordinamento oggettuale dell’essere” (anà logon tu ontos léghein) e nel quale, in particolar modo, questo stesso “ordinamento dell’essere” manifesta se stesso (strutturalmente come “principio”): la legge ontica dell’anà logon tu ontos èinai quale legge noetica dell’anà logon léghein, e soltanto in questo modo quale legge fondamentale. L’analogia non va vista come mediazione secondaria di compromesso fra univocità ed equivocità, bensì come forma originaria del rapporto fra Dio e la realtà finita. Essa sarebbe quindi innanzitutto teologica. In linea generale, dice Przywara, quando parliamo di metafisica, dobbiamo tenere conto che l’hic et nunc, ossia il contesto post-moderno, in questo contesto la metafisica non può che denunciare un legame tra analogia ed ens; sia che andiamo a percorrere la metafisica in chiave meta-noetica (dell’essenza), sia che la portiamo a questa ricerca nell’ambito della metafisica in chiave metaontica. In senso assolutamente generale, le specie, l’uomo, il cane, hanno qualcosa in comune tolte tutte le differenze e spunta fuori il genere, l’animale. Questo permette di Dire a Przywara che allora c’è un metafisico, una caratterizzazione di metafisicità che è più generale rispetto all’accidentalità storica in cui quella metafisica si realizza, o in chiave moderna o in chiave medievale. Il tentativo di Przywara è quello di trovare ciò che è uno rispetto a ciò che si presenta in modo molteplice. Collega tutto il legame della analogia e dell’ente, non c’è analogia senza ente, non c’è ente senza analogia, come l’analogia è ontica, altrettanto l’ente è analogico. C’è una sorta di grande fusione tra ciò che è il concetto di ente e ciò che è il concetto di analogia. Questo legame esprime un atto di ordinare, c’è un’estrinsecazione del legame come atto di ordinare; questo si esprime nel momento in cui Przywara tira fuori anà logon léghein, quando io dico che c’è un legame tra analogia ed ens sto dicendo che c’è in atto un ordinamento che procede come atto di leghein, dire, però preceduto da ana. L’essere diventa un oggetto ordinato per cui non abbiamo più anà logon léghein ma anà logon tu ontos léghein, non è più un raccogliere, un dire, un ordinare secondo logos e basta, è un ordinare secondo un logos dell’ente; il logos viene specificato in quanto è dell’ente. Il logos va ad essere maggiormente determinato, non è più il logos indeterminato, ma è il logos dell’ente e in questo modo questo ordinamento dell’essere viene a manifestare se stesso.
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