Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Uomini e case nel Medioevo tra Occidente e Oriente Paola Galetti, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo del libro, con riassunto anche dell'altro libro della Galetti

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 22/03/2018

matteo-orizio
matteo-orizio 🇮🇹

4.3

(122)

19 documenti

1 / 39

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Uomini e case nel Medioevo tra Occidente e Oriente Paola Galetti e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Uomini e Case nel Medioevo tra Occidente e Oriente Capitolo I: Modelli insediativi a confronto nei primi secoli del medioevo Nei primi secoli del Medioevo culture e modi di vita diversi si scontrarono, si confrontarono, stabilirono un contatto diretto e prolungato. Quei secoli è stati in assoluto quelli dove tale confronto è stato più esplicito e netto, al punto da giungere a rimettere in discussione i fondamenti stessi del vivere associato. Le tradizioni tribali e guerriero e lo stile di vita nomadico o seminomadico dei barbari indebolirono il modello urbano tardo-romano. Le stirpi germaniche Nel 98 d.C. Tacito scrisse il De origine et situ Germanorum, conosciuta come Germania. In essa ci offre una descrizione minuziosa della società e delle consuetudini germaniche. Il documento è importante in quanto le stirpi barbariche avevano una cultura prevalentemente orale. Tra IV e V secolo, alla vigilia delle grandi migrazioni, si verificò una semplificazione del mondo germanico, con l’aggregazione di gruppi minori attorno a gruppi etnici dominanti e la creazione di stirpi di grandi dimensioni. I gruppi che si imposero nel tempo erano i Goti, Franchi, Vandali, Alamanni, Bavari, Longobardi. Le tribù germaniche al tempo di Tacito abitavano un mondo irto di foreste e paludi, sterile di alberi da frutta, ricco di bestiame da pascolo, dal clima rigido. Si dedicavano alla guerra di razzia, alla caccia, all’allevamento del bestiame e all’agricoltura. Si trattava di gruppi seminomadi in quanto non si soffermavano a lungo in un sito. Praticavano un’agricoltura elementare, senza concimazione e riposo dei campi, così erano costretti ad abbandonare spesso le terre divenute improduttive per altre più fertili. Dal punto di vista socio-politico, privilegiavano una condizione che si basava sui clan, che a loro volta formavano una tribù, cioè un gruppo di famiglie discendenti da un antenato comune, cui erano affidate le terre, la cui proprietà a livello individuale era sconosciuta. Il tessuto insediativo era senza città, occupavano il terreno da coltivare in base al numero degli abitanti, e avevano villaggi a maglie larghe, dalle abitazioni interamente in legno. Il legno quindi il materiale principale di edificazione, spesso utilizzato anche grezzo, ci ricorda il fatto che gli insediamenti erano destinati a durare breve tempo. La loro vita quotidiana si svolgeva all’insegna della divisione dei compiti tra uomini validi e donne, vecchi e bambini, scandita anche dal trascorrere delle stagioni ( guerra in primavera ed estate). I guerrieri si dedicavano alle loro attività sempre armati mentre donne, vecchi e bambini si occupavano della casa e dei campi. I loro cibi derivavano prevalentemente dallo sfruttamento delle vaste aree incolte in cui si stanziavano sin parte da un agricoltura di sussistenza ( non favorita dagli attrezzi rudimentali). Oltre che di cereali si cibavano di frutti selvatici, selvaggina fresca o latte e birra. La foresta dominava la loro vita quotidiana, oltre alle tradizioni architettoniche, dominava anche il loro immaginario, credenze e pratiche religiose ( grande quercia di Irminsul abbattuta da Carlo Magno nel 772). I nomadi delle steppe Per Tacito sono sedentari i Germani (benché seminomadi), invece, cavalieri nomadi i Sarmati. I Sarmati o Sciti, termine usato dalle fonti bizantine per indicare i popoli nomadi delle steppe, vivevano su territori non adatti all’agricoltura, basavano la loro sussistenza soprattutto sull’allevamento del bestiame e, alla ricerca di nuovi pascoli, erano popolazioni contraddistinte da una frequente mobilità ripetuta su una stessa orbita. Centrale nella loro vita era il cavallo, che serviva per gli spostamenti e i combattimenti. Il sistema di vita nomadico era incentrato sul possesso dei cavalli, base dell’alimentazione e del sistema militare, sulla mancanza di sedi stabili, sulla guerra come fonte di arricchimento, sulla poliarchia tribale (immagine bizantina che portava ad un appiattimento delle singole realtà, ad una semplificazione che non considerava l’articolazione dei popoli delle steppe). Nell’ultimo trentennio del IV secolo si imposero poi gli Unni, provenienti dall’Asia centrale, diedero vita ad un vastissimo impero che toccò l’apice con Attila verso la metà del V secolo. La partenza di questo popolo dalle sue sedi originarie nella steppa pontica diede l’avvio alla prima grande ondata migratoria da est verso ovest all’interno dell’impero romano. Dei costumi degli Unni, ci ha lasciato una minuziosa descrizione, già nel IV secolo, Ammiano Marcellino, soldato di origine orientale, attento cronista dei fatti del suo tempo. Nel suo racconto si sottolineano gli aspetti ferini e subumani del modo di vivere di questo popolo, il cui aspetto li avvicina agli animali. Il cavallo era una estensione del cavaliere, tanto che, nutrendosi prevalentemente di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda, la riscaldavano tra le loro cosce e il dorso dei cavalli. Gli Alani, una popolazione iranica che conobbe un processo di compenetrazione con gli Unni, dai quali fu sottomessa, ci parla sempre Ammiano Marcellino nella sua opera Rerum gestarum Libri. L’autore li presenta meno selvaggi e di più bell’aspetto, comunque anche loro erano allevatori nomadi, senza sedi fisse, con un sistema abitativo simile a quello degli Unni, per lo più usavano dei carri/abitazione. Tra i nomadi, circa un secolo dopo gli Unni si affermarono gli Avari, popolazione asiatico-mongolica, i Bulgari di origine turco-slava-tracica. E a partire dal VI secolo i Turchi, che abitavano la regione a ovest e nord-ovest della Cina, si espansero in Sogdiana e in Bactriana, dando vita a un dominio fino al 744. Dei loro stili di vita ci parlano le fonti cinesi, come le Memorie dei Chou e la Vita del pellegrino buddista Husuan- tsang. I turchi come Alani e Unni, si muovevano costantemente da un pascolo all’altro e caratteristica del loro sistema abitativo era la Yurta, la tenda di feltro, con la sua tipica apertura a oriente, trasportata sui carri. Vi è un progresso tecnico nella vita del nomade pastore: il carro/abitazione diventa il carro/tenda, laddove la stessa poteva venire smontata, trasportata ed edificata autonomamente o essere mantenuta sul carro, a seconda delle soste di maggiore o minore durata. Tra i nomadi eurasiatici, i Khazari, che diedero vita nel VII secolo a un vasto dominio fino alla metà del secolo X nel territorio del basso Volga e del Caspio, adottarono alcuni modi di vita sedentari delle popolazioni vicine. Questo popolo esercitava sia l’allevamento sia l’agricoltura e conduceva una vita seminomade. In primavera fino all’autunno vivevano nella steppa, riparandosi nelle tende, mentre in inverno si ritiravano in città dove avevano costruito stabili abitazioni. Avevano anche una capitale, dal 652 fu Itil sulle rive del Volga. Slavi, Ungari, Normanni A partire dal VII secolo e fino al X-XI, fecero la loro comparsa nuovi “barbari”(spesso chiamati nuove genti, provenienti dalla Scandinavia. Gli abitanti dell’estremo Nord del continente europeo, si spostarono allora dai loro confini geografici alla ricerca di nuove condizioni di vita, e lo fecero via mare. Vi si distinguevano i Danesi, i Gotar, gli Svedesi e i Norvegesi. Nelle fonti latine erano spesso genericamente indicati come “uomini del Nord” Nordman, ma anche come Viking. I Normanni erano contadini, artigiani, mercanti, non meno che guerrieri. In patria erano soprattutto agricoltori. Gli artigiani specializzati godevano di grande considerazione, come i fabbri e i carpentieri che oltre all’artigianato domestico e all’edificazione delle case, si occupavano anche della costruzione delle navi che permettevano alle schiere di avventurosi di solcare i mari in cerca di fortuna. Avvezzi ad associare il commercio alla pirateria, crearono attorno al Baltico, nei ripari naturali della costa scandinava, una serie di mercati fortificati, dove vendevano e acquistavano mercanzie che poi venivano smerciate capillarmente sui piccoli mercati locali, tra di essi emersero due località: Birka e Hedeby. Il tessuto insediativo in un mondo di ampi spazi forestali era costituito da piccoli borghi in Svezia e Danimarca e da fattorie isolate in Norvegia e nella lontana Islanda. Le singole comunità erano costituite da quello che era il nucleo più saldo della società, la famiglia. Si trattava di una famiglia allargata, unita da forti legami di solidarietà, che tendeva ad abitare sotto lo stesso tetto. Era diffusa la tipologia costruttiva della Hallenhaus. Costituita da un unico ampio locale, che poteva essere lungo circa dodici metri, preceduto a volte da un modesto ingresso; la struttura di base poteva poi essere allargata con l’inserimento di corpi secondari. Le pareti longitudinali tendevano a incurvarsi leggermente, a ricordare una nave capovolta, ed erano di tronchi e assi di legno, di graticciato, con gli interstizi riempiti da un amalgama di argilla e paglia; il tetto era ricoperto con tavole di legno, paglia e anche zolle erbose. Come protezione contro il freddo le aperture erano ridotte al minimo, la luce veniva soprattutto dalla porta d’ingresso e dal fuoco. Vicino alla casa lunga vi erano rustici e servizi, tra i quali poteva esserci anche la casupola lignea per i bagni di vapore. Lo spazio interno era arredato semplicemente. Vi erano banchi di terra lungo le pareti laterali, delimitati da assi di legno, che servivano come sedili e tavole, qualche cassone ligneo, i letti erano mobili e venivano posizionati solo alla sera. La famiglia tendeva a produrre e a fabbricare sul posto quasi tutto quello che poteva servirle. Diffusa la lavorazione dell’osso e dell’attività metallurgica. Villaggi e fattorie erano isolati in un mondo di foreste, che costituivano anche il luogo in cui, prima della conversione al cristianesimo, venivano venerati gli