Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Utopia. Una storia politica da Savonarola a Babeuf, Appunti di Storia Moderna

Riassunto del libro Utopia di Girolamo Imbruglia

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 18/03/2023

filippodellepiane
filippodellepiane 🇮🇹

4.6

(9)

8 documenti

1 / 27

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Utopia. Una storia politica da Savonarola a Babeuf e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Utopia Girolamo Imbruglia Utopia Una storia politica da Savonarola a Babeuf INTRODUZIONE L’utopia si rivela essere centrale per la secolarizzazione politica perché riesce a mettere in evidenza le contraddizioni in atto. Analizzeremo la storia politica delle utopie della modernità. Si può dire che l’utopia nasca con il Rinascimento: la prima che analizzeremo è quella di Savonarola, che con le proprie profezie bibliche voleva promuovere una rigenerazione politica che trasformasse Firenze nella nuova Gerusalemme. L’Utopia di Moro fu la risposta al fallimento di Savonarola: egli pensò di poter cambiare la società partendo dal mondo reale, corrotto e ingiusto: nasce così l’utopia. Negli stessi anni, usciva il Principe di Machiavelli, che rispondeva a Savonarola con un ritorno alla realtà. Si apriva il dibattito fra profezia, utopia e politica. I temi dell’utopia Un tema centrale delle utopie è la religione civile: è la legittimazione sacrale del potere politico. Ha la sua genesi in Moro e si afferma talvolta accanto al cristianesimo, talvolta contro di esso. Per Rousseau, nel Contratto Sociale, stabiliva le regole di socievolezza e garantiva la coesione interna: non era il cristianesimo, ma una credenza individuale e collettiva nella vita sociale. Gli utopisti credevano quindi che con la religione civile i cittadini entrassero in relazione “fondendosi” fra di loro, mantenendo la propria personalità. Non a caso, un tema ricorrente delle utopie è la comunità dei beni, che serve a mantenere la concordia e a bloccare l’aggressività umana. Non era una comunione dei beni intesa in senso religioso: veniva percepita come derivante dal diritto naturale. L’utopia immagina delle società con una precisa struttura istituzionale e amministrativa. Questa police doveva guidare l’uomo alla felicità. La felicità derivava dal rinunciare agli interessi personali in favore di quelli collettivi. Gli individui dovevano identificarsi nello Stato, per cui era necessaria una sovranità. L’idea della sovranità comparirà nelle utopie solo dopo il Cinquecento: il governo era inizialmente legittimato dalla religione. In seguito, le utopie si emanciperanno dalla religione e approderanno alla sovranità popolare. È all’utopia che dobbiamo la nascita della concezione di un potere “spirituale”, capace di autoregolare la morale dei cittadini: ciascun individuo era solidale con lo Stato. In tal senso, l’utopia era opposta alla Politica di Aristotele. Si rappresentava una società perfetta, pensata e mai realizzata. I tempi dell’utopia Già nel Cinquecento, Bodin affermò che la soluzione religiosa proposta dall’utopia era deleteria poiché avrebbe causato solamente ulteriori conflitti. Bodin si appellò quindi al principio di sovranità, che assicurava ai cittadini tolleranza e libertà di coscienza. La police e la sovranità si proponevano come due strade alternative. Dopo Bodin, l’utopia iniziò ad astrarsi, scollegandosi dalla realtà storico-politica. Le scoperte geografiche, inoltre, limitavano lo spazio materiale in cui le utopie potevano essere collocate. Nel Seicento, quindi, rinasce un’utopia a stretto contatto con il tempo storico. I racconti utopistici, a partire dal Seicento, tendono ad essere produzioni letterarie simili a sé stesse. L’utopia diventa una categoria della storia e si cercarono nel passato delle realtà efficienti, dove le soluzioni ai disagi dei cittadini fossero concrete: Roma o Sparta, la Ginevra di Calvino, la Londra puritana, le missioni gesuite in Sudamerica. Erano tutte teocrazie. Il modello ideale non era repubblicano: era la teocrazia ebraica, che Aristotele ignorava. L’utopia sembrò quindi indirizzarsi verso la police, ma, a partire da Spinoza, ci si rese conto che questo sistema non garantiva la libertà, in primis quella religiosa. Si arriva quindi ad un terzo momento dell’utopia: quello illuministico. Si pensò l’utopia secondo la categoria della sovranità. Montesquieu propose di analizzare le utopie secondo le categorie politiche: dispotismo, monarchia e repubblica. La repubblica divenne un’utopia di libertà e giustizia. Con l’Illuminismo, l’utopia divenne una categoria con la quale pensare, oltre il passato e il 1 Utopia Girolamo Imbruglia presente, anche il futuro. Il 1789 realizzò una situazione che i lumi stessi non avrebbero creduto possibile. Se l’utopia non aveva portato alla rivoluzione, la rivoluzione portava però all’utopia. Si chiudeva definitivamente l’utopia come genere letterario e si sviluppava un dibattito politico che avrebbe condotto alla Congiura degli Eguali. I caratteri della narrazione utopistica Erodoto, viaggiatore e storico, può essere considerato il padre dell’utopia. Egli integrò elementi inventati nelle proprie ricostruzioni, per ottenere narrazioni coerenti di organizzazioni politiche di tempi e spazi remoti. Il viaggio divenne una condizione necessaria per pensare una società utopistica. Da Moro in poi, riprendendo Erodoto, tutti gli autori che si immaginarono delle società utopiche dovettero scontrarsi col problema della verità. Solo l’Illuminismo riuscirà a superare l’impasse, proiettando l’utopia nel futuro. Credere alle utopie Burchkardt distinse la storia culturale da quella politica e da quella antiquaria. La prima può riguardare anche ciò che è rimasto escluso dalla verità effettiva storica. Anche le fantasie, i falsi, i miti e le utopie sono elementi che definiscono una civiltà. L’utopia moderna è diversa dal mito. All’utopia classica non si era tenuti a credere, al contrario di quella moderna, che si basava sulla critica e sulla speranza di un cambiamento. Per gli autori delle utopie non era vano un racconto di una realtà mai esistita (e che forse mai esisterà), poiché permetteva di fare confronti tra il modello raccontato e quello presente. CAPITOLO 1. L’UMANESIMO E LO SPAZIO DELL’UTOPIA Dalla profezia all’utopia In Savonarola, l’elemento utopistico si sfalda e si ricompone nella profezia cristiana. Millenarismo ed utopia erano quindi in relazione. Nel Quattrocento si svilupparono visioni millenaristiche in aree del mondo distanti fra loro. Con lo sviluppo di commerci su scala globale, si andavano diffondendo anche le idee, che si contagiavano fra loro anche al di là delle aree monoteiste. Le scoperte geografiche producevano timori escatologici e speranze. Per gli antichi, la religione si basava sulla storia e sulla filosofia. Se il cristianesimo partiva da questa idea, con Gioacchino da Fiore la questione si complicava: l’Apocalisse assumeva un ruolo centrale nella cultura religiosa. La profezia era però una categoria erudita della storia sacra: non ci poteva essere una rottura o una conclusione che non prevedesse il ritorno di Cristo. Nella profezia, non era possibile l’apertura al mondo profano. Con la scoperta dell’America tutto cambiò: il mondo diveniva incomprensibile e la storia sacra non forniva più risposte sufficienti. Non è un caso che in questa epoca fiorirono, oltre al millenarismo, le riflessioni, i ripensamenti sul ruolo di Roma e i primi conflitti religiosi. Si diffuse la speranza di rinnovamento della Chiesa e di evangelizzazione del mondo intero. Il sentimento apocalittico prevalente si basava sull’attesa della venuta di un papa angelico. Benigno Salviati credeva che l’affermazione di un ordine rigenerato si sarebbe estesa a tutti i popoli, che avrebbero rinunciato alle false religioni. Si prefigurava così un’epoca di pacificazione universale sotto la guida di un unico Pastore. Salviati ammirava l’opera di Savonarola, che stava realizzando la nuova Gerusalemme a Firenze. Sant’Agostino fu una fonte comune per i millenaristi cinquecenteschi, poiché egli affermava che il cristianesimo era sempre esistito e che aveva assunto quel nome solo con l’avvento del Figlio. Moro riprenderà questa concezione, che mette in continuità il millenarismo con l’utopia. Moro però faceva riemergere il vero cristianesimo delle origini non dal ritorno di Cristo sulla Terra, ma dalla conquista razionale della verità. Moro depotenziò quindi per primo l’elemento religioso della profezia e avviò una secolarizzazione che condusse all’utopia. Il profetismo di Savonarola e il controllo spirituale della politica Lorenzo Valla riscoprì il cristianesimo in chiave umanistica e affermò che Dio era interessato all’uomo interiore e non a quello esteriore. Era già emerso Coluccio Salutati, che aveva denunciato la “barbara insolenza” di Roma pur non riuscendo a proporre un rimedio concreto: Coluccio non giunse mai ad una “discesa dal regno dell’utopia a quello della storia”. Savonarola partì dalle basi gettate da Salutati ed 2 Utopia Girolamo Imbruglia 4. Utopia e religione La religione civile professata è quella naturale, con un valore sociale e delle credenze specifiche. È una religione diversa da quelle razionali proposte nel Cinquecento: il culto è necessario, perché una religione funzionale alla politica richiede delle cerimonie. Per prendere parte alle