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Verismo, Naturalismo, Verga, Decadentismo, Pascoli, Sbobinature di Italiano

Analisi nei minimi dettagli delle correnti letterarie e culturali ma anche degli scrittori con particolare attenzione sulle loro opere. Analisi dettagliata di poesie e brani antologici

Tipologia: Sbobinature

2020/2021

In vendita dal 20/06/2021

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Scarica Verismo, Naturalismo, Verga, Decadentismo, Pascoli e più Sbobinature in PDF di Italiano solo su Docsity! 11 Novembre 2020 IL SECONDO OTTOCENTO Questo è il periodo dove trionfa la borghesia e i suoi valori: il mito del progresso e del denaro. Si afferma la scienza e compie significativi progressi basti pensare agli studi sulle cellule, il vaccino della tubercolosi, la radioattività. Questo provoca grande fiducia nelle possibilità della scienza a cui ci si affida poiché consapevoli che può migliorare, guarire e risolvere molti problemi. Inoltre, questo è il periodo della modernità: si espande la rete ferroviaria, si inventano il telefono, il telegrafo, l’automobile. La modernità ha un duplice effetto. Se da una parte viene esaltata, dall’altra viene anche vista con sospetto, si mettono in luce anche gli effetti negativi di essa. Così come nel Romanticismo la corrente filosofica di riferimento era l’Idealismo, in questo periodo storico la corrente che ha chiaramente ripercussioni sulla letteratura è il Positivismo (che nasce in Francia). Saint Simon, un filosofo, voleva fare riferimento ad un metodo di conoscenza basato sulle scienze positive per applicarlo ad altri campi. L'esponente filosofico principale è Comte, e il suo scopo è appunto quello di applicare il metodo scientifico su altre discipline quali quelle politiche, storiche e sociali. A questi filosofi interessa quindi solo quello che è oggettivo, tangibile e concreto quindi tutto ciò che è osservabile; viene escluso tutto il resto, non si può conoscere tutto quello che è metafisico (quindi al di là del mondo concreto). Noi possiamo limitarci a conoscere solo i fenomeni concreti ed osservabili. Possiamo individuare un rapporto continuo tra Illuminismo e Positivismo. In comune hanno la componente razionale, laica, antispiritualistica (se i positivisti si limitano ad osservare fenomeni tangibili tutto il resto viene escluso) e materialista. Una componente del Positivismo è il determinismo; e secondo questa visione l’uomo è determinato da alcuni fattori che agiscono su di lui, in modo particolare dagli istinti e dall’ambiente in cui vive. L’uomo ha quindi poco spazio di scelte individuali. L’uomo e la società sono oggetti di indagini scientifiche. Gli intellettuali erano: - Comte è colui che introduce l’applicazione del metodo scientifico ad altri campi del sapere. - Darwin si colloca proprio in questo periodo, ed è colui che formula la teoria dell’evoluzionismo (molto legato all’esaltazione del progresso, perché esso ha alla base una fiducia del miglioramento). - Spencer è colui che si può parlare di darwinismo sociale, perché tutto il discorso di Darwin è legato agli esseri viventi mentre Spencer lo applica agli uomini. Applica le regole dell’evoluzione naturale alla società. - Then è colui che più si lega al determinismo, egli mette a punto quali sono i fattori che influenzano l’uomo: race, milieu e moment. L’uomo è quindi il frutto di questi tre fattori che interagiscono. L'evoluzionismo che nasce in ambito naturale venne poi applicato alla società e quindi questa teoria della selezione naturale fu applicata anche in economia e politica. Questo porta quindi alla legittimazione, in economia, della concorrenza economica e in politica, della concorrenza politica vale a dire che il più forte vince. Di fronte a questo quadro storico i letterati reagirono in tre modi diversi: - Adesione → parlando di questo atteggiamento di adesione ci riferiamo a Naturalismo in Francia e Idealismo in Italia. I letterati affrontano la realtà dal punto di vista scientifico, rappresentano la realtà in maniera oggettiva, assumono un atteggiamento di distacco. Sono organici al tipo di società borghese, moderna e volta al progresso. - Fuga → questo è l’atteggiamento di chi non si sente inserito in questo tipo di società e prende la via della fuga al posto dell’inserimento. Si tratta di scrittori che non accettano quel tipo di realtà perché la sentono meschina, priva di valori. Essi rifiutano il mondo borghese volto all'utile, al denaro. Questo atteggiamento è tipico di scrittori volti al positivismo e al decadentismo. - Ribellione → parliamo appunto della Scapigliatura. Si tratta di autori giovani che provano insofferenza verso la società borghese, sfiducia nella generazione precedente. Questa è una ribellione velleitaria ovvero fine a se stessa e che non vuole proporre nulla di alternativo. Essi non assumono un ruolo di guida e non conquistano un loro spazio. Parliamo di giovani che si autodistruggono, che muoiono giovani per la loro vita sregolata a causa di droga o alcool. LA SCAPIGLIATURA Il termine “scapigliatura” fa presagire l’atteggiamento di questi giovani; deriva dal romanzo La Scapigliatura e il 6 Febbraio che uscì nel 1862 a Milano. La Scapigliatura è un fenomeno culturale che dal punto di vista letterario non ha lasciato grandi segni. Questo fenomeno si sviluppa a Milano e Torino tra gli anni 60’ e 70’. Milano e Torino in quegli anni sono all’avanguardia rispetto al resto dell’Italia, rappresentano la modernità. Gli scapigliati sono giovani intellettuali che provano sofferenza e delusione verso la condizione italiana del post-unità. Assumono atteggiamenti di ribellione fine a se stessa, fanno del non avere regole il loro stile di vita. Assumono atteggiamenti di auto emarginazione e autodistruzione attraverso droghe e alcool. Essi rivendicano la propria libertà e autonomia rispetto alla generazione precedente, si oppongono ai loro bersagli come Manzoni perché rappresenta la tradizione, il cattolicesimo e valori che gli scapigliati ritengono superati. Il termine scapigliatura è la traduzione dal francese di bohémien. C’è un forte legame tra i loro due, ma soprattutto con il modello francese di Baudelaire. Gli scapigliati rappresentano il disagio dell’artista che in una società borghese non trova la sua collocazione, perché la società è volta all’utile e al denaro mentre l’artista non vuole vendere la propria arte. Essi incarnano l’artista che ha perso l’aureola (C.B.) ovvero la perdita di quella sacralità dell’artista, di quel ruolo importante che aveva. Con gli scapigliati parliamo di artisti poliedrici, quindi con interessi diversificati. Ad esempio sono scrittori ma anche musicisti o pittori che assumono questo stile di vita da bohémien. Dal punto di vista letterario individuiamo dei meriti: 1. Introducono nuovi temi che non erano mai stati accolti dalla letteratura italiana, ad esempio il macabro, l’orrido, il sogno, la malattia… 2. Introducono la conoscenza di autori stranieri come Baudelaire e Edgar Allan Poe. 3. Essi rappresentano la rottura che si viene a creare tra l’artista e la società. Rottura introdotta da Baudelaire, quando egli si rivolge al nemico lettore sta creando un solco tra l’artista e la società. Viene a mancare il rapporto di fiducia. 4. Interartisticità → ovvero si tratta di artisti poliedrici quindi con vasti interessi. Questo verrà ripreso dalle avanguardie del ‘900. La Scapigliatura si colloca quindi tra Verismo e Decadentismo, tutti fenomeni contemporanei. La scapigliatura propone rappresentazioni realistiche ed esasperate fino al macabro, questo lo accomuna al Verismo, ma ha una tendenza di senso opposto quella dell’evasione verso il sogno e la dimensione irreale e questo li accomuna al Decadentismo. Alcuni scrittori scapigliati sono: Camerana, Piemontese (che muore suicida), Boito (un musicista che collabora con Verdi, autore di melodrammi e libretti d’opera), Tarchetti (un romanziere piemontese che muore giovane di tisi. Qui troviamo il gusto per l’orrido e per il macabro ma anche temi di critica sociale. Scrive un romanzo Fosca), Dossi (che introduce uno sperimentalismo linguistico) e Praga (pittore e poeta che muore giovane in miseria e distrutto dall’alcool). Perdita dell’aureola | Charles Baudelaire Questo è un brano tratto da Baudelaire. Perdita dell’aureola è il titolo di un poemetto in prosa, tratto dalla raccolta Spleen. Qui è molto pertinente il luogo del bordello. La situazione del poeta viene associata a quella di una prostituta, perché entrambi vendono qualcosa: chi il proprio corpo, chi l’arte. Questa è la rappresentazione della società borghese, dove tutto passa per il denaro. L’artista non ha più l’aura sacra per la quale viene considerato come un dio, ma è un personaggio mediocre. Se mai l’aureola cadrà nel fango, non sarà mai più come prima perchè i tempi cambiano. Fa riferimento ad un gruppo di letterati che sono consapevoli di aver perso questa condizione, un tempo privilegiata, invece ora sono in mezzo alla folla. La letteratura scapigliata si espande in prosa e poesia. Per la poesia non vengono introdotte nuove caratteristiche poiché si avvalgono di strutture metriche tradizionali come la rima, il lessico risulta ancora legato alla tradizione ottocentesca nonostante vengano aggiunti temi poco poetici. Per quanto riguarda il contenuto vi sono delle novità: da una parte il senso di inquietudine e la consapevolezza di essere diversi rispetto alla generazione precedente, quindi la consapevolezza di un malessere esistenziale, vi sono temi anche legati al morboso, al patologico e al macabro. Parlando invece della prosa ci sono delle novità sul piano contenutistico, la narrativa scapigliata presenta un realismo quasi esasperato per i temi che porta come la morte, la follia, la patologia. Preludio | Emilio Praga Emilio Praga è un milanese, un classico poeta maledetto quindi trasgressivo che con il suo stile di vita fuori dalle regole si oppone alla generazione precedente. Egli viaggia e non ha una dimora stabile, passa da alcool e droga che sono la condizione che segna il suo essere. Vive in miseria e associa la sua poesia alla pittura. Muore poi a 36 anni, dopo una vita maledetta. Questo testo è una sorta di dichiarazione di poetica, è un testo che inizia con noi quindi una presa di posizione. Nella prima parte il poeta parla di una generazione, delinea ciò che la sua non è più: non ha più valori religiosi, è tutto remoto e lontano quello che ispira la poesia religiosa di Manzoni. Alessandro Manzoni viene chiamato in causa direttamente, e il poeta gli augura la morte perchè ha fatto il suo tempo e appartiene ad un’altra generazione. Ora, dice Praga, è il momento degli anticristi, si sofferma proprio sulla perdita delle certezze che ancora non ha intrapreso una strada sicura. Sono attoniti, muti sono quindi privi di una bussola che ispiri la loro condotta. La conclusione è la dichiarazione poetica: canto una misera canzone ma canto il vero. Figli dei padri ammalati si può intendere che i nostri padri siano ammalati nel senso che hanno finito la loro epoca; ma altri intendono