dei, che, non a caso, secondo la mitologia nordica risiedevano ad Asgard, una fortezza al centro della quale vi era il pilastro che sosteneva il peso del mondo, un immenso frassino sempreverde, chiamato Yggdrasil, da cui dipendeva il destino di tutto l’universo. La foresta influenzava le condizioni materiali degli uomini, il modo di abitare. Il legno dominava in una tradizione costruttiva che è durata non solo per tutto il Medioevo, ma anche fino ai nostri giorni. Capitolo II: Nelle campagne medievali: la casa contadina Le campagne tra tardo-antico e medioevo Fra I e II secolo i ceti dirigenti della società roana possedevano vaste proprietà fondiarie. I latifondi organizzavano e disciplinavano vaste masse rurali, di schiavi ma anche di piccoli coltivatori liberi, che integravano i loro insufficienti raccolti lavorando stagionalmente per i ricchi vicini. Latifondo e piccola proprietà convivevano, pur avendo il primo un carattere dominante. Il bel paesaggio della villa rustica caratterizzava l’orizzonte delle aree più romanizzate dell’impero, ma esso continuava ad essere punteggiato da piccoli fondi funzionali al sistema produttivo come punti di riferimento politico amministrativo il villaggio, il vicus. I pincipi organizzativi delle grandi ville ispiravano anche le realtà minori. La crisi che investì il sistema economico dell’impero fra II e IV secolo cominciò a manifestarsi come crisi agricola e dell’organizzazione produttiva, determinando il lento degrado del paesaggio, con l’abbandono delle terre, ma grandi aziende agrarie sopravvissero e si mantennero. Nel periodo di crisi politica dell’impero, tra IV e V secolo, in una fase di perduranti difficoltà economiche, di decadenza delle città e dei centri urbani, di gravi difficoltà di sopravvivenza per il ceto dei piccoli e medi proprietari, costituirono, nella decadenza dei pubblici poteri e di fronte agli incipienti assalti dei barbari, nuove strutture di aggregazione, anche dal punto di vista insediativo. Le grandi aziende agrarie di quei secoli erano gestite secondo un sistema di conduzione mista. Alla gestione diretta si venne affiancando, dapprima con un ruolo marginale, quella indiretta, attraverso un sistema di lottizzazione di parti consistenti della proprietà in poderi affidati a un colonato contadino costituito da schiavi affrancati (liberi) e accasati e liberi coltivatori. Le case isolate o raccolte in villaggi dei coltivatori si contrapponevano ai centri direttivi delle grandi villae, spesso fortificati e difesi da corpi di guardia, che fornivano protezione in un clima di disordine politico e di insicurezza. Tra V e X secolo la campagna divenne sempre più luogo di organizzazione della vita sociale ed economica. L’impatto tra popoli “barbari” invasori e aristocrazia militare e senatoria, che aveva le sue solide basi economiche nelle villae rurali, ebbe esiti differenziati nei diversi paesi. In Gallia si formò abbastanza presto una nuova aristocrazia mista e la sostanziale continuità dei gruppi dominanti favorì la sopravvivenza delle grandi proprietà. Il sistema curtense altomedievale, che aveva il suo fulcro nelle corvées, opera dei Franchi, poté così innestarsi su una base materiale, quella della villa. In Italia, l’invasione longobarda, nel 568, provocò una frattura con il passato. Nuovi ceti dirigenti si affermarono, nuovi modi di gestione fondiaria si diffusero, legati alla decimazione degli antichi grandi e medi proprietari. Il lento e faticoso processo di espansione della grande proprietà fondiaria, a partire dall’VIII secolo, si accompagnò qui, solo in seguito alla conquista franca del regno longobardo, all’affermazione progressiva del sistema curtense come forma più diffusa delle aziende rurali. La casa contadina: le tipologie La dimora rurale è il fulcro di un azienda agraria e costituisce la sintesi, sul piano insediativo, delle attività che si svolgono al suo interno. Benché difficoltoso, possiamo trovare delle tipologie prevalenti nelle campagne medievali europee. Una di queste è la casa a corte aperta o più frequentemente chiusa. Si trattava di un nucleo edile complesso, nel quale configuravano unitariamente strutture insediative diverse, ognuna delle quali aveva una specifica destinazione. L’abitazione in senso stretto era circondata da numerosi rustici e servizi, edifici separati che fungevano da forno, da cucina, da cantina, da locale per la vinificazione, da magazzino, da stalla, da granaio, da fienile o semplicemente da tettoia. Una corte centrale nella quale era ritagliato uno spazio per l’aia, ne costituiva l’elemento di raccordo. Vi poteva essere il pozzo, e sempre vi era l’orto. Questi elementi erano il più delle volte racchiusi in una “clausura” da recinzioni, naturali o artificiali, da fossati. Costituiva lo spazio delle tradizioni familiari e di raccordo con i propri antenati e perciò era circonfuso da un’aura di sacralità. Alla residenza del mezzadro facevano così da contorno innumerevoli infrastrutture che dovevano servire per le attività successive alla raccolta dei prodotti dei campi e dell’allevamento e per una loro prima manipolazione e anche per particolari lavorazioni legate alle richieste del mercato cittadino. La struttura a “corte” caratterizzò l’insediamento rurale della nostra penisola, fino addirittura ai secoli più tardi del medioevo, la stessa casa rurale mezzadrile si configurava secondo questa struttura. La coabitazione di uomini e animali era prevista all’interno di una tipologia abitativa attestata per tutto il medioevo, come realtà abitativa elementare a sé stante o come struttura organizzativa della dimora all’interno di una casa a corte. Si trattava della longhouse la casa lunga, che accoglieva persone e bestiame. Aveva uno o due ingressi, in questo caso distinti tra uomini e animali, divisori che isolavano gli uni dagli altri oppure un unico ampio ambiente indiviso. Questa struttura sembra essere documentata più per l’area continentale e insulare del Nord Europa. Nel villaggio di Feddersen Wierde, in Germana mostra le case rettangolari assai lunghe, divise in due parti da una leggera travatura lignea, la parte grande per gli animali, quella piccola per gli uomini con al centro il focolare. La porta poteva essere una sola, sul lato corto o sul lato lungo al punto della divisione in due della struttura, oppure due porte nei due spazi sopra indicati. La struttura della casa lunga la zona di Costwold Hills, in Inghilterra, qui le case potevano misurare fino a 30m, nelle quali la parte riservata agli uomini era poco più di un terzo della struttura. I tetti erano ricoperti in paglia, su un’armatura lignea. All’abitazione organizzata a corte si contrapponeva quella a struttura unitaria o elementare. Ovvero a un complesso di edifici separati e rispondenti a diverse esigenze, si contrappone, quindi, un unico edificio costituito da un vano multiuso o partito al suo interno. La casa elementare costituiva il ricovero fragile della parte più povera della popolazione contadina. Ma sembra aver connotato poi l’insediamento rurale nei territori dominati da Bisanzio verso oriente. Solitamente le case rurali avevano una pianta rettangolare o irregolare, consistevano di una, due o tre stanze, una delle quali dotata di focolare. Nel caso di edifici a più vani, uno doveva essere dotato di focolare, mentre un altro doveva essere adibito alla conservazione delle scorte cerealicole, immagazzinate in phitoi, grandi recipienti di terracotta, o in goubai, pozzi scavati nel terreno, e del vino contenuto in grandi recipienti di nome pitharia. Il popolamento delle campagne era qui organizzato intorno al villaggio, in cui si intrecciavano legami di parentela, di vicinanza, di comproprietà. Esso costituiva un’unità amministrativa e fiscale e poteva configurarsi come un centro demico tendente all’accentramento oppure sovente poteva presentarsi sparpagliato con i casali contadini dislocati sparsi e lontani dal centro strutturale. Quando l’abitazione si sviluppava verso l’alto, al piano superiore vi era la dimora della famiglia, dotata di pochi e poveri arredi. I materiali da costruzione erano quelli reperibili in loco. La sopraelevazione poteva riguardare sia le singole abitazioni a struttura unitaria o elementare, che la dimora in un nucleo a corte. Si trattava però di una tipologia che si affermò molto lentamente nelle campagne, a lungo perdurò la tradizione costruttiva igienici all’interno delle abitazioni e probabilmente nemmeno apposite strutture all’esterno. Per quel che riguarda gli arredi e le suppellettili sempre vi era l’essenzialità della dotazione domestica di beni mobili. La presenza promiscua di suppellettili rispondenti a esigenze diverse si collegava alla polifunzionalità degli ambienti. I principali pezzi del mobilio erano di legno e costituiti dal letto, quando vi era, dal tavolo. Da sgabelli e panche, cassoni e cassapanche. Ganci, scansie o rientranze nelle pareti servivano per appendere e riporre vestiti e oggetti di uso comune, l’armadio non rientrava nella tradizione del tempo. Tra gli oggetti vi erano strumenti per il fuoco, recipienti per cuocere i cibi, contenitori per conservare le vivande, per la mensa, taglieri di legno, più diffusi di piatti, scodelle, coltelli e cucchiai. Capitolo III: Nelle campagne medievali: la residenza signorile La “villa” tardo-antica La villa tardo-antica era posta sotto la sovraintendenza di un villicus, un fattore, controllato a sua volta da un conductor, un amministratore e aveva il suo centro direttivo, che consisteva in un vero e proprio insediamento, sul quale insisteva un nucleo edile complesso, nel quale si contrapponevano la residenza signorile, villa urbana, e la fattoria, villa rustica. Quest’ultima doveva contenere tutte le strutture necessarie alla lavorazione e conservazione dei prodotti dell’azienda, sia dal punto di vista delle attività agricole che da quello delle attività di allevamento, come granai, stalle, fienili, magazzini, edifici contenenti strumenti per la produzione del vino, dell’olio, cucine e alloggi per il ricovero della manodopera salariata o degli schiavi, ergastula. La villa urbana, destinata al dominus era costruita con pietra, mattoni e leganti, si articolava in diversi locali decorati con marmi, mosaici, affreschi, disposti attorno all’atrio scoperto e al peristilio, il cortile centrale scoperto e attorniato da un colonnato. Lo spazio