cerimonie, bisognava avere un animo “puro e sgombro”. Il timore di Dio si traduce in una virtù sociale. Sull’isola di Utopia si credeva in un essere superiore, nella sua provvidenza e nell’immortalità dell’anima. La dottrina religiosa eudemonistica è seria ed austera: il benessere individuale si sacrifica a favore di quello collettivo. I sacerdoti, oltre ad ufficiare il culto, dovevano vigilare sui costumi. Nessun culto però implica lo spargimento di sangue. È una religione deista. Utopo, giunto sull’isola, aveva trovato un clima di tensione che gli aveva facilitato la vittoria. Una volta riuscito a trionfare, aveva stabilito la libertà religiosa: non era possibile che tutti condividessero una verità. Tutti dovevano però rinunciare alla conversione violenta: si poteva esercitare solo la persuasione. La religione civile doveva però essere condivisa, così come non poteva sussistere l’ateismo, incompatibile con quest’ultima. Gli atei erano quindi esclusi dalla società. La maggior parte degli utopiani erano monoteisti. Se ci fosse davvero stata una sola, vera religione, si sarebbe affermata in seguito. Itlodeo, che portava con sé testi greci, non aveva la Bibbia. Nonostante ciò, parlò agli utopiani di Cristo. La pratica del sacrificio individuale non era però concepibile per gli isolani, che l’accettavano solo se volta al bene della comunità. Togliere centralità al sacrificio di Cristo ma salvaguardarne il messaggio era stato il tentativo di Erasmo. Itlodeo si promise che avrebbe convertito gli utopiani al cristianesimo apostolico umanistico Erasmiano, l’unico compatibile con l’utopia. Alcuni intellettuali eretici italiani, fra cui Francesco Doni, si dichiararono abitanti di Utopia. Anche Sansovino si interessò all’Utopia e commentò che Moro aveva trovato un sistema ancora più efficiente di quello platonico per portare l’uomo alla convivenza Lutero e l’utopia nella storia In Utopia, alcuni cittadini si dedicavano alle scienze ed altri vi rinunciavano, consacrandosi all’agricoltura. La laboriosità era la via d’accesso alla salvezza. Lutero, di lì a poco, avrebbe minato questa concezione delegittimando il ruolo delle opere di fede. I movimenti settari che avevano anticipato Lutero, pur non prevedendo la salvezza per sola fide, affermavano la necessità di tornare al messaggio apostolico per poter rinnovare la società. Lutero guardava al Nuovo Testamento più che all’Antico: l’importanza attribuita all’individuo rendeva più difficile l’ispirazione utopistica. Inoltre, un’utopia non poteva realizzarsi in una realtà che tendeva alla ribellione sociale come la Germania delle Guerre Contadine. Per il loro entusiasmo millenarista, gli scritti di Müntzer e degli anabattisti a lui affini erano pre-utopici: l’imminente venuta di Cristo permetteva loro di ideare società diverse e giuste. In un humus in cui si fondevano umanesimo e radicalismo, si sviluppano le utopie luterane. Lutero guardava però con più interesse a Savonarola che non a Moro: egli non forniva appigli all’immaginazione utopica. L’instabile equilibrio fra protestantesimo e politica sfocerà nel calvinismo, che molto deve a Savonarola. Utopia e la difesa della civiltà europea Moro aveva immaginato un viaggio dall’Europa, dove la corruzione aveva ribaltato i valori cristiani, all’America, dove si viveva ancora in un’epoca preistorica, e infine all’Oriente, dove esisteva una società felice. Solo in Oriente si poteva immaginare un luogo capace di civilizzare l’Europa: l’America era da civilizzare. Alcuni esploratori avevano descritto la vita degli amerindi reputandola felice e ferma allo stato di natura. Moro e Vespucci la pensavano diversamente: per loro non erano società pienamente umane. Questa visione opposta deriva dal timore e dal fascino esercitato dall’ignoto. Boemus nel 1520 aveva denunciato lo stravolgimento della cultura europea ma al contempo affermava chela verità poteva essere restaurata. Per descrivere la società ideale, anche Boemus ricorse all’Oriente e alla comunione dei beni. La scoperta delle diversità (legata alle esplorazioni) spingeva gli europei ad interessarsi alle altre forme di civiltà. Moro invece si limitava a considerare la “società selvaggia” al di fuori dell’orizzonte della civiltà. Utopia, pur essendo di ispirazione orientale, si presentava quindi come una difesa della civiltà razionale europea di fronte all’inciviltà del Nuovo Mondo. Nel secondo Cinquecento, si sarebbero scoperti i regni 5 Utopia Girolamo Imbruglia degli indios e si sarebbe rivalutata la civiltà americana. Con la conquista di queste realtà politiche, si aprì un dibattito su quale trattamento andasse riservato agli amerindi. Las Casas, in particolare, giudicò gli indigeni pienamente umani poiché animati dalla bontà. Egli classificava tre tipi di società del Nuovo Mondo: c’erano quelle politiche (Perù e Messico), quelle con “quasi nessuna politica” (Florida), dove comunque si poteva introdurre il cristianesimo, vista la buona condotta di vita. e quelle totalmente prive di strutture politiche (nomadi del Nord America). Pur se barbari, i guerrieri nomadi del Nord erano comunque parte di una civiltà umana. Las Casas definiva la barbarie come un concetto relativo: per gli europei era barbara l’ignoranza delle Scritture. Montaigne e l’utopia della società selvaggia Anche Montaigne affrontò la barbarie come una categoria di relazione fra gli uomini. per Montaigne, le profezie erano testi sfuggenti ed improbabili. Non vide mai gli scritti di Gioacchino da Fiore né quelli dell’Imperatore Leone. In compenso, aveva ben presenti i conflitti di religione francesi, con le superstizioni e le profezie che ne derivavano. Pensò allora un mondo nuovo sulla base della ragione e dell’esperienza, più che delle profezie. Montaigne si concentrò sull’America: c’era da un lato un mondo politicamente strutturato che viene distrutto dalla violenza predatoria e vile degli spagnoli, dall’altro la sauvagerie degli uomini delle foreste brasiliane, che riuscivano a resistere alla conquista con più efficacia. Lo scrittore traeva le sue informazioni da un uomo rozzo ma disinteressato e privo di pregiudizi: un testimone degno di Erodoto. Anche nelle popolazioni selvagge, Montaigne vedeva la prospettiva di una vita felice e dignitosa, basata sulla semplicità più estrema. Il cannibalismo è barbaro, sì, ma anche le torture europee non scherzano, dice Montaigne. La società brasiliana appariva migliore di quella di Platone: era come il mito dell’età dell’oro. Se nell’Utopia di Moro gli uomini sono obbligati ad essere buoni, in Brasile lo sono spontaneamente: si contrapponevano un utopismo politico ed uno naturalistico. Montaigne con la descrizione della propria società selvaggia criticava quella europea: nelle foreste si riusciva a vivere senza conflitti e in Europa no. La società selvaggia era al contempo nella storia e al di fuori di essa: nasceva la dualità universalistica dell’utopia. Montaigne critica radicalmente anche l’etnocentrismo europeo: ogni popolo percepisce la propria civiltà come naturale, ma in realtà non esistono parametri universali per valutare le culture. Crollava anche la concezione della coscienza: non esistevano delle norme morali universali ma solo un insieme di valori stratificatisi nel tempo. Montaigne non fu l’unico “primitivista”: La Hontan si interessò agli indigeni del Nord America giungendo a conclusioni analoghe. Le sue riflessioni verranno lette da Leibniz, che definì quel mondo un “miracolo politico, sconosciuto ad Aristotele e non compreso da Hobbes”. Un aspetto interessante è che negli anni delle esplorazioni e delle conquiste in America, erano molti gli europei che sceglievano di unirsi ai selvaggi rinunciando ai valori europei. L’Europa terra di utopie. Rabelais Le due utopie finora presentate (di Moro e Montaigne) erano difficilmente raggiungibili. Rabelais invece immaginò di poter cercare un’utopia in Europa. Rabelais era un ammiratore di Moro: Pantagruele, figlio di Gargantua, era partito da Parigi per raggiungere l’isola di Utopia (da dove proveniva sua madre) per liberarla dai Dipsodi. Rabelais costruì quindi una topografia fantastica ma contempo ipotizzò che l’umanesimo potesse condurre ad un’utopia europea, dove “tutte le discipline sono restituite e le lingue instaurate”. Nel Gargantua, Rabelais immaginava l’abbazia di Thélème, dove uomini e donne convivevano all’insegna del libero arbitrio, ribaltando quindi i canoni della vita monastica o conventuale. Con l’unica regola di fare ciò che si vuole, a Thélème si conviveva nella virtù e si impartiva l’educazione alle scienze e alle lettere, alle arti cavalleresche e alla religione evangelica. Una volta istruiti, gli abitanti dell’abbazia ne uscivano e vivevano nel secolo secondo i principi che avevano appreso. Gargantua, con questa formazione, sperava che suo figlio Pantagruel divenisse un uomo completo. Nel frattempo, Moro veniva ripubblicato e tradotto e il suo testo veniva in parte stravolto: l’utopia ne usciva devitalizzata, senza critica e senza progetto, irrealizzabile. 6 Utopia Girolamo Imbruglia Utopia ed eresia nell’autunno del Rinascimento 1. Pucci e la salvezza del genere umano I maggiori eretici italiani del Cinquecento sono difficilmente definibili utopisti, Sozzini in primis: più facilmente ritornano alla profezia. Pucci era un eretico che spaziava fra la profezia e l’utopia. Le sue figure di riferimento per il cristianesimo erano Pico e Savonarola. Da Pico (e quindi da Erasmo) derivò la credenza nella possibilità di salvezza universale e nel libero arbitrio. Da Savonarola riprese la concezione profetica di una repubblica di Dio. Sarebbe morto sul rogo nel 1597. Pucci reputava assurdo che le lotte politiche distogliessero gli animi dalla religione. Enrico IV, a cui Pucci si era rivolto per trovare un interlocutore di rilievo, reputava assurdi i discorsi di Pucci. Pucci sosteneva che lo Spirito ispirava tutti gli uomini, per cui doveva esserci la libertà di parola, essendo le parole ispirate dallo Spirito. Il profetismo di Pucci derivava dalla sua interpretazione della giustificazione per fede dei protestanti. Nel 1577 progettò la Forma di una repubblica cattolica dalla forte impronta millenaristica. La salvezza era per Pucci aperta a tutto il genere umano, da prima della venuta di Cristo. Il regno di Dio era illimitato. La storia si scandiva in tre epoche (di Cristo e degli Apostoli, della decadenza, del ritorno di Cristo) secondo la concezione gioachimita. Pucci rifiutava però la predestinazione. La società millenarista non necessitava di essere descritta: bastava farsi guidare da Cristo. L’educazione rivestiva un ruolo fondamentale. La verità non risiedeva né nella Chiesa di Roma né in quella di Ginevra, ma solo nelle sette, parte della “chiesa invisibile”. La fede era un fatto individuale: gli apostoli avevano infatti riconosciuto personalmente Cristo. mentre si aspettava che la fede soppiantasse la corruzione ecclesiastica, al fedele non restava che il nicodemismo. La Repubblica di Pucci non era quindi una realtà territoriale, poiché non disponeva di un esercito e di una polizia. Era un’utopia invisibile. In Pucci non esiste quindi uno Stato né una religione civile. Per un certo verso ricorda la pedagogia di Rabelais, che insegna a vivere nello stesso mondo con valori diversi. Dopo le violenze della Saint-Barthélemy, Pucci si allontanò definitivamente dal cattolicesimo. Nelle prigioni romane dell’Inquisizione conobbe Campanella, ma i due parlavano dei linguaggi diversi: Campanella aveva letto Machiavelli e credeva nell’inscindibilità di religione e politica. 2. Bodin e la sovranità La società perfetta cinquecentesca, ruotando intorno alla police, cancellava il disordine della Storia. Ma l’utopia, che si contrapponeva staticamente alla realtà, poteva essere utile in un’epoca di trasformazioni? Jean Bodin si pose questa domanda nell’epoca delle guerre di religione. Per Bodin le visioni utopistiche di Moro e Platone non sarebbero riuscite a pacificare la Francia perché non affrontavano la questione del diritto pubblico. Per permettere una pace il più possibile indolore era per lui indispensabile la sovranità. La République (1576) poggiava sulla famiglia e sulla sovranità, due elementi fino ad allora rigettati dagli utopisti. Dalla sovranità dipendevano i magistrati e le leggi: permetteva di unire le famiglie fra di loro e allo Stato, creando un organismo perfetto. Lo Stato si caratterizzava per la propria capacità di imporre delle leggi senza avere alcuna autorità, nemmeno religiosa, che lo sovrastasse. La sovranità era una sorta di sacro fondamento del potere dello Stato di coercizione, imposizione e azione. Chi deteneva la sovranità (uno, pochi o molti, secondo la concezione aristotelica) controllava in modo esclusivo la police ma non aveva alcun potere di legiferare. Bodin entrava così in polemica con Machiavelli, che aveva fondato la politica sull’empietà e sull’ingiustizia e che non si proponeva, utopicamente, di risolvere la crisi politica. Per Bodin occorreva <elaborare regole politiche realistiche: una Repubblica stabilmente felice non lo era. Quella platonica era popolare e tirannica, violenta, poiché si deve ubbidire a delle leggi inabrogabili. Per Bodin, le leggi dovevano essere mutabili affinché garantissero la conservazione dello Stato, proprio perché derivavano dalla sovranità. Per Moro lo Stato doveva sorvegliare sulle famiglie e i beni dovevano essere condivisi. Bodin, al contrario, sosteneva che dovessero essere autonome e libere di detenere beni di proprietà. Il comunismo distruggeva le famiglie ed impediva la fede: Moro aveva immaginato uno stato impossibile. Bodin accolse dall’Utopia la periodicità delle cariche e il codice di leggi ridotto al minimo indispensabile. Bodin era il primo che metteva in relazione l’utopia al contesto storico-politico, mostrandone l’insufficienza e l’astrattezza. 7 Utopia Girolamo Imbruglia per quella della natura. Se Moro frenava gli istinti con la police, Campanella li eliminava con l’eugenetica. Vigeva un comunismo regolamentato (e quindi non primitivo, come per Montaigne) dei beni e delle donne. La scomparsa dell’amor proprio produceva una passione per la vita comunitaria. Tutti lavorano quattro ore al giorno e i più talentuosi accedevano ai vertici del governo. Non esistevano quei corpi intermedi che anche Machiavelli criticava. Campanella si ispirava ai racconti che gli giungevano dal mondo turco, in cui la popolazione viveva nella speranza del premio e nel timore della pena. Gli uomini devono dedicarsi ad una religione civile. Ai vertici dello Stato c’è un sacerdote “che è il Sole”. Gli sottostanno tre vertici dello Stato che si occupano della sapienza, dell’amore e del potere. I magistrati che esercitano la giustizia sono reclutati secondo un meccanismo religioso. Quando, al terzo grado di giudizio, interviene il Sole con una condanna, “tutto il popolo a man comune” uccide il reo. Tutti si confessano ai tre sacerdoti, i quali si confessano al Sole; egli sa tutti i mali dei cittadini e interloquisce con Dio. La religione solana è naturale, anteriore alla Rivelazione, ispirata alla cosmologia di Telesio. È una religione del sacrificio ma è incruenta. I cittadini scelgono un cittadino fra i più onesti, lo lasciano su una tavola di legno a pregare per un mese e lo trasformano così in un sacerdote. Quando scopriranno il cristianesimo, si convertiranno, poiché c’è continuità fra la religione naturale e quella rivelata. La Città del Sole è una misura universale dell’ordine sociale e religioso. L’ispirazione per l’opera proveniva dai molti segni astrologici che all’epoca venivano visti come il segno di un imminente arrivo di una nuova monarchia. La narrazione si conclude con uno squarcio apocalittico: i solani affermano che prima o poi tutti si sarebbero ridotti a vivere come loro. La profezia aveva una valenza politica. l’opera di Campanella era uscita poco tempo dopo il fallimento della rivolta di Stilo, che si era tradotta in un fiasco a causa delle profezie mal interpretate. Nonostante ciò, per Campanella la strada utopista era ancora aperta. Se nell’utopia di Moro il tempo del racconto rimaneva scisso da quello della realtà, nella profezia-utopia di Campanella i due si incontravano in una posizione ambigua. L’utopia passava da essere un’immaginazione spaziale ad un’ipotesi di futuro. Per sfuggire all’inquisizione, Campanella provò a spiegare la sua opera come un tentativo di immaginare un millenarismo imperiale e non come un invito alla ribellione verso la Spagna. La Città del Sole aveva aperto una prospettiva temporale che si era subito richiusa, perché era collocata nell’ambito dell’astrologia. Campanella rifiutava del tutto la logica della fortuna di Machiavelli. CAPITOLO 2. IL SEICENTO: LA SOCIETÀ IDEALE NEL PRESENTE Teocrazie A inizio del Seicento non c’era più spazio geografico per le utopie. Bisognava vedere un’altra società nel proprio mondo, passato o presente. La relazione fra utopia e tempo venne sviluppata in un’altra direzione rispetto a quella proposta da Campanella. Gli utopisti si riappropriarono del passato per edificare nel presente la società ideale. Si guardò alla teocrazia biblica. Nel frattempo, si iniziava a studiare la storia ebraica tramite la Bibbia, analizzata come una fonte. Mosè, come Numa, era stato un profeta armato che aveva avuto successo. Siamo nell’epoca dell’entusiasmo politico dei repubblicani puritani e ugonotti e delle colonizzazioni dei padri pellegrini. Hobbes e Spinoza avrebbero ritratto lo Stato teocratico sul modello ebraico. Se nel Cinquecento l’utopia aveva conquistato uno spazio di critica razionale, nel Seicento l’incontro fra utopia e teocrazia permise alla prima di toccare terra. 1. Giovanni Calvino e la disciplina della fede Verso la metà del Cinquecento la forza dell’immaginazione umanistica si era spenta. Non si immaginavano più modelli utopici astratti ma si ripensava alla realtà in termini razionali. Calvino rifiutava il nicodemismo: se la fede era vera doveva investire tutti gli aspetti della vita del credente. Il mondo del Vangelo, nella sua ottica, aveva sede a Ginevra. La fede per lui serviva a placare l’angoscia ma non a conoscere Dio. Con la predestinazione e l’impossibilità di conoscere il proprio destino, gli uomini erano esclusi dalla sfera del sacro. Mentre il cattolicesimo offriva il sacrificio di Cristo per la conciliazione e la salvezza, il calvinismo esigeva l’obbedienza degli uomini. Dio non era solo severo ma decisamente malvagio. Occorreva costruire 10 Utopia Girolamo Imbruglia un sistema sociale ed etico al quale sottomettersi. Dio era assoluto e silenzioso come quello veterotestamentario. Bisognava considerare la realtà per quello che era e non era consentita la dissimulazione. Il calvinista doveva mantenere il proprio posto nella scala sociale perché il lavoro aveva un valore sacro. In Francia divennero ugonotti i funzionari pubblici, che assumevano così i tratti dei santi e si percepivano al di fuori del sistema feudale. Il santo era un uomo politico. 2. La respublica hebraeorum Flavio Giuseppe, storico del primo secolo dopo Cristo, parlava della monarchia ebraica come di una realtà non inscrivibile in una delle tre categorie politiche di Aristotele. Per Flavio Giuseppe gli ebrei vivevano in un’assurda (ma originale) teocrazia. Egli analizzava l’ebraismo con una mentalità ellenistica. “Non è Dio che impone la legge a Israele per mezzo di Mosè, ma è Mosè che impone Dio a Israele per mezzo della legge”. Tra Cinque e Seicento si derivò da queste considerazioni che lo Stato giusto poteva essere costruito solo con un patto con Dio. Bodin reputava Israele uno Stato privo di particolari valori ideali o religiosi: era per lui una semplice monarchia. Il dibattito all’epoca era acceso. Fu Erasto, seguace di Zwingli, ad introdurre la parola teocrazia. Erasto sosteneva che nella Bibbia si dicesse che solo il potere civile poteva regolamentare quello religioso (e non il contrario!). In una teocrazia, però, il potere civile era detenuto da Dio stesso. Gli ecclesiastici dovevano quindi essere sottoposti al potere civile. Per Erasto, inoltre, lo Stato doveva garantire la concordia, quindi doveva tollerare le altre confessioni poiché il multiconfessionalismo non metteva a rischio l’ordinamento civile. La tesi di Erasto si scontrò in Olanda con quella dei calvinisti durante lo scontro con la Spagna. Prevalsero i calvinisti, che si imposero nella formazione della nuova Repubblica. Tra i sostenitori di Erasto c’era Ugo Grozio. Egli sottolineava che se Dio aveva creato uno Stato a lui gradito (quello ebraico), allora ci si doveva ispirare a quello. Il potere civile poteva intervenire per correggere gli errori religiosi solo quando questi avevano un effetto nocivo sulla società. C’erano alcuni pilastri universali della religione cristiana: Dio era uno e buono, trascendente, autore della provvidenza e creatore. Tutti gli altri particolarismi erano irrilevanti. Cunaeus avrebbe ripreso la tesi di Grozio aggiungendo che doveva essere instaurato un sistema fiscale omogeneo ed imposta una legge agraria che impedisse l’oppressione dei piccoli coltivatori. Cunaeus immaginò che gli apostoli e gli evangelisti, tornati sulla Terra, si stupissero delle superstizioni. Viaggiando da un passato utopico verso il presente, gli apostoli avrebbero suggerito come costruire uno Stato giusto. Il cristianesimo razionalista di Grozio sarebbe stato rifiutato da Rousseau: la religione civile illuminista non era né romana (alla Machiavelli) né cristiano-deista (alla Grozio). 3. Le missioni gesuite in Paraguay Nel mondo cattolico non si parlò di teocrazia: un sistema del genere metteva in discussione le autorità politiche di Francia e Spagna. Furono però teocratiche le missioni gesuite fondate in Paraguay dal 1600 al 1750 circa. Chiamati in Sudamerica dalle autorità spagnole, i gesuiti si impegnarono per la “conquista spirituale” delle colonie. Elaborarono una teoria sul funzionamento del mondo selvaggio americano. Essi vivevano pacificamente in piccoli gruppi, condividendo i beni ma mantenendo un’organizzazione sociale precisa. Per i gesuiti, i selvaggi andavano prima fatti diventare pienamente uomini e poi cristiani. Furono costretti a sedentarizzarsi in dei villaggi che ruotavano intorno alla chiesa dei gesuiti. Ognuno coltivava un piccolo appezzamento di terre ma tutto veniva conservato in dei magazzini comuni. Le gerarchie erano severamente imposte e i reati erano puniti con pene corporali pubbliche. I gesuiti erano sostanzialmente autonomi dalla Spagna. Instaurarono così una vita fondata sul lavoro e sulla preghiera. Vennero stampate opere religiose in lingua guarany (e si insegnò agli indios a leggere e scrivere) e vennero costituiti anche degli eserciti difensivi. In Europa, arrivavano racconti utopistici sul funzionamento delle missioni: le voci che raccontavano erano ispirate dalla medesima ideologia e quindi fornivano resoconti coerenti in cui si esaltavano i successi dei gesuiti. Si raccontava che gli indios avevano aderito spontaneamente al governo spirituale, sottoponendosi alla police cristiana. Imitando le prime comunità cristiane ed isolandosi rispetto agli altri europei, si era ottenuta una sorta di Repubblica di Platone. I gesuiti rifiutarono ogni collegamento con il progetto utopico di Moro e con la teocrazia ebraica. Ci si rifaceva solo alla Chiesa primitiva. 11 Utopia Girolamo Imbruglia 4. Il sacro esperimento dei puritani I calvinisti si rifacevano alla teocrazia ebraica ed affermavano che la loro opposizione ai governi monarchici europei era come la fuga in Egitto per gli ebrei. Nel 1630 alcuni puritani si imbarcarono per l’America in cerca di un luogo dove costruire la nuova Gerusalemme. Erano convinti di aver fatto un patto con Dio. Trovarono nell’America la dimensione dove realizzare l’utopia teocratica. Andreae, lettore di Campanella, aveva immaginato una Christianopolis in cui vigeva un comunismo dei consumi ma non delle proprietà e in cui si professava una religione animata dall’amore verso il prossimo. Era una società priva di conflitti e democratica, dalla chiara ispirazione luterana. I puritani partivano dal modello politico divino per rivoluzionare la società. Occorreva individuare delle forze sociali capaci di abbattere il muro di corruzione e di creare delle comunità gradite a Dio. Nel 1641 un ministro puritano inglese affermò che tutte le istituzioni statali necessitavano di essere riformate. Si pensava ad una Repubblica dei Santi, che per i più radicali sfociava nel comunismo. Rispetto al comunismo di Moro, Winstanley, portavoce di questi radicali, dava maggior importanza all’economia di scambio. Per conciliare comunismo e commerci proponeva di ripristinare il baratto. Gli ugonotti francesi tentarono di portare avanti dei progetti di rinnovamento in patria; i puritani inglesi, perseguitati da Maria Tudor, divennero esuli rivoluzionari. 5. Oceana, la Repubblica di Harrington Harrington compì il passaggio verso un’altra storia ed un’altra sovranità: il prete diventava patriota. Nel 1656, durante l’epoca di Cromwell, scrisse Oceana per cercare di identificare le cause dell’affermazione del sistema repubblicano in Inghilterra, che egli reputava dannoso. La colpa di Carlo I era quella di non essere riuscito ad instaurare una monarchia mista. Harrington analizzò le maggiori costituzioni repubblicane: c’era un aspetto in comune: il Senato proponeva le leggi, i cittadini le approvavano e i magistrati le facevano rispettare. Per la Gran Bretagna. Harrington immaginò quindi Oceana come una realtà politica che potesse ispirare l’Inghilterra. Le istituzioni dovevano garantire la ragionevolezza della vita per tutte le classi sociali (diversificate e con compiti specifici). Non vigeva l’uguaglianza politica. La legge agraria, alla base della stabilità di un governo, era di ispirazione biblica e limitava la proprietà, principio naturale e fondamentale che determinava il bilanciamento dei poteri: le proprietà fondiarie ruotavano periodicamente così come le cariche. La Roma antica era condannata poiché incapace di produrre la concordia. Esistevano dei preti ma erano scelti con procedure democratiche: il potere religioso dipendeva da quello politico. La sovranità era per Harrington un concetto confuso, ricavato da tradizioni eterogenee: per questo motivo Montesquieu lo relegò tra i legislatori fantastici. Il rapporto fra religione e politica appariva ancora confuso. La teocrazia ebraica, comunque, segnava la strada per unire all’utopia la realtà storica. I calvinisti erano comunque consci dell’impossibilità di realizzare la società perfetta voluta da Dio. L’ebraismo politico si sarebbe rivelato essere una strada senza sbocchi. I fautori della teocrazia sarebbero diventati cittadini e patrioti di un modello che spesso si rifaceva a Roma, realtà sincretica, con pochi dogmi in materia civile e nessun dogma religioso. Hume, tuttavia, avrebbe elogiato Harrington per essere riuscito ad aprire la strada al repubblicanesimo britannico. Con Harrington si chiudeva l’epoca delle repubbliche utopiche in Inghilterra: dopo di lui, ci si sarebbe concentrati sui modelli di “monarchia limitata”. Il declino del modello ebraico era probabilmente legato alla fine dell’entusiasmo religioso. Lo Stato ebraico si ridusse ad un oggetto di analisi storica. Spinoza e la rinuncia alla teocrazia Per Spinoza era impossibile progettare nuove realtà: nella storia si era visto ogni genere di organizzazione. Le teorie dei suoi contemporanei erano solo chimere. La filosofia che incolpa gli uomini di seguire le passioni è del tutto distante dalla realtà. I politici reali, al contrario, si facevano rispettare grazie alla propria passione per la paura. Erano preferibili ai filosofi perché parlavano di cose effettuali. La scienza politica doveva porsi il problema di unire la teoria alla pratica e doveva comprendere, più che deplorare. Spinoza analizzò quindi le forme aristoteliche del potere (monarchia, aristocrazia e repubblica): condividevano un carattere assoluto. Ogni altra forma, inclusa la teocrazia, era un mito. La religione era un linguaggio del 12 Utopia Girolamo Imbruglia socialmente, si erano uccisi l’un l’altro. Erano sopravvissuti solo due uomini dotati di pietà, che originarono una nuova società. La religione addolcì i rudi costumi e la società visse come se fosse una sola famiglia. Di fronte al pericolo di un’invasione, tutti combatterono per la salvezza dell’altro. Essendo cresciuta la società, i trogloditi decisero di darsi un re. Non rispettando la propria natura, ma scegliendo di essere virtuosi sotto la guida di un capo, i trogloditi si indirizzarono verso un’inevitabile corruzione. 3. Lo spirito delle leggi: la repubblica nella storia Se in Europa non era possibile né la società naturale dei trogloditi, né la repubblica sul modello romano, a cosa serviva pensare all’utopia? Nello Spirito delle leggi, Montesquieu osservò che i principali teorici politici non avevano praticato in prima persona la politica. la teoria politica non poteva essere come le fantasiose ipotesi di questi personaggi: doveva partire dalla storia. Modificò la tripartizione aristotelica: vi erano monarchia, repubblica e dispotismo: non c’era posto per la teocrazia: non a caso, furono vani i tentativi dei puritani rivoluzionari inglesi di instaurare una democrazia. La politica esigeva una distinzione fra le leggi divine e quelle umane. L’utopia poteva avere un proprio spazio se veniva ripensata in modo politico. In una repubblica utopica era necessaria non una legge agraria, ma una prospettiva di comunione dei beni sollo stile delle missioni dei gesuiti. Oltre a ciò, secondo il modello platonico, erano necessarie l’assenza di denaro e l’educazione generale. I legislatori di questa repubblica frugale avrebbero prodotto l’arte senza il lusso. Condensata la tradizione utopica precedente, Montesquieu la trasmise a quella successiva. Divenuta repubblica, l’utopia perse la police e acquisì la sovranità. Distinse quindi le leggi e i regolamenti di amministrazione: “nell’esercizio della polizia (tramite i regolamenti ndr) è il magistrato che punisce piuttosto che la legge”. “Il trionfo della libertà si ha […] quando cessa ogni arbitrio, la pena non deriva dal capriccio del legislatore ma dalla natura della cosa; e non è l’uomo che fa violenza all’uomo”. Si ritrovano quindi tutti gli elementi della tradizione utopista ma inseriti in un discorso della realtà. All’utopia si riconosceva la forza di progettare una realtà alternativa. Non poteva però essere gratuita immaginazione, ma doveva unire antropologia e storia, diventando il pensiero del futuro. Montesquieu ha quindi costruito la teoria dell’utopia più che rappresentarne una nuova come aveva fatto per la società dei trogloditi. Fu una svolta radicale. 4. La comunità dei beni Montesquieu teorizzò la comunità dei beni a partire dalla Repubblica di Platone. Rifletté comunque anche sulle società comuniste dei selvaggi, che rimasero escluse dalla tripartizione poiché non politiche. Per tutto il XVI, pensare all’utopia significava confinare nello spazio mentale una società comunista. Con l’avvento di Bodin, che aveva introdotto l’obbligo di distinguere fra sfera pubblica e privata, la condivisione dei beni venne accantonata. Per quanto fosse esteso lo spazio pubblico, quello privato doveva esistere necessariamente. Il rapporto fra pubblico e privato era alla base del rapporto fra Stato e famiglie. Secondo Bodin, se veniva meno uno dei due termini, la società cadeva. Anche Sparta, dove la vita dei cittadini era organizzata collettivamente, conosceva la proprietà privata. Il fallimento degli anabattisti di Münster non era casuale. Nel Seicento il comunismo venne pensato alla luce del diritto naturale. Questa prospettiva si mantenne fino alla Rivoluzione. Grozio, il primo a sostenere questa nuova concezione, era interessato a capire come si fosse originata la proprietà a partire dalle comunità comuniste selvagge. Il genere umano aveva ricevuto dalla divinità il diritto di appropriarsi di ciò che la natura gli forniva. Per Grozio il comunismo si poteva riscontrare presso i selvaggi, le cui comunità erano poco strutturate, o presso le comunità apostoliche cristiane, che poggiavano sulla carità. Le comunità selvagge avrebbero abbandonato il comunismo quando iniziarono a crescere di volume diventando socialmente instabili. Anche la società commerciale, che presupponeva la proprietà, si rivelò essere pacifica. In questa nuova società, comunque, la proprietà collettiva, pur ridotta ai margini, non scomparve del tutto e riemerse nei casi di estrema difficoltà. Il comunismo apostolico invece ebbe una vita breve, dopo la drammatica esperienza di Müntzer. Cattolici e luterani smentirono inoltre che le prime comunità cristiane della storia fossero vissute condividendo i beni: 15 Utopia Girolamo Imbruglia era un falso storico propagandato da anabattisti e millenaristi. Il mondo cristiano chiudeva ogni strada alle utopie: anche grazie a questa chiusura, il pensiero politico si indirizzò verso la secolarizzazione. Hobbes contestò Grozio: la condizione primitiva non poteva dirsi quella di una società. Nello Stato di Natura, l’uomo viveva un’esistenza brutale, povera e dominata dalla paura di una morte violenta. Le famiglie primitive erano perennemente in lotta fra di loro. Fanno eccezione alcuni casi, come quello degli indigeni americani. Lo Stato politico nascerebbe per bloccare la condizione di violenza e per cancellare la comunità dei beni, che è all’origine del conflitto. Pufendorf avrebbe contestato a Hobbes che l’uomo è un “animale socievole, cioè destinato dalla natura a vivere in società con i suoi simili”: c’era differenza fra società e Stato! Locke avrebbe sviluppato la distinzione di Pufendorf fra Stato e società. La vita selvaggia poteva essere priva dell’avidità, dato che questa era una conseguenza dell’accumulazione. Per Locke era possibile la vita “povera ma virtuosa”. La comparsa della proprietà aveva provocato la nascita dell’antagonismo sociale e dei confitti, che per essere frenati, necessitavano della nascita di uno Stato. Dove non si era mai originata la proprietà la popolazione era così scarsa che non si originavano conflitti per le risorse (come in molte aree d’America). 5. Montesquieu. Una “grande libertà” Montesquieu riprese Locke: i popoli americani mostrano come doveva essere l’Europa prima della scoperta dell’agricoltura. Rispetto a Locke, che sottolinea la povertà dei selvaggi, Montesquieu accentua l’abbondanza delle risorse (gli indigeni si nutrivano del mais che cresceva spontaneamente) ridimensionando così l’etnocentrismo europeo. Analizzò le condizioni ambientali che permettevano ai selvaggi di prosperare. Non essendoci una struttura politica, la guida delle comunità. La vastità dei territori consentiva ad ognuno di mantenere una sostanziale libertà del cittadino. Quest’ultima è una considerazione ambigua: se si parla di cittadino, si intende che la famiglia svolge il ruolo di una realtà politica? in ogni caso, era una società dell’uguaglianza. Non essendoci l’agricoltura non esisteva il denaro: i pochi bisogni che ciascuno aveva erano quindi facilmente soddisfacibili. I tempi lunghi dell’agricoltura necessitavano infatti di un sistema di scambi che consentisse ai coltivatori di sfamarsi: è così che nasceva la monetazione (e delle leggi che lo regolassero). Lo Stato è quindi una conseguenza dell’agricoltura. Si poteva tornare ad una situazione di uguaglianza all’interno dello Stato repubblicano, ma occorreva che le leggi distribuissero equamente il lusso o imponessero a tutti la frugalità. La repubblica, quindi, soddisfa i bisogni ma reprime i desideri. Nel comunismo dei selvaggi, invece, non venivano repressi i desideri. Con la formazione dei grandi Stati, però, le repubbliche comuniste erano scomparse: per Montesquieu era impossibile che convivessero realtà politiche che riconoscevano la proprietà con altre che non la consentivano. Nonostante ciò, molti pensatori settecenteschi avrebbero immaginato piccole realtà comuniste all’interno degli Stati politici. Il merito di Montesquieu era quello di aver distinto due tipi di realtà comuniste e di averle comparate. Nella società comunista naturale c’era uguaglianza effettiva ed indipendenza ma non esisteva la libertà politica, non esistendo le leggi; nella società comunista repubblicana esisteva la libertà, ma l’uguaglianza era sfuggente e veniva represso il desiderio. Montesquieu si riconobbe il merito di aver indagato cosa fossero la libertà e l’uguaglianza. L’utopia philosophique Gli illuministi spingevano ad interrogarsi sulla natura del governo e su quella dell’uomo. Nelle analisi inglesi l’utopia fu assente. La società settecentesca veniva rappresentata come un esito irrinunciabile di un lungo percorso, dove l’irrazionalità del feudalesimo era stata sconfitta con una serie di eventi fortuiti. Adam Smith sostenne che per fondare un vero impero era necessario liberarsi di ogni forma di immaginazione utopica per poi svegliare il popolo. In Francia, invece, non si rinunciò all’utopia. Il mondo sembrava infatti indirizzarsi verso il dispotismo e la missione civilizzatrice europea si palesava come mera violenza. La società europea appariva come un cumulo di macerie da cui, però, i philosophes avrebbero costruito un mondo nuovo. 16 Utopia Girolamo Imbruglia 1. Rousseau. Libertà ed eguaglianza Il Contratto sociale non fu propriamente un’utopia: non c’era il salto verso un comunismo integrale né un sogno fuori dal tempo: l’utopia non era più considerata un mito, ma come parte dell’histoire philosophique. 2. Rousseau. Il Primo Discorso sulle scienze e le arti Nel 1750, Rousseau pubblicò un articolo nel quale affermava che la rinascita delle scienze e delle arti non aveva migliorato i costumi. D’Alembert avrebbe contestato la sua visione nella prefazione all’Encyclopédie. Per Rousseau, il progresso aveva portato all’affermazione dell’individualismo a discapito dell’ethos pubblico. Condannava il lusso, che vedeva originarsi dalla divisione del lavoro. Il lusso si accompagnava con disuguaglianze, che originavano i conflitti e la corruzione. Proliferavano così incontrastate le passioni distruttive. Anche la cultura era funzionale alla corruzione, tant’è che la filosofia era una ciarlataneria. La società contemporanea, basata su leggi irrazionali, poteva sfociare nel dispotismo o disintegrarsi. Pur non disprezzando la semplicità del mondo primitivo, lo considerava un modello impraticabile e troppo distante. Non fece il salto nel mito e aprì uno squarcio sul proprio mondo. Nelle campagne vilipese resisteva ancora un senso di comunità: ne parlò nella Nouvelle Heloïse. L’utopia è quindi affidata a coloro che producono utilità ed uguaglianza. Collocarla nel presente implicava che nella storia convivessero modelli di società differenti. Si apriva un dibattito sul rapporto fra utopia e storia. Rousseau non voleva quindi riuscire a rendere tutti gli uomini buoni nel presente (o nel futuro): si limitava a descrivere la realtà. La negazione di un futuro mitico per l’utopia portò i philosophes a scontrarsi con gli utopisti naturalisti. Un altro tema era quello della frugalità, condizione necessaria per la libertà e la felicità. 3. Rousseau. Il Secondo Discorso sulla disuguaglianza Anche qui la soluzione utopista è assente. Per Rousseau il male non era imputabile né all’uomo né a Dio, ma alla società. Occorreva trovare le origini del male sociale. Una volta nate le prime comunità in seguito alla sedentarizzazione, sorsero le prime forme di competizione che rovinarono l’originale felicità ed innocenza. In quello stadio intermedio in cui l’uomo non è più primitivo e non ancora individualista, dovette essere l’epoca più felice, caratterizzata dall’equilibrio. Quel mondo si infranse quando dovette essere diviso il lavoro, venne istituita la proprietà e sorsero le vendette. L’individuo, spinto dalla propria perfettibilità, perse la propria natura per crearsene un’altra. Lo sviluppo tecnico portò ad uno stato di continua belligeranza. I più forti si imposero e gli altri, pur di soddisfare le proprie passioni, preferirono avere padroni. Si imposero la proprietà, il lusso e la disuguaglianza. Ci furono tre rivoluzioni in successione: vennero istituite delle leggi, poi delle magistrature e infine si ebbe il dispotismo. Il ricco e il povero si trasformarono progressivamente nel padrone e nello schiavo. L’energia sociale, capace di ribaltare il dispotismo in futuro, restava però intatta. Con questi due Discorsi, Rousseau aveva presentato una differente idea di utopia: nel Primo, l’utopia risiedeva nella vita in comunità, nel Secondo era invece ferma alla soglia fra natura e storia. 4. Rousseau. Économie Politique. Governo e società Descrisse la genesi e l’azione del governo. Nei due Discorsi già pubblicati, infatti, rimaneva difficile capire quale dovesse essere il rapporto fra il governo e la sovranità. Nell’Économie Politique, Rousseau spiegava che il governo (o la volontà generale) poteva rendere virtuosi gli uomini con l’educazione all’amore per la patria, alla virtù e alla ricerca della felicità, o con il principio del Salus populi suprema lex esto. Questo principio veniva declinato in un modo innovativo: l’interesse dello Stato doveva contenere quello di tutti, il più modesto doveva essere trattato parimenti agli altri, il sacrificio per il paese non può che essere volontario. Se si imponesse il sacrificio del singolo, lo si farebbe a tutela dei governanti, che si paleserebbero come tirannici. Il problema di fondo della politica era che tutti i legislatori non avevano considerato la volontà generale come la forza costituente dello Stato. 17 Utopia Girolamo Imbruglia liberatore: il liberatore lo avrebbe disgregato. Era però possibile realizzare delle riforme graduali, sotto la guida delle élites. 11. Mably e Condorcet: davanti alle rivolte Negli anni ’70 si diffuse una mancanza di fiducia nei confronti delle riforme. I philosohes si sentivano come assediati dalla déraison. Analizziamo la visione di due filosofi diversi nei confronti della medesima rivolta. In Europa si diffondevano le rivolte popolari. In Francia, Turgot presentava al governo il progetto fisiocratico. Necker vi si oppose poco dopo e si scatenarono le rivolte contadine. Condorcet, un filosofo deista, si schierò a favore di Turgot e difese il progetto liberista. All’origine delle rivolte c’era la miseria, che aveva portato all’imposizione di un calmiere dei prezzi del grano. Condorcet sostenne però che i miseri contadini rivoltosi erano guidati da quelli più agiati. Nelle campagne si diffondeva l’idea che la miseria fosse una conseguenza dell’esistenza della proprietà. Il popolo si infiammava secondo Condorcet perché era incapace di capire quali fossero i propri interessi. La proposta del filosofo era quindi quella di seguire il modello dei gesuiti: pane, religione e colpi di frusta. Si notava che il comunismo utopista non era più un’idea intellettuale ma diffusa tra gli ignoranti e gli irrazionali. Un fautore del comunismo era invece Mably, che ipotizzava una società dove si dividevano le responsabilità politiche e i frutti del lavoro. I magistrati pubblici, mossi dalla passione della gloria, avrebbero impedito la diffusione dell’ozio nella società. Mentre gli europei fingevano di civilizzare gli indiani d’America, Platone, a suo dire, avrebbe potuto fondare una Repubblica con loro. Approvava anche le missioni gesuite del Paaguay, dove l’assenza di proprietà a parità del lavoro garantiva che non si sviluppasse la corruzione. In Europa non c’era però spazio per questo ideale: c’erano grandi masse di uomini-schiavi, che non sopravvivevano del proprio lavoro. La progettazione utopistica risentiva dell’osservazione delle condizioni di vita degli operai europei. In seguito alla guerre des farines francese, Mbly cambiò opinione. L’ideale comunista gli sembrò un pericolo. Si mettevano in moto forze sociali ostili. Stizzito, abbandonò il comunismo e l’utopia. Era preoccupato dall’ipotesi che il popolo potesse abituarsi alla “fermentazione”. Immaginava che il furore sarebbe potuto esplodere e che il governo difficilmente sarebbe riuscito a domarlo. Di fronte ad una realtà che superava le loro teorie, gli illuministi diffidavano quindi di loro stessi: Condorcet metteva in bocca le utopie illuministe ai contadini e Mably rinunciava ai propri ideali. 12. Diderot: dentro e fuori la storia Escluse alcune voci dell’Encyclopédie, le opere di Diderot erano rimaste a lungo inedite o erano state pubblicate anonime. Egli fu considerato un utopista perché gli si attribuì il Code de la nature di Morelly. Al di là di ciò, la sua idea della politica era estremamente interessante. Analizzò l’utopia secondo le due prospettive che erano emerse dopo Montesquieu: quella storico-filosofica, un’utopia repubblicana, e quella mitologica, una società “mezzo civilizzata, mezzo selvaggia”. 13. Diderot. Isole Immaginò un gruppo “entusiasta ed appassionato” che si era diretto a Lampedusa per fondarvi una società libera e felice. Era un gruppo di poeti, attori e artisti “che riflettono poco”. Erano esclusi dal gruppo gli spiriti timidi, ignari di cosa fossero la passione e la ragione. Gli entusiasti utopisti avevano in sé la legge di natura e i diritti umani. La chimera della comunità felice doveva farsi realtà, ma poteva farlo solo negli interstizi della società settecentesca, lontano dai centri di potere. Nell’ Encyclopédie non c’era la voce “utopia” ma erano comunque inserite alcune visioni utopiche. Le narrazioni di Platone e Moro erano soltanto “scherzi filosofici” non in grado di procurare la felicità. Erano narrazioni vacue, lontane dalla storia e contrarie alle leggi di natura. Ouessant, una delle isole utopiche inserite nell’Encyclopédie, la proprietà non era stata del tutto abolita, ma il cristianesimo apostolico e il sentimento di socialità poneva rimedio alle difficoltà ad essa legate. Del cristianesimo si evidenziava l’empatia e si rifiutavano i riti. In questo racconto Diderot aveva tracciato tutti i caratteri fondamentali tipici dell’utopia, focalizzandosi prevalentemente sull’atteggiamento sentimentale che la produceva. Era un’utopia ai margini della storia. 20 Utopia Girolamo Imbruglia Nel Supplément au voyage de Bougainville (1771), ispirato al racconto sperimentale del navigatore, Tahiti era descritta come una società complessa. Nell’isola era assente il male sociale, prodotto dalle leggi. La natura era estremamente feconda, il lavoro agricolo era in comune, esisteva una piccola proprietà privata. Si viveva come in una sorta di grande famiglia numerosa. Questi selvaggi smentivano la concezione dello Stato di Natura espresso nel Secondo Discorso di Rousseau. Per Rousseau la civiltà (e quindi la corruzione) sopraggiungevano quando si rompeva l’equilibrio fra natura e società. I tahitiani, non civilizzati e fermi per propria volontà ad una condizione di mediocrità, dimostravano che era possibile non rompere l’equilibrio. Allo Stato di Natura si vive meno, è vero, ma in alcune comunità si riesce ad essere felici. Inoltre, nella società europea, vi era una violenza ben maggiore e, potenzialmente, meno felicità. 14. Diderot. Società civilizzata Le società si basano su tre codici: naturale (per l’uomo), civile (per il cittadino) e religioso (per il chierico). Fra questi codici, non ci deve essere contraddizione. Per avere unità dei tre odici è necessario che le Repubbliche siano di volume ridotto, cosicché la volontà generale si accordi con quella individuale. Le piccole società egualitarie erano talvolta riuscite a produrre una legislazione che impedisse il dispotismo. L’eguaglianza era assicurata da una limitazione al lusso e alla proprietà. Il codice naturale ispirava quello civile e i diritti dell’uomo erano quindi rispettati. Sussistevano tre categorie di libertà: quella naturale (diritto di disporre liberamente di sé), quella civile (diritto di agire in conformità alla legge) e quella politica (diritto di fare le leggi). Una società poteva essere retta con un’amministrazione, che tendeva al dispotismo, o con una sovranità, che si indirizzava verso la libertà. L’una era in opposizione all’altra. Esistevano secondo Diderot tre categorie di dispotismi: quello orientale (in cui i sudditi hanno la volontà di obbedire), quello occidentale (che abituava i popoli al servaggio, garantendo una discreta stabilità. È un male seducente: insegna ad obbedire anche ad un sovrano stupido ed è violento) e infine il dispotismo teocratico (crudele e fanatico, non garantiva la felicità neanche agli animali). Per Diderot occorreva ribellarsi all’anti-utopia del dispotismo europeo. Con l’Illuminismo erano nate le due grandi passioni della società moderna, il patriottismo e la teofobia. Il patriottismo era una religione civile senza divinità né superstizione. Spingeva ad un sacrificio non fanatico. Nella contestazione alla società francese prendevano vita nuove passioni e un’utopia entusiasta e razionale. 15. Diderot. Utopia e rivoluzione La via verso l’utopia era ambivalente: da un lato c’erano le isole lontane e felici, dall’altro una società politica in un precario equilibrio, contrapposta alla corruzione delle realtà europee e concepita nelle coordinate della storia della civilizzazione. Oltre a sperare nelle riforme, Diderot fu l’unico philosophe a pensare ad un movimento violento di rigenerazione. I diritti dell’uomo prendevano vita dalla resistenza al potere e dalla critica al despotismo. Animata dall’indignazione, la società si sarebbe rigenerata rivoltando il potere con la violenza. Il popolo avrebbe trovato la propria felicità nel sangue. La rivoluzione era guidata dalle passioni. Si riconosce uno spazio rilevante all’opinione pubblica, che determina i costumi, pur non potendo legiferare. Per costruire una società giusta, libera, felice e rispettosa dei diritti appariva fondamentale la rivoluzione. Il mito dell’utopismo naturalistico-ontologico 1. Meslier e il mondo contadino Il Testament di Meslier (1664-1729), curato di un borgo rurale della Champagne, si poneva sulla scia del libertinismo, rifiutando ogni religione, incluso il cristianesimo apostolico. La religione era stata il pilastro di società politiche violente e disuguali. A questa visione, veniva contrapposta la società comunista, dove le famiglie erano dissolte e le credenze sostituite con l’ateismo. L’idea della comunità dei beni discendeva dall’esperienza diretta delle miserie delle campagne. Meslier si rifaceva a Platone. Esortò i propri compaesani ad una religione civile. Il comunismo proposto aveva tratti realistici ma evanescenti. Negli anni ’50, avrebbe riaffiorata l’utopia comunista all’interno della società dei Lumi. 21 Utopia Girolamo Imbruglia 2. Étienne-Gabriel Morelly Morelly pose il comunismo in una condizione naturale e ontologica, i cui caratteri erano stati stravolti dalla società senza essere cancellati. La fisionomia originaria, rimasta intatta, poteva riprendere vita. Nel 1753 pubblica il Naufrage des isles flottantes, un romanzo utopista in cui delle isole staccatesi da un continente degeneravano nella barbarie introducendo la proprietà privata. Nel Code de la nature, invece, descrisse la società comunista teoreticamente, abbandonando la letteratura. Morelly riprese la storia dei trogloditi da Montesquieu e contestò la distinzione fra condizione naturale e vita selvaggia di Rousseau. Tentò di costruire la propria utopia fondendo tradizioni diverse, ripristinando la police, modellata sulle leggi di natura. Si partiva dalle tribù di indiani d’America e si accentua la concordia e l’unione tramite l’intervento di un legislatore. Si ottiene una società in cui nulla appartiene individualmente ad alcun cittadino. Ognuno è parte a carico della società ma contribuisce alla pubblica utilità. Il legislatore dividerà il lavoro e stabilirà le gerarchie sui valori della famiglia, dell’esperienza e della capacità. I diritti politici sono detenuti dai capifamiglia, che dall’età di cinquant’anni entrano a far parte del Senato della tribù. Tutte le cariche sono ricoperte a rotazione. C’è una forte autonomia: più in alto si trovano le cariche, meno potere hanno. Il capo dello Stato ne è privo. La sovranità passa in secondo piano: l’aspetto centrale è l’abolizione della proprietà. A seconda di chi è incaricato di sovrintendere allo Stato, si avrà una democrazia, un’aristocrazia o una monarchia. La storia delle civiltà per Morelly non era casuale come per Rousseau: la decadenza si verificava nelle società che sceglievano di mantenere la proprietà. La prospettiva è quella di una riconquista della condizione naturale. In America si poteva sperare di attuare una società del genere. Si punta ad instaurare la police naturale. Solo così è possibile raggiungere la felicità, che consiste nel godere di ciò che soddisfa i propri appetiti. Si incrocia quindi il comunismo naturale a quello delle società apostoliche. Morelly difese inoltre la propria teoria immaginando quali attacchi avrebbe subito e rispondendo preventivamente. Rispetto al Contratto sociale di Rousseau, che mirava a salvaguardare i diritti, il Code di Morelly si limitava ad elencare una serie di compiti e funzioni pubbliche. Entrambi presupponevano un legislatore. Per Rousseau il legislatore serviva ad imporre delle leggi senza l’uso della violenza, per Morelly poteva ricorrervi. 3. Dom Deschamps Deschamps, come Morelly, riteneva per costruire l’utopia fosse necessario agire sui costumi più che sulla politica. Negli anni ’60 Deschamps presentò il proprio progetto a Diderot, Helvétius e Rousseau. In particolare, si interessò alle teorie di Rousseau, di cui criticò il Secondo Discorso. Rousseau non aveva capito che la violenza provocata dalla proprietà privata era ineliminabile, che ogni religione era superstiziosa e legittimava la subordinazione al potere. Riconobbe comunque a Rousseau di aver mostrato il bisogno di cambiare i costumi. Nell’Émile, Rousseau affermava che non era necessaria l’abolizione della proprietà privata. Per Deschamps era invece il presupposto fondamentale. Piuttosto che concentrarsi sulla Storia, Deschamps elaborò una teoria metafisica. Le società umane potevano essere di tre tipi: selvagge, scollegate dal tempo storico; conflittuali, infelici e disuguali, come quelle presenti; felici senza leggi politiche ma diverse dallo stato selvaggio. Lo Stato politico attuale aveva raggiunto una violenza inaudita, ma anche quello selvaggio era violento: occorreva una via di fuga. Bastava mettere in pratica la legge di natura partendo dallo Stato politico (visto che era impossibile tornare al mondo selvaggio dopo esserne usciti). Si vivrà senza proprietà e senza passioni malvage o competizioni, secondo un modello simile a quello dei primi cristiani. Nella società ideale si è sereni, non si ride né si piange. La storia e le scienze si riveleranno inutili. Era un’utopia che doveva imporsi senza violenza: Deschamps ignorava il diritto alla violenza del legislatore di Morelly. Era uno Stato che si realizzava autonomamente dentro la realtà. 4. Carra. Il Prophète philosophe Questi profeti filosofi condannavano il presente e proponevano il ritorno alle leggi di natura. Carra costruì a tal proposito una storia naturale dell’umanità dominata dalla “fatalità sociale”: il progresso non era lineare e l’uomo era immerso in un dedalo di errori e mali. Si erano perse le idee del diritto naturale e politico. Per 22 Utopia Girolamo Imbruglia contrasti fra libertà ed uguaglianza, fra legislativo ed esecutivo. In questa rappresentazione utopica, gli uomini nascono “liberi ed eguali nei diritti”, ma fra i diritti non era inclusa l’uguaglianza. Nel 1793 l’uguaglianza venne invece annoverata fra i diritti costituzionali e nel 1795 tornò ad essere solo una condizione giuridica ma non sociale. Le Dichiarazioni del 1789 e del 1793 si basavano su una logica individualista, non comunitaria. Robespierre, pur non proponendo di eliminare la proprietà, cercò di porvi rimedio dando centralità alle richieste dei sanculotti. Nel 1793, a tal proposito, fece inserire nella Dichiarazione che il diritto di proprietà era limitato dall’obbligo di rispettare i diritti altrui. La libertà individuale si definiva quindi in negativo come il limite reciproco con i diritti altrui. Robespierre si convinse che l’uguaglianza e la riforma agraria fossero delle chimere: si rinunciava così al caposaldo dell’utopia. C’era un’altra contraddizione: i diritti naturali riconosciuti dalla Dichiarazione erano in parte inapplicati. Al centro della Dichiarazione era stata posta la sovranità, che risiedeva “nella Nazione”, che trascende gli individui. Entravano così in conflitto i diritti individuali e l’utilità sociale, il legislativo e l’esecutivo. Usando i termini del Contratto sociale, i rivoluzionari si confrontavano sulla volontà generale e sulla figura del legislatore. Per Rousseau il fondatore dello Stato/legislatore non doveva detenere in partenza il potere politico. Il governo veniva subordinato quindi logicamente al legislativo. Per i rivoluzionari del 1789, tuttavia, il problema non era capire come formare la nuova associazione: la Rivoluzione aveva già prodotto una nuova società. La Dichiarazione rispondeva al bisogno di utopia del popolo virtuoso. Robespierre difese sempre la Dichiarazione, affermando che tutte le leggi erano mutevoli e subordinate ad essa. Dovevano essere garantite le massime libertà possibili. Nella prassi, però, Robespierre fece l’opposto: dichiarò che in tempi rivoluzionari non si poteva garantire la libertà di stampa, dato che era necessario assumere tutti gli strumenti possibili per garantire il successo della Rivoluzione, e quindi anche la censura. I diritti dovevano essere utilitaristicamente sacrificati per consentire l’operato del governo virtuoso. Il Contratto sociale divenne un mito astratto. Nel 1793 si provò a porre rimedio alla contraddizione, affermando che i diritti naturali dovevano essere anche sociali. I giacobini si professarono vicini a Rousseau ed antitetici ad Helvétius, ma agirono conformemente al suo utilitarismo. Il governo giacobino, ostacolato dai nemici della Rivoluzione, chiedeva al popolo di identificarsi con un governo che non rispondeva alle richieste economiche dei sanculotti. L’”effetto utopia” aveva spinto i giacobini a realizzare la nazione despota di Helvétius e ad accantonare l’utopia della sovranità. Ancora un’utopia Non si poté del tutto rinunciare al progetto utopico di unire virtù ed uguaglianza. Nel Correctif à la Révolution, Maréchal sosteneva che nella Rivoluzione si erano contrapposte due utopie: quella dell’uomo naturale incentrato sulla famiglia ed estraneo alla politica e quella della vita politica, dove il singolo si sacrificava per la patria. Da un lato la vita di natura, dall’altro la civilizzazione politica. Nella società commerciale, le virtù pubbliche si opponevano a quelle private. I pochi uomini indipendenti costringevano gli altri alla miseria e alla dipendenza. Maréchal, conoscitore dell’Illuminismo, comprendeva che la vita sociale era un’anti-utopia violenta. La divisione del lavoro produceva disuguaglianze. Annullando la società familiare, la politica aveva creato la nazione, una realtà sociale potente ma fittizia, dove vivevano miseramente milioni di individui fanatici e incolti. Nel 1789 erano per lui iniziate le riforme opportune: si poteva sperare nella fine della società commerciale e nel ritorno ai diritti originari. Non era però stato così: si era sconfitta una banda di ladri per imporne un’altra. Il patriottismo era una malsana virtù del patriottismo e generava irrazionalismo ed esaltazione. Non era naturale compiacersi per la morte di un figlio in una guerra per l’accrescimento dei territori nazionali. Una società che si reggeva su una tale impostura non poteva essere altro che non dispotica. Le rivoluzioni politiche dovevano quindi essere evitate, perché dietro ai cambiamenti apparenti restava la stessa condizione sociale contro natura. Il potere restava in mano ad una minoranza e le buone leggi che venivano varate erano quelle ottenute per la pressione del popolo in piazza. La Rivoluzione si era limitata alle parole e quindi non era ancora stata fatta. Era quindi necessario un Correctif che consentisse di tornare sui binari dell’utopia. Si apriva la prospettiva della riconquista dell’eguaglianza e delle libertà tramite il patriarcalismo. La famiglia mononucleare era il 25 Utopia Girolamo Imbruglia fondamento dell’utopia naturale. Al suo vertice c’è il padre, a cui si deve l’obbedienza. Non si accede al lusso e non c’è competizione. Non ci sono preti né religione, né soldati né confini nazionali. Il contratto sociale e l’utilitarismo sono entrambi esclusi. Si potevano formare piccole comunità come quella di San Marino o come quelle ideali dell’Auvergne. Il correttivo era dunque l’utopia rurale, che non era un sogno platonico ma una prospettiva storica. La svolta del Termidoro (post-Terrore) cambiò però la situazione. La Congiura degli Eguali Alla caduta di Robespierre, Babeuf sostenne inizialmente il Direttorio. Dopodiché, la sua valutazione sulla fase giacobina mutò. Riscoprì con foga l’ideale che circolava durante il Terrore e si trovò d’accordo con Maréchal, col il quale si scriveva delle lettere dal carcere. Analizzò sul periodico Le tribun du peuple i punti di forza e di debolezza della Dichiarazione del 1789. Ribadì che era giunto il tempo di parlare di democrazia. Sosteneva che in un’epoca di crisi fosse inevitabile che i poveri si rivoltassero per sconvolgere il sistema proprietario. Raynal, autore dell’Histoire philosophique et politique, e Robespierre avevano sostenuto la stessa cosa. La tensione in effetti esplose nel maggio del 1795, quando il Direttorio represse violentemente l’insurrezione sanculotta. Babeuf si fece portavoce dei sanculotti e sostenne che bisognava seguire gli esempi delle secessioni plebee di Roma, visto che i legislatori non avevano eliminato le barbarie della società precedente. Il correttivo a cui pensò Babeuf non era lo stesso di Maréchal. Per lui c’era bisogno di politica: occorreva stabilire delle istituzioni plebee che garantissero l’eguaglianza perfetta. La legge agraria non era irrealistica: occorreva ispirarsi al legislatore spartano Licurgo e ai filosofi Rousseau, Mably e Diderot, occorreva istituire una “religione della pura eguaglianza”. Il popolo, poiché sofferente, poteva essere il motore del bouleversement. Non si doveva temere la rivolta: solo col ritorno al caos poteva sorgere un mondo rigenerato. L’insurrezione armata avrebbe consentito poi di passare dallo stato di natura a quello sociale. Il diritto di eredità era per Babeuf un “popolicidio”. Occorreva istituire un’amministrazione comune che sopprimesse la proprietà individuale e che la consegnasse ad un “comune magazzino”. Babeuf continuò a cercare dei contatti fra giacobini, hebertisti e sanculotti, riuniti nella Società del Pantheon. Il Direttorio ordinò ben presto a Bonaparte di chiudere la Società. Un mese dopo, Babeuf fondava il Comitato insurrezionale di salute pubblica. Maréchal vi prese parte ed espose il proprio Manifesto degli Eguali, in cui condannava le carte costituzionali del 1791 e del 1795, ree di non aver spezzato le catene. Quella del 1795 era stata invece un passo in avanti verso l’uguaglianza reale. La Rivoluzione francese era per Maréchal “il prodromo di un’altra rivoluzione, molto più vasta, molto più solenne, e che sarà l’ultima”. Gli Eguali compievano un doppio passo, esplicitato dal Manifesto: da un lato volevano educare il popolo ed istruirlo ai valori egualitari, dall’altro volevano preparare la nuova Rivoluzione nella clandestinità. Si portava a compimento la tortuosa tradizione utopista settecentesca: si saldava il pensiero di Montesquieu alla tradizione contadina all’hebertismo. Il mantenimento di due piani paralleli, quello pubblico e quello segreto, era una novità rispetto alla tradizione precedente. Arrestati nel 1796, sette componenti del Direttorio interno alla Congiura (fra cui Babeuf, Maréchal e Buonarroti) vennero in seguito processati. Babeuf fu ghigliottinato. La sua difesa era stata coraggiosa ma non aveva esposto pienamente il proprio pensiero per non danneggiare i compagni. Ciò che sappiamo della Congiura ci viene raccontato da Buonarroti, che ci tramandò un piano che univa l’utopismo settecentesco al socialismo e al settarismo ottocentesco. Aveva tentato di unire la Repubblica philosophique al mondo incantato e patriarcale della Nouvelle Héloïse al mondo senza leggi di Morelly e Deschamps e alle comunità contadine dell’Auvergne. La sconfitta degli Eguali continuò a produrre pensieri ed azioni. Nel 1848 l’utopia avrebbe avuto una svolta radicale. Se Tocqueville metteva in guardia dal socialismo di Babeuf, Marx lo esaltava come il primo che aveva tentato di mettere in pratica l’utopia con la rivoluzione. Era grazie a lui e a Buonarroti che si era diffusa l’idea del comunismo. La letteratura comunista del Settecento, per quanto di valore, apparteneva per Marx ormai al passato. L’utopismo veniva ormai giudicato contraddittorio e caotico, mélange impossibile di individualismo e comunitarismo. Eppure, la complessità del nostro mondo di oggi rende forse datato il monismo materialista e fa tornare attuale l’utopia ibrida, come fu pensata nell’età moderna, quando Montesquieu la trasformò in una teoria, Moro la collegò alla critica della società, Rousseau cercò di 26 Utopia Girolamo Imbruglia bilanciare l’unità e l’individualità, Montaigne la pensò in modo inclusivo in nome dei diritti umani e Diderot ne fece uno strumento per pensare insieme la felicità ed il conflitto. 27
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved