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Variazione sociolinguistica, Appunti di Linguistica

Brevi cenni riguardo la variazione sociolinguistica (Molinelli)

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 08/06/2017

alessandra_ricchiuti
alessandra_ricchiuti 🇮🇹

4.2

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Scarica Variazione sociolinguistica e più Appunti in PDF di Linguistica solo su Docsity! variazione linguistica Enciclopedia dell'Italiano (2011) di Gaetano Berruto variazione linguistica 1. Definizione e ambito Per variazione linguistica si intende l’importante carattere delle lingue di essere mutevoli e presentarsi sotto forme diverse nei comportamenti dei parlanti. La proprietà di un’entità di assumere diverse manifestazioni, di essere realizzata in modi differenti, di conoscere alternative che non mutano però la natura fondamentale dell’entità stessa, sembra connaturata alle lingue. Essa si estrinseca infatti sia a livello della generale facoltà del linguaggio verbale, nella diversità delle varie lingue in cui si articola la capacità umana di parlare, sia a livello di ogni singola lingua storico-naturale (come l’italiano), nella diversità interna, entro i confini stabiliti dal suo sistema peculiare e dai modi di realizzazione che questo ammette, sia a livello del ➔ repertorio linguistico, nella diversità dell’accesso e dell’utilizzazione da parte dei singoli parlanti delle lingue e varietà di lingua che lo costituiscono. Le lingue e varietà di lingua presenti nel repertorio di una comunità non sono infatti ugualmente a disposizione né possedute nella stessa misura da tutti i membri della comunità. La variazione si manifesta dunque nei comportamenti linguistici non solo nell’uso di forme diverse della lingua, ma anche attraverso l’accesso diversificato alle varietà di lingua e la scelta della varietà da utilizzare in una certa interazione verbale (➔bilinguismo e diglossia; ➔commutazione di codice), che sono potentemente condizionate dalla fascia sociale di appartenenza del parlante, dal suo grado di istruzione, dalle caratteristiche della comunità di cui esso è membro (➔ sociolinguistica). Si tratta di tre grandi aree – la variazione interlinguistica (differenza tra le lingue), la variazione intralinguistica (differenziazione interna a una lingua), e la variazione nel repertorio – che pongono questioni diverse e sono studiate secondo approcci diversi. Quando il termine variazione è usato senza specificazioni, si intende per lo più la variazione intralinguistica. Poiché questa si coglie appieno quando si guardi alla lingua calata negli usi sociali, essa è oggetto specifico di studio della sociolinguistica; la stessa sociolinguistica è anche il terreno proprio di ricerca sulla variazione nel repertorio. La pervasività della variazione, il fatto che la differenziazione sembri «una caratteristica essenziale e onnipresente, e non occasionale o eccezionale, nel linguaggio» (Lepschy 1979: 120-121), ha indotto a vedervi una funzione simbolica di identificazione connaturata all’essere umano che vive in una società, e più in generale una funzione sociale adattativa, come in Chambers 1995: 250: «the underlying cause of sociolinguistic differences, largely beneath consciousness, is the human instinct to establish and maintain social identity» («la causa sottostante delle differenze sociolinguistiche, largamente sotto il livello della coscienza, è l’istinto umano a stabilire e conservare l’identità sociale»). Riconosciuta da sempre, in particolare sotto l’aspetto della variazione dialettale, come una delle caratteristiche empiriche evidenti della lingua e dei comportamenti linguistici, la variazione è stata a lungo trascurata dalle correnti teoriche, di impostazione prima strutturalista e poi formalista, dominanti nella linguistica, che la considerano per lo più non rilevante per la comprensione della struttura e del funzionamento delle lingue, ed è diventata oggetto di studio significativo, anche dal punto di vista teorico, solo negli ultimi decenni. Da un lato, è cresciuta l’attenzione per la variazione interlinguistica, per effetto degli interessi convergenti sia della linguistica generativa sia della linguistica funzionale e della tipologia linguistica a studiare ciò che vi è di uguale e ciò che vi è di diverso nelle lingue, e quali sono i principi che regolano unitarietà e differenze e stabiliscono i confini entro cui i sistemi linguistici possono configurarsi. La variazione interna è invece venuta in primo piano grazie alle ricerche sociolinguistiche (➔sociolinguistica), in ragione del fatto che la gran parte dei fenomeni di variazione che si constatano in una lingua è dotata di significato sociale, cioè correlata in maniera non casuale con fatti più o meno latamente sociali. Questo vale sia per la variazione a livelli alti, la macrovariazione, come l’articolazione di una lingua in ➔ varietà, o, a livelli più alti ancora, la variazione nel repertorio, sia per la microvariazione, vale a dire la presenza di fatti minuti di variazione (in particolare, varianti di pronunce) in una varietà di lingua. La variazione non va confusa col mutamento diacronico: i due termini non sono sinonimi, in quanto mutamento (o cambiamento) implica il riferimento al trascorrere del tempo, una modificazione lungo l’asse temporale, mentre variazione si riferisce generalmente alla sincronia. Tra variazione e mutamento intercorrono peraltro rapporti molto stretti, in quanto i fenomeni di mutamento linguistico sono spesso alimentati da fatti di variazione linguistica e il mutamento consiste nella sostituzione durante un certo lasso di tempo di una variante con un’altra variante (cfr. § 4), attraverso una fase in cui le diverse varianti coesistono e si distribuiscono secondo tendenze determinate da fattori sociali (età, ceto dei parlanti, valore di prestigio o meno delle varianti, ecc.). Dinamiche di questo genere sono state esemplarmente studiate nell’inglese degli Stati Uniti da William Labov (1972 e 1994-2001), che dette anche dignità teorica alla variazione come proprietà inerente della facoltà del linguaggio, mostrandone la natura di ‘ordinata eterogeneità’ all’interno di un sistema linguistico. Un altro termine vicino a variazione è variabilità, con cui s’intende la potenzialità di variare, l’essere suscettibile di variazione, e anche l’instabilità o mutevolezza che consegue da tale potenzialità quando viene posta in atto. Le manifestazioni della variazione possono infatti essere intese come fluttuazione e instabilità, e anche come eterogeneità del sistema lingua, impossibile da ricondurre a principi invarianti e sempre ben definiti; tuttavia normalmente anche quelle che sembrano fluttuazioni imprevedibili, garanzia della libertà del singolo individuo parlante, seguono un percorso leggibile in termini di tendenze connesse a fattori sociali. 2. Dimensioni di variazione Se gran parte della variazione in una lingua non è casuale, libera, ma è in correlazione con fattori sociali esterni alla lingua, diventa importante individuare quali siano i fattori Per il tipo (b) – presumibilmente meno rappresentato degli altri due – si può menzionare un tratto fonologico come il ➔ troncamento fonosintattico (➔ fonetica sintattica) delle forme verbali alla terza persona plurale (vengon a casa, son arrivati). Tratti del tipo (c) sono invece, sempre per la morfosintassi, per es.: concordanze a senso fra soggetto e verbo, specie quando il soggetto è postverbale (c’è molti pini; tutto il paese lo sapevano); la riduzione della doppia ➔ negazione a negazione semplice (era mai andato per non era mai andato, ho neanche ricevuto per non ho neanche ricevuto; Berruto 1987: 119-121). 3. Variabili sociolinguistiche La variazione nella lingua si manifesta in primo luogo nell’esistenza di variabili (socio)linguistiche. Variabile è ogni elemento o punto del sistema linguistico che si presenti sotto forme o realizzazioni diverse l’una dall’altra, che ammetta cioè diversi valori. Ogni valore che può essere assunto da una variabile è una variante di tale variabile. Il riconoscimento e la definizione delle variabili avvengono congiuntamente sulla base di due criteri, l’uno linguistico e l’altro sociale. Dal punto di vista linguistico, deve esserci sinonimia: le diverse varianti devono voler dire tutte la stessa cosa, non mutare il significato referenziale e possibilmente nemmeno quello pragmatico dell’elemento interessato (altrimenti, non si tratterebbe della stessa unità del sistema, ma di unità diverse). Dal punto di vista sociale, le varianti devono avere diversa distribuzione sociale, cioè tendere a comparire in usi, contesti, parlanti, ecc. diversi. Un insieme solidale di varianti che cooccorrano negli stessi o analoghi contesti, cioè in contesti che condividono una determinata serie di caratteri, dà luogo a una varietà (di lingua). Variabili sociolinguistiche ricorrono a ogni livello di analisi della lingua, anche se la ➔ fonetica, la ➔ fonologia e il ➔ lessico sono i settori in cui occorrono più frequentemente. Una fra le numerose variabili fonetico-fonologiche in italiano è la realizzazione del fonema 0 2 8 Elaterale palatale / /, per es., di figlio, che in posizione intervocalica può venire realizzato in almeno quattro varianti: 0 2 8 E 0 2 D 0 0 2 C 8 0 2 8 E 0 2 D 0(a) come laterale palatale geminata o lunga [ ], [ fi o], tipica della pronuncia standard; 0 2 8 E 0 2 C 8 0 2 8 E(b) come laterale palatale semplice, [ ], [ fi: o], tipica della pronuncia settentrionale colta o accurata; 0 2 D 0 0 2 C 8 0 2 D 0(c) come semiconsonante o semivocale palatale geminata o lunga, [j ], [ fij o], tipica della pronuncia regionale romana, campana, siciliana e di altre zone; 0 2 C 8(d) come nesso di laterale alveolare e semivocale palatale [lj], [ fi:ljo], che si ha nella pronuncia regionale piemontese e in altri italiani regionali settentrionali. Una variabile morfologica è, per es., la forma del pronome clitico dativo di terza persona singolare, che è gli in italiano standard, ci (con estensione del valore del clitico polivalente ci a tale funzione) in ➔ italiano popolare (soprattutto al Nord), le (con analoga estensione) in varietà regionali incolte settentrionali, je in varietà regionali molto marcate dell’Italia centrale: vedo Gianni e gli dò il libro / vedo Gianni e ci dò il libro / vedo Gianni e le dò il libro / vedo Gianni e je do er libbro. Nella morfologia derivazionale, è una variabile diatopica la suffissazione in -aio (standard e settentrionale) contro -aro dell’➔Italia mediana: benzinaio / benzinaro; ed è una variabile diastratica la suffissazione zero (opposta a -zione) in casi come spiega / spiegazione, dichiara / dichiarazione. Una variabile sintattica è, per es., la costruzione della frase relativa (➔ relative, frasi): le varianti con pronome relativo flesso con accordo di genere e numero (il ragazzo al quale ho dato il libro), con pronome relativo obliquo non flesso (il ragazzo [a] cui ho dato il libro), con che generico polivalente e pronome clitico (il ragazzo che gli ho dato il libro, il ragazzo che ci ho dato il libro, variante più bassa con forma sovraestesa del clitico di terza persona), o con semplice che connettivo (il ragazzo che ho dato il libro) si pongono in una scala di crescente distanziamento dallo standard letterario, con crescente marcatezza diafasica (registro non sorvegliato) e diastratica (lingua incolta, italiano dei parlanti semicolti). L’italiano è poi particolarmente ricco di casi di sinonimia sociolinguisticamente differenziata che possono essere considerati come altrettante variabili a livello del lessico: ➔ geosinonimi (cacio / formaggio, anguria / cocomero); sinonimi di diverso livello diafasico, differenti per ➔ registro (paura / fifa, uccidere / ammazzare) o per sottocodice (spazzino / netturbino / operatore ecologico, raffreddore / rinite); sinonimi di diverso livello diastratico (strage / macello, imbroglio / inciucio). Molte variabili hanno una distribuzione che varia contemporaneamente per diafasia e diastratia, e che viene spesso chiamata distribuzione di prestigio (o laboviana, in quanto studiata, anche con raffinati metodi quantitativi, da Labov 1972). Un esempio di tipiche variabili laboviane è costituito da alcuni dei fenomeni fonetici presi in considerazione da Galli de’ Paratesi (1984) per valutare all’inizio degli anni Ottanta le tendenze standardizzanti in atto nella pronuncia dell’italiano. Presenta tipicamente una configurazione di prestigio, per es., la vibrante lunga o geminata nell’italiano di Roma, in 0 2 C 8 0 2 5 B 0 2 D 0cui viene variabilmente realizzata come geminata (variante standard: guerra [ gw r a]) 0 2 C 8 0 2 5 B 0 2 D 0o come semplice (variante marcata regionalmente: guera [ gw ra]) in correlazione con lo strato sociale dei parlanti e con il registro o stile contestuale (la variazione laboviana è anche definita sociostilistica), come si osserva nel grafico della fig. 1 (Galli de’ Paratesi 1984: 130). Le variabili laboviane vengono infatti tipicamente rappresentate con un diagramma cartesiano, nel quale su un asse (qui, l’asse delle ordinate) sta la quantità proporzionale di realizzazioni non standard e sull’altro (qui, l’asse delle ascisse) stanno gli strati sociali (in questo caso, rappresentati dai livelli socioeducativi dei parlanti, stratificati in: studenti di liceo, R I; studenti di istituti tecnici e magistrali, R II; operai, R III). Le linee r1 e r2 indicano i registri (nel caso: lettura di liste di parole, stile molto controllato, r2; lettura di un testo strutturato dal contenuto informale, stile meno controllato, r1). Il grafico mostra i seguenti aspetti: (a) c’è differenza diastratica, e la quantità di realizzazioni della vibrante semplice aumenta in relazione inversa alla stratificazione sociale: gli studenti liceali non producono occorrenze di [r] scempia, gli studenti di istituto tecnico ne producono un certo numero, e gli operai un numero sensibilmente più alto; (b) c’è differenza diafasica, in quanto entrambi gli strati che producono occorrenze della vibrante semplice ne producono di più nel registro meno sorvegliato; (c) la differenziazione di registro è anch’essa in correlazione con la stratificazione sociale, essendo maggiore con l’abbassarsi del livello socioeducativo. Questo significa anche che per questa pronuncia c’è nei parlanti sensibilità allo standard, poiché anche i rappresentanti del livello socioeducativo più basso cercano di correggersi, nel registro più controllato, in direzione della pronuncia standard. Molte varianti basse e substandard possono infatti essere stigmatizzate, cioè soggette a un giudizio esplicitamente o implicitamente negativo da parte dei parlanti, che le sentono come scorrette, inappropriate, sintomo di ignoranza. La variazione interna è spiccatamente evidente nelle parlate dialettali, che, in quanto varietà dell’uso parlato non esposte all’azione uniformante e standardizzante di una norma linguistica esplicita e codificata, sono soggette a estrema variabilità, con moltiplicazione di forme e di varianti all’interno di comunità linguistiche anche di ridotta estensione demografica. Già all’inizio del secolo scorso Benvenuto Terracini poteva analizzare la presenza di molte variabili nella parlata francoprovenzale di Usseglio (un comune montano di poche centinaia di abitanti in provincia di Torino), che presentava numerose differenziazioni nelle diverse frazioni e in relazione ai gruppi familiari, ciascuno portatore attraverso le varianti adottate di una propria identità sociolinguistica e di un proprio orientamento culturale (Terracini 1922). In uno studio sul dialetto di Monte di Procida (un comune campano all’estremità occidentale del golfo di Pozzuoli, che nel 2003 contava 12.973 abitanti), Como (2007: 94-95) giunge a inventariare ben otto forme diverse del pronome soggetto di prima persona singolare variamente presenti nell’uso, differenziate nella loro occorrenza in base al contesto linguistico e in base a fattori sociali e caratteristiche individuali dei parlanti: due forme monottongali ([i] e [e]), tre forme con 0 2 5 9 0 2 5 4 0 2 5 B 0 2 5 9vocale tonica iniziale ([i ], [i ] e [io]), e tre forme dittongali ascendenti ([je], [j ] e [j ]). A cui va aggiunta una variante occasionale in cui la [i] è seguita da un suono di transizione costituito da una semivocale anteriore [ij], come nell’es. seguente, che contiene due 0 2 C 8 0 2 5 9 0 2 5 9 0 2 C 8 0 2 5 9 0 2 C 8 0 2 D 0 0 2 8 3 0 2 D 0 0 2 5 9varianti del pronome soggetto: [ ward i vag ij a b a ] «guarda, io vado io giù». 4. Variazione e mutamento La dinamica del mutamento linguistico è strettamente connessa con la variazione. Dal punto di vista della diffusione nella comunità sociale, il mutamento ha come terreno di innesco una variabile sociolinguistica, di cui la forma innovativa rappresenta una variante. In molti casi il processo di mutamento inizia quando una variante diventa simbolo dei valori socioculturali di un gruppo, operando quindi come variante diastraticamente marcata. Da questo gruppo l’innovazione può diffondersi gradatamente a tutta la comunità parlante; a questo stadio, le forme conservative coesistono nella comunità parlante con le forme innovative. L’innovazione può prendere gradatamente piede (in un processo a lungo di Paolo D'Achille variazione diatopica 1. Definizione Per variazione diatopica (dal gr. diá «attraverso» e tópos «luogo») si intende la 2 7 9 4 variazione linguistica su base geografica. L’espressione è stata, se non creata, certo diffusa negli studi linguistici da Coseriu (cfr. almeno Coseriu 1956 e 1973), accanto a quelle di 2 7 9 4 variazione diastratica e 2 7 9 4 variazione diafasica; l’espressione variazione diacronica, legata al mutamento nel tempo, risale invece a Saussure (cfr. Saussure 19832), mentre la 2 7 9 4 variazione diamesica, legata al mezzo di trasmissione del messaggio, è stata introdotta più di recente da Mioni (19832). Ma la consapevolezza che una stessa lingua varia in rapporto allo spazio, che costituisce un’acquisizione secolare, era stata già approfondita negli studi di dialettologia ( 2 7 9 4 dialettologia italiana) e 2 7 9 4 geografia linguistica, dove tuttora invece di diatopico si usano piuttosto «areale, spaziale, geografico, geolinguistico, ecc.» (Telmon 20042). La variazione diatopica italiana è stata per lo più studiata sotto l’etichetta di 2 7 9 4 italiano regionale (o di varietà regionale di italiano), attestata dalla fine degli anni Venti e diffusasi soprattutto dopo un fondamentale intervento di Pellegrini (1960; cfr. anche Pellegrini 1975: 35-74); tale espressione, usata anche al plurale, è quella prevalente negli studi (cfr. Poggi Salani 1982; Sobrero 1988; Cortelazzo & Mioni 1990; Telmon 1990 e 1994; D’Achille 2002; Cardinaletti & Munaro 2009). C’è però chi preferisce parlare di italiano locale, perché l’aggettivo regionale può richiamare le regioni amministrative, mentre tratti diatopicamente marcati possono di volta in volta riguardare aree molto 0 2 A 4vaste (si pensi alla pronuncia intensa di /b/ e / / intervocaliche, diffusa da Roma in giù) o molto più ridotte (subregioni, province e singoli centri; per es., ancora viene per «non è ancora arrivato» è usato a Pescara ma non a L’Aquila). In genere la dimensione diatopica è tanto più accentuata quanto più è vasta l’estensione spaziale della lingua (si pensi, in epoca antica, alle particolarità del latino africano e oggi alle differenze tra il British English e l’angloamericano), ma non sempre è così, come dimostra appunto il caso dell’italiano, dove la variazione geografica, molto accentuata, è da rapportare alla complessità della situazione dialettale ( 2 7 9 4 dialetti). 2. Rapporti con le altre dimensioni di variazione Nella situazione sociolinguistica italiana la variazione diatopica costituisce «l’elemento principale di variabilità e, per lo meno nell’uso orale, si sovrappone a tutti gli assi di variazione della lingua» (Cerruti 2009: 34; cfr. anche Berruto 1987: 20-27). Il rapporto con la variazione diamesica è dato dal fatto che le differenze geografiche, riguardando in primo luogo l’➔ intonazione e la 2 7 9 4 fonetica, si colgono nel parlato molto più che nello scritto: anche chi è in grado di scrivere testi in 2 7 9 4 italiano standard quasi sempre rivela nel parlare la propria provenienza geografica; pure nello scritto, peraltro, almeno in certi tipi testuali, si possono individuare tratti regionali ( 2 7 9 4 regionalismi), intenzionali o no. La variazione diatopica precede invece, nell’ordine, quella diastratica e la diafasica: solo all’interno delle varietà locali, infatti, sembrano potersi cogliere differenze sociali e di registro. Per la verità, si è parlato in passato di un italiano popolare unitario contrapposto all’italiano regionale ( 2 7 9 4 italiano popolare), ma poi la variazione diastratica è stata ricondotta all’interno della diatopia, nonostante l’esistenza di alcuni tratti panitaliani marcati diastraticamente (per i rapporti tra italiano regionale e italiano popolare si veda soprattutto Berruto 1983). In diafasia, invece, sembra possibile individuare sia elementi largamente condivisi nell’uso colloquiale, sia caratteri propri dei registri formali ( 2 7 9 4 registro) o dei 2 7 9 4 linguaggi settoriali che prescindono dalla variazione regionale. La variazione diatopica può essere messa in rapporto anche alla diacronia; da un lato, infatti, in alcune varietà regionali è normale la presenza di forme o costrutti che altrove sono da considerare 2 7 9 4 arcaismi (così sovente invece di spesso in Piemonte, mi garba per mi piace in Toscana, ignudo anziché nudo a Roma); dall’altro, almeno a certi livelli di analisi – soprattutto nel 2 7 9 4 lessico e nella fraseologia ( 2 7 9 4 dialettismi; 2 7 9 4 modi di dire), ma anche nella morfosintassi – alcuni tratti marcati diatopicamente possono via via espandersi e perdere così la propria marcatezza. 3. Tipi di variazione diatopica La diatopia riguarda sia le lingue sia i dialetti. Risalgono a 2 7 9 4 Dante (De vulgari eloquentia I, ix, 4-10) alcune penetranti osservazioni sulle differenze linguistiche tra le parlate di centri di una stessa regione (Ravenna e Faenza) e perfino tra abitanti di quartieri diversi di una stessa città, come a Bologna quelli di Borgo San Felice rispetto a quelli di Strada Maggiore. Il riferimento alla microdiatopia non è raro negli studi dialettologici, che tradizionalmente contrappongono la varietà urbana a quella del contado (in opere amatoriali si hanno distinzioni ancora più sottili; per es., Ceccarelli 1977: 11 indica ben sette varietà del reatino di città). In anni più recenti, la dialettologia urbana e la sociolinguistica hanno offerto chiavi interpretative più fini del fenomeno, individuando, all’interno di centri urbani o di più vaste aree metropolitane, zone linguisticamente più conservative: così, a Viterbo, il quartiere popolare di Piano Scarano, «abitato fino ad epoca recente in prevalenza da agricoltori, artigiani, operai», rispetto ad altri quartieri «più esposti ai modelli dell’italiano regionale e del romanesco» (Petroselli 2009: 29); così, a Roma, alcuni rioni del centro storico (Testaccio, Trastevere), abitati da anziani che parlano un romanesco tradizionale (Bernhard 1992; Mocciaro 2002). Più in generale, in Italia un esempio di variazione diatopica è costituito dalla stessa situazione dialettale, sia perché tutti i dialetti italoromanzi derivano dal latino volgare, che si è quindi differenziato da zona a zona in ragione di vari fatti (alcuni dei quali anteriori alla stessa latinizzazione), sia perché (come risulta dagli atlanti dialettali, nazionali o regionali; 2 7 9 4 atlanti linguistici) anche dialetti appartenenti allo stesso ceppo, parlati in centri contigui o poco distanti, presentano particolarità che – pur all’interno di un continuum che garantisce la comprensibilità reciproca – sono in grado di distinguerli e di caratterizzarli: è il caso, per es., della vasta area partenopea, in cui la variazione diatopica è stata considerata con particolare attenzione (cfr. Sornicola 2002; Como, Milano & Puolato 2003), e della conca aquilana, attraversata dal confine tra dialetti mediani e meridionali (Avolio 2009). In certi casi le differenziazioni vanno ricondotte allo «spirito di campanile» (Saussure 19832: 249) e svolgono una funzione identitaria. La variazione diatopica riguarda soprattutto, come si è detto, quei dialetti secondari che sono gli italiani regionali, nati dall’incontro tra lingua e dialetto. La fenomenologia delle diverse varietà regionali di italiano è stata spesso giustamente spiegata in rapporto al dialetto soggiacente, la cui influenza si percepisce soprattutto in certi livelli di analisi (intonazione e fonetica, lessico). Va però rilevato da un lato che chi parla una varietà regionale può anche non avere la competenza attiva del dialetto, dall’altro che non sempre la variazione diatopica è in relazione col 2 7 9 4 sostrato dialettale: sul piano lessicale, per es., a diversi 2 7 9 4 geosinonimi non sempre corrisponde un antecedente dialettale nella stessa zona (si pensi, per es., alla diversa distribuzione di cornetto, brioche, croissant, ecc.: D’Achille & Viviani 2009), ed esistono voci italiane che in certe aree vengono usate con significati particolari (come mollica «pangrattato» in Sicilia). 4. Variazione diatopica e livelli di analisi linguistica Molte varietà regionali italiane sono state ben descritte in numerosi studi (per un bilancio cfr. Cini 2008). Il punto di riferimento delle descrizioni, però, è il tradizionale standard di base tosco- fiorentina ( 2 7 9 4 italiano standard) che nel parlato ha scarsissima circolazione. Ciò ha determinato, specie a livello fonetico, la segnalazione di tratti che non hanno molta rilevanza perché comuni a tutti gli italiani, toscani esclusi: tale il mancato 2 7 9 4 raddoppiamento sintattico dopo la preposizione da, che sembra ormai abbandonato anche nelle scuole di recitazione (è piuttosto la presenza del tratto a connotare diatopicamente la varietà toscana). Il riferimento allo standard ha talvolta portato a considerare regionali tratti morfosintattici censurati dalle grammatiche prescrittive, ma che sono in realtà panitaliani, come il 2 7 9 4 che polivalente. Un altro aspetto generale delle ricerche è l’aver privilegiato il dato qualitativo su quello quantitativo (ma per la Svizzera italiana v. Pandolfi 2006); la variazione diatopica si coglie però anche nella frequenza di certe forme: così, al Nord, la preferenza per mica rispetto ad altre negazioni; a Roma, l’uso di manco invece di neppure, neanche, nemmeno; al Sud la maggiore vitalità del passato remoto, che al Nord è più raro, ecc. Inoltre, la variazione diatopica riguarda anche il sistema dei 2 7 9 4 gesti e il piano testuale, l’uno e l’altro tuttora poco studiati in questa prospettiva variazionale (sui gesti, cfr. comunque Diadori 1993). Basterà solo ricordare come nell’estremo Sud l’espressione della 2 7 9 4 negazione possa essere resa, in linguaggio non verbale, anziché con lo scuotimento del capo, con il suo sollevamento e spostamento all’indietro, accompagnato da un clic apicodentale, e come tra i segnali discorsivi ce ne siano alcuni certamente marcati regionalmente, come la formula di chiusura e cosa, usata a Napoli. I livelli in cui la dimensione diatopica è particolarmente evidente, come si è detto, sono quelli dell’➔intonazione e della ➔fonetica, che lasciano quasi sempre percepire la provenienza del parlante (per un quadro generale cfr. Canepari 19863; Schmid 1999; Maturi 2006): dall’intonazione, che nel linguaggio comune viene indicata come calata o accento, alla lunghezza sillabica, dal diverso grado di apertura delle vocali medie toniche alla presenza di foni assenti nello standard, fino a fatti di 2 7 9 4 fonetica sintattica come le 2 7 9 4 aferesi e le apocopi. Nel consonantismo, un esempio delle differenze tra varietà regionali è la resa della laterale palatale in parole come figlio e famiglia ( 2 7 9 4 laterali); il fono, che muove per lo più dal lat. -lj- (che ha avuto nei dialetti esiti molto diversi: cfr. Grassi, Sobrero & Telmon 1997: 159, fig. 20), nello standard e nella varietà toscana è 0 2 8 E0 2 8 E 0 2 8 Esempre intenso ([ ]); nelle varietà settentrionali è tenue ([ ]), ma può anche essere realizzato con un nesso di due foni [lj] (Telmon 1993: 105-106); in molte varietà centrali e meridionali è reso con [jj] o anche con [j], che a volte costituisce un tratto caratterizzante anche in diastratia (come a Roma), a volte no (come a Napoli). Anche sul piano fonologico, in diatopia si possono cogliere sia neutralizzazioni di opposizioni proprie dello standard (come la uguale pronuncia di salsa e s’alza in tutto il Centro-Sud) o sviluppo di nuove coppie minime, come quella tra vizi e vizzi al Nord, data la conformità della resa fonetica alla grafia ( 2 7 9 4 coppia minima). linguistico e sesso si è mossa lungo due ipotesi opposte. Secondo la prima le donne sono un elemento di conservazione sociale e linguistica: tale ipotesi è stata generalmente adottata dalla dialettologia e dalla geografia linguistica, che proprio per questo considerava le donne i migliori soggetti da intervistare alla ricerca del dialetto meno contaminato. All’opposto, una parte consistente dei modelli sociolinguistici recenti attribuisce alla donna, in particolare delle classi medie, maggiore inclinazione a mutare il proprio linguaggio per adeguarsi a quello dei gruppi più alti nella scala sociale. La ricerca preferisce oggi spesso sostituire alla categoria sesso quella di genere ( 2 7 9 4 genere e lingua). Con tale nozione si vuole sottolineare come sia linguisticamente significativa non tanto la distinzione biologica fra maschi e femmine, quanto l’elaborazione sociale e culturale delle differenze di sesso. La considerazione per cui la variazione linguistica è sempre legata e intrecciata a fattori sociali (quindi non il sesso ma il genere, come appena detto) può valere anche per ciò che riguarda l’età. L’esistenza di una dimensione giovanile dell’esistenza, con un ruolo sociale nettamente distinto, è elemento caratteristico di alcune società; a questo dato storico-culturale si può collegare la presenza o meno di una forte variazione linguistica legata all’età, ma soprattutto il formarsi di varietà giovanili ( 2 7 9 4 giovanile, linguaggio; cfr. § 4). Fin dal loro esordio le ricerche sociolinguistiche hanno in particolare puntato l’attenzione sulla stratificazione della società in classi sociali. Tale nozione (definita sulla base di tre parametri: reddito, occupazione e grado di istruzione) ha giocato un ruolo essenziale nelle ricerche effettuate a metà degli anni Sessanta del Novecento a New York da William Labov, che costituirono un riferimento importante per tutti gli studi volti a esplorare la variazione diastratica. Tali ricerche sono effettuate tipicamente su un’area delimitata (definita come comunità linguistica) e riguardano un campione di soggetti sulle cui produzioni linguistiche vengono misurate le occorrenze di determinati elementi (le varianti di una data variabile). In Italia l’esplorazione della variazione diastratica secondo il modello laboviano fu effettuata in indagini effettuate negli anni Ottanta e Novanta, nelle quali il parametro classe sociale fu declinato in maniera diversa: ad es., nella ricerca di Rizzi (1989), in cui si descrive la distribuzione regolare di alcune consonanti nell’italiano regionale di Bologna, come parametri (accanto al sesso e all’età) furono usati l’attività lavorativa e il titolo di studio. In generale comunque nelle indagini condotte in Italia emerge l’importanza del parametro istruzione, utilizzato in molti casi da solo come indicatore della posizione nella scala sociale. In questa direzione si mossero anche le indagini quantitative effettuate in Sicilia sempre negli anni Ottanta (Osservatorio linguistico Siciliano) e Novanta (Atlante linguistico della Sicilia) (cfr. D’Agostino & Ruffino 2005). Un altro costrutto analitico che si è mostrato particolarmente rilevante ai fini della variazione sociale della lingua è quello di rete sociale. Molte ricerche hanno evidenziato come anche in piccoli gruppi con caratteristiche molto simili (ad es., gli studenti di una scuola) si registrano diversità linguistiche collegabili ai tipi di legami sociali instaurati da alcuni individui e non da altri (rete delle amicizie, dei rapporti di lavoro, di vicinato, sportivi, ecc.). 3. Variazione diastratica e variazione diafasica Nelle ricerche quantitative effettuate col modello laboviano (cfr. Wolfram 1969; Trudgill 1974) è spesso emerso che molte variabili diastraticamente significative sono altrettanto significative ai fini della variazione diafasica: le varianti usate con più alta frequenza dai gruppi che si collocano più in basso nella posizione sociale sono anche le più usate nelle situazioni di minore formalità, mentre le varianti più vicine allo standard, e quindi tipiche dei parlanti colti, sono maggiormente usate in situazioni di più alta formalità. In termini generali quindi (vedi, ad es., le indagini in Nuova Zelanda di Bell 1984) si è registrato un legame tra la variazione fra gruppi di parlanti e la variazione nel modo di parlare del singolo individuo, cioè la variazione diafasica. Si tratta di due forme di variazione, probabilmente universali, che hanno in comune il fatto di essere pervasive e di collocarsi al punto di incrocio fra l’individuo e la collettività. Tali dimensioni della variazione sono state considerate non solo parallele, ma anche derivate l’una dall’altra. Generalmente la variazione diafasica è vista come secondaria e derivata, specchio o eco della variazione sociale: in caso di una differenziazione di classe (o di gruppo) in una variabile linguistica, verrebbe attribuito maggiore prestigio alla variante usata dalle classi alte, sicché i parlanti tenderebbero a usare tali varianti in situazioni di più alta formalità. Finegan & Biber (1994), fra gli altri, sostengono invece un punto di vista diametralmente opposto, cioè che la variazione nel parlante è primaria e che da essa deriva la struttura della variazione diastratica. 4. Variazione diastratica e varietà di lingua Una maniera diversa, e per certi versi complementare, di analizzare la variazione diastratica in una lingua consiste nel prendere in considerazione il rapporto fra i gruppi sociali e l’insieme delle varietà associate in una complessa architettura variazionale. Nel modello di Coseriu sono individuabili tre livelli diastratici distinti: lingua alta, lingua della classe media, lingua popolare. In Italia la riproposizione di questo modello sul piano della ricerca empirica è problematica per la difficoltà sia di reperire un insieme di tratti co-occorrenti che distinguano la lingua alta dalla lingua delle classi medie, sia di individuare i confini fra questi due livelli e costrutti quali quello di italiano standard. Secondo l’opinione più comune la varietà diastratica alta di italiano è l’italiano colto: impiegato dai parlanti di livello socioculturale medio-alto e alto, non può essere descritto in termini di una serie di tratti caratterizzanti, in quanto coincide grosso modo con l’italiano cosiddetto standard, con la «buona lingua media» (Berruto 1993). È dunque generalmente accettata l’idea che la varietà sociale per eccellenza dell’italiano contemporaneo sia quella situata al polo inferiore del repertorio. Tale varietà, etichettata come 2 7 9 4 italiano popolare (o meglio italiano popolare regionale), è definita proprio sulla base delle caratteristiche sociali di chi se ne serve attivamente: un soggetto con debole grado di alfabetizzazione («modo d’esprimersi d’un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che, ottimisticamente, si chiama la lingua ‘nazionale’»: De Mauro 1970: 47). I tratti che vengono ascritti all’italiano popolare d’altra parte sono fortemente connotati in tale direzione essendo riconducibili da una parte all’interferenza con il dialetto (ad es., casi di trapasso di classe di parole o di genere granmaticale: la sale, lo scatolo; oppure l’uso di alcune perifrasi aspettuali: sono dietro a finire il lavoro) e dall’altra a fenomeni di semplificazione (ad es., la cosiddetta concordanza a senso, come in la gente uscivano – per cui 2 7 9 4 accordo –, o usi del 2 7 9 4 che polivalente, come in la ragazza che le ho dato un bacio). Il riferimento ai semicolti, cioè a individui poco scolarizzati, sempre presente negli studi sulla varietà di lingua che nella considerazione dei parlanti si colloca ai livelli più bassi nella scala del prestigio, è significativo e deve essere associato alla diffusa opinione (a cui si è già accennato), che nella situazione italiana il parametro diastratico più importante sia il grado di istruzione del parlante, non la sua posizione economica (Berretta 1988). Benché negli ultimi decenni la composizione del repertorio italiano abbia attraversato un’ampia serie di innovazioni e cambiamenti altrettanto ampi abbiano avuto luogo nell’accesso all’istruzione (fra l’altro è quasi del tutto scomparso l’analfabetismo fra le giovani generazioni; 2 7 9 4 analfabetismo e alfabetizzazione), l’istruzione è segnalata anche nelle indagini più recenti come variabile altamente significativa. Si veda, ad es., il suo ruolo nel distinguere, tra varietà definite in base ad altri parametri di variazione (come nel caso dell’➔ italiano regionale), varietà di lingua con caratteristiche sociali assai diverse come l’italiano regionale colto o alto e l’italiano regionale popolare o basso. Una seconda importante varietà della lingua italiana, definita prendendo in considerazione caratteristiche di chi la usa attivamente, è l’italiano giovanile. A partire dagli anni Sessanta, in Italia si è dedicata particolare attenzione alla varietà di italiano utilizzata da segmenti sempre più ampi del mondo giovanile nelle interazioni del gruppo di pari. È in quegli anni che si pose il problema di comportamenti sociali e culturali che differenziavano i giovani dagli adulti, al di là delle generali spinte innovative. Non a caso il parametro età gioca un duplice ruolo, in quanto definisce sia il parlante che l’interlocutore e si correla con aspetti non meramente anagrafici quanto propriamente culturali. Il linguaggio giovanile è una varietà di tipo sia diastratico (in quanto connessa al fattore demografico dell’età dei parlanti) sia diafasico (perché adoperata prevalentemente in contesti informali, come nella comunicazione fra coetanei per trattare argomenti riguardanti la condizione giovanile: amore, scuola, musica, ecc.). Le indagini (per alcune raccolte di materariali lessicali si vedano Ambrogio & Casalegno 2004 e i siti http://dblg/humnet.unipr.it e www.maldura.unipd.it/lingua.giovani) si sono soprattutto occupate del piano lessicale individuando alcuni fenomeni ricorrenti: l’accorciamento delle parole (come mate da matematica, ecc.); le deformazioni (zan per ciao); alcune suffissazioni particolari (aggettivi in -oso, come cagoso, cessoso); l’ampia presenza di uno strato gergale sia tradizionale che innovativo (flash, sballare, schizzare, dal gergo della droga), di dialettalismi (urègia per «omosessuale» a Milano, sivilotto per «tiro in porta» a Udine, ecc.), di termini tratti dalle lingue straniere (sister, cabeza) o dalla pubblicità (mastrolindo per «uomo calvo»). Entro le relazioni fra il gruppo e il singolo vanno viste le molteplici funzioni assolte dal linguaggio giovanile, fra le quali (oltre la funzione ludica) la funzione identitaria e quella di autoaffermazione. Dato che queste funzioni sono strettamente interrelate e si rinforzano vicendevolmente, un aspetto essenziale dell’italiano giovanile è l’incessante trasformazione. Ogni innovazione, infatti, è sottoposta a un’usura rapida, particolarmente per quanto riguarda il gergo che ha spesso una diffusione anche territorialmente limitata (una classe, una piazza). Proprio l’estrema labilità e la continua trasformazione fa sì che il linguaggio giovanile non venga generalmente inserito all’interno della vasta categoria dei gerghi in senso proprio, realtà a vario titolo connesse con la dimensione diastratica della variazione linguistica ( 2 7 9 4 gergo). Un altro caso di varietà insieme diastratica e diafasica è il cosiddetto aziendalese, un linguaggio settoriale ( 2 7 9 4 linguaggi settoriali) vistosamente permeato di anglicismi, che si ritiene sia nato nelle filiali italiane delle grandi multinazionali, dalle quali si è diffuso a partire dagli anni Ottanta (Antonelli 2007). Tale varietà si caratterizza anzitutto per il ricorso a frasi e moduli stereotipati come: consulenza a tutto campo, affrontare le sfide del nuovo millennio, è un discorso da gestire, valenza strategica, reportistica aziendale. Molto presenti sono 2 7 9 4 anglicismi come schedulare, implementazione, inizializzare, posizionarsi, processare. Lo stretto rapporto fra l’aziendalese e un preciso contesto situazionale, cioè gli ambienti lavorativi legati alle cosiddette nuove professioni, alla nuova economia, al nuovo mercato, fa sì che esso debba essere visto anche come una varietà diafasica. Sotto più aspetti comunque fenomeni di questo tipo concernono la variazione sociale, rispondendo infatti prima di tutto a un bisogno identitario. Si parla e si scrive in un certo modo per mostrare l’appartenenza a una determinata comunità, mentre è secondaria (se non assente) la necessità comunicativa di usare dei termini tecnici. L’interazione fra campo, tenore e modo dà luogo alle differenti opzioni che si attualizzano in ogni concreta situazione comunicativa: dare del «tu» (opzione di tenore) scrivendo una lettera (opzione di modo) di felicitazione per la laurea (opzione di campo); dare del «Lei» (tenore) chiedendo in classe (modo) una spiegazione all’insegnante di matematica (campo), e via dicendo, in tutta una gamma di possibilità di impiego della lingua nella illimitata differenziazione delle singole situazioni comunicative. 3. Sottodimensioni e caratteri della variazione diafasica Sulla base delle considerazioni sviluppate nel § 2, si possono riconoscere due sfere di variazione diafasica, che nella linguistica italiana vengono spesso designate rispettivamente come variazione di 2 7 9 4 registro e variazione di sottocodice (cfr. Berruto 1987: 139-168). Ciascuna di queste sfere dà rispettivamente luogo a una classe di 2 7 9 4 varietà di lingua, appunto i registri e i sottocodici (questi ultimi spesso chiamati 2 7 9 4 linguaggi settoriali). La variazione di registro (detta anche variazione stilistica: questa è anzi la designazione corrente nella linguistica angloamericana) è connessa fondamentalmente con la categoria del tenore: è infatti basata sul tipo di rapporto fra parlante e interlocutore ed è correlata al grado di formalità relativa della situazione comunicativa. La formalità è un carattere estrinseco di una situazione comunicativa, determinato da fattori sociali e culturali: una situazione è tanto più formale quanto più è focalizzata sul rispetto e l’esecuzione accurata di norme di comportamento esterne all’individuo e vigenti nella comunità, ed è tanto più informale quanto meno implica la messa in opera di norme collettive codificate di comportamento. Il grado di formalità di ogni situazione si situa in un continuum che va dal massimamente formale al massimamente informale; e dipende anche da come la situazione è classificata e ‘costruita’ dai partecipanti. Questo si riflette nel comportamento linguistico in primo luogo nel controllo e nell’accuratezza posti nel parlare e nello scrivere: le situazioni in cui si ha un uso scritto della lingua hanno però in genere un grado di formalità più alto (fatte salve le occasioni di scrittura veloce e spontanea, moltiplicatesi con il diffondersi della comunicazione mediata dal computer e ora comuni per molti parlanti). Si ha così una scala di registri, da quelli alti a quelli bassi. Il registro tendenzialmente (ma non marcatamente) informale usato nella comune conversazione quotidiana è la lingua colloquiale ( 2 7 9 4 colloquiale, lingua). Le differenze di registro si distribuiscono lungo tutti i livelli di analisi della lingua, e riguardano quindi sia la pronuncia che la morfosintassi e il lessico che l’articolazione testuale e pragmatica. Particolarmente frequenti in italiano sono i 2 7 9 4 sinonimi differenziati per registro: nelle coppie, per es., mangiare e cibarsi, morire e decedere, andare e recarsi, soldato e milite, il primo elemento è di registro medio, neutrale, il secondo è di registro formale; in seccatore e rompiscatole, scendere e venire giù, andarsene e smammare, invece, il primo termine è di registro medio e il secondo di registro informale. Non mancano serie di sinonimi disposti lungo il continuum dei registri: macchina, auto, automobile, autovettura si collocano a un livello di registro via via più elevato. Registri aulici, molto alti, sono spesso caratterizzati come tali anche dalla scelta e presenza di termini arcaici ( 2 7 9 4 arcaismi) e/o letterari, come, per es., procella (invece di tempesta), altresì (invece di anche), quantunque (invece di benché), claudicante (invece di zoppicante), periglioso (invece di pericoloso), redarguire (invece di rimproverare), parimenti (invece di altrettanto), tosto (invece di subito / presto). I registri informali sono contrassegnati da una minore complessità sintattica del periodo, che risulta molto più frammentato e con una minore presenza di subordinazione frasale che non nei registri formali. Un indicatore morfosintattico e pragmatico di registro in italiano è rappresentato dalla scelta degli allocutivi ( 2 7 9 4 allocutivi, pronomi). Un aspetto molto evidente della variazione di registro è dato dalle caratteristiche fonetiche con cui il discorso viene realizzato, sia a livello delle singole unità foniche, sia a livello della catena parlata nel suo insieme. Nei registri informali la velocità di elocuzione è normalmente più alta che non nei registri formali, avvengono fenomeni di fusione e riduzione sillabica e spesso non vengono pienamente realizzati tutti i tratti che contraddistinguerebbero l’articolazione dei singoli foni (si dice anche che il parlato informale è ipoarticolato; 2 7 9 4 pronuncia). A questo insieme di fatti fonetici ci si riferisce con il termine, di derivazione musicale, di allegro (o pronuncia allegro). Il parlato formale tende all’opposto a essere lento. Sempre nei registri informali, e in particolare nella pronuncia, è più evidente l’eventuale interferenza di un sostrato dialettale: a causa della minore attenzione e cura poste nella produzione del messaggio e del minore controllo dell’enunciazione, i parlanti bilingui italiano- dialetto producono più tratti dialettali di quelli che emergono quando si esprimono in un registro più formale, e nell’italiano regionale di parlanti monolingui si bada meno a eliminare elementi e tratti localmente marcati. Nella variazione di registro hanno un ruolo importante anche l’espressività e in generale le componenti emotive, che tendono a emergere molto di più nei registri informali, sotto forma di interiezioni ( 2 7 9 4 interiezione) e termini figurati, espressivi, disfemistici, ecc. (accidentaccio!, zucca «testa», tappabuchi «sostituto», fregarsene). La variazione di sottocodice è invece connessa con l’ambito di attività e la sfera semantica che a questo attiene, e quindi con l’argomento del discorso: è perciò determinata dal campo. Questo fa sì che le differenze di sottocodice si manifestino soprattutto nel lessico e nella semantica: ogni settore di attività e di esperienze con una sua sufficiente caratterizzazione o specializzazione sociale e culturale (ad es., la coltivazione dei campi, la medicina, la meteorologia, la politica, il calcio, la musica, la moda e l’abbigliamento, la gastronomia, ecc.) tende ad avere un suo sottocodice caratterizzato da unità lessicali particolari (tecnicismi; ➔terminologie) atte a codificare in maniera precisa significati lessicali propri e tipici di quel campo. Tali lessemi marcati in diafasia possono sia denominare entità o processi esistenti solo in quel determinato settore (per es., neutrino nella fisica, semitono nella musica, spampanare nella viticoltura, decatizzare nella sartoria), sia essere designazioni più tecniche e specifiche di entità o processi noti all’esperienza comune, e quindi dare luogo a coppie sinonimiche con termini della lingua comune (precipitazione e pioggia / nevicata, obliterare e annullare, alienazione e vendita, ecc.). Dalla considerazione dell’importanza del lessico nel contrassegnare questo aspetto della variazione diafasica nasce appunto il termine sottocodice: le varietà di lingua connesse ai vari ambiti, campi e sfere di attività si possono ritenere dei sottocodici in quanto il loro lessico pone corrispondenze significato- significante aggiuntive all’interno del codice lingua ed estranee al suo tronco comune. A seconda della natura del lessico che definisce i sottocodici, si possono distinguere dai linguaggi settoriali in senso lato quelle che vengono chiamate lingue speciali. Queste sono sottocodici caratterizzati da una terminologia nomenclatoria propria: un lessico tecnico che è definito all’interno dell’ambito disciplinare stesso per designare in maniera univoca e ben determinata nozioni, concetti, oggetti costitutivi, contenuti di quella sfera particolare. Sono lingue speciali le varietà delle diverse branche del sapere tecnico-scientifico (lingua della chimica, dell’astronomia, dell’informatica, della linguistica, dell’economia, ecc.). La specializzazione del lessico, e la conseguente scarsa comprensibilità per chi non appartenga alla cerchia di coloro che si occupano dell’ambito a cui attiene il sottocodice, sono nelle lingue speciali più forti che nei linguaggi settoriali. Cloruro di sodio «sale» (lingua speciale della chimica) è un termine molto meglio definito, senza alcun margine di ambiguità, rispetto a, per es., scoop «notizia sensazionale» (linguaggio settoriale del giornalismo), ma può risultare incomprensibile a chi non sappia di chimica. Di qui, possibili utilizzazioni dei sottocodici non per migliorare la funzionalità della comunicazione, come sarebbe nella loro natura, ma in realtà per limitarla o complicarla, quando ci si rivolga a persone estranee al campo specifico e a cui quindi, intenzionalmente o no, si preclude un’adeguata comprensione. Mentre un’opzione di registro è onnipresente, in quanto ovviamente ogni enunciato linguistico è sempre formulato in un certo registro, la variazione di sottocodice si manifesta quando l’argomento del discorso si riferisca a uno degli ambiti contenutistici o disciplinari dotati di un proprio lessico tipico. Variazione di registro e variazione di sottocodice possono sommarsi, dando luogo a serie sinonimiche differenziate per registro e per sottocodice, come, per es., fifa (di registro informale), paura (non marcato né per registro né per sottocodice), fobia (marcato per sottocodice); e combinarsi, nel senso che un messaggio in un determinato sottocodice può essere formulato in diversi registri: occorre in un primo momento bufferizzare e in un secondo momento procedere al reset è sottocodice lingua dell’informatica, registro formale, mentre prima bufferizzi e poi resetti è stesso sottocodice, ma registro informale. C’è ovviamente variazione diafasica anche nei dialetti e nelle parlate alloglotte. Molti dialetti e parlate hanno, oltre al normale registro colloquiale orale, un registro ricercato, utilizzato nella produzione letteraria; e anche i dialetti possiedono lessici e terminologie specifiche proprie di settori particolari di attività (per es., la coltivazione dei campi, i mestieri tradizionali, ecc.), hanno cioè variazione di sottocodice. Va notato infine che la terminologia internazionale circa la variazione diafasica è parzialmente diversa rispetto a quella utilizzata qui. In particolare, nella linguistica anglosassone tutto l’insieme della variazione diafasica è solitamente inteso come variazione di registro, e registro (register) è quindi il termine per ogni varietà diafasica, relativa all’uso in situazione (cfr. Finegan & Biber 1994). Così è anche nella concezione di Halliday (1978), nella quale registro (o varietà diatipica) è ogni varietà legata all’uso, controllata dall’interazione fra campo, tenore e modo. Nella terminologia anglosassone, e soprattutto negli autori americani, viene invece spesso designata come variazione stilistica, o di stile contestuale, una buona parte della fenomenologia che qui si è trattata in termini di variazione di registro. 4. Rapporti con le altre dimensioni di variazione Un carattere importante della variazione diafasica è il fatto che essa risieda nel singolo parlante. Mentre la variazione diatopica e quella diastratica riguardano nel suo complesso la comunità che parla una certa lingua, e ciascun parlante si riconosce nella varietà di lingua propria della sua regione o località di provenienza e socializzazione, e dello strato e rete sociale di cui è partecipe, la variazione diafasica ha luogo nel singolo parlante. Ciò significa che la variazione diafasica opera all’interno delle altre dimensioni di variazione, secondo l’ordine diatopia - diastratia - diafasia: ogni parlante di italiano parla una varietà diatopica di italiano nella forma della varietà diastratica della sua fascia sociale di appartenenza, e all’interno di questa ha a disposizione più scelte diafasiche. I tratti linguistici suscettibili di variare diafasicamente sono tuttavia in larga sovrapposizione con quelli suscettibili di variare diastraticamente, cosicché spesso non è facile stabilire se un certo tratto presente in entrambe le dimensioni di variazione valga come indicatore diastratico o diafasico ( 2 7 9 4 substandard). I rapporti fra diafasia, diastratia e diatopia sono dunque complessi. Non sembra tuttavia che possa valere per la situazione italiana l’ipotesi di Bell (1984) che la variazione diafasica derivi da quella diastratica, e i tratti marcati diafasicamente siano un sottoinsieme dei tratti marcati diastraticamente (dato che secondo Bell la variazione diafasica rappresenterebbe sempre una forma di adattamento all’interlocutore e quindi alle caratteristiche diastratiche di storia della lingua; 2 7 9 4 Salviati), che hanno canonizzato gli usi scritti, prendendo il fiorentino trecentesco come base ( 2 7 9 4 italiano standard). A dimostrazione della rapidità dell’italiano nel conseguimento di un codice scritto unitario, si consideri che la Francia e la Spagna, tra le altre, compilarono i propri vocabolari ispirandosi a quello della Crusca (il primo dizionario compilato dall’Académie Française risale al 1694, quello della Real Academia Española al 1726-1739; ancora successivi quelli inglese e tedesco; ➔ lessicografia) e che lingue come l’inglese, il tedesco, il francese e lo spagnolo presentano differenze molto più cospicue dell’italiano tra la loro fase scritta medievale-rinascimentale e quella moderna e contemporanea. All’opposto, a una lingua parlata più o meno unitaria da noi si arrivò soltanto dopo l’unità d’Italia, in ritardo, dunque, rispetto ad altri paesi europei e, secondo molti, non prima dello sviluppo della televisione, verso la metà del Novecento (De Mauro 1993: 353). Lo scritto era appannaggio delle persone colte, per via dell’esteso analfabetismo che caratterizzò l’Italia fino a parte del secolo scorso, e d’uso prevalentemente letterario e formale (➔analfabetismo e alfabetizzazione). La gran parte degli usi parlati avveniva nei vari dialetti. Non mancano, ovviamente, le eccezioni, quali i casi di Venezia o di Napoli, i cui prestigiosi dialetti vantano una consolidata tradizione scritta, formale e ufficiale, che copre la produzione letteraria, poetica e teatrale, fino (nel passato) a quella burocratica e legislativa. Benché sia indubbia l’influenza del canale sul testo, l’ambiguità di etichette come scritto e parlato – ora riferite al prodotto (pagina scritta, enunciato, ecc.), ora al processo (prospettiva cognitiva), ora alle caratteristiche linguistiche dell’una o dell’altra modalità – giustifica il tentativo di superamento di tale rigida dicotomia, per es. con i parametri della immediatezza (o vicinanza) e della distanza, riportati nel seguente schema (rielaborato da Koch 2001: 18): immediatezza distanza comunicazione privata comunicazione pubblica interlocutore familiare interlocutore sconosciuto emozionalità forte emozionalità debole ancoraggio pragmatico distacco pragmatico e situazionale e situazionale ancoraggio referenziale distacco referenziale compresenza spazio-temporale distanza spazio-temporale cooperazione comunicativa cooperazione comunicativa intensa minima dialogo monologo comunicazione spontanea comunicazione preparata libertà tematica fissità tematica Come si vede, immediatezza e distanza vanno intese sia in termini di compresenza degli interlocutori durante la conversazione, sia in termini di vicinanza psicologica (coinvolgimento affettivo tra di loro), sia, infine, in termini di condivisione di temi ed esperienze (vale a dire vicinanza o lontananza culturale fra gli interlocutori). Con ancoraggio si intende la presenza, nella comunicazione, di elementi interpretabili soltanto o preferibilmente grazie al contesto, quali i deittici. Tanto lo scritto quanto il parlato possono tendere ora verso il polo dell’immediatezza, ora verso quello della distanza, benché esistano degli orientamenti preferenziali: al parlato, infatti, come già detto, si addicono prevalentemente contesti dialogici, privati e familiari, rispetto alla comunicazione perlopiù monologica e pubblica dello scritto. Il parlato è quindi prevalentemente lingua dell’immediatezza e lo scritto lingua della distanza. Altri studiosi, analogamente, sostengono che l’opposizione tra scritto e parlato deve essere descritta a partire da un modello «prototipico» (Bazzanella 2002), secondo il quale i tratti non sono esclusivi, ma preferenziali, di una data varietà: il parlato canonico (con cui s’intende quello dialogico spontaneo faccia a faccia) presenta tratti che possono essere presenti, in parte, anche in alcune varietà scritte. Testi quali i messaggi delle chat, infatti, esibiscono alcune caratteristiche che li avvicinano al parlato prototipico: gli interlocutori condividono il tempo e lo spazio di scrittura (qui inteso come canale, oltre che come luogo in cui si trova lo scrivente); lo scambio dialogico è quasi- sincrono, spesso poco pianificato per la rapidità con cui gli utenti scrivono per non perdere il turno. Proprio i cosiddetti nuovi media (➔lingua e media) mostrano la fragilità di schematizzazioni eccessivamente rigide, poiché presentano la coesistenza di fattori tradizionalmente distinti: la fissità tematica, la formularità, la presenza di un moderatore e l’interlocutore sconosciuto (o sotto mentite spoglie), infatti, possono ben coniugarsi anche a contesti di grande emozionalità e informalità (come nei newsgroup telematici). 2. Principali varietà diamesiche Rispetto allo scritto prototipicamente inteso (➔ lingua scritta), cioè caratterizzato dall’assenza di un rapporto diretto tra mittenti e destinatari, distanti nel tempo e nello spazio, i testi parlati o scritti in condizioni di simultaneità totale o parziale (messaggi nei telefoni cellulari, chat, messaggi di posta elettronica; 2 7 9 4 posta elettronica, lingua della) saranno ricchi di elementi dialogici quali i pronomi personali usati in funzione allocutiva (soprattutto tu) e i ➔segnali discorsivi fàtici (pronto, mi capisci?; puoi ripetere?; sai; vedi; ecc.) ( 2 7 9 4 allocutivi, pronomi; ➔personali, pronomi). Questi ultimi sono parole o espressioni che fanno leva sul contatto tra gli interlocutori e servono spesso quali segnali di feedback (o retroazione) utili, cioè, per verificare che il messaggio sia stato ricevuto correttamente. Altre forme rare nello scritto sono i ➔deittici, ovvero quegli aggettivi, pronomi e avverbi il cui referente si può recuperare soltanto dal contesto, quali questo, quello, qui, lì, oggi, domani. La natura di queste forme, infatti, fa sì che esse siano interpretabili soltanto se gli interlocutori sono fisicamente compresenti durante l’atto comunicativo (➔lingua parlata). Nello scritto, inoltre, vengono solitamente evitati tutti quegli elementi di frammentarietà, incertezza, ridondanza, incoerenza e assenza di coesione che caratterizzano, invece, i testi parlati non pianificati in anticipo, nei quali la simultaneità tra l’atto della progettazione e quello dell’emissione del discorso non consente il controllo formale tipico dello scritto. Si pensi alle parole troncate a metà, ai cambiamenti di progetto e alle autocorrezioni (ho avuto un inciden... mi hanno tamponato; penso che ... puoi venirmi a prendere?), alle sovrapposizioni di turno dialogico, alle pause vocalizzate (mah, hm, beh), a tutte le parole usate come riempitivo mentre si sta prendendo tempo per formulare un pensiero (cioè, ecco, veramente, come dire, in un certo senso, praticamente; 2 7 9 4 intercalari). Senza parlare di tutti i fenomeni sintattici di segmentazione ( 2 7 9 4 anacoluto; 2 7 9 4 dislocazioni) e di pleonasmo pronominale. Tali forme, che risulterebbero inappropriate per iscritto, sono assolutamente normali nel parlato. A conferma di ciò, basti pensare alla difficoltà di trascrivere completamente con assoluta precisione il testo di una conversazione: oltre all’impossibilità di rappresentare adeguatamente caratteristiche della voce quali timbro, volume, ritmo e intonazione, molte parole risultano incomprensibili, poiché incomplete, e molte forme (le pause vocalizzate) non sono praticamente trascrivibili. Una trascrizione è tanto meno comprensibile alla lettura quanto più è fedele al testo orale di partenza, che invece risulta perfettamente accettabile agli interlocutori effettivi, poiché partecipano alla medesima situazione. Quanto nello scritto può risultare frammentario, implicito e lacunoso o, all’opposto, ridondante, è invece normale nella ➔conversazione faccia a faccia (l’implicitezza deriva dalla condivisione del contesto, mentre la ridondanza dalla minor permanenza del messaggio orale rispetto a quello scritto), nella quale tutti cooperano ai temi trattati e alle strategie comunicative e c’è sempre la possibilità di chiedere spiegazioni, di interrompere, di ripetere o di correggere (ma non di cancellare, prerogativa dello scritto) quanto già detto. L’elevata cooperazione tra gli interlocutori è dovuta anche al fatto che, a differenza dello scritto (salvo quello epistolare), quasi sempre rivolto a un destinatario ignoto, indistinto e generico (come nel caso di un romanzo, un giornale, un’enciclopedia e sim.), il parlato è solitamente prodotto per un interlocutore specifico. Per lo stesso motivo, il discorso parlato tende a una maggiore conflittualità ed emotività rispetto a quello scritto, nel quale il distacco psicologico tra gli interlocutori, oltre a quello nel tempo e nello spazio, contribuisce a mitigare la carica affettiva: non soltanto per motivi di autocensura, dunque, forme come gli insulti e le parole oscene sono di norma meno numerose nello scritto che nel parlato. Il principio del destinatario attivo e collaborativo incide anche sui testi scritti: taluni, infatti, con un maggior grado di implicitezza (poesie, romanzi) e dunque meno vincolanti, richiedono al lettore, per essere correttamente interpretati, un grado di cooperazione maggiore rispetto ad altri, più coesi, strutturati ed espliciti (saggi, enciclopedie), più vincolanti perché lasciano al lettore meno libertà interpretativa. La variazione diamesica induce a un’interpretazione meno rigida dei concetti di norma ed errore: ciò che le grammatiche hanno sempre codificato come errore nella lingua scritta può essere perfettamente accettabile nella lingua parlata, che talora alla buona formazione sintattica e alla puntualità lessicale preferisce la funzionalità 2 7 9 4 pragmatica, vale a dire l’appropriatezza del rapporto tra gli usi linguistici, gli interlocutori e il contesto comunicativo. Alcune varietà diamesiche sono molto riconoscibili per via di formule rituali e parole deputate. Tra queste, la 2 7 9 4 conversazione telefonica, che segue schemi ricorrenti specialmente nelle parti iniziale e conclusiva: basti pensare al segnale discorsivo fatico pronto, in apertura di telefonata, o a formule come: chi parla?; chi lo desidera?; attenda in linea; glielo passo subito; ecc. Anche lo scritto epistolare ( 2 7 9 4 lettere e epistolografia; ► stile epistolare) segue formule precise, almeno per quanto riguarda l’intestazione della lettera, i saluti iniziali e finali ( 2 7 9 4 saluto, formule di). La corrispondenza telematica presenta caratteristiche diverse, in gran parte indotte dal mezzo, quali l’abitudine di rispondere a un messaggio citandone punto per punto i passi salienti per via della funzione detta quoting, che riporta automaticamente, tra parentesi uncinate ad apertura di schermata del messaggio di risposta, l’intero testo del messaggio a cui si sta rispondendo. Casi analoghi sono quelli del telefono cellulare, che ha innescato dinamiche comunicative diverse da quelle del telefono fisso. Una di queste è data dalla caduta in disuso, in quel mezzo, di formule come chi è? o chi parla?, poiché il nome del chiamante, se registrato in rubrica, viene visualizzato subito sullo schermo del telefonino. Anche i meccanismi della ricezione e della carica dell’apparecchio generano una serie di enunciati rituali nella conversazione al cellulare (non prende / non c’è campo; mi sposto per sentirti meglio; metto in carica il telefono e ti richiamo; ecc.),
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