destinato al dominus si ampliava fino a comprendere portici laterali, giardini, parchi, terme, padiglioni. Tra IV e V secolo molte ville furono fortificate. Della tradizione romana del sistema della villa, fecero tesoro i Franchi, nell’elaborare quella forma organizzativa dell’economia e del lavoro che fu l’azienda curtense che si diffuse nell’alto medioevo. Dalla “curtis” alla villa rinascimentale La curtis costituiva un centro di aggregazione insediativa, sociale, politica, oltre che una grande struttura di organizzazione economica: non a caso fu alla base dello sviluppo di veri e propri poteri signorili. A partire in particolare dal secolo IX per l’Italia e per l’area franco-tedesca, rappresentò il sistema più diffuso dell’organizzazione della terra: il sistema curtense. La sua caratteristica principale era la divisione tra pars dominica e pars massaricia: la prima era gestita direttamente dal proprietario attraverso il lavoro di servi, che si trovavano in una condizione simile a quella degli antichi schiavi, e dai contadini del massaricio che erano tenuti a prestare un certo numero di giornate lavorative, corvée; la seconda era frazionata in aziende minori(mansi/casae/massariciae/colonicae/ sortes),date in concessione a coltivatori liberi che se ne occupavano in maniera autonoma e dovevano corrispondere al concedente, oltre alla corvée anche un canone annuo e dei donativi(extenxia). Il rapporto tra signore e contadini si configurava come un rapporto di potere che tendeva ad uscire dagli interessi privati in quanto il primo iniziò progressivamente a praticare diritti di carattere pubblico, la iustitia dominica. Ogni curtis aveva un suo centro direttivo, che costituiva un nucleo insediativo, nel quale vi era la residenza del dominus, le abitazioni dei servi prebendari, servizi rustici, il tutto in modo da rendere l’azienda autosufficiente in molti casi. Il Capitulare de villis, che fra VIII e IX secolo, stabiliva norme dettagliate sulla modalità di gestione delle villae del patrimonio imperiale, prevedeva che sui centri dominici, ben custoditi da recinzioni, vi fossero la residenza padronale, dei torcularia, per la vinificazione, dei cellaria, magazzini, stalle per ogni genere di animali, opifici muniti di materiali per la filatura, tessitura, tintura. Questo modello di case si articolava in una grande varietà tipologica. Il centro direttivo aziendale della curtis spesso era protetto da recinzioni, che ne facevano una clausura, dando vita a una struttura insediativa “a corte”, che abbiamo visto caratterizzare per lungo tempo anche l’abitazione contadina isolata. Vi era inoltre una differenziazione tra i materiali impiegati per particolari residenze padronali, come quelle regie, rispetto alle case servili: da un lato pietra, dall’altro legno. Oltre ad una maggiore solidità la residenza signorile era caratterizzata anche da maggiori dimensioni, complessità e articolazione interna(non sempre avveniva: spesso le residenze signorili simili agli altri edifici rurali differenziandosi solo per l’estensione). Dalla fine del IX secolo, in un periodo di grandi instabilità politica e generale insicurezza, molte curtis si dotarono di elementi difensivi. Molte di esse diventarono dei veri e propri centri fortificati, evolvendo verso la struttura del castello. Il carattere di rozzezza, semplicità ed essenzialità nell’arredo domestico proprio delle abitazioni contadine era testimoniato dal Capitolare de villis in cui veniva evidenziata anche la necessaria suppellettile “intra cameram lectariam”. Tra gli utensili contenuti nella camera con il letto erano elencati elementi disparati dalla biancheria e arredo per il letto, ai vasi di metallo, alla dotazione per il focolare, ad attrezzi che sembravano destinati alla carpenteria più che al lavoro dei campi. Nei secoli posteriori al Mille, l’aumento demografico, la crescita agricola, la rinascita delle città, il maggiore dinamismo dei traffici commerciali provocarono profonde trasformazioni nella vita delle campagne. I cambiamenti nella vita agricola riguardarono i regimi della proprietà, le condizioni personali dei contadini, i modi di organizzazione e conduzione della terra. Si cercarono nuove forme di organizzazione produttiva, con conseguente trasformazione della società rurale. Come principali strutture di organizzazione del lavoro agricolo restarono ancora per lungo tempo le grandi proprietà organizzate in forme curtensi e signorili, che si erano andate rafforzando in molti casi come signorie territoriali, in quanto i rispettivi proprietari avevano concentrato nelle loro mani, facendo riferimento a centri incastellati, terre, uomini e, soprattutto, con il venir meno della capacità d’intervento dell’autorità centrale, poteri giurisdizionali. Con il tempo entrò in crisi l’aspetto funzionale classico del sistema curtense, che assistette al frazionamento progressivo e alla lottizzazione del dominico, a una grande frammentazione fondiaria anche del massaricio, alla scomparsa delle corvée e in generale all’alleggerimento dei servizi contadini e a una diffusione sempre più estesa del censo in denaro. La contrazione del dominico e l’allentamento dei legami tra questo e il massaricio, fecero della curtis un organismo fondiario molto diverso rispetto al passato, in quanto costituito da un insieme di poderi giustapposti uno all’altro, senza un riferimento preciso e costante a un centro dominicale. Quest’ultimo, quando era incastellato, si presentava come una grande fattoria strutturata a corte, tendenzialmente autonomo rispetto alle aziende minori del massaricio, tendenzialmente anche queste indipendenti dal punto di vista organizzativo e gestionale. Sulle trasformazioni della distribuzione e della natura stessa della proprietà un’influenza decisiva fu operata dalle città. I nuovi proprietari cittadini, attenti al guadagno e all’ottenimento di una buona rendita da un investimento in beni terrieri, volevano stabilire un diretto controllo sulla terra stessa, per cui i contratti con i coltivatori erano a breve durata, ricchi di clausole relative allo sfruttamento e al miglioramento del fondo sul piano colturale e all’allevamento del bestiame. A questi nuovi tipi di contratti apparteneva la mezzadria, che ebbe grande diffusione a partire dal tardo medioevo in diverse aree dell’Italia centro settentrionale, comportando spesso la creazione di nuove unità di conduzione tendenzialmente compatte e la diffusione di un insediamento sparso di tipo poderale. I nuovi proprietari impegnati a ottenere un buon rendimento dai propri possedimenti, destinavano fondi per migliorare l’insediamento poderale, ricorrendo spesso al lavoro di manodopera specializzata nel campo edile. La necessità di un pieno controllo del lavoro contadino, fece si che i proprietari spesso si recassero nelle campagne, soprattutto nei momenti più importanti dell’annata agricola. Così a fianco della casa “da lavoratore” spesso si aggiungeva una casa “da signore”, nella quale il padrone si recava per controllare l’attività dei suoi amministratori e sorvegliare le operazioni agricole. La parte della corte abitata dal padrone era spesso affiancata da un giardino/frutteto/orto, che allietava lo spirito e dava conforto, ma allo stesso tempo aveva una destinazione produttiva. Il settore frequentato dai contadini doveva comprendere invece, attorno a un cortile centrale, le case per i lavoratori, le stalle, il pollaio, il forno, i granai, il fienile, la cella per il vino. Il trattatista Pier de’ Crescenzi a fianco di questa villa/fattoria individua un’altra possibile struttura insediativa padronale, rispondente alle esigenze dei più ricchi e potenti proprietari terrieri. La villa signorile fuori città, luogo del riposo e della villeggiatura, improntata all’ostentazione dell’eccessivo, anche negli arredi e nelle suppellettili, mai troppi, ma lussuosi e decorati, il cui sfoggio tendeva alla messa in scena sociale, a costituire il simbolo del prestigio del proprietario. Essa si inseriva in una campagna riconquistata, ordinata, in un paesaggio agrario in cui l’uomo, aveva incominciato a imprimere forme più elaborate, non solo di carattere tecnico ma anche estetico. Il gusto per il “bel paesaggio” trova piena rispondenza nella villa italiana del Rinascimento, laddove lo spazio risulta ordinatamente e sfarzosamente organizzato e l’armonia dell’insieme si riflette anche nei giardini domestici, improntati a un ritmo si simmetria e semplicità. Le residenze fortificate Già dall’età tardo-antica, nelle campagne europee, di fronte a un senso diffuso di insicurezza dovuto alla crisi del potere centrale e alle invasioni barbariche, case isolate, villaggi rurali e residenze signorili si erano circondati di recinzioni più o meno solide per proteggersi dai pericoli esterni. Ma è fra il secolo IX e il X, in seguito alla crisi dell’impero carolingio e al pericolo rappresentato da Ungari, Normanni, Saraceni, che nelle campagne cominciò a svilupparsi un’organizzazione difensiva diffusa. Castra/castella di antica fondazione si sommarono a fortificazioni di nuclei insediativi preesistenti, in particolar modo di centri direttivi si sistemi curtensi o fortificazioni di nuova progettazione. Nella l’atrio, sul fronte stradale, potevano esservi botteghe affittate a estranei o destinate allo smercio di prodotti da parte del proprietario. Sul peristilio si affacciavano locali eterogenei e autonomi, separati da corridoi, pareti, porte e tendaggi: una o più stanze da pranzo (triclinum), luogo dei grandi pasti serali e di ricevimento; lo studio del padrone di casa (tablinium), riservato agli affari e agli amici; le camere da letto, dove questo era posizionata su una pedana di poco sopraelevata. La cucina in genere era decentrata e dotata di focolari. Alcune residenze avevano anche ambienti per le pratiche cerimoniali. Pavimenti, pareti e soffitti erano decorati con mosaici, stucchi, dipinti. Nell’edilizia abitativa si utilizzavano materiali durevoli come il conglomerato cementizio, basato sul calcestruzzo (formato da un legante e materiali inerti impastati con acqua), usato in vari modi, associato o meno a pietre e mattoni, e il laterizio, sotto forma di mattoni cotti o di coperture per tetti. Dal IV secolo iniziò un periodo di trasformazione dell’edilizia urbana, in seguito al frazionamento del pars Occidentis, all’egemonia militare e politica delle popolazioni