come siamo i figli ammalati dei nostri padri quindi che non siamo degni dei nostri padri, perché privi di certezze. Siamo come le aquile che stanno cambiando le piume quindi che non riusciamo ancora ad identificarci. Identifichiamo poi il lessico della religione nelle strofe successive. L’idolo d’oro rappresenta il denaro, gli umani hanno abbandonato i valori della religione. I patriarca si aspettano inutilmente così come si attende invano la poesia religiosa. Dualismo | Arrigo Boito Boito studia musica al conservatorio. Vive diversi anni a Parigi e fu un librettista. Scrive un testo dove nelle prime quattro strofe si sofferma sul tema dei conflitti del poeta che è diviso tra alto e basso, cielo e loto, luce e ombra. Dalla quinta alla settima allarga il discorso sull’umanità. le ultime si soffermano sull’arte: si parla infatti di arte eterea e arte reproba. da Fosca | Ugo Iginio Tarchetti Nel secondo Ottocento ci sono diverse protagoniste femminili nella letteratura. I tratti caratteristici in questo romanzo sono: due donne una Fosca e Clara, due modelli di donne; il protagonista un ufficiale Giorgio, è attratto da entrambe ma in modo particolare da Fosca. Fosca rappresenta la donna malata, dalla sensualità perversa e dal fascino dell’orrido. Entrambi saranno destinati alla morte. Fosca è la donna che viene definita come prototipo di donna vampiro, ovvero quel tipo di donna che toglie la vita al protagonista maschile. Le tecniche narrative adottate furono: - Il narratore si eclissa, non ha diritto di esprimere alcun giudizio, rinuncia alla funzione di presentare i personaggi. - Gli scrittori naturalisti scrivono dall’alto, mentre quello verista rinuncia alla sua superiorità e prende la prospettiva bassa del popolo. - Lo straniamento è l’effetto prodotto da un narratore regredito che assume un punto di vista diverso che spiazza il lettore. Viene presentato strano qualcosa di normale e viceversa e ciò deriva dallo scarto che si ha dal punto di vista del narratore basso e popolare che dovrebbe essere alto ed elevato. - Il discorso indiretto libero è una caratteristica identificativa, vengono riportate parole di altri come se fossero pronunciate dal narratore stesso. - La forma deve essere adeguata al soggetto, quindi il linguaggio deve essere adatto ai personaggi. Le novità: - L’opera di Verga è caratterizzata da una nuova prospettiva e una nuova tecnica narrativa. - Ha un approccio pessimistico rispetto al cambiamento. - Verga adotta un punto di vista interno con la tecnica dell’impersonalità, lascia che il lettore si arrangi da se. - Vediamo nelle prime opere veriste la scoperta di una nuova realtà economico-sociale, utilizza la tecnica dell'eclissi del narratore. - Nell’opera Nedda, nonostante sia anni prima della svolta verista, vengono introdotte delle tematiche che poi svilupperà dopo. - Verga scrive delle novelle le cui tematiche sono l’emarginazione, la diversità, il culto della “roba”, la logica del profitto, la violenza. Le principali raccolte di novelle sono Vita dei Campi, Novelle rusticane e Per le vie. - Verga voleva dare vita ad un ciclo di 5 romanzi ma non completa questo progetto poiché ne scrive solo due. Con questi romanzi voleva mostrare con i mezzi adatti tutte le classi sociali nella loro lotta alla vita in cui si attua il progresso. Le novelle compiute sono I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo; quella incompiuta è La duchessa di Leyra; mentre mai scritte sono L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. - Verga scrive anche per il teatro e vuole avere lo stesso approccio realistico. NEDDA Nedda è una novella risalente al 1874 che ebbe molto successo, viene definita un bozzetto siciliano. Ha in comune con le opere post-svolta le tematiche e non la forma. è ambientato nelle campagne vicine a Catania con riferimenti alla dura situazione dei contadini. Verga sceglie dei personaggi umili, dei disgraziati, orfani, emarginati e li colloca in un ambiente contadino. Nedda è un’orfana che si innamora di Janu, un giovane contadino che morì durante la potatura di olivi. Nedda rimane incinta di Janu e partorisce la figlia. Nedda subisce per questo fatto l’esclusione della società in cui vive, ma alla fine la figlia morirà. Molti critici considerano questa novella come un punto di inizio ma non lo è, ma solo per le tematiche ma l'impianto è tradizionale. La storia è concepita ancora per piacere a un pubblico borghese, vagamente filantropo, che si commuove nel provare compassione per una ragazza maltrattata dalla vita. La vera svolta è data da Vita dei Campi, una raccolta del 1880 a cui appartiene Rosso Malpelo. Questa è la prima opera in cui vengono applicati tutti i nuovi canoni artistici perché l'autore assume la prospettiva dei personaggi popolari. I temi sono: l'esclusione, l’emarginazione, la violenza. Le novelle presentano un mondo contadino fatto da miseria e sopraffazione, ancora legato ai valori tradizionali ma in piena transizione verso una vita dominata dalla logica del profitto. La “vita dei campi” è colta infatti nel momento in cui entra in contatto con i nuovi imperativi della vita economica e sociale. Eppure si nota ancora una componente lirico-simbolica. ROSSO MALPELO Rosso Malpelo è un ragazzino che lavora in miniera. Verga utilizza i documenti, ad esempio quello sulla condizione minorile del Sud Italia, e legge di questi carusi che venivano sfruttati perché minuti. La storia è appunto quella di uno sfruttato che lavora in miniera e conosce solo il disprezzo persino dalla madre a dalla sorella, mentre ha un buon rapporto col padre che muore presto. Rosso Malpelo subisce le angherie dal padrone e dalla società, e soprattutto i pregiudizi della società perché come suggerisce il titolo, ha i capelli rossi e in quanto ciò viene isolato e disprezzato, considerato un ragazzo malvagio. Rosso Malpelo subisce il destino terribile dell’ereditarietà, perché la propria sorte sarà quella del padre. E’ quindi questa la storia di un ragazzo escluso da pregiudizi. Nonostante l’emarginazione e le angherie che subisce Rosso Malpelo ha dalla sua parte una superiorità perché è consapevole di quelle che sono le logiche che prevalgono, ha capito qual è la logica imperante. Egli accetta il suo ruolo di emarginato con una consapevolezza che non tutti hanno. Inoltre nonostante tutto ciò, vuole educare a queste stesse regole un ragazzino, preparandolo a vivere in questo ambiente. Questa è la prima e vera opera verista, vedremo quindi la rinuncia del narratore alla sua superiorità e affida la rappresentazione ai paesani. Il narratore regredisce a quella mentalità di ignoranti, violenti e discriminatori. Il linguaggio non è dialettico ma contiene molte espressioni vicine al dialetto. La fonte a cui Verga attinge è l’Inchiesta in Sicilia. In tutta questa raccolta non si fa a meno della componente lirico-simbolica, troviamo quindi un grande simbolismo in questa novella. Il simbolismo evidente è quello cromatico: vengono riportati in modo innumerevole i colori come il rosso e il grigio. La componente lirica la si ritrova nella durezza della vita di Rosso Malpelo. Analisi: Già nelle prime righe abbiamo degli aspetti da segnalare. Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Questo è un esempio di regressione del narratore, il narratore non prende le distanze dalla credenza popolare secondo la quale chi ha i capelli rossi sia cattivo. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; già il nome che gli hanno affibbiato è un’etichetta e che lui accetta, e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Con questa frase viene già spiegata la figura della madre. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Anche madre e sorella appartengono alla stessa comunità. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Gli altri lo considerano un cane rognoso, il ragazzino non prende altro che pedate, calci e schiaffoni. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Questo è il narratore che asseconda quelle credenze. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, grigio ecco quindi la situazione cromatica, come fanno le bestie sue pari, il narratore qui si esprime dicendo che è una bestia che mangia in un cantuccio non perchè sia una bestia bensì perchè è discriminato dagli altri, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, ecco il colore grigio che ricorre due volte, senza osar di lagnarsi. Quindi egli nemmeno si lamenta, accetta la sua condizione con dignità. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Questo è un esempio di straniamento, presenta una cosa come se fosse normale; ovvero che una sorella siccome si deve sposare e ha altro per la testa mandi il suo fratellino piccolo in giro sporco e cencioso. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava. Si apre una analessi sulla morte del padre che lavorava nella stessa cava e che viene escluso esattamente come il figlio. Padre e figlio sono fortemente legati non solo da affetto bensì anche del destino da emarginati. Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava.Mastro Misciu viene presentato come un uomo che si è fatto imbrogliare; viene associato all’asino, di colore grigio tra l’altro quindi notiamo anche il simbolismo cromatico. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -. Notiamo l’attaccamento del figlio per il padre. Tutti lo prendono in giro, lo isolano, lo emarginano ma egli è indifferente però ne soffre il figlio. Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato. Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Lo lasciano da solo a scavare di notte e lo sbeffeggiano. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - quindi ad ogni picconata pensa a quello che potrà guadagnare e naturalmente i guadagni sono tutti per mantenere la sua famiglia e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, abbiamo parlato del simbolismo e soprattutto notiamo la lirica della natura fuori le stelle e dentro la luce della lanterna, e dicesse ohi! anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il figlio è sempre accanto al padre e lo aiuta. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense. Ecco questo è un simbolismo: la luce che si spegne = la vita che si spegne. L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. E’ avventuto esattamente quello che i suoi compagni si raccomandavano. Il padrone della miniera è quasi seccatto perchè si trova a teatro ed ha questa grana da risolvere. L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro Bestia! Quindi non solo è morto ma viene anche criticato per la sua morte. Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero. Ora notiamo la reazione di Rosso Malpelo che assiste alla morte del padre che era l’unica persona dalla quale riceveva affetto e alla quale voleva bene. - To'! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso? - Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... - Malpelo viene visto come il diavolo per i suoi capelli, e questa cosa l’ha preservato dalla morte. Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Questa è la comunità: prima non si accorgono nemmeno, poi vedono una bestia, la schiuma alla bocca ma senza accorgersi di costa sta vivendo. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. Ecco un’altra volta che viene accostato al diavolo. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. I paesani notano che non mangia come se fosse una cosa strana, ecco appunto lo straniamento. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: - Così creperai più presto! -. Questa non è cattiveria, ma perché egli ha capito che l’esistenza è tragica. Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Rosso Malpelo accetta il pregiudizio di essere cattivo e si immedesima nella parte. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Viene riportata una voce popolare: Rosso Malpelo fa una vittima, non è frutto dell’immaginazione che tutti ce l’abbiano con lui. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. Lui sa per certo tutti i maltrattamenti ed angherie. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo Sciancato: - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! -. Rosso Malpelo è un testimone e sa che la causa della morte del padre è lo sfruttamento. Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Rosso Malpelo prende in cura un ragazzo più debole di lui che ha subito un incidente ed ha un handicap, chiamato Ranocchio. Questo rapporto di affetto viene definito così dalla comunità maligna, sembra che Rosso Malpelo protegga questo ragazzo perchè maligno ma in realtà è tutto il contrario. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiare, dicevano. Ranocchio è un ragazzino molto debole ed il gesto di solidarietà è appunto quando Rosso Malpelo cede il suo pezzetto di pane ed il narratore si associa alla voce popolare. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! -. Qui capiamo il vero intento di Rosso Malpelo: anche quando lo picchia vuole educarlo alla vita. O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! -. Rosso Malpelo vuole educarlo a vivere in questo mondo ed ad imparare quel linguaggio che è l'unico possibile ovvero quello della violenza. Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. Ripete gli stessi movimenti ed atteggiamenti del padre. - La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -. Notiamo appunto la solidarietà. Questa formazione si traduce in gesti molto concreti: quali assumere i lavori più pesanti. Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Denuncia al lavoro minorile. Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendica di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Rosso Malpelo è quindi un capo espiatorio. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. Qui si spiega che la madre non ha mai ricevuto delle carezze dal figlio e quindi non le d mai a lui. Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Appunto da notare gli atteggiamenti della madre e della sorella. La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. La madre non si fa domande sulla situazione del figlio poiché preferisce spettegolare con le vicine piuttosto che prendersi cura del figlio. Notiamo la continua associazione on cane ed asino. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana. [...] Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Si ritrovano alcuni attrezzi del padre. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. - Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. Non dicono nulla al ragazzo perché sanno che è cattivo e vendicativo, nessuno provava sentimenti di umanità, non è per delicatezza ma non dicono nulla perchè hanno paura delle reazioni cattive del figlio. Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto. Troviamo i disprezzi che per Rosso Malpelo sono quasi una reliquia. Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Notiamo infatti l’unico affetto che aveva dal padre. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, avevano quindi un valore importantissimo e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi padrone del suo palazzo che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Mazzarò non sapeva scrivere il suo nome firmava con una croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, - Questa è una bella cosa, d'avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; la gente lo ammira e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, [...] E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l'asinello, che non avevano da mangiare. Quante seccature che doveva sopportare Mazzarò, come la seccatura di seppellire la madre per 12 tarì, aveva tutti i problemi sul suo groppone. - Lo vedete quel che mangio io? - rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l'abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva. E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch'è sua. Si sente meglio del Re, perchè la roba non è sua e non può venderla. Ora la sua morte. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! Questo era il problema, dopo che l’hai accumulata devi lasciarla prima o poi. E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! - Ecco l’ingiustizia, questo ragazzino non ha niente ma ha gli anni, tutta la vita davanti. Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! -. E così tragicamente e in maniera realistica si conclude la novella. I MALAVOGLIA Romanzo del 1881. Vi sono quattro testi programmatici alla base di questo romanzo: - 1 e 2 → sono la Prefazione all’Amante di Gramigna, una novella che fa parte di La vita dei campi (p. 113, Dedicatoria a Salvatore Farina) dove spiega tutti i principi della rivoluzione verista, e la Lettera a Salvatore Verdura. A egli parla del progetto di un ciclo di romanzi dal titolo La Marea che poi sarà Il Ciclo dei Vinti. Nella lettera afferma che sarà un ciclo di romanzi incentrato sulla lotta per la vita che si estende dal cinciauola al ministro e all’artista, ovvero intende seguire queste tappe della lotta per la vita Darwiniana seguendo tutti i ceti sociali. Parlerà di sforzi che si fanno avanti, dell’onda del progresso che lascia quelli che poi chiamerà i vinti. L’intento di Verga è di soffermarsi sui deboli e sui maldestri. Parla dei cinque romanzi, li elenca e ne cita il titolo (notiamo anche che alcuni nomi sono poi cambiati). Vuole rappresentare l’irrompere della modernità in una società arcaica, rurale. Vuole rappresentare attraverso il verismo l’incontro tra modernità e tradizione partendo dalle classi più infime. - 3 → Fantasticheria (p. 170-171) fa parte di Vita dei Campi e anticipa il mondo e i personaggi di Aci Trezza, inoltre è presente quella che è definita la morale dell'ostrica ovvero i personaggi di questa novella sono spinti dall’ansia della ricerca di un miglioramento e nel momento in cui abbandonano il loro luogo protettivo sono destinati ad una pessima fine (→ questo spiega l’ideale dell’ostrica ovvero quando l’ostrica si stacca dallo scoglio, il luogo protettivo, incontrerà nel suo percorso dei pescatori o pescicani e farà una brutta fine). Nel caso di questa novella non troviamo però le tecniche narrative veriste, la voce narrante non si mescola con la voce dei paesani ma è distaccato. Infatti in questa novella vi è come protagonista una nobildonna che compie un viaggio ad Aci Trezza ed incontra questi personaggi; quindi vengono posti a confronto due ceti sociali quello dei pescatori e contadini e quello della nobiltà. Il mondo dei pescatori è presentato come antico ed arcaico e soprattutto non contaminato dalla modernità. Questa novella sottolinea però l’approccio scientifico del narratore, che è quindi un atteggiamento ambivalente poiché è sia nostalgico che scientifico. - 4 → Prefazione ai Malavoglia. Il progetto dei Malavoglia risale al periodo in cui Verga stava scrivendo Nedda, quindi prima della svolta verista quando scrive al suo editore di aver in mente un bozzetto marinaresco, ovvero un progetto che ha a che fare con i pescatori. Abbandona poi l’idea del bozzetto, e facendosi ispirare da Zola, dall'inchiesta in Sicilia e dal confronto con Capuana passa ad un vero e proprio progetto. Questo è il progetto del 1878 di un ciclo di romanzi. Egli vuole rappresentare in maniera realistica i mutamenti sociali e le ambizioni private, gli effetti di tutto ciò in una semplice, primitiva e arcaica comunità di pescatori i quali vengono investiti dalla modernità. Sono effetti tragici dove i personaggi sono dei vinti, da questa fiumana del progresso che li ha investiti e li ha lasciati tramortiti. Questo ciclo vuole essere uno studio sincero e spassionato, ovvero oggettivo della realtà contemporanea in una fase di transizione dove la tradizione entra in contatto con la modernità, dove dialogano l’antico e il nuovo. Padron Ntoni e Ntoni sono due personaggi complementari ed antitetici, rappresentano l'alternativa tra restare e partire, tra accontentarsi e cercare qualcosa di nuovo. Per quello che riguarda la composizione di questo romanzo, Verga scrive all’amico Capuana con il quale c’è sempre questo scambio epistolare, e afferma che scrivendo i Malavoglia ha fatto un lavoro di ricostruzione intellettuale, ovvero non ha fatto un lavoro di “copiatura dal vero”, detto in termini artistici, bensì c’è stata una distanza geografica e psicologica che ha permesso all’autore di ricostruire la vicenda dei Malavoglia stando a Milano. Verga si avvale di documenti, lo si può definire come un lavoro di laboratorio, consulta le raccolte di proverbi a cui attinge, studia a tavolino la mentalità catanese dell’epoca, studia l’inchiesta in Sicilia. Verga è come una sorta di scienziato che con i documenti che ha a disposizione ricostruisce la vicenda. Oltre all’atteggiamento scientifico vi è anche quello nostalgico poiché Verga proviene da quelle terre che descrive; da questo elemento deriva il lirismo e la componente simbolica presente nei Malavoglia. Tutto questo giustifica la componente mitico-simbolica. Le tecniche narrative utilizzate sono l’eclissi del narratore, lo straniamento, la regressione, il linguaggio è popolaresco ma non dialettale, fa grande uso di paratassi e del discorso mimetico. I Malavoglia sono costituiti da 15 capitoli che sono suddivisibili in tre macrosequenze. Questa è una vicenda che dura una quindicina d’anni così raggruppabili: 1. Dal Capitolo 1 al Capitolo 4 ed è l’inizio della vicenda che parte dal commercio di lupini. Il vero protagonista qui è il paese con i suoi paesani. Il tempo della storia è molto breve perché tutto si svolge in pochi giorni, e il tempo della narrazione è lungo. 2. Dal Capitolo 5 al Capitolo 10 e sono i tentativi fallimentari di contrapporre alla decadenza della famiglia e ancora una volta in primo piano vi è il paese. 3. Dal Capitolo 11 al Capitolo 15 dove il tempo della storia si allunga notevolmente e i protagonisti sono i membri della famiglia Malavoglia e soprattutto colui che spicca sugli altri è il giovane ‘Ntoni. Egli rappresenta la modernità, l’ansia di novità. I personaggi si possono organizzare in uno schema oppositivo: da una parte i personaggi positivi dall’altra i negativi e sono nettamente distribuibili. - I positivi incarnano gli ideali della famiglia e della tradizione, i valori autentici, disinteressati. Possiamo nominare: i personaggi della famiglia Malavoglia, Alfio, la Nunziata, la cugina Anna. - I negativi sono la maggior parte dei paesani, sono cinici, interessati all’utile e alla logica economica, sono calcolatori freddi e meschini, incapaci di sentimenti autentici. - La comunità è la vera protagonista, questo è un romanzo corale. La vicenda si svolge ad Aci Trezza ed è uno spazio che ha connotazione oggettiva e concreta, un luogo geografico ben preciso. Si sovrappone allo spazio concreto anche uno simbolico perché la città rappresenta il baluardo di un mondo che non è stato del tutto travolto dalla modernità e rappresenta una sorta di guscio, uno scoglio. Abbiamo allo stesso modo due tempi che si sovrappongono: il tempo storico lineare scandito da avvenimenti storici circostanziati (1863, leva militare obbligatoria; 1866, la Battaglia di Lissa) e il tempo ciclico che si ripete sempre uguale attraverso le stagioni agricole. Prefazione | I Malavoglia, Verga Questo è uno dei quattro testi che fanno meglio comprendere l’ispirazione, il progetto, l’intento con cui Verga affronterà questo romanzo. Le prime righe mettono in luce l’atteggiamento scientifico dell’autore. Studio sincero e spassionato sta per approccio scientifico, si parla poi di umili condizioni. Le prime irrequietudini del benessere e qualche perturbazioni sono le cose che rompono la monotonia di quel paese, è una comunità che viene travolta, turbata dalla bramosia dell’ignoto, la consapevolezza di accorgersi che si potrebbe stare meglio (attribuito a ‘Ntoni). Il movente è sempre lo stesso, quindi cercare un miglioramento della propria condizione di vita, ma il movente appartiene anche ad altre condizioni sociali e infatti cita i romanzi che pensa di scrivere. Man mano che si innalzerà nelle sfere sociali, sarà sempre più complicato seguire la loro psicologia. Se è vero che la forma è inerente al soggetto, quale sarà quindi il linguaggio? Deve adeguarsi, non sarà quindi possibile l’artificio della regressione. Guardata da lontano questa fiumana del progresso è positiva, procede verso l’avanti. Il problema è quando si sofferma lo sguardo. Il risultato complessivo nasconde le singole vicende. L’osservatore comunque appartiene all’epoca, è travolto anch’esso dalla fiumana, ha il diritto di interessarsi ai più deboli ma non ha il diritto di giudicarli. Ciascuno dei personaggi dei cinque romanzi ha svolto un compito in questa fiumana del progresso. Verga dopo la scelta verista rinuncia alla posizione di narratore onnisciente, giudicante e palese; egli si eclisserà. La prefazione si conclude in maniera circolare. Quello che può fare lo scrittore è di ritrarre la verità com’è stata o come poteva essere. Verga ha un atteggiamento più pessimistico rispetto a Manzoni e ai progressisti naturalisti della sua epoca, pertanto si limiterà solamente a studiare e riprodurre in maniera asettica. Capitolo I | I Malavoglia, Verga L’incipit dei Malavoglia potrebbe essere messo a confronto con quello dei Promessi Sposi dove in quest’ultimo lo sguardo del narratore onnisciente dall’alto giunge verso il basso attraverso una sorta di volo d’uccello per poi inserire il primo personaggio in un contesto ormai descritto. Invece la descrizione dei Malavoglia da per scontato che il lettore conosce quei luoghi perché il narratore fa parte di quella comunità. Si dà per scontato che tutti conoscano i personaggi presentati, è come se la voce narrante si rivolgesse ai membri della stessa comunità. Vi sono espressioni che danno un senso ciclico: da che il mondo era mondo, di padre in figlio, quindi tutto scorre uguale di generazione in generazione vi è un immobilismo sociale il cui dato di fondo è che questa famiglia ha sempre posseduto una barca ed una casa. Non appena Padron ‘Ntoni prende la parola si esprime con questa saggezza popolare e l’essere in cinque è ben rappresentato dall’immagine delle cinque dita che si aiutano. Notiamo che agli occhi del nonno ‘Ntoni sembra un perditempo, un bighellone, Luca è colui che ha più giudizio, Alessi è tutto suo nonno (e infatti sarà proprio lui a portare avanti la tradizione familiare). Con l'elenco dei proverbi di Padron ‘Ntoni troviamo una contraddizione: Padron ‘Ntoni che rappresenta saggezza, tradizione in uno dei suoi proverbi suggerisce di non cambiare mestiere. A parole predica di dover continuare le tradizioni familiari, ma sappiamo che per una serie di ragioni sarà lui il primo a tradire questo proverbio. Infatti l’irrompere della modernità è la chiamata al militare. Notiamo come il narratore che si è calato nelle sorti di un paesano si senta preso in causa quando dice possano aiutarci. Vengono poi presentati i tanti personaggi del paese con tanto di nomignolo: - Don Gianmaria: vediamo subito la sua posizione politica; un vicario che critica i rivoluzionari che hanno voluto l’Unità d’Italia. - Don Franco: dice quando ci sarà la Repubblica non ci sarà tutto ciò; egli è quindi contro la Monarchia. - Don Silvestro, il segretario comunale, propone di corrompere coloro che devono valutare le condizioni di salute di ‘Ntoni per far sì che non partisse. ‘Ntoni è talmente sano che non c’è bisogno di riformarlo. Assistiamo quindi alle reazioni dopo la chiamata al militare. Entra in scena un nuovo personaggio, comare Venera la Zuppidda, che per consolare una madre il cui figlio è partito le dice di far sì come se fosse morto. ‘Ntoni si trova davanti ad un mondo dei balocchi, un qualcosa che non ha mai visto prima, una sorta di Eldorado. Il nonno è indispettito da quello che scrive il nipote perchè capisce che è insoddisfatto e cercava di non guardare in faccia la nuora quasi ce l’avesse con lei. Per la Longa quella scrittura sono come degli ami e non vuole dire nulla. L’atteggiamento che invece bastianazzo si aspetterebbe da suo figlio è proprio quello di cercare di tenere allegra la propria famiglia e non di intristire di più con le lamentele. La leva, l’annata scarsa, la dote della Mena portano Padron ‘Ntoni a negoziare lupini con Zio Crocifisso. Di fronte all’evidenza di un cielo non adatto ad un uomo di mare, vince la saggezza del proverbio nonostante il dolore che La Longa prova nel cuore. Capitolo IV | I Malavoglia, Verga Il capitolo precedente si è concluso con la notizia della morte di Bastianazzo e quindi del naufragio della Provvidenza. Il quarto capitolo mette in luce la comunità pettegola e i Malavoglia che hanno subito un lutto e sono in grande difficoltà economiche e affettive. Da una parte vediamo i paesani che dicono cose fuori luogo davanti ad una veglia funebre, anziché consolare la famiglia, dall’altra l’autore si sofferma su alcuni personaggi dei Malavoglia con i quali non ha più quell’approccio scientifico ma ne sonda i sentimenti. Nelle prime righe abbiamo il ritratto da parte dei paesani di Campana di Legno. la comunità lo giudica in maniera positiva, un buon diavolaccio, quindi un usuario ma un buon uomo. Quindi non solo ha perso il suo affare, sta quindi vivendo una sorta di lutto, ma la sua scocciatura è che deve recitare il de profundis per i Malavoglia, deve fare questo atto per dare una parvenza di umanità. alfio Mosca, la figura del vero amico che avrebbe preferito morire lui perchè non avrebbe lasciato affetti (anche se l’affetto segreto per Mena lo si sa ma alla fine). L’autore fa un eccezione quando parla dei Malavoglia, si sofferma sul cuore della Mena che sbatte e vuole scappare dal petto, è sconvolta. Notiamo il linguaggio non dialettale ma vuole appunto imitarlo, notiamo appunto degli errori grammaticali: utilizzo di gli al posto di le. Tutti coloro che fanno visita ai Malavoglia pensano a Zio Crocifisso che metterà le mani sulla casa del nespolo. Gli argomenti di conversazione per distrarre i Malavoglia sono sulle tasse; uno racconta una barzelletta ma parlando della tassa di successione che si paga alla morte di un caro non mostra delicatezza); tutti ridono in casa senza scrupolo. Non solo vengono dette barzellette ma egli tenta persino a rimorchiare in un contesto di funerale. Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani! questa espressione ci fa capire la loro totale estraneità con i movimenti risorgimentali. La tempesta che ha fatto morire Bastianazzo, viene definita da Zio Cipolla come una grazia di Dio: in un momento di lutto egli utilizza questa frase completamente inopportuna. Un’altro motivo dopo le tasse, il filo del telegrafo che porta via la pioggia li danneggia; è stata necessaria mettere anche una legge poiché questi ignoranti contro la modernità sabotano i fili del telegrafo. Coloro che passano per la casa dei malavoglia trascurano quello che è successo e sono solo interessati al valore della casa. Queste valutazioni avvengono sempre durante questa veglia funebre. Un altro effetto di questo naufragio si ripercuote sulla figlia più grande perché il matrimonio combinato non andrà più in porto. Il cuore trafitto da questa grave perdita viene peggiorato da questo affare andato male. Questo brano si chiude su personaggi positivi: la cugina Anna che va a dare una mano a comare Maruzza e non a valutare la sua casa, dire battutacce. Capitolo XI | I Malavoglia, Verga Nei precedenti capitoli la famiglia Malavoglia va incontro a diverse sciagure, ad esempio è morto Luca nella Battaglia di Lissa, Padron ‘Ntoni sempre più indebitato deve cedere la casa del nespolo, Padron Cipolla rompe il fidanzamento di Mena con il figlio ed un secondo naufragio coglie Padron ‘Ntoni e Alessi. Il giovane ‘Ntoni passa più tempo all’osteria e si allontana sempre di più dalla famiglia. Questo capitolo è quindi incentrato sempre di più sulla figura di Padron ‘Ntoni che vive quella bramosia dell’ignoto, quindi l’attenzione dell’autore è volta a quelle inquietudini, a quel turbamento interiore del giovane che vorrebbe stare meglio. Notiamo la differenza tra i due fratelli: uno abbagliato dalle ricchezze, da ciò che è lontano mentre l’altro con le idee chiare, quando sarà grande non vuole il diverso, vuole la tradizione familiare. La mamma si accorge delle irrequietudini del figlio, non riesce nemmeno a guardarlo in faccia e pensa a tutti coloro che se ne sono andati, in primis il marito e il figlio morto. Nella visione molto ingenua di ‘Ntoni, i ricchi se la spassano e idealizza una situazione che non esiste in realtà. Notiamo che la madre soffre per il figlios contento; poi assistiamo al confronto tra nonno e nipote perchè sono due mondi diversi che non dialogano, uno verso la tradizione e uno verso la modernità. Verga accosta spesso i personaggi del romanzo all’asino e al cane, e troviamo quindi una certa somiglianza con Rosso Malpelo. Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel che è stato tuo nonno! Vediamo qui proprio il determinismo sociale, la sorte non può cambiare di generazione in generazione ma è quel destino che il giovane ‘Ntoni non vuole accettare. Fa poi lo stesso discorso con Alessi, ovvero che sogna di andare nelle grandi città a non fare nulla. ‘Ntoni cerca il cambiamento non solo per arricchire se stesso ma anche la sua famiglia. Ora avviene il confronto con la madre. Ecco come siamo destinati! C’è un destino che si abbatte sui membri della famiglia Malavoglia che si chiama determinismo. Il colera è una sorta di provvidenza perché spinge le persone fuori da Catania e rappresenta una sorta di benedizione per i paesi vicini. La scena raccontata del colera somiglia in certi versi alle scene della peste raccontate da Manzoni, secondo le dicerie popolari sia peste che colera sono stati diffusi da persone, e sono una sorta di porcherie con cui si ungevano le porte. Il lumino che si spegne rappresenta proprio la vita che si spegne come l’alba pallida come la morta: c’è grande affinità tra la natura e ciò che è inanimato. La Nunziata, o la cugina Anna, venivano di tanto in tanto, col passo leggero e il viso lungo, senza dir nulla; e si mettevano sulla porta a guardar la strada deserta, colle mani sotto il grembiule. Rimangono sempre questi personaggi positivi che con il loro silenzio infondono comunque coraggio in una situazione inumana. Vediamo poi completamente diversi gli altri personaggi: uno che non fa più affari e quindi si assicura che i suoi debitori siano in salute,e uno che cerca in continuazione altri clienti. ‘Ntoni partirà dunque, ma tornerà più povero di prima per poi ripartire nell’ultimo capitolo. Capitolo XV | I Malavoglia, Verga Questo è l’ultimo capitolo e tira un po’ le somme di tutti i personaggi del romanzo, infatti i protagonisti sono proprio i componenti della famiglia Malavoglia. Il capitolo si sofferma prima su Padron ‘Ntoni poi sul giovane ‘Ntoni, i due poli contrapposti che rappresentano la tradizione e la modernità. IL DECADENTISMO Siamo sempre nella seconda metà dell’Ottocento, dove incontriamo molte correnti culturali quali la Scapigliatura, il Naturalismo, il Verismo ed il Positivismo. Il Decadentismo è un movimento artistico e culturale di cui il Simbolismo rappresenta un aspetto. Il Simbolismo riguarda la poetica mentre per Decadentismo intendiamo un qualcosa di più ampio; qui collochiamo Pascoli. Queste due tendenze, Verismo e Simbolismo, sono due sviluppi del Romanticismo. Il nome “decadentismo” deriva da un sonetto di Verlaine, Languore, del 1883. Qui leggiamo: “Sono l'Impero alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi componendo acrostici indolenti dove danza il languore del sole in uno stile d'oro…”. Io mi trovo in questa situazione come se fossimo nel periodo dell’Impero Romano che inizia a decadere e assisto passivamente a ciò, e scrivo acrostici indolenti. Quindi ci descrive un periodo di crisi che volge al termine; è un po’ il contesto del Decadentismo, senso di essere alla fine di un’epoca, senso di passività. Ci si dedica a comporre versi dallo stile d’oro, quindi una sorta di rifugio rispetto a questo periodo difficile. Il sonetto interpreta uno stato d’animo diffuso nella cultura del tempo: il senso della fine e del disfacimento di un’intera civiltà, l’atmosfera di stanchezza e di estenuazione spirituale, l’incapacità di forti passioni o slanci energici. Queste idee erano proprie di circoli d’avanguardia, che si opponevano alla mentalità borghese, e ostentavano atteggiamenti da bohémiens, ispirandosi a Baudelaire. La critica ufficiale utilizzò in senso dispregiativo il termine «Decadentismo», ma quei gruppi intellettuali lo assunsero con orgoglio, facendone un segno distintivo, considerandolo un privilegio spirituale. Nel 1886 fu fondata la rivista Le décadent da un gruppo di scrittori e artisti. In origine indicava un determinato movimento letterario, sorto in un determinato ambiente (in Francia negli anni ‘80). Poi ha assunto il senso più ampio di una vasta corrente culturale di dimensioni europee, che si colloca negli ultimi due decenni dell’Ottocento con propaggini all’inizio del Novecento. Il contesto storico: - Comparsa della grande industria con l’impiego massiccio di macchine. - L’impersonalità del nuovo meccanismo produttivo che trasforma l’uomo in ingranaggio. - La formazione della società di massa caratterizzata da processi di omologazione degli individui. - L’inizio delle lotte di classe. - Nascita di nazionalismo e imperialismo. Tutto questo comporta: un senso di smarrimento e di impotenza dell’individuo di fronte ad una realtà complessa ed enigmatica che incombe su di lui minacciando di schiacciarlo. L’artista è spinto ai margini, si sente inutile e frustrato in una società dominata dalla logica di mercato (perdita dell’aureola). Egli cerca di reagire: tentando di esorcizzare una condizione avvilente di massificazione, accentua la sua diversità ed eccezionalità (estetismo, maledettismo, superomismo…). Sul piano ideologico le promesse della scienza avevano deluso, se il Positivismo si affida all’atteggiamento scientifico, contemporaneamente altri artisti si dissociano. Quelle idee propugnate cominciano ad essere messe in discussione. La scienza non solo non è considerata uno strumento valido ma non ha garantito quel benessere. Quindi alla base del pensiero dei decadentisti vi è la sfiducia nella ragione e nella scienza e il rifiuto del Positivismo. Se alla base del Naturalismo vi è la tendenza del Positivismo, quali sono le tendenze filosofiche alla base del Decadentismo? Troviamo: - Bergson: uno tra i primi pensatori antipositivisti perché critica la scienza e il suo approccio. Il mezzo di conoscenza preferibile non è l’intelligenza razionale ma l’intuizione. Solo l’intuito fa cogliere l’essenza della vita che non è governata da rigidi e deterministici rapporti di causa effetto, ma da uno slancio vitale, da una creazione in piena libertà. Un altro aspetto è la nuova concezione di tempo, ovvero non più oggettivo ma soggettivo, come durata interiore. - Nietzsche: In polemica con il Positivismo afferma che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Esalta lo “spirito dionisiaco”: uno slancio vitale che potenzia le facoltà dell’individuo e gli fa travalicare i limiti consueti. Esalta le forze irrazionali. Bisogna distruggere il sistema dei valori correnti, come quelli cristiani che predicano l’umiltà, la sopportazione. La “morte di Dio” è dunque la fine del sistema di valori e di ideali che aveva caratterizzato la cultura europea e cristiana. Egli propone l’ ‘’Oltreuomo’’, un nuovo tipo di uomo che, al di là dei limiti imposti dalla morale tradizionale, miri a uno sviluppo completo ed estremo della propria individualità. - Freud: mette in evidenza tutto l’aspetto irrazionale, quello che sfugge al controllo della razionalità. Scoperta dell’inconscio che determina il nostro agire anche se la coscienza e le regole sociali cercano di nasconderlo. mette quindi in evidenza la componente irrazionale. La visione del mondo secondo i Decadentisti La ragione e la scienza non possono dare una vera conoscenza del reale perché l’essenza di esso è al di là delle cose, misteriosa ed enigmatica; solo rinunciando al razionale si può attingere all’ignoto. La realtà è una rete fittissima di analogie e corrispondenze che possono essere colte solo dall’intuizione (Baudelaire, Correspondances). La rete di corrispondenze coinvolge anche l’uomo, poiché esiste una sostanziale identità tra io e mondo, tra soggetto ed oggetto che si confondono in una misteriosa unità: tale unione avviene sul piano dell’inconscio (esaltazione dell’individuo e del soggetto). La scoperta dell’inconscio è una novità di questo periodo, ancora prima che Freud inizi a dare una sistemazione scientifica a questa conoscenza. Se la realtà misteriosa non può essere afferrata attraverso la scienza e la razionalità, altri sono i mezzi con cui si tenta di attingere ad esso, tutti gli stati irrazionali o alterati dell’essere possono essere utilizzati: la follia, il delirio, il sogno, l’incubo, l’allucinazione.. Questi stati possono anche essere provocati in modo artificiale con droghe, alcol, assenzio… Rapporto tra Romanticismo e Decadentismo Tra Romanticismo (inglese e tedesco) e Decadentismo c’è continuità: molte tematiche e molti atteggiamenti erano già presenti nel clima romantico. Qualche critico, infatti, considera il Decadentismo come una seconda fase del Romanticismo. La vera differenza consiste nel fatto che il Romanticismo si distingue per lo slancio entusiastico, l’energia, l’impegno, la fiducia di potere incidere sulla realtà, il Decadentismo invece è contrassegnato da un senso di stanchezza, di languore, dal senso di fine e disfacimento che inibisce l’azione. Pertanto la letteratura del Romanticismo aveva ambizioni costruttive e propositive che consentiva ai letterati forme di impegno politico e/o sociale; l’artista decadente rifiuta ogni impegno e assume l’arte a valore supremo ed assoluto (l’arte per l’arte). L’arte non con un fine morale e pedagogico ma l’arte quanto l’arte. Rapporto tra Decadentismo e Naturalismo Le due correnti nascono a partire dalle stesse condizioni e si sviluppano parallelamente: sono compresenti tra gli anni Settanta e Ottanta, mentre negli anni Novanta il Naturalismo tende a esaurirsi. La loro diversità si spiega con il fatto che esse sono espressione di gruppi intellettuali diversi: gli scrittori naturalisti sono integrati nell’orizzonte borghese, accettano gli assunti del Positivismo e la fiducia nel progresso. Gli scrittori decadenti, invece, rifiutano l’ordine esistente con i loro atteggiamenti maledetti, estetizzanti, irrazionalistici… Alcuni scrittori presentano aspetti riconducibili a entrambe le tendenze. Ad esempio Zola, autore più rappresentativo del Naturalismo, ritrae atmosfere torbide, malate, perverse; Huysmans esordisce come seguace di Zola; D’Annunzio nella raccolta di novelle (si ispira molto a Verga) Terra Vergine rappresenta figure e paesaggi della sua terra, l'Abruzzo primitivo e selvaggio, prendendo come modelli i personaggi verghiani anche se non adotta l’impersonalità né la regressione del narratore. La poetica del Decadentismo L’arte è uno strumento privilegiato di conoscenza. Gli artisti sono sacerdoti di un vero e proprio culto, capaci di spingere lo sguardo dove l’uomo comune non vede nulla. L’artista non si limita a riprodurre la realtà (come i Naturalisti) è artefice, inventore e creatore. L’estetismo considera l’arte una vera e propria religione che si traduce nel culto del bello. L’esteta ha come unico principio regolatore della vita non i valori morali, ma esclusivamente il bello, sulla base del quale agisce e valuta la realtà. Arte e vita si confondono, tutta la sua vita è dedita alla ricerca di sensazioni rare e squisite, si circonda di oggetti raffinati e preziosi, prova orrore per la banalità e la volgarità della gente comune (Huysmans, Wilde, d’Annunzio). L’arte decadente ha carattere del tutto aristocratico: rifiuta di rivolgersi ad un pubblico borghese, mediocre e volgare, per questo l’artista sente il bisogno di differenziarsi con l’utilizzo di un linguaggio cifrato, ermetico, raffinato. La poesia - il Simbolismo E’ la poetica prevalente del Decadentismo. La tendenza è evidente nella raccolta del 1884 Les poètes maudits curata da Verlaine in cui appaiono testi di Mallarmé, Rimbaud, oltre che dello stesso Verlaine. La poesia è veicolo di una rivelazione del mistero e dell’assoluto, per cui la parola poetica non può essere strumento di comunicazione logica, razionale, ma si propone come strumento evocativo e suggestivo. La parola è allora formula magica, capace di svelare l’ignoto, mettere in contatto con l’arcano delle cose. Anche se il poeta vuole comunicare lo fa in modo oscuro, cifrato, enigmatico, rivolgendosi ai pochi iniziati in grado di accedere al mistero. Le tecniche espressive La musicalità Indefinitezza lessicale e sintattica Linguaggio analogico La musica non vale tanto sul piano del significato quanto su quello del significante. È puro suono, si carica di valori magicamente evocativi e suscita echi profondi. La sintassi e il linguaggio si fanno volutamente ambigui e vaghi, le parole si caricano di significati diversi da quelli comuni. Metafora: allude ad un sistema di analogie ma non è regolata da un semplice rapporto di somiglianza ma istituisce legami impensati tra realtà remote. Sinestesia: accostamento inedito di termini che appartengono a sfere sensoriali diverse che creano una rete simbolica e sotterranea di corrispondenze. La realtà per i simbolisti non è soggetta ad un tipo di conoscenza razionale, precisa, oggettiva; si presenta come misteriosa, un insieme di simboli che il poeta deve interpretare. Egli capta i segnali di una realtà e li riesce a decifrare. Il poeta risulta una persona eccezionale che coglie e vede quello che gli altri non riescono. Se il poeta è un sacerdote, un veggente la poesia sarà allusiva. Si usano figure retoriche come sinestesia e metafora. Il linguaggio è oscuro e rivolto a pochi; deve suggerire, evocare. I simbolisti sono poeti francesi attivi circa negli anni ‘80. Prima di questa generazione, detta di poeti maledetti dalla raccolta di Verlaine, vi è Baudelaire. Egli pubblica una raccolta che è una sorta di spartiacque tra la poesia tradizionale e quella moderna: I fiori del male (1857). Già nel titolo cogliamo la grande modernità. La raccolta inizia con un apostrofe al lettore, lo critica: questo rapporto di intesa tra autore e lettore viene sempre meno, e dopo averlo criticato lo chiama fratello e identifica quindi una sorta di identità. Mette in luce la città caotica ed industriale di Parigi, nella quale l’individuo si smarrisce. Troviamo i vari tentativi di fuga verso i paradisi artificiale come alcool, esotismo, droga… Correspondances | Baudelaire Questo è il manifesto del simbolismo, enuncia la sua visione della realtà e delinea le caratteristiche del poeta. La Natura è un tempio, la realtà è come un tempio e il poeta ne è il sacerdote, dove incerte parole, parole confuse, mormorano pilastri che son vivi, una foresta di simboli che l’uomo attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari. Come echi che a lungo e da lontano tendono a un’unità profonda e buia grande come le tenebre o la luce i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi. La realtà è una corrispondenza di fatti, tutte le sensazioni sono messe in campo e si corrispondono. Profumi freschi come la pelle d’un bambino, vellutati come l’oboe e verdi come i prati, [sinestesia] altri d’una corrotta, trionfante ricchezza che tende a propagarsi senza fine – così l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi. Anche il testo l’Albatros, sempre di Baudelaire è molto significativo perché rappresenta la figura dell’intellettuale, egli dice: Spesso, per divertirsi, le ciurme Catturano degli albatri, grandi uccelli marini, che seguono, compagni di viaggio pigri, il veliero che scivola sugli amari abissi. I marinai per divertimento catturano degli albatri. E li hanno appena deposti sul ponte, che questi re dell’azzurro, impotenti e vergognosi, abbandonano malinconicamente le grandi ali candide come remi ai loro fianchi. Questo alato viaggiatore, com’è goffo e leggero! Lui, poco fa così bello, com’è comico e brutto! Qualcuno gli stuzzica il becco con la pipa, un altro scimmiotta, zoppicando, l’infermo che volava! Il poeta è come il principe delle nuvole lo dice quindi chiaramente che sta parlando del poeta che è ridicolizzato, gli mettono la pipa addosso, lo imitano perché zoppica: è un essere maestoso se vola in cielo, mentre è goffo se viene catturato e costretto a camminare sulla nave. Il poeta vive in una condizione di marginalità. Che abituato alla tempesta ride dell’arciere; esiliato sulla terra fra gli scherni, non riesce a camminare per le sue ali di gigante. Questo testo mette in luce la marginalità del poeta che in un’altra condizione, nella società che da grande rilievo agli intellettuali sarebbe diverso. Arte poetica | Verlaine Questa è una sorta di ricetta per una poesia simbolista. Ovvero cosa è meglio fare e cosa è meglio evitare in una poesia simbolista. La musica, prima di ogni altra cosa: da questo deduciamo uno dei canoni artistici della poesia simbolista, deve essere quindi musicale, prima di ogni cosa. Si da rilievo anche al significante e non solo al significato. Vogliamo ancor la sfumatura, la poesia deve essere sfumata perchè deve suggerire, deve evocare e quindi servono tinte sfumate e non nette. Prendi l'eloquenza e torcile il collo! Strozza quella poesia elevata, altisonante, modera i toni a moderare un poco anche la rima quindi non deve essere una poesia imbrigliata in un sistema di rime, si parla di una poesia moderna, musicale. E tutto il resto è letteratura. Se non ci sono tutte quelle caratteristiche prima elencate allora è letteratura perché Verlaine propone qualcosa di più libero, sfumato e musicale. La poesia ha la capacità di evocare attraverso sfumature indefinite, e si avvale dunque di simboli e che non deve essere eloquente, elevata, aulica. GIOVANNI PASCOLI Pascoli è un autore che collochiamo nella seconda metà dell'800’ ed è un esponente del simbolismo. Egli è pertanto diverso da i simbolisti quindi non lo si può appunto considerare un poeta maledetto. La sua vita è stata ordinaria e consueta. Ha vissuto dei lutti che l’hanno profondamente segnato ed è evidentissimo della sua poesia. Si ricorda l’impegno politico e letterario e la sua carriera da insegnante. Mentre per quanto riguarda le opere letterarie si ricordano Myricae e Canti di Castelvecchio; egli scrive poesie molto diversa tra di loro. Vita - Nasce nel 1855 a San Mauro di Romagna, il padre è amministratore di una tenuta di principi. Studia a Urbino. - 10 Agosto 1867: muore il padre, egli ha 12 anni è quindi un ragazzino, non verrà mai fuori il colpevole della morte del padre. Egli non è solo in lutto ma tutto ciò che accompagna questo lutto, andrà alla ricerca della spiegazione ma che non otterrà mai. Dopo il primo lutto, muore la sorella, la madre e un fratello. - Studia a Bologna dove frequenta le lezioni con Carducci. Durante gli anni dell’università entra in contatto con ambienti anarchici e socialisti e starà in carcere per tre mesi per aver partecipato a delle manifestazioni. Si laurea in Greco ed insegna nei licei latino e greco. - Si trasferisce con Ida e Mariù, le due sorelle, a Massa dove cercherà di ricostruire quegli affetti familiari che erano stati distrutti. Dopodichè Ida si sposa ed egli lo vivrà come una sorta di tradimento e rimarrà vicino a Lucca con Mariù. - Dal 1891 inizia la pubblicazione delle sue tante raccolte, diverse tra loro. La prima è Myricae, una delle più innovative e poi pubblica altri poemetti vari. - Dopo la fase di insegnamento nei licei, insegna nelle università e si trasferisce nelle rispettive città. Subentrerà alla cattedra di Carducci a Bologna. - Continua a pubblicare raccolte, ma oltre a quelle più legate al simbolismo, pubblica raccolte dalle poesie eloquenti: Pascoli è quindi questo e quello, scrive di tutto. A seconda del tavolo a cui si sedeva scriveva una poesia o moderna (come Myricae) o più eloquenti (come Odi e Inni, Poemi italici…). - Egli assume quindi il ruolo di poeta vate ovvero la figura di un poeta che è una sorta di guida per la nazione e che celebra i valori nazionali. Il poeta simbolista e celebrativo sono due poli opposti. - Muore nel 1912 dopo aver pronunciato un famosissimo discorso in cui celebra la Guerra in Libia - “La grande proletaria s'è mossa” riferendosi all’Italia. MYRICAE La prima raccolta poetica è sicuramente la più innovativa e si intitola Myricae, di cui la prima edizione risale al 1891. Saranno in tutto nove edizioni e continuerà a rivederla ed integrarla fino a poco prima della morte, vi saranno dalle prime 22 poesie arriveranno fino a 150 componimenti, e continuerà a scrivere comunque contemporaneamente le diverse poesie celebrative. Il titolo Myricae deriva dal latino e significa tamerici ossia delle piccole piante. Questa è una dichiarazione di poetica perché questo termine deriva da un verso delle Bucoliche (IV Ecloga) di Virgilio in cui, stravolgendo un po’ il significato a dir la verità, si fa riferimento a degli arbusti ed umili (basso) tamerici; come dire che il suo intento sia cantare le piccole cose legate soprattutto al mondo della natura. Il soggetto di questa poesia che ritrarrà Myricae apparterranno alla vita contadina, oggetti umili e quotidiani; ma non è assolutamente una poesia realistica o verista, non è un atteggiamento scientifico volto alla descrizione delle cose così come sono, in quanto quei piccoli oggetti si caricano di significati profondi, ecco quindi il simbolismo, sono portatori di una valenza simbolica che allude ad altro. Dobbiamo quindi pensare che siamo molto lontani da un ritratto realistico: se descrive un aratro non lo fa per descriverlo in modo realistico, se descrive il lavoro di contadine o lavandaie non è per denunciarne il lavoro ma perché esse si caricano di significati da cogliere e lo fa attraverso analogie. Coglie delle corrispondenze, richiami, analogie e quindi ogni oggetto anche umili e quotidiani ha una valenza simbolica profonda. Le tematiche sono molto legate alla sua esperienza, ad esempio il nido familiare, gli affetti, i lutti, la morte… Dal punto di vista formale e linguistico Pascoli rimane all’interno della tradizione ma la rinnova. Egli utilizza le strutture metriche della tradizione, non rinnova apparentemente nulla in realtà utilizza forme tradizionali ma li rinnova dall’interno ad esempio attraverso quell’uso di simboli. Significativo è il fonosimbolismo, ovvero quel simbolismo legato al suono; grande importanza assumeranno quindi le figure di suono come l'allitterazione, l’onomatopea, la sinestesia, le metafore. Usa moltissime frasi nominali ed ellittiche, quindi frasi senza verbo e frasi dove si sottintende qualcosa; il verbo da rigore logico ma Pascoli ne fa a meno perchè il tipo di conoscenza procede per associazioni, intuizioni. In Pascoli convivono tradizione ed innovazione. L’uso della punteggiatura è inusitato, spesso fatta di puntini di sospensione perché alludono ad un mistero. “arbusta iuvant humilesque Myricae” - questo è il motto della raccolta Myricae - piacciono gli arbusti e le umili tamerici. Parlerà di quello quindi, di ciò che piace. Lo stesso motto sarà anche per i Canti di Castelvecchio. In primo luogo allude ad una poesia agreste, ma non si tratta di una poesia semplice, o meglio alcune sono semplici e si riesce a comprendere una piccola parte ma non chiaramente i diversi simboli che vengono trattati. Non è una poesia d’evasione, tratta di temi agresti che sono solo lo scenario verso cui il poeta proietta le proprie angosce e inquietudini. Le novità sono: notte di San Lorenzo ci siano quelle stelle che per l’aria tranquilla ardono e cadono; le stelle sono quindi associate al pianto e il cielo è concavo, vuoto perché manca il conforto, una presenza. - [strofe 2 e 3] → Ritornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra spini: ella aveva nel becco un insetto: la cena de’ suoi rondinini. Ora è là, come in croce, che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido (metonimia) è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano. Ora l’uccisione di una rondine che stava tornando nel suo nido, fu uccisa, cadde tra le spine e aveva nel becco un insetto, ovvero la cena per i suoi piccoli. Questa rondine si protende verso il cielo che è lontano, non da risposte, è distante, freddo verso gli esseri viventi. I piccoli nel nido attendono e pigolano sempre più piano perché moriranno di fame. - [strofe 4 e 5] → Anche un uomo tornava al suo nido: l’uccisero: disse: Perdono; e restò negli aperti occhi un grido: portava due bambole, in dono… Ora là (similitudine v. 9), nella casa romita, lo aspettano, aspettano, in vano: egli immobile, attonito, addita le bambole al cielo lontano. Con anche si forma un collegamento tra rondine e uomo; l’uomo viene ucciso e disse perdono. Troviamo l'idea di un grido lancinante. Egli portava delle bambola per le sue figlie ma non tornerà più a casa. Simile alla rondine che il cielo ha distante e che non porta conforto a nessuno. - [strofa 6] → E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male! Troviamo un’apostrofe come alla prima strofa. C’è di nuovo l’idea del pianto come nella prima strofa e ciò da l’idea circolare della poesia. Il pianto inonda quest’atomo opaco del male, terra insignificante, oscura. Il cielo è distante e non offre alcun tipo di conforto. I CANTI DI CASTELVECCHIO Si tratta di una raccolta molto simile a Myricae per diverse ragioni, ciò significa che l’ispirazione alla base è la stessa. La prima edizione di Canti di Castelvecchio risale al 1903, ma come avviene per Myricae il poeta continua a integrare con altri testi. Castelvecchio è un luogo molto caro, ma a vivere con la sorella Mariù, l’unica familiare che gli è rimasta per ricostituire quel nido disfatto. Questo è una sorta di guscio nel quale si rifugia. Canti è una parola molto importante per la tradizione poetica italiana, ricorda la tradizione delle poesie nate per essere accompagnate dalla musica (come Leopardi che chiama una sua opera Canti). Pascoli pur essendo un poeta innovativo, non disdegna comunque la tradizione. Myricae e Canti di Castelvecchio condividono lo stesso motto - “arbusta iuvant humilesque Myricae” - che è una dichiarazione di poetica. Inoltre Myricae è dedicata al padre mentre Canti di Castelvecchio alla madre. Le tematiche sono simili, riprende le immagini campestri, i ricordi familiari, quel mondo di cose umili, ma accentua questa volontà di un rifugio da un mondo sempre più minaccioso. Procede sempre per impressioni e per simboli e una caratteristica che notiamo è sicuramente il fonosimbolismo. Troviamo tematiche legate all’eros represso, una sorta di desiderio inappagato, di amore represso. Si accentuano il mistero, l’angoscia, la morte e desiderio di protezione da parte del poeta. Una differenza è che troviamo delle poesie un po’ più ampie, sono poesie liriche di più ampio respiro, dalla musicalità più accentuata e complessa. Il Gelsomino notturno | Giovanni Pascoli Questa è una poesia molto significativa di quell’eros represso. Il gelsomino è un fiore il cui calice si apre di sera e si chiudono all’alba. Questa poesia nasce da un’occasione ben precisa: il matrimonio di Gabriele Briganti, un suo caro amico, e allude alla prima notte di nozze dell’amico. Si intrecciano più temi: la fecondazione dei fiori (v. 1, 9, 10...) e l’eros tra umani, quindi il rito di fecondazione tra un uomo e la donna. La fecondazione del fiore allude alla fecondazione di una donna ma ovviamente è tutto per sottinteso. Tutto viene registrato dall’esterno come se il poeta che vede una luce si si sposta dalla sala fino alla camera da letto e si spegne. L’urna ha più significati: urna dei morti, ma qui è utilizzata nel senso del grembo di una donna dove è appunto avvenuta questa fecondazione. Viene associato l’amore con la morte, e l’urna unisce questi due significati. Notiamo al v. 4 le farfalle crepuscolari ovvero le falene che sono un simbolo di morte, v. 12 nasce l’erba sopra le fosse ovvero dove si seppelliscono i cadaveri, e il termine urna. All’interno di questo testo vi sono tantissimi significati. Il poeta osserva appunto dall’esterno ed è pronto a cogliere qualunque impressione ma lascia trasparire un senso di esclusione da tutto ciò, egli sis ente escluso dall’eros e da questa vita di coppia; egli è impedito di aprirsi a questa realtà dalla morte e da questo pensiero ossessivo dei cari defunti. Questo testo si conclude con dichiarare che non conosce questa felicità, questa negazione in posizione enfatica ci fa capire che è un’esperienza che a lui è negata e non può che viverla dall’esterno. Questo senso di esclusione è dato si dall’ultimo verso ma anche in un altro verso; egli non parla di se ma di un’ape: è un'ape che viene esclusa e che trova già le celle occupate. Questa è una poesia un po’ più ampia ma è comunque frammentaria perché il poeta lascia lì tanti simboli senza collegarli in maniera logica. Ci sono tante onomatopee, sinestesie, antitesi e il modo di procedere analogico. Analisi: E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso ai miei cari. Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari. Apparentemente è tutto illogico, i fiori notturni si aprono nell’ora in cui pensa ai suoi cari mori e poi compaiono le falene, simbolo di morte. Da un pezzo si tacquero i gridi: là sola una casa bisbiglia. Sotto l’ali dormono i nidi (metonimia), come gli occhi sotto le ciglia. All’interno di una casa ci sono persone che bisbigliano. Dai calici aperti si esala l’odore di fragole rosse (sinestesia e simbolismo cromatico). Questo è un richiamo d’amore. Splende un lume là nella sala. Là indica la lontananza. Nasce l’erba sopra le fosse. Un’ape tardiva sussurra trovando già prese le celle. Procede sempre per impressioni, indica un’ape che arriva tardi e che sussurra trovando occupate le celle. La Chioccetta per l’aia azzurra va col suo pigolio di stelle. La Chioccetta è una costellazione che sembra una chioccia ma in realtà sono stelle. Per tutta la notte s’esala l’odore che passa col vento. Riferimento all’odore sensuale. Passa il lume su per la scala; segue dall’esterno la luce degli sposi che vanno in camera da letto brilla al primo piano: s’è spento… È l’alba: si chiudono i petali i petali del fiore si chiudono un poco gualciti; si dice di gualcito ad esempio le lenzuola di un letto sfatto, viene utilizzato un termine che appartiene ad un determinato campo semantico ai petali ed identifica la fecondazione avvenuta all’interno di un fiore con la fecondazione avvenuta tra un uomo ed una donna si cova, dentro l’urna molle e segreta, non so che felicità nuova. Egli è escluso perché non si apre all’amore come gli altri ma pensa ai suoi cari. Nebbia | Giovanni Pascoli Non interessa al poeta descrivere un fenomeno atmosferico, ma ciascuna delle strofe è introdotta dallo stesso verso nascondi dalle cose lontane ovvero protegge da una realtà esterna minacciosa. Tutto ciò che è all'interno viene descritto dal poeta. Questo testo è un’esortazione alla nebbia affinché nasconda ciò che fa male ed è minaccioso (dolore del lutto, la perdita, am anche il richiamo alla vita, all’apertura verso qualcosa), il poeta vuole rimanere nascosto da questa nebbia e viene detto esplicitamente. Ogni strofa termina con una parola in rima con lontane, si tratta sempre di rime semantiche (accostamento di due parole associate dal suono e dal significato) - frane, valeriane, pane, campane che ricordano la morte, cane. Analisi: Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba, pallida ed evanescente tu fumo che ancora rampolli, come una sorta di fumo che scaturisci su l’alba, da’ lampi notturni e da’ crolli dopo crolli e lampi d’aeree frane! Notiamo tutto ciò che è esterno viene rappresentato come un agente atmosferico; frane come se venissero dal cielo indicano un tuono, produce un rumore tale da essere paragonato dal crollo di una frana nel cielo. Fa un’apostrofe alla nebbia e chiede di nascondere tutto ciò che è lontano. Nascondi le cose lontane, nascondimi quello ch’è morto! Qui si riferisce a quegli affetti lontani Ch’io veda soltanto la siepe dell’orto, la mura ch’ha piene le crepe di valerïane. Il poeta vuole vedere solo la siepe dell’orto (qualcosa di familiare), le mura che hanno le crepe piene di valeriane e allude a qualcosa di lenitivo, calmante, rassicurante; vi è quindi un contrasto tra il dentro e il fuori. Nascondi le cose lontane: le cose son ebbre di pianto! Ch’io veda i due peschi, i due meli, soltanto, che dànno i soavi lor mieli pel nero mio pane. Le cose lontane sono caratterizzate dal pianto e dal dolore: vuole limitare a vedere elementi del giardino (precisione terminologica): peschi e meli che producono i loro mieli soavi ovvero la marmellata per il mio pane nero (elementi di una vita semplice). Nascondi le cose lontane che vogliono ch’ami e che vada! Ciò che è lontano è una sorta di richiamo a lasciare queste insicurezze, ma che rappresentano delle minacce (lasciare il nido e amare sono minacce). C’è sempre l’antitesi tra restare e partire (come il giovane ’Ntoni e i Malvaglia). Ch’io veda là solo quel bianco di strada, che un giorno ho da fare tra stanco don don (onomatopea) di campane… Vuole vedere solo realtà rassicuranti: la bianca strada che un giorno percorrerà nel momento della morte, sarà l’unico momento in cui abbandonerà questa realtà. Nascondi le cose lontane, nascondile, involale al volo (figura etimologica) del cuore! Sottrai questa realtà minacciosa ai sussulti del cuore. Ch’io veda il cipresso (elemento di morte) là, solo, qui, solo quest’orto, cui presso (anastrofe) sonnecchia il mio cane. POEMETTI Da Myricae, poesia bassa, a Canti, allude ad una realtà diversa, ed ora Poemetti quindi ha un riferimento chiaro al poema, una poesia molto più ampia e complessa. La prima edizione risale al 1897 ma l’edizione viene sempre rimaneggiata ed integrata. Questa raccolta si sdoppierà e diventerà: Nuovi Poemetti e Primi Poemetti. Parliamo di una poesia narrativa e dialogica, incentrata sulla narrazione e talvolta sul dialogo tra personaggi. Usa non a caso la terzina dantesca, che è appunto la terzina della narrazione (Divina Commedia). Il poeta fa uso di un linguaggio ibrido, ovvero molto innovativo perchè mescola e accosta termini tecnici, dialettali… l’esito è il plurilinguismo: e questo è l’aspetto più innovativo di quest’opera. In quest’opera troviamo riferimenti a temi già visti come: l’eros proibito (Il Gelsomino notturno, La digitale purpurea), emigrazione (Italy). Italy | Giovanni Pascoli Questa è la storia di due italiani che sono riusciti a conquistarsi una vita dignitosa negli Stati Uniti, tornano per un breve periodo in Italia con una bambina, Molly, che guarda sconsolata la povertà dei suoi nonni italiani. Ai suoi occhi l’Italia è povera, non offre nulla, non ha un legame con l’Italia anche se riesce a cogliere l’affetto dai propri nonni. Al momento della partenza pronuncia una parola in italiano: si; vince quindi la sua ritrosia, i suoi pregiudizi nei confronti della realtà italiana. Questo poemetto è importante perché affronta una tematica di grande attualità, entra nel merito degli stati d’animo dei vari personaggi (ad esempio dei nonni che soffrono di questo distacco, i genitori che vivono come tutti gli immigrati e che hanno un po’ il cuore scisso in due ed infine questa bambina che rifiuta l’Italia). Questo è un esempio della lingua ibrida, c’è una mescolanza di lingue che rappresenta la realtà di questi immigrati; la bambina non si esprime in italiano, i nonni in dialetto… Troviamo il contrasto tra il mondo contadino semplice e la modernità inquietante. Analisi: “Ioe, Giuseppe bona cianza! “bonne chance”...„ “Ghita, state bene!...„ “Good bye„ “L’avete presa la ticchetta? - ticket„“Oh yes„ “Che barco?„ “Il prinzessin Irene„ L’un dopo l’altro dava a Ioe la stretta lunga di mano. “Salutate il tale„ “Yes, servirò„ “Come partite in fretta!„ “Se vedete il mi’ babbo... il mi’ fratello… il mi’ cognato...„ “Oh yes„ “Un bel passaggio vi tocca, o Ghita. Il tempo è fermo al bello„ “Oh yes„ Facea pur bello! Ogni villaggio ridea nel sole sopra le colline. Sfiorian le rose da’ rosai di maggio. Sweet sweet... era un sussurro senza fine nel cielo azzurro. Rosea, bionda, e mesta, Molly era in mezzo ai bimbi e alle bambine. Il nonno, solo, in là volgea la testa bianca. Sonava intorno mezzodì. Chiedeano i bimbi con vocìo di festa: “Tornerai, Molly?„ Rispondeva: ― Sì! ― Un passo in avanti da parte di questa bambina. La digitale purpurea | Giovanni Pascoli Pascoli qui parla di un fiore, notiamo sempre l’uso dei nomi molto specifico, e digitale perché ha quasi la forma di un dito. Attraverso l’immagine di questo fiore il poeta allude ad un’esperienza proibita: toccare questa pianta significa trasgredire. Pertanto il poeta mette in relazione due figure di donne che parlano tra di loro ricordando un aspetto in comune della loro vita di quando erano bambine di quando sentivano delle suore che si raccomandarono che non toccassero quel fiore: il fiore di morte. Queste due donne rappresentano due realtà diverse, una, Maria, l’innocenza che confessa di non aver mai toccato quel fiore, l'altra, Rachele, la trasgressione perchè contrariamente ha toccato il fiore. Il simbolo che vediamo è quello di un eros pericoloso e una delle donne confessa di aver provato a toccare quel fiore, di non esser riuscita a trattenersi. Il testo è molto allusivo perché il lettore deve ricavare dei significati che non sono espliciti. Analisi: Siedono. L’una guarda l’altra. L’una esile e bionda, semplice di vesti e di sguardi; abbiamo già la descrizione di una donna bionda, esile e semplice che sarà Maria ma l’altra, esile e bruna, l’altra... Già non descriverla è una descrizione con l’aggiunta anche dei puntini di sospensione. I due occhi semplici e modesti, fissano gli altri due ch’ardono. “E mai, non ci tornasti?„ Stanno parlando del giardino dove c’era il fiore proibito “Mai„ “Non le vedesti più?„ “Non più, cara„ “Io si: ci ritornai; e le rividi le mie bianche suore, parlano del convento dove sono state allevate e li rivissi i dolci anni che sai; quei piccoli anni così dolci al cuore...„ L’altra sorrise “E di’: non lo ricordi quell’orto (giardino) chiuso? i rovi con le more? i ginepri tra cui zirlano i tordi? (notiamo il lessico specifico) i bussi amari? quel segreto canto misterïoso, con quel fiore, fior di...?„ Il fiore non viene nemmeno nominato“morte: fior di morte, sì, cara„ “Ed era vero? Tanto io ci credeva che non mai, Rachele, sarei passata al triste fiore accanto. Una delle due confessa di non averlo mai toccato, o di non esserci mai avvicinata. Chè si diceva: il fiore ha come un miele che inebria l’aria; un suo vapor che bagna l’anima d’un oblìo dolce e crudele. Questo fiore era come un miele che inebria, che stordisce ed impregna l’aria (odore di fragole rosse odore come un richiamo) Oh! quel convento in mezzo alla montagna cerulea!„ Maria parla: una mano posa su quella della sua compagna; e l’una e l’altra guardano lontano. (A seguito vi è l’analessi di quando ricordano gli avvenimenti del convento). [...] “Maria!„ “Rachele!„ Un poco più le mani si premono. Quindi si stringono le mani nel momento in cui rievocano il momento dell’infanzia. In quell’ora hanno veduto la fanciullezza, i cari anni lontani. Memorie (l’una sa dell’altra al muto premere) sulla base della pressione delle mani capiscono il loro stato d’animo dolci, come è tristo e pio il lontanar d’un ultimo saluto! “Maria!„ “Rachele!„ Questa piange, “Addio!„ dice tra sè, poi volta la parola grave a Maria, ma i neri occhi no: “Io,„ Rachele rivolge la parola ma lo sguardo rimane basso, tipica postura di chi ha un segreto da nascondere mormora, “sì: sentii quel fiore. Sola ero con le cetonie (nome specifico di insetti) verdi. Il vento portava odor di rose e di viole a ciocche (allusione ad un profumo che inebria). Nel cuore, il languido fermento d’un sogno che notturno arse e che s’era all’alba, nell’ignara anima, spento. Quella mattina ero agitata per un sogno d’amore. Maria, ricordo quella greve sera. L’aria soffiava luce di baleni (sinestesia) silenzïosi. M’inoltrai leggiera, cauta, su per i molli terrapieni erbosi. Racconta di quando ancora agitata da questo sogno si era addentrata in questo giardino da sola. I piedi mi tenea la folta erba. Sorridi? E dirmi sentia, Vieni! Sentivo dirmi vieni Vieni! E fu molta la dolcezza! molta! tanta, che, vedi... (l’altra lo stupore alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta con un suo lungo brivido...) si muore!„ L’altra in quel momento si rende conto di quello che sta raccontando. LA GRANDE PROLETARIA SI È MOSSA Pascoli scrive anche poesie di tipo celebrativo, nelle quali assume il ruolo di poeta vate, che celebra e canta i valori nazionali (Poemi italici, Poemi del Risorgimento) Scrive nel 1911, in occasione della Guerra in Libia, La grande proletaria si è mossa. Pascoli prende posizione nel dibattito tra coloro che sostenevano la campagna in Libia e gli oppositori. Egli giustifica il colonialismo italiano, perché paragona l’Italia povera con i poveri che hanno solo prole. L’Italia è come una madre che non potendo mantenere i propri figli non può fare altro che spingerli fuori dall’Italia: ecco allora o la migrazione o cercare risorse altrove. Pascoli mette in evidenza come gli italiani che emigrano all’estero siano maltrattati, derisi con nomignoli offensivi. L’impresa in Libia viene presentata come un’opportunità per quegli italiani privi di risorse. IL FANCIULLINO Il fanciullino è un saggio di 20 brevi capitoli che scrive Pascoli nel 1897 e pubblicato nella rivista Il Marzocco. Qui Pascoli esprime la sua idea di poesia e al ruolo del poeta. La poesia è presentata come un’attività non razionale, che non segue le regole della logica e il poeta non è che il fanciullino. Questo nome riporta un’infanzia idealizzata e non c’è nulla di realistico in questo fanciullo, e corrispondono un po’ alla funzione del poeta. Il poeta è dunque il fanciullino, viene descritto come colui che guarda il mondo in maniera ingenua, con uno sguardo pieno di stupore che grazie all’intuizione riesce a cogliere gli aspetti misteriosi della realtà, a creare relazioni e corrispondenze all’interno della realtà. Pascoli sostiene che il fanciullino sia presente in tutti noi, tuttavia questa voce nell’età adulta si fa sentire sempre di meno perchè l’uomo maturo assume uno sguardo razionale e attento ai propri doveri e priorità. L’adulto si esprime in maniera seria, reale e convenzionale; non da quindi più ascolto al fanciullino ma ciò non significa che il fanciullino scompaia, resta presente in ciascuno di noi ma è soprattutto il poeta ad interpretare la voce del fanciullino. Il fanciullino possiede due capacità straordinarie: quella di vedere e di dare il nome alle cose. Egli ha la capacità di vedere dove gli altri non vedono, ed è appunto una caratteristica tipica che il simbolismo attribuisce al poeta che per alcuni è il veggente e per altri il sacerdote mentre per Pascoli è il fanciullino che ha negli occhi lo stupore tipico di un bambino e che si sofferma a toccare, ascoltare cose a cui gli adulti danno poca importanza. Il fanciullino è in grado di guardare la realtà con occhi nuovi, secondo punti di vista inediti dal basso ed è colui che scopre legami e affinità tra le cose, è quindi una nuova modalità di conoscenza. L’altra capacità è quella di dare un nome alle cose, infatti l'autore dirà è il fanciullino che da il nome a tutto. Il fanciullino è presente in tutti ma solo il poeta è in grado di conservarne davvero lo spirito e dargli voce attraverso la poesia - che è quindi la capacità di intuire, illuminare le cose e cogliere legami e corrispondenze. Con la poesia salva l’autore fa riferimento ad un tipo di poesia che non ha un’utilità pratica, ma è una poesia moralmente utile; è una poesia che ispira buoni e civili costumi. Analisi: È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Il fanciullino è colui che si emoziona, ha brividi, lacrime, tutto tipico di un bambino. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Quando siamo ancora giovani non si capisce la differenza tra la voce del fanciullino e la nostra, vanno all'unisono. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. […] Finchè siamo piccoli la nostra voce si confonde con quella del fanciullino, ma quando diventiamo grandi non ascoltiamo più quella voce perchè siamo intenti ad altri obiettivi, a cose più serie, ma lui rimane con la sua meraviglia e in alcuni casi non sentiamo più quella voce cristallina di bambino perché la nostra voce si è fatta grossa e non badiamo più all’angolo dove si è nascosto il fanciullino. In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Poiché non si sente più sembra a non esistere. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Ecco ancora che l’umiltà viene sottolineata e ribadita. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; egli vede al buio, sogna di giorno → questa è quella capacità attribuibile al poeta di cui parla Pascoli; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Non c’è una motivazione razionale nel fanciullino, così come la sua conoscenza non è razionale. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile
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