germaniche che vi si erano impiantate, al calo demografico, all’inaridirsi delle attività economiche. Tra IV e VI secolo si verificò la dissoluzione diuna edilizia di livello medio-alto, rappresentata da lussuose domus e da strutture abitative tradizionali come edifici a due piani. Il frazionamento e il degrado di queste vaste domus urbane, portò alla creazione di unità abitative unifamiliari di più basso livello costruttivo, con pareti lignee e pavimento in terra battuta. La tecnica edilizia più diffusa sembra essere stata allora quella mista, nella quale si integravano il recupero e il reimpiego di murature antiche associate all’uso del legno e di altri materiali deperibili e leganti come calce e argilla. La trasformazione del tessuto urbano proseguì tra VI e X secolo, subendo un’accelerazione, nella penisola italiana, con l’arrivo dei Longobardi intorno alla metà del secolo VI, (568). Nella “Langobardia” la decadenza urbana si accentuò, mentre la campagna diventò il luogo primario di organizzazione della vita economica, sociale e anche politica. I centri urbani si contrassero nella superficie e si riempirono di superfici coltivate all’interno. si ritrovava anche in ambito urbano la struttura “a corte”. La presenza del “verde” vicino alla casa si legava a un uso utilitaristico dello stesso, non più uno spazio del diletto come nelle domus antiche. Le strutture monumentali della città antica, non essendo più utilizzate secondo la loro originaria funzione, potevano servire come cave di materiale da costruzione. Oltre al materiale da reimpiego è soprattutto il legno ad essere utilizzato. Edilizia più fragile quindi, realizzata in ambito familiare, e affinando le tecniche di lavorazione del legno, rafforzate dalle tradizioni germaniche. Quindi dal VI secolo è soprattutto l’edilizia in legno ad essere documentata, fino al secolo X. Sono stati individuati essenzialmente tre tipi principali: edifici con pali portanti infissi nel terreno; edifici con pareti di tavole o pali verticali insistenti su un basamento in muratura; edifici con pareti lignee variamente strutturate infisse su travi orizzontali incassate nel terreno. Nella “Romania”, in quei territori dove il legame con la tradizione romana perdurò attraverso la mediazione bizantina, le città, pur all’interno di un generale processo di decadenza continuarono ad avere un ruolo primario nell’organizzazione della vita politica, economica e sociale. Troviamo così dimore per lo più a due piani, suddivise in vani con qualifiche funzionali diverse: il deposito/magazzino, la cantina/dispensa, la cucina, il balneo e i necessaria, cioè i servizi igienici, la stanza da soggiorno/pranzo, la camera da letto. Al pian terreno generalmente erano ubicati i vari servizi e, nel caso, anche botteghe che si affacciavano sulla strada, mentre al piano superiore i veri e propri locali di abitazione. Le case potevano avere un portico sul fronte e, di fianco o sul retro, un cortile. Le pareti degli edifici erano in muratura, documentati sono la pietra e il laterizio, vi erano anche edifici con il pianterreno in muratura e il primo piano in legno. In età tardo-antica e altomedievale, nei territori dell’impero d’Oriente si mantenne dunque una certa vitalità urbana. La lunga vitalità urbana orientale, aveva la sua rappresentazione migliore nella capitale, Costantinopoli. Il periodo pieno-tardomedievale A cavallo del nuovo millennio, lo sviluppo agricolo e demografico, l’incremento degli scambi locali, regionali e internazionali favorirono il risveglio delle città, configurando nuovi assetti sociali, e si sperimentarono nuove forme di vita associata come il Comune. All’interno delle città iniziarono allora ad essere documentate abitazioni solariatae, come pure un edilizia in pietra o mattone, a fianco di quella lignea. Una caratteristica del paesaggio urbano italiano furono tra XII e XIII secolo le torri, la cui costruzione rispondeva a molteplici esigenze: come residenza, come strumento di difesa e offesa, di lotta armata per il potere, per i contrasti tra magnati e parte popolare, tra fazioni diverse facenti capo a famiglie o a gruppi parentali eminenti e che si richiamavano ai nomi del guelfismo e del ghibellinismo, fra i diversi comuni; servivano ad esibire ricchezza e potenza. La moltiplicazione delle case-torri rifletteva il modo particolare secondo il quale l’aristocrazia interpretava spazi e luoghi della città. Le case-torri si presentavano come robuste costruzioni, svettanti in altezza, il cui interno era diviso in stanze sovrapposte, senza o con scale fisse. Nel corso delle lotte di fazione e con l’ascesa dei regimi popolari molte di essere furono ridotte d’altezza, sia per diminuire l’efficacia sul piano bellico sia per impedirne un uso militare: a Firenze la norma De turribus exquadrandis del 1325 imponeva un altezza massima di 50 braccia, proponendosi di tenere a freno la superbia dei fiorentini. I nuovi ceti eminenti cittadini, nel corso del Trecento e del Quattrocento, si rivolsero verso un nuovo modello abitativo, quello del palazzo, che inizialmente si configurò come una struttura nata dall’accorpamento di più abitazioni precedenti, dotato di un’unica facciata sul fronte stradale. Il passo successivo fu la costruzione, soprattutto ne Quattrocento, di palazzi staccati ed emergenti dal tessuto urbano circostante, spesso ad esso sovrapposti in quanto la loro edificazione comportava l’acquisto e la distruzione di realtà abitative precedenti. Di massa imponente, presentavano poche finestre sulla facciata al pianterreno. Internamente, la struttura era in genere incentrata su di un cortile porticato, punto d’incontro tra spazio pubblico e privato. Quasi tutto il primo piano, dagli alti soffitti, era occupato da spaziose sale di rappresentanza, mentre le vere e proprie stanze a uso abitativo occupavano uno spazio ristretto o al secondo piano. Fra queste emergenze particolarmente significative sul piano costruttivo, si situavano case borghesi medio-alte e case popolari per il popolo minuto, dando vita ad un tessuto edilizio mosso e articolato, risultato del carattere abbastanza disordinato dell’espansione urbana tra XI e XIII secolo. La tipologia edilizia più diffusa era rappresentata da un edificio affacciato su di una via, i lotti erano rettangolari e si estendevano in media per 4-5 metri sul fronte e per 10-15 metri in profondità, sul retro si trovava un’area vuota delimitata sul fronte opposto. La facciata sulla strada era soggetta a regolamentazione da parte degli statuti comunali, in merito all’ampiezza, al numero delle finestre, alla presenza di sporti, mentre la profondità era a discrezione degli abitanti. Questi edifici insistevano su più piani, anche 4 o 5, ma in genere non più di 2. Questo slancio verticale, dipendeva dalla fame di spazio dovuta all’incremento demografico che coinvolse le città fino al XIV secolo. Anche le case addossate una all’altra, e non più separate, servivano a massimizzare lo spazio, formando così dei blocchi di abitazioni con un fronte unico sulla strada. Il modulo base di questi edifici prevedeva un seminterrato, una bottega al pianterreno o ricoveri per animali o magazzini, mentre ai piani superiori erano adibiti a uso abitativo e si raggiungevano attraverso scale interne o esterne, poste sul retro. La cucina isolata all’ultimo piano come misura cautelare contro gli incendi. Lo spazio retrostante era occupato da un cortile aperto, che faceva da orto/frutteto/giardino. Nella Firenze del XV secolo, all’ultimo piano della casa si aggiunse la loggia, affacciata sul cortile, luogo di servizio e anche di incontro. La casa poteva allargare il suo spazio a spese di quello pubblico, protendendosi al piano superiore verso la strada, attraverso l’edificazione di sporti, sostenuti da puntelli di legno o muratura. Da essi si svilupparono i portici. L’acqua si attingeva dalle fontane e dai pozzi pubblici, posti nelle piazze o nei crocicchi, nei cortili potevano essercene di privati oppure erano presenti cisterne per l’acqua piovana; a partire dal Trecento nell’edilizia di più altro livello si diffusero anche quelli privati, interni alla casa, laddove l’acqua si attingeva con secchio e carrucola nel pozzo attraverso condotti ricavati nello spessore dei muri. Nell’edilizia popolare mancarono per lungo tempo servizi igienici, pertanto lo scarico si faceva direttamente sulla strada, dal XIV secolo strutture fisse iniziarono nei chiassi e nei bottini sotterranei, che facevano rifluire i liquami nella fogna. È sempre nel Trecento che presero piede anche i camini a muro, prima nelle città, dove la concentrazione di uomini favoriva gli incendi e poi nelle campagne. Il freddo e l’umidità entravano facilmente nelle abitazioni, le finestre erano aperte e protette generalmente da tendaggi o da scuri di legno. Questi furono sostituiti dal Duecento con impannate, cioè intelaiature sulle quali si tendevano pezzi di stoffa incerata o oleata, che permettevano alla luce di filtrare, ma non di isolare gli interni. Le strutture meno solide e precarie erano generalmente quelle popolari, mentre le soluzioni più durature e resistenti venivano applicate in primo luogo all’edilizia medio-alta, privilegiando alcuni materiali rispetto ad altri, non solo per la maggiore facilità di reperimento ma per rispondere anche a scelte di gusto, tese ad individuare elementi caratterizzanti della propria città. Così il macigno e la pietra forte erano diffusi a Firenze, il rosso mattone nella Siena trecentesca. Per ricostruire il tipo di arredi e suppellettili importanti sono le fonti scritte come gli inventari dei beni mobili di personaggi di differente estrazione sociale e le fonti iconografiche. Quantità e qualità dell’arredo domestico, dipendevano in primo luogo dalle disponibilità economiche. Il letto del povero era costituito da un pagliericcio posato su un telaio di legno o per terra; quello di un cittadino di livello sociale medio-alto era un mobile più o meno importante, di legno pregiato, posato su di una predella, con una incastellatura che permetteva di richiuderlo con cortine. Casse/cassoni/cofani contenevano il corredo della padrona di casa e altri arredi. Decorazioni pittoriche, stoffe pregiate, arazzi arredavano le pareti di chi poteva permetterselo. Tuttavia fino al Trecento si trattava sempre di un arredo essenziale, le differenze colpivano più che altro la qualità del singolo oggetto. Torri, palazzi, abitazioni di livello medio alto, case popolari, semplici capanne in legno e paglia si giustapponevano in un tessuto molto belle. Le tre tende dell’imperatore erano rispettivamente: la prima di stoffa bianca, tanto grande da poter contenere 2000 uomini, con intorno una palizzata in legno, dipinta con varie figure; la seconda tenda era posta su colonne ricoperte da lamine d’oro e fissate ad altri legni con chiodi d’oro; la terza era fatta di un prezioso panno rosso. La prima era luogo dell’elezione dell’imperatore, la seconda della cerimonia di insediamento, la terza delle udienze, con il trono d’avorio sopraelevato sotto una tettoia di legno. La vita nomade imponeva uno stile di vita semplice, pertanto gli arredi interni delle tende erano ridotti al minimo: panche, giacigli, qualche cassa come contenitore, sacche di cuoio. Il fuoco al centro della tenda era alimentato con lo sterco di buoi e cavalli. Non apparecchiavano una mensa quando mangiavano, ma si accasciavano davanti al fuoco, non usavano tovaglie o tovaglioli, si pulivano sui gambali o sull’erba, non lavavano le stoviglie se non con il brodo delle carni che vi avevano cotto dentro. All’interno delle tende non mancavano mai i numi tutelari: idoli di feltro a somiglianza umana, sotto i quali si riponeva un pezzo di feltro a forma di mammella, per proteggere i greggi e garantire il beneficio del latte ai nuovi nati. I grandi comandanti tenevano un hyrcum (immagine caprina) al centro della tenda, altri idoli collocati all’esterno avevano lo scopo di delimitare e proteggere lo spazio sacro rappresentato dall’abitazione/tenda. Non a case se qualcuno pestava la soglia della tenda di un capo veniva punito con la pena capitale, in quanto insulto e profanazione gravissima. La stessa pena colpiva anche chi orinava volontariamente dentro alla tenda. Si imponeva allora la necessità di una purificazione facendo passare la tenda e i suoi abitanti attraverso due fuochi. Il fuoco aveva una grande importanza come il sole, in quanto fuoco celeste, che tutto purifica. La sacralità della dimora, l’inviolabilità del “cerchio magico” che la racchiudeva e proteggeva sono testimoniati dal fatto che non vi erano serrature, tende o i carri dove tenevano i loro tesori non erano mai serrati con chiavistelli. Anche Guglielmo di Rubruck nella sua opera ricorda il divieto di toccare la sogli dell’abitazione dei potenti; è interessante notare che il divieto si estendeva anche alle corde della tenda, e ci racconta quanto fosse fatto rispettare con vigore in quanto il suo compagno di viaggio il frate francescano Bartolomeo da Cremona, dopo essere inciampato sulla soglia della tenda imperiale, si salvò dalla morte solo perché straniero, ma fu comunque bandito per sempre dal presentarsi di fronte al sovrano. Guglielmo si dimostrò più disponibile all’osservazione etnologica, fornendo numerosi esempi della vita quotidiana dei mongoli, e fu anche più attento all’osservazione geografica. L’ambiente naturale in cui i Tartari si muovevano era ostile all’esistenza dei gruppi umani, e il nomadismo diveniva allora l’unica scelta obbligata. Da qui l’elaborazione di un modello di abitazione/tenda comune a tutti i popoli della steppa. Integrando le descrizioni di Giovanni, Guglielmo aggiunge che costruiscono la loro abitazione su una base circolare fatta di rami intrecciati; anche lo scheletro interno della casa è fatto di rami che convergono in alto in un’apertura circolare dalla quale si innalza una specie di camino per il fumo. La struttura era poi coperta con un panno bianco indurito a volte con calce o terra bianca o polvere d’osso, altre volte invece è coperta di panno nero. Il panno che ricopre la canna fumaria è decorato con dipinti fantasiosi. Il panno di copertura era di feltro quindi, fatto con lana grezza. Il feltro aveva svariati impieghi: serviva per coprire le loro case, le casse e per i loro letti, coperte, selle, mantelli contro la pioggia, essendo resistente all’umidità. Nella divisione dei compiti tra uomini e donne, queste dovevano occuparsi di produrre i panni di feltro, guidare i carri, scaricare le case dagli stessi, mungere le vacche, lavorare il loro latte, conciare le pelli, cucire le vesti e cucinare. Gli uomini invece dovevano costruire le case e i carri; dovevano fabbricare archi e frecce, morsi e briglie, custodire i cavalli, mungere le cavalle, produrre una bevanda di latte equino, il comos e fabbricare gli otri per contenerlo, occuparsi dei cammelli. I bovini erano lasciati in gestione alle donne, gli equini agli uomini ( il cavallo era infatti un’estensione del cavaliere) oltre i cammelli, mentre di ovini e caprini si occupavano tutti. Quando tolgono la loro casa dal carro che la trasporta, rivolgono sempre la porta a sud e quindi collocano i carri con le casse subito dietro la casa, a distanza di un mezzo lancio di pietra. Così ogni casa viene a trovarsi tra due ordini di carri, come tra due muri. Anche all’interno della tenda lo spazio era organizzato secondo un ordine e una gerarchia precisi, la porta rivolta a mezzogiorno, il letto del padrone posto verso nord. La zona delle donne è sempre quella orientale, cioè alla sinistra di quella del padrone guardando verso l’entrata, gli uomini invece si stabilivano nel lato occidentale. Il Nord era la zona di massimo onore, la sede del signore, ma anche della signore e della divinità. Il Sud, dove era collocata la porta, rappresentava il luogo in cui sorgeva il fuoco celeste, il sole, iniziando a svolgere la sua funzione purificatrice. Il tetto rappresentava il cielo e l’aperura al suo culmine permetteva alla luce del sole di penetrare all’interno e faceva defluire all’esterno, verso l’alto, il fuoco acceso all’interno della tenda, sotto forma di fumo, stabilendo un contatto simbolico tra fuoco terreno e fuoco celeste. Per contenere gli oggetti e le loro ricchezze i Mongoli costruivano con rami più piccoli intrecciati, delle casse quadrangolari grandi come grossi bauli, e le ricoprivano con un coperchio a forma di testuggine, fatto allo stesso modo, che ha una porticina sul lato anteriore. La cassa veniva poi ricoperta di stoffa nera come se fosse una cassetta. Un arredo essenziale era il letto, con materassi e coperte, dove si stava sdraiati per dormire ma anche per ricevere e mangiare. Per sedersi usavano delle panche, usate anche come piccoli tavoli. Il focolare era costituito da un braciere, da un treppiede con un piatto di metallo sul quale bruciava il fuoco. Come contenitori per gli alimenti usavano otri ricavati dalla pelle dei buoi, fatta seccare con il fumo, o dalla pelle di intestino di montone. Per quanto nel suo viaggio per raggiungere Qaraqorum, Guglielmo di Rubruck, per mesi non vide città, anche i nomadi mongoli sentirono il bisogno di darsi una capitale. Guglielmo ci descrive le caratteristiche essenziali di Caracorum/Qaraqorum. Si trattava di una città a metà strada tra l’accampamento e la sede fissa, in quanto era costituita da un nucleo stabile e dagli attendamenti mobili dei signori e dei loro clan attorno al primo nucleo. Il nucleo fisso era di modeste dimensioni, circondato da un muro di terra con quattro entrate. Al suo interno vi erano due quartieri, quello dei Saraceni, mercantile e l’altro della gente del Catai, artigianale. Vi erano poi grandi palazzi dei segretari di corte e dodici luoghi di culto di sette idolatriche di diversi paesi, due moschee e una chiesa cristiana. Appena fuori dalle mura della città, a sua volta recintato da un muro di mattoni, vi era il palazzo imperiale, su una collina artificiale. All’interno del recinto imperiale vi erano poi dei magazzini per le vettovaglie e le ricchezze del sovrano. Qaraqorum diventò la capitale dell’impero di Gengis Khan nel 1220, fu fortificata con mura nel 1325 da Ogodei, fu abbandonata nel 1260 da Qubilai, che trasferì la capitale in Cina a Cambaluc, e ritornò a essere capitale attorno alla metà del XIV secolo, quando i Mongoli furono cacciati dal Catai. Dagli scavi condotti sull’area della città vera e propria è stato possibile ricostruirne la forma oblunga e i confini esterni, delimitati da un fossato di scarsa profondità e larghezza e da un muro di altezza non superiore ai due metri. Una indagine condotta presso il cancello orientale, ha portato alla luce i resti di un sobborgo di capanne di terra incentrato sull’asse viario e di un edificio ligneo, che doveva ospitare il corpo di guardia. Al suo interno sono stati trovati pezzi di giochi d’azzardo in osso e un intero magazzino di oggetti in metallo. Gli scavi hanno testimoniato l’ampia diffusione della lavorazione del metallo. In città sono state ritrovate fornaci per la fusione. Nel corpo di guardia è stato scoperto un sistema per il riscaldamento complesso: una stufa di mattoni con foro circolare dal quale partivano condotti coperti da lastre di pietra che portavano aria calda per tutta la costruzione. La Cina Con Qubilai, che trasferì la capitale nel 1260 a Cambaluc, il cuore dell’impero divenne la Cina, il Catai. Su di essa sappiamo molto per la diretta testimonianza di Marco Polo che vi soggiornò a lungo. La pax mongolica aveva permesso nella seconda metà del secolo XIII l’infittirsi dei collegamenti e degli scambi commerciali tra Occidente e Oriente. Delle sue peregrinazioni e del suo soggiorno cinese Marco Polo ci ha lasciato un ricordo nella sua famosa opera Il Milione. Nella sua descrizione traspare sempre la sua mentalità di mercante, la sua attenzione si rivolge quindi all’impianto economico dei luoghi visitati, sui prodotti tipici, sulla loro qualità e quantità e sui sistemi di produzione. Polo ci ha fornito così un quadro di estremo interesse degli aspetti più salienti della civiltà mongolo-cinese. Un primo dato che emerge leggendo Il Milione è la contrapposizione tra la civiltà mongolo- cinese, appunto, e le antiche consuetudini di vita dei Tartari, che continuavano a permanere nei domini occidentali dell’impero e nella Mongolia. Una conferma ci viene dal viaggiatore arabo Ibn Battuta che fra il 1332 e il 1334 incontrò la corte del khan Ozbek nelle pianure tra Mar Nero, Mar d’Azov e Mar Caspio. Si trattava di una corte itinerante, pur avendo il khanato il suo centro nella capitale Sarai. In Cina il popolo vincitore era dovuto venire a patti con una antica civiltà agraria e sedentaria. La differenziazione dei materiali costruttivi per l’edilizia alta e quella popolare, legno per quest’ultima e pietre e laterizio per la prima, doveva caratterizzare, come altre città descritte da Polo, anche Cambaluc. Essa aveva un perimetro di 24 miglia e una regolare pianta quadrata. Le mura di terra, erano spesse 10 passi e alte 20, verso l’alto si stringevano fino a 3 passi, merlate e bianche. Su di esse si aprivano 10/12 porte su ognuna delle quali vi era un grande palazzo e su ciascun lato vi erano grandi palazzi sedi di guarnigioni militari a difesa della città. L’impianto quadrato era così regolare che le vie erano tanto dritte, che da una porta era possibile vedere l’altra. Al suo interno si distribuivano i palazzi dei nobili, quello con la campana che per tre volte suonava alla sera il coprifuoco, il palazzo reale, quello dell’erede al trono e quello con molte sale e camere dal quale i “12 baroni grandissimi” che amministravano le province dell’impero esercitavano la loro autorità. La capitale era così popolosa he al di fuori delle mura, in corrispondenza delle porte, si erano sviluppati dodici borghi, molto estesi e popolati. Nel palazzo reale il Gran Khan risiedeva nei mesi invernali, a marzo si dirigeva verso l’Oceano Pacifico e si fermava a soggiornare presso Tarcar Mondun per cacciare fino a Pasqua; in seguito ritornava a Cambaluc per poco tempo e si dirigeva verso Giandu, anche Daulatabad, nel periodo in cui era già decaduta dal ruolo di capitale, anche qui l’arenaria dominava negli edifici pubblici. Questa città era composta di due parti: una cittadella fortificata, Deogir, ubicata sulla sommità di un’altura di granito con pareti a strapiombo e la città vera e propria, che si estendeva a sud e a est del castello ed era circondata da una cinta muraria di quattro chilometri. L’area islamica Nel Trecento, il pensatore tunisino Abd az-Rahman ibn Khaldun (1332-1406), scrivendo i Prolegomeni, utilizzando come materia principale delle osservazioni le vicende della sua patria, devastata a più riprese dai nomadi beduini, elaborò una visione del divenire storico avente come tema centrale il ciclico scontro del mondo nomade e del mondo sedentario. I contatti tra nomadi- pastori del deserto e delle steppe e le società stanziali da tempi lontanissimi si erano sviluppati all’insegna di un atteggiamento pacifico o all’insegna di una minaccia dei primi nei confronti delle seconde. Dal XVIII secolo a.C. e anche prima, invasori nomadi si riversarono sugli insediamenti agricoli, saccheggiando città, devastando territori. L’ultimo grande movimento nomade si verificò nel XIII secolo d.C., con i Mongoli e i loro alleati turchi, che mossero dall’Asia centrale e, dopo aver conquistato Cina, Russia e gran parte del Medio Oriente, crearono un estesissimo impero. L’espansione araba verso il Medio Oriente portò i cavalieri del deserto a contatto con due grandi stati in crisi, l’impero bizantino e quello sassanide. Antiche città furono conquistate e abitate, nuovi centri urbani vennero fondati: all’inizio semplici campi militari, poi vere città. Tra VIII e XI secolo il mondo mussulmano fu teatro di un prodigioso rigoglio urbano. Da Samarcanda a Cordova la civiltà musulmana è una civiltà urbana notevolmente unita. Il mondo mussulmano ha quindi l’aspetto di una serie di piccole isole urbane collegate tra loro da linee commerciali. Dall’XI al XVI secolo si assistette a una continua espansione dell’Islam, come fede religiosa e come modello coerente di civilizzazione. Oltre al perdurare dei tradizioni di vita nomadica che continuarono a persistere, quello che colpiva nel corso del Trecento i viaggiatori occidentali nel mondo ormai del tutto mussulmano, è sempre stata la presenza si grandi, popolose e ricche città, come lungo il corso del Nilo, tra Alessandria e il Cairo. Nel territorio che prima della conquista araba faceva parte dell’impero sassanide fu fondata ad opera del secondo califfo abbaside al-Mansur, a partire dal 762 Baghdad, sullo sbocco nel Tigri del canale navigabile che lo collegava all’Eufrate. Il centro urbano è a pianta rotonda, raccolto intorno al palazzo principale, formato da una serie di cinte concentriche, tra le quali furono costruite le abitazioni dei familiari del principe e dei privati, racchiuso entro un bastione murario munito di 360 torri, quattro porte d’accesso e un fossato, intersecato da quattro grandi strade. L’estensione della città alla fine del X secolo raggiungeva i 10 km per 9. Nel XII secolo, l’ebreo Beniamino di Tudela, visitò Baghdad e ne rimase impressionato, la descrive come una “magna urbs”, con all’interno il palazzo del califfo che si estendeva per tre miglia, con un parco delimitato da mura contenente svariati generi di alberi e animali e un lago formato dal fiume Tigri. Altre città della Mesopotamia erano state edificate tenendo conto della rete fluviale. Il principale materiale da costruzione non poteva che essere l’argilla dei terreni alluvionali, che veniva seccata al sole in forme prestabilite o cotta nel forno. Il legno era raro; bisognava importarlo dall’Armenia, dalla Siria e anche dalla lontana India. Le zone ricche di selve erano molto ristrette nel mondo mussulmano, che aveva un gran bisogno di legname non solo per le attività edificatorie e decorative, ma anche per quelle industriali, per le irrigazioni, per costruire le navi. Cosi il prezzo del legname era molto alto. Anche la pietra era poco utilizzata. Le mura delle abitazioni erano solitamente di mattoni, ricoperti internamente di rivestimenti di gesso scolpito e dipinto o più frequentemente di piastrelle di maiolica decorata. L’argilla dominava non solo per i mattoni, ma anche per la terra cotta verniciata e smaltata dei rivestimenti murali, delle ceramiche, del vasellame. Se Baghdad fu la capitale degli Abbasidi, Damasco lo fu precedentemente per la dinastia omayyade. Nel XII secolo Beniamino di Tudela ne parlava come di una “urbs maxima”, circondata da mura, fitta di orti e giardini, piena di botteghe e attiva negli scambi. Il prete tedesco Ludolph von Suchem, che vi soggiornò nel 1340 la ricordava come una città nobile, gloriosa e bella, ricca di merci, cibo e spezie, circondata da giardini e frutteti, alimentata da acque, fiumi, ruscelli e fontane, incredibilmente popolosa. Poco dopo il frate Niccolò da Poggibonsi vi aggiunse interessanti notazioni: Damasco è tutta in piano, le strade illuminate da lampade, le case altissime, fate di legname, ma non sembra perché dentro sono colorate di azzurro e sotto lavorate a mosaico. Ai piedi della città c’è un grande castello circondato da alte mura. Nessun signore e nessun povero cuoce in casa, questo avveniva per la carestia di legname, nelle piazze vi erano moltissimi cuochi che cuocevano per tutti. Nei territori ex bizantini ebbero notevole sviluppo in Egitto i due centri di Alessandria e del Cairo. Il Cairo era grandissima, 32 miglia. Non era circondata da mura. Le grandi dimensioni erano dovute al fatto che oltre a essere nel Trecento la capitale del regno mamelucco e residenza di quasi tutta la classe dominante turca, era il punto d’incrocio delle vie commerciali e di traffico dal Mar Rosso al Nilo, dal Maghreb e dall’Africa. Nella città vi era il castello del sultano, con alte mura e torri spesse, chiese e moschee, piazze, mercati, abitazioni di cui si ricorda soprattutto l’altezza, e al di la del Nilo i cosiddetti “granai del faraone”, le piramidi. Per le opere pubbliche gli architetti mamelucchi preferivano le pietre ai mattoni e alla calce delle generazioni precedenti, che comunque caratterizzavano l’edilizia popolare. Vi era grande abbondanza di palme da dattero, che venivano impiegate per svariati usi, anche costruttivi, o cofani, gabbie da sedere e da dormire, dalla scorza funi e corde. Le abitazioni dovevano essere essenziali per arredi e suppellettili domestiche: amache fatte con i rami delle palme da dattero o pagliericci posti sul pavimento o su una lettiera, poche le panche e i cofani per riporre le cose, vista la scarsità del legno; ceste fatte con le foglie dei datteri, bacini, brocche, otri di cuoio servivano per gli usi quotidiani. Nel Quattrocento ancora priva di mura, ma frammentata in isole delimitate, in qanto ogni strada, ogni piazza era chiusa da proprie porte. I muri delle case erano di argilla, cane e gesso su basse fondazioni in pietra, decorate all’interno. Alessandria apparve a Beniamino di Tudela “ magna murorum” chiassosa e trafficata. Le sue alte case erano edificate sul vuoto per mezzo di arcate e pilastri, con un sistema sotterraneo di canali, cisterne e pozzi. Le strade erano larghe e dritte, il porto era dotato di un faro collegato alla terraferma da un lungo molo. Le case erano sviluppate verso l’alto, sopraelevate con cortili interni e loggiati, fabbricate di terra, tutte con la cupola con terrazzi. Dall’Africa, all’Europa, all’Asia, dovunque l’islam si espanse la preminenza della città rappresentò una costante. Da Samarcanda a Cordova la civiltà mussulmana fu una civiltà urbana notevolmente unita. come elemento di organizzazione non solo dal punto di vista religioso, ma anche politico amministrativo. I villaggi contadini non ebbero il grande sviluppo dell’area longobardo-franca in quanto il punto di riferimento era sempre la città. La grande proprietà laica e soprattutto ecclesiastica non apportarono profonde modifiche nell’assetto fondiario. Non si diffuse qui il modello curtense. Stesso discorso per il fenomeno dell’incastellamento, che prese piede a partire dall’XI e XII secolo con un carattere strettamente militare. Quindi assenza o non rilevanza dei centri demici rurali capaci di gestirsi autonomamente, tutto faceva riferimento alla città. Più a sud nella penisola, il quadro tende a complicarsi maggiormente a causa dell’articolato intreccio di situazioni politico-istituzionali e di influenze culturali diverse. La presenza franca fu meno incisiva mentre nei ducati di Spoleto e Benevento perdurò l’influenza longobarda; alla dominazione papale sul ducato romano facevano da contrapposto territori bizantini. In vaste zone dell’Italia centrale la persistenza di una frammentazione del potere di stampo longobardo portò ad un forte scadimento dei centri urbani. Zone inedificate, spazi verdi, campi, orti, cortili, edifici monumentali antichi trasformati in abitazioni, case a struttura chiusa, cellule edilizie costituite da più edifici raggruppati su un’area cortiliva comune si alternavano dando vita ad una realtà articolata sul piano insediativo. Per quel che concerne i materiali da costruzione le fonti scritte testimoniano di copertura dei tetti con assicelle lignee, tegole ed embrici, piombo oppure miste, del reimpiego di materiale, anche nobile come il marmo, ricavato dalla rovina o dalla demolizione di antichi edifici e dell’utilizzo in varie forme del legno. L’elemento caratterizzante del paesaggio dell’Italia centrale fu il processo di incastellamento, in particolare nel secolo X. La creazione di “castra” più spesso di nuovo impianto, ebbe un effetto dirompente sul tessuto insediativo e produttivo di larghe fasce del territorio. Ciò comportò una concentrazione dell’insediamento, all’interno di centri fortificati appositamente in tal senso strutturati, ma anche di abitati accentrati. Le Marche centro-meridionali, integrate più o meno nel ducato di Spoleto, assistettero a partire dalla fine del secolo IX, allorché i Franchi assunsero il controllo del territorio, alla diffusione di organismi curtensi ai quali si sovrapposero castelli che si posero come poli di coordinamento territoriale, amministrativo e fondiario. La piccola proprietà libera, che in queste terre resistette a lungo all’affermazione della grande proprietà curtense, continuò a vedere nel villaggio (in questo caso spesso accentrato) il punto di riferimento della vita della comunità contadina. Per la tipologia costruttiva degli abitati accentrati la documentazione ci suggerisce una struttura sviluppata a pianterreno. Il materiale da costruzione predominante sembra essere stato, oltre al legno la pietra, con murature sia a secco che con leganti. Nel territorio laziale ad ovest del Tevere si preferiva il tufo, mentre nella Sabina il calcare. Scarsa la produzione del laterizio, documentato più che altro per la copertura dei tetti, anche se era preferita una copertura con tavole di legno o con paglia. Nell’Italia meridionale coesistevano territori rimasti longobardi con altri controllati direttamente da Bisanzio. Le zone di dominio longobardo dalla metà del IX secolo si frammentarono. Il ducato di Benevento si divise nei principati di Benevento, Capua e Salerno disarticolati al loro interno in altre circoscrizioni e con un organizzazione dell’economia e del lavoro di stampo longobardo. In questo quadro i centri urbani non ebbero un ruolo importante, ruralizzati al loro interno nell’organizzazione degli spazi. Nei territori longobardi la precarietà e l’essenzialità degli edifici rurali era come nelle altre aree già trattate. Nelle aree della parte meridionale della penisola controllate dall’Impero d’Oriente o che registrarono parentesi di dominio longobardo, come la Puglia o la Calabria, i centri urbani continuarono ad avere un ruolo importante, anche se alcuni decaddero. La città, seppur ruralizzata, influenzava l’organizzazione del territorio, nel quale le tipologie insediative erano soprattutto a carattere accentrato. Per quanto concerne i materiali, accanto a soluzioni miste, gli edifici vedevano l’impiego del legno, laddove il suo uso era preferito per elementi accessori dell’abitazione. Nelle zone di tradizione bizantina, infatti, per il prevalere di una cultura improntata a modelli romani, a differenza di quelli germanici, non era previsto un massiccio sfruttamento del bosco. Capitolo II: Problemi di terminologia Per quanto riguarda la terminologia e le classificazioni delle tipologie costruttive è importante la documentazione privata. Quelle che definiamo “formule di pertinenza” sottointendevano spesso una concreta realtà, con una minuziosa dovizia di particolari precisi nella descrizione e delimitazione dei beni oggetto dei vari negozi giuridici. L’abitazione vera e propria veniva generalmente con il termine generico di casa o con il diminutivo casella, spesso specificato in casa habitacionis. Il termine domus in genere doveva riferirsi a costruzioni di maggior pregio. I due vocaboli sala e solarium facevano riferimento a due tipologie abitative diverse. Solarium e casa solariata suggeriva un abitazione che si sviluppava anche verticalmente, le menzioni di questo tipo di abitazione le ritroviamo nel corso dell’VIII secolo per case cittadine o concentrate in villaggi. Sala indicava invece un edificio sempre ad uso abitativo ma che si sviluppava soprattutto orizzontalmente, un pianoterra. Altri termini, fabrica, tectum, edificium, avevano invece un significato generico. Edificium dava un indicazione generale e faceva riferimento alla sola struttura materiale di una costruzione, era usato sia per l’abitazione in senso stretto che per i rustici e i servizi ad essa connessi. I termini fabrica e tectum spesso indicavano le costruzioni accessorie della casa, trattavasi di strutture ricoperte da un tetto, ma di cui non è possibile specificare altro. Era riferito alla struttura interna della casa il termine caminata, ricorrente nella documentazione dei secoli IX e X, indicava probabilmente un ambiente con focolare. Un elemento che ricorreva spesso nella documentazione longobarda era il termine fundamentum, per indicare il terreno sottostante una costruzione nel quale erano infisse le fondazioni. Lo spazio antistante o retrostante la casa, il cortile, attorno al quale generalmente erano dislocate le costruzioni “minori”, era denominato curte o area. Curte ha un significato più generico e ampio di spazio cortilivo, mentre area potrebbe riferirsi all’aia, a quella parte della “curtis” adibita a particolari operazioni agricole, come la battitura del grano. All’interno del nucleo abitativo era generalmente ricompreso l’orto, incdicato come orto/horto/ortoleo/ortalia. L’area complessiva del nucleo abitativo nella documentazione longobarda era indicato con il termine clausura, legato alla necessità di recintare, chiudere, difendere gli spazi abitativi. Altro termine che indicava il complesso ma usato dal IX e maggiormente nel X secolo era il termine sedimen. Per indicare la stessa realtà, cioè il nucleo abitativo comprendente casa di abitazione, servizi e annessi, sono attestati anche i termini casalivo/casalino o terra casaliva/casalina. I termini casella/casela indicavano generalmente beni di non rilevante entità, costruzioni di modeste dimensioni. Per alcune zone dell’italia settentrionale, tra l’VIII e X secolo sono attestati per indicare la dimora famigliare legata all’insediamento sparso il termine cassina, con le varianti casina/cascina/casceno/cassinola. Domus/mansio/palatium generalmente stavano ad indicare dimore di un certo pregio. Un carattere distintivo riguardante le caratteristiche strutturali dell’edificio veniva dato al termine “casa” dalla forma aggettivata casa riciolata, (risciola=selciato) si suppose che il termine indicasse una casa pavimentata, e quindi comunque abitazioni ben rifinite strutturalmente. Ritroviamo anche alcuni termini che testimoniano la struttura interna della casa, o parti specifiche. Camera lectaria, ci rimanda ad un edilizia alta. Altri termini più tecnici sono i paliatecta, costruzioni di paglia. Lo stabulum , ricovero per animali domestici e le bestie da lavoro. O per animali specifici come colombarium. o parti accessorie per gli animali come il bivilio, l’abbeveratoio. Capitolo III: Le tipologie costruttive Scarse sono le notizio che la documentazione scritta ci fornisce sulla struttura degli edifici adibita ad abitazione. Possiamo individuare comunque due tipologie costruttive fondamentali la casa solarium e la sala o casa terranea. ( vedi “Uomini e case” per le descrizioni e gli usi delle due tipologie abitative). Vittorio Fronza e Marco Valenti hanno iniziato la catalogazione e la classificazione generale delle strutture edili in materiale deperibile a livello europeo. Le piante degli edifici individuate sono dieci: rettangolare, quadrata, trapezoidale, esagonale, ellittica, circolare, irregolare, a barca, “longhouse” rettangolare, “longhouse” a barca. Le strutture di maggiori dimensioni, a due o più navate, o le longhouse caratterizzavano principalmente la realtà transalpina o anglosasone, più che quella italiana. Il termine “caminata” indicava un ambiente in genere suddiviso al suo interno, rimandando quindi ad edifici di una certa complessità costruttiva. Per l’edilizia povera il focolare spesso non era presente o non identificabile. Le condizioni di vita dei contadini migliorarono con l’invenzione delle stufe da riscaldamento e la costruzione di stanze di soggiorno riscaldate e libere dal fumo (stuben) che si diffusero nelle regioni al nord delle Alpi a partire dal XII secolo, e la costruzione di camini, condotti per il fumo, murati e non infiammabili, posti sopra focolari aperti, assai rari comunque nelle abitazioni contadine fino al secolo XV. La struttura organizzativa complessiva del nucleo abitativo, con la casa in senso stretto e parti annesse, rustici e servizi, si presentava identica sia per il centro di una azienda di consistenti dimensioni sia per il podere di un coltivatore dipendente o di un libero piccolo proprietario, così come per i nuclei accentrati nelle campagne, villaggi e castra, e per la città stessa. Facevano eccezione le città dell’area romanica, caratterizzate al loro interno dalla persistenza di un’edilizia civile ancora in parte legata a modelli costruttivi e soluzioni tecniche di derivazione romana. Anche la condizione sociale generalmente non determinava differenze del nucleo abitativo. Gli elementi di diversificazione si trovavano nella struttura materiale della abitazione vera e propria, nei materiali e nelle tecniche costruttive impiegati, nella maggiore o minore articolazione dei servizi. termine contrattuale. L’alto medioevo è stato definito “il mondo del legno”. Gli uomini di quei secoli avevano a disposizione vastissime foreste, da cui trarre con facilità il materiale da costruzione; tendevano a prendere e utilizzare ciò che era a portata di mano, una scelta comprensibile in un’età in cui i trasporti erano diventati difficili. Molti liberi proprietari possedevano precise capacità tecniche costruttive, infatti tra i servizi pubblici che erano dovuti in epoca carolingia, come già in età longobarda, oltre a quello militare era compresa la costruzione dei ponti. É soprattutto la contrattualistica che ci fornisce chiare indicazioni sull’attività edificatrice dei rustici. Tra gli obblighi del concessionario nei confronti del concedente spesso, infatti, era richiesta la costruzione della casa di abitazione e degli edifici secondari del “sedimen” ad opera del colono. Il colono doveva occuparsi anche dei lavori di manutenzione, miglioria, riparazione delle abitazioni sui fondi che otteneva in conduzione, oltre che delle opere di recinzione e riparo del nucleo abitativo. Esistevano comunque degli addetti alle costruzioni, degli specialisti, la cui attività costruttiva era rivolta a una committenza di un certo livello sociale. La documentazione è avara di notizie a loro riguardo, a conferma del fatto che la maggior parte delle abitazioni era opera degli uomini che in esse vivevano, non di personale specializzato, la cui attività era rivolta per lo più alla costruzione di edifici pubblici civili o religiosi, o privati di una certa importanza. Le maestranze specializzate nell’attività costruttiva, dedite esclusivamente a tale lavoro, erano opera dei “magistri”/“magister”. Della cui opera abbiamo testimonianze nelle carte altomedievali proprio a causa dell’eccezionalità e alta qualificazione della loro attività. A questi specialisti va attribuita poi una certa attitudine artistica, che è testimoniata da opere scultorie o costruttive firmate dall’artefice, dal “magister”. É soprattutto la legislazione longobarda che ci permette di avere un’idea delle opere che ad essi venivano commissionate. Le due rubriche 144 e 145 delle leggi di Rotari ci mostrano come un “magister commacinus” potesse avere con sé nell’opera di restauro e di fabbrica dei “consortes”, cioè persone legate a lui dalla compartecipazione all’impresa, che potevano essere altri “magistri commacini”. Siamo quindi di fronte a rudimentali imprese di costruzioni, che assumevano in appalto il lavoro, oppure accettavano anche di dirigere l’opera di servi di un padrone. Nel corso del IX secolo le testimonianze dell’attività di questi liberi artigiani/costruttori diventano sempre più rare, mentre cominciamo a trovare documentati artigiani specializzati nelle attività di costruzione dipendenti dei grandi proprietari terrieri, concentrati nei centri domocoltili delle aziende curtensi. Ci ricordano i “servi ministeriales docti aur probati” che l’Editto di Rotari elencava tra il personale che un grande proprietario teneva presso di sé, che utilizzava per le attività artigiane e le industrie domestiche e ai quali attribuiva un notevole valore. Con il termine “carpentarius” si indicava proprio l’addetto alla lavorazione de legno. Le prestazioni di opere artigianali garantivano una relativa autosufficienza della grande proprietà fondiaria per quel che riguarda l’attività edilizia, così come avveniva anche per gli altri settori artigianali. Capitolo V: Masserizie e suppellettili domestiche La maggior parte degli attrezzi agricoli, della suppellettile e degli arredi domestici doveva essere o doveva avere parti in legno, inoltre vi erano recipienti di ceramica e contenitori in altri materiali deteriorabili: vimini, pelle etc. spesso non si sentiva neppure la necessità di darne conto. Veniva registrata con una certa regolarità invece, la strumentazione in metallo o di altri materiale più o meno pregiati. In questo caso doveva trattarsi del lavoro di artigiani specializzati, mentre gli attrezzi in legno dovevano essere fabbricati dagli stessi rustici, probabilmente nei mesi invernali, allorché le operazioni di coltivazione della terra non assorbivano completamente le loro forze. La lavorazione del metallo calò drasticamente in Europa dal VI secolo, rendendolo particolarmente prezioso. Comunque la produzione di ferro diminuì, nell’alto medioevo, meno di quella di altri metalli quali il rame e il bronzo. Il ferro era necessario per gli strumenti da taglio e soprattutto per le armi. Era il più abbondante tra i minerali scavati nel medioevo e in generale lo si otteneva con minore sforzo rispetto a quello occorrente per estrarre i minerali contenenti piombo, rame e stagno. (Per la descrizione delle suppellettili, in genere scarse , vedi “Uomini e case”). La frequenza delle menzioni, anche se riferite a quantità poco consistenti, ci testimonia il valore che gli uomini del tempo attribuivano al loro corredo domestico (lo testimonia anche il diritto al “conquestum”), che doveva perciò essere fabbricato in quantità tale da soddisfare i soli bisogni indispensabili, in particolare gli oggetti in metallo avevano una grande rilevanza. Capitolo VI: Dopo il Mille: persistenze e cambiamenti Le capacità tecniche maturate dai rustici continuarono a lungo ad essere utilizzate nell’ambito della proprietà laica ed ecclesiastica. Le campagne diventarono anche un serbatoio di manodopera occasionale e saltuaria nei cantieri edili, cittadini e non, soprattutto nel periodo pieno- tardo medievale, caratterizzato da una ripresa delle attività edilizie, legata alla rinascita delle città e dei centri maggiori e alla penetrazione cittadina al loro interno e nelle campagne. Con la concentrazione della proprietà nelle mani dei borghesi cittadini, che la riorganizzarono in nuove strutture e che diffusero nuovi tipi di contratti agrari, come quello mezzadrile, si assistette ad un cambiamento, a iniziare dal Duecento, nelle modalità di costruzione delle dimore rurali. Il nuovo proprietario borghese, portatore di un’attenzione razionale verso l’attività economica e il guadagno, tese ad attuare una oculata sorveglianza del lavoro contadino ed una attenta gestione della sua azienda, per cui si occupò anche della costruzione e del mantenimento in buono stato del nucleo edile della stessa. Quest’ultimo doveva essere proporzionato alle terre ed alla famiglia e doveva garantire una certa autosufficienza per fare fronte alle esigenze della policoltura e dell’allevamento. In questo caso il proprietario borghese ricorse all’opera di maestranze specializzate, professionistiche, per edificare le sue aziende, dal momento poi che i contadini- mezzadri non dovevano essere particolarmente interessati, data la breve durata contrattuale, ad effettuare lavori che si risolvevano a vantaggio della proprietà e di cui potevano godere solo per breve tempo. Certo in alcune zone l’attività edificatrice continuò ad essere lasciata all’inventiva e alla fatica dei rustici. Per i secoli dall’XI al XV ci soffermiamo su alcune aree dell’Italia settentrionale e centrale che ci testimoniano della grande varietà delle situazioni insediative nel periodo successivo al Mille: la pianura lombarda, le campagne emiliano-romagnole e marchigiane, la Toscana, nei territori dove si diffuse capillarmente il contratto mezzadrile. Per le campagne lombarde la seconda metà del XIII secolo e i primi decenni del XIV rappresentarono un periodo cruciale: l’ordinamento comunale si sfrangiò evolvendo verso forme signorili e i Visconti raccolsero nelle loro mani il potere, attraverso lotte tra fazioni. Milano venne a coordinare attorno a sé, politicamente ed economicamente, tutta la regione ed anche alcune appendici in altre aree. Nella bassa pianura e nelle proprietà più recenti le strutture agrarie nel corso del Duecento subirono un rinnovamento e tesero a costituirsi in blocchi compatti. In questo senso agirono i Cistercensi con le loro grange, situate nelle campagne a sud di Milano, in una zona di popolamento rado, dove il possesso della terra non era ancora frantumato in mille mani come nell’alta pianura. La maggior parte della popolazione rurale era concentrata in villaggi, a volte protetti da apprestamenti difensivi; le stesse grange monastiche si trasformarono in molti casi in villaggi fortificati. Tuttavia nelle terre della Bassa, con la sostituzione dei cereali e altre coltivazioni con le foraggere, con la grande importanza assunta dalla produzione di foraggi e dell’allevamento bovino, fuori dai villaggi, cominciarono ad essere edificate strutture articolate e durevoli per rispondere alle esigenze di chi esercitava esclusivamente una attività di allevamento. Ciò nonostante ancora nel XV secolo l’habitat risulta prevalentemente accentrato. La cascina a corte si è sviluppata a partire dalla metà del XVI secolo. La grangia era uno spazio edificato complesso, organizzato e delimitato, fossato, muro di cinta, al cui interno gli edifici si raccoglievano attorno alla “curia”. Quest’ultimi, sia le case dei massari, che le stalle, il granaio, il dormitorio dei conversi e del “grangierius”, erano in muratura, con tetti coperti di coppi. Vi potevano essere piccoli edifici dalle funzioni particolari oppure una grande costruzione suddivisa in una serie di ambienti, chiuso tuto intorno, con una torre, la chiesa, la casera per la lavorazione del latte. L’area emiliana, la parte occidentale dell’odierna regione, sei secoli successivi al Mille subì anch’essa profonde trasformazioni nella sua struttura insediativa. Si assistette ad un infittirsi degli insediamenti rurali, in seguito all’espansione demografica ed agricola ed al progressivo frazionamento della proprietà fondiaria. La città intervenne attivamente nella riorganizzazione del territorio rurale: dal XII secolo fino al successivo promosse la fondazione di nuovi centri abitati. Questi ultimi i borghi franchi, erano quasi sempre circondati da strutture difensive. Nel periodo comunale si accentuò così il processo di accentramento dell’habitat, favorito dal disordine politico e dall’esportazione in ambito rurale di modelli cittadini di organizzazione dello spazio. Alla fine del XII secolo e nel seguente, nei territori da bonificare, di recente colonizzazione o vicini alle città, la penetrazione del capitale borghese apportò un cambiamento: la proprietà fondiaria frazionata fu gradualmente ricompattata (appoderata) e furono introdotti nuovi patti colonici, che anticipavano il contratto mezzadrile che si diffuse nel Trecento e soprattutto in età moderna. L’insediamento mezzadrile era di tipo sparso: ogni azienda territorialmente compatta, tendeva all’autosufficienza, isolandosi sul territorio. Tutto ciò favorì una nuova dispersione dell’habitat. Se guardiamo le tipologie costruttive degli edifici rurali peri secoli posteriori al Mille, notiamo un elemento di novità rispetto all’alto medioevo. Le residenze signorili si andarono differenziando nettamente dalle abitazioni contadine. Questo processo portò alla creazione della villa rurale, sia centro direttivo aziendale ma anche luogo del
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved