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Vicerè di Federico de Roberto, Dispense di Letteratura

Romanzo storico. Letteratura siciliana. Narra della nobiltà attraverso la descrizione grottesca dei personaggi definiti come portatori di disvalori.

Tipologia: Dispense

2019/2020
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Caricato il 08/07/2020

arenafrancesca
arenafrancesca 🇮🇹

4.4

(20)

18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vicerè di Federico de Roberto e più Dispense in PDF di Letteratura solo su Docsity! Letteratura Italiana VIAGGIO NELLA SICILIA LETTERARIA TRA 800 E 900 - Federico de Roberto (I Viceré) - Leonardo Sciascia (Il consiglio d'Egitto) - Leonardo Sciascia (candido) - Tomasi di Lampedusa (I racconti) (Il Gattopardo) di Gioacchino Tomasi di Lampedusa L'opera di De Roberto esce nel 1894 ma bisogna aspettare fino gli anni 60 del 900 affinché la critica si accorga dell'importanza e del valore di questo romanzo. Ha pesato su di esso e sul suo autore il giudizio di Benedetto Croce, che scrive nel 1939 una vera e propria stroncatura che appare nelle colonne della critica e nella rivista diretta dal filosofo stesso e infine sarà raccolta nel sesto volume della letteratura dell'Italia unita. Egli afferma che il De Roberto è abile nel maneggio della penna, è un uomo di cultura ma la sua opera è pesante, che non illumina l'intelletto e non fa battere mai il cuore, oltretutto il limite maggiore è costituito dall'assenza di poesia, in esso prevale un intento dimostrativo di matrice zoeviana. Questo giudizio sarà poi ribaltato da Leonardo Sciascia sulle pagine di Repubblica in cui dimostra come Croce abbia avuto una vista poco acuta nel giudicare l'opera di De Roberto, non sapendo valorizzarla. Secondo Sciascia, dopo i promessi sposi, I Viceré è il più grande romanzo che conti la letteratura italiana. Tra il giudizio di Croce e il giudizio di Sciascia (1939-1977) si colloca un avvenimento culturale: l'uscita postuma di Tommaso Lampedusa con Il Gattopardo. Per mezzo di tale testo si riaccendono i riflettori sul romanzo di De Roberto, considerato come antecedente del Gattopardo stesso. In quella circostanza i due romanzi furono messi a confronto e si valorizzarono gli aspetti che i due testi condividono. Nella stagione critica degli anni ‘60 due personalità spiccano in tal scena: Carlo Alberto Magrignani: curatore del mediano dedicato a De Roberto e a Vittorio Spinazzola, autore di un saggio: il romanzo antistorico incentrato su De Roberto, Pirandello e Lampedusa. La linea interpretativa di questi due contributi fu di entrambi mettere in evidenza come il De Roberto guardi con spietato spirito critico al processo del risorgimento e come si è compiuto nel Paese e in particolare nel Mezzogiorno d'Italia. De Roberto è legato alle vicende del risorgimento, basti pensare alla data di nascita (1861) allegata all’anno in cui venne eletto il primo parlamento presidenziale. Se pensiamo alla trama del romanzo notiamo subito come protagonista sia una famiglia aristocratica: gli Uzeda di Francalanza dietro cui si celano i principi Biscali, negli anni a cavallo dell'unificazione nazionale. La narrazione prende le mosse nel 1855 e si concluse nel 1882. De Roberto critico severo del risorgimento e dei suoi esiti fallimentari, ci fa vedere come le classi dirigenti dell'Ancieme Regime borbonico riescano a conservare il potere anche dopo l'unità d'Italia, saltando sul carro dei vincitori cambiando ideologia, fede politica, bandiera almeno esteriormente. Ci insegna che quello che conta nella storia non sono le fedi politiche o le ideologie strumentali ma ciò che è fondamentale è l'esercizio del potere, così che le vecchie classi dirigenti si ostinano a rimanere. La sua importanza è legata a questa lezione di antistoricismo, la capacità di guardare alla storia con scetticismo, in maniera disincantata. Questo giudizio severo di questo risorgimento mancato, tradito si lega ad uno scetticismo di fondo nei confronti di qualsiasi forma di progresso della storia, di quelle che Leopardi chiamava le magnifiche sorti e progressive, un Leopardi molto caro a De Roberto, al quale dedica una monografia nel 1898, anno del centenario del poeta. Per il poeta la storia è una monotona ripetizione, un incessante trasformismo che non cambia le cose ai vertici del potere. Questa interpretazione negativa, antiprogressista della storia è una chiave di lettura che dà in prestito ai grandi scrittori siciliani, postumi. Si ricordi il Pirandello con l'opera "Vecchi e Giovani", grande romanzo storico, che osserva il risorgimento con lo stesso sguardo spietato di De Roberto, ma pensiamo ad un racconto anche di Brancati: il “Vecchio con gli stivali.” Brancati si era laureato su De Roberto, scrisse la tesi proprio su di lui. Questo racconto legge un altro momento della storia italiana: il passaggio dal fascismo all'antifascismo, con lo stesso atteggiamento politico demistificante. Al centro del racconto è presente un povero impiegato municipale Aldo Piscitello, che nell'intimo è del tutto in disaccordo con l'ideologia fascista. Nonostante non abbia maturato una consapevolezza teorica sente di essere nell'animo profondamente antifascista, definito da Brancati: l'antifascismo istintivo del popolo. Negli ultimi anni è costretto per non perdere il posto di lavoro di prendere l'odiata tessera del fascio. Ma crolla il regime, si insediano i comitati di epurazione, preposti all'estromissione di coloro che si erano compromessi con il fascismo. L'unico ad essere epurato dalla sua carica, Manzione nel municipio è il povero Piscitello, unico che nel suo intimo fascista non era, nel frattempo, tutti gli altri che erano in realtà fascisti sono saltati nel carro dei vincitori, sono diventati antifascisti. Aldo Piscitello non ha avuto cosi il tempo di indossare la maschera. Possiamo pensare ancora ad un racconto di Sciascia: il “’48” edito nel 1957, poi rifuso negli zii di Sicilia in cui si racconta la vicenda del Barone Garziano e si seguono le tappe di un processo di opportunistica trasformazione, cioè viene seguito l'iter trasformistico del barone. Anche nel Gattopardo segue una fase di trasformazione. Tancredi, il nipote del principe Salina, sale anche lui sul carro del vincitore. Un aristocratico che va a combattere con Garibaldi perché quella è una carta vincente per potersi assicurare la continuazione dell'esercizio del potere. Importantissima è la frase di Tancredi al Principe "se vogliamo che tutto rimanga com'è bisogna che tutto cambi". Motto del gattopardo e insieme motto del moto trasformista. Questa apparente continuità è contradetta da un atteggiamento diverso di Lampedusa nei confronti dell'aristocrazia. In entrambi i romanzi sia nei Viceré che nel Gattopardo al centro protagonista è una famiglia aristocratica. Tomasi di Lampedusa guarda all'aristocrazia con nostalgia come se intonasse un requiem per un mondo che volge al tramonto, proprio perché lo stesso Tomasi fa parte dell'aristocrazia. Per De Roberto, la presa di distanza dall'aristocrazia è assoluta continuando secondo un giudizio polemico. Secondo Tomasi in polemica a De Roberto dice che guarda all'aristocrazia attraverso il buco della serratura. Infondo, dobbiamo assumerlo come un giudizio veritiero che coglie nel segno, il suo è un atteggiamento tipico del servo che guarda con disprezzo ai padroni e in tutto il romanzo i servi assumo questo atteggiamento. I Viceré sono senz'altro un romanzo storico, perché effettivamente la storia privata è rappresentata sullo sfondo degli avvenimenti pubblici della storia d'Italia. I viceré sono anche un romanzo antistorico perché in essi è attiva un’idea de robertina della storia non come progresso ma bensì con un’idea della storia come luogo in cui si perpetua il potere grazie alla cinica pratica del trasformismo. La forma ciclica dei romanzi de Robertini: Roberto scrive tre romanzi: l'illusione nel 1891, I Viceré nel 1894, l'imperio nel 1929. Questi tre romanzi dei servitori e dei membri della famiglia che partecipano al funerale. Il Primo atto consiste nella notizia della morte della matriarca, data da un cocchiere Salvatore Cerra ad altri servi. La principessa mori al Belvedere e reca la notizia a Palazzo Uzeda in città. Pag. 50: Teresa Uzeda si è comportata in maniera tirannica, capricciosamente tirannica e per questo i figli si sono allontanati da lei e nutrito odio e ostilità. Tanto è vero che quando si trova malata al Belvedere decide di redigere il testamento e non consultare i suoi figli ma si rifà solo alla presenza del suo amministratore Marco. Pag. 51. Il Conteggio della famiglia: 9 figli, si aggiungono i 4 cognati, i fratelli del marito di Teresa Uzeda. Più avanti De Roberto prende in considerazione rami collaterali della famiglia Uzeda, I Radalì. Il duca Don Mario Radalì, il pazzo che aveva due figli maschi Michele e Giovannino. Oltre ai Radalì viene nominata la signora, Donna Graziella, che è la figlia di una defunta sorella della principessa Teresa e cugina carnale di tutti i figlioli della morta. Pag. 50. Un vecchio disse: " Razza di matti, questi Francalanza" Una lettera di De Roberto all'amico Di Giorgi nel 1891, quando sta concependo l'idea di scrivere i Viceré, che li scriverà nell'arco di tempo di tre anni. La data di pubblicazione sarà nel 1894. "La storia di una gran famiglia la quale deve essere composta da 14 o 15 tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell'altro. Il primo titolo era Vecchia razza. Ciò dimostra l'intenzione ultima che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale di una stirpe esausta." Sono presenti diverse tematiche tra cui quello della razza che rimbalza nell'esclamazione del passante, il cui sangue si corrompe e il tema della follia, una stravaganza che può degenerare in pazzia.” Il linguaggio di questa lettera e lo spirito che circola nella battuta del passante anonimo ci impongono di prendere in considerazione il retroterra culturale dei Viceré, costituito dal sapere positivista e dal naturalismo, che si era nutrita a sua volta di positivismo. Si pensi ad Emile Zola che prende come modello filosofico Hippolyte Taine. Egli è il teorico del naturalismo, conia per primo tale espressione. Taine mette a fuoco quelle che sono le cause che determinano ogni fenomeno umano, si parla di determinismo positivistico. Per questo teorico ogni fenomeno umano è il risultato di tre cause: Ereditario che definisce la razza, il patrimonio genetico, le leggi della razza, l'ereditarietà biologica; Ambiente Sociale e infine il Momento Storico. Questi tre fattori determinano a sua volta il comportamento dell'uomo, qualsiasi fenomeno umano, individuale e sociale. Il positivismo di Taine viene assimilato da Zola. De Roberto rispetto al naturalismo tende a mettere tra parentesi quello che è l'approfondimento scientifico, il tema della razza, che è pure presente nei Viceré ma in isola minore rispetto al tema Zoeliano. È significativo, infatti, che abbia cambiato il titolo. D’altra parte, De Roberto vive in Sicilia e il naturalismo gli giunge mediato dal verismo italiano. Teorico del verismo fu Capuana, che aveva assimilato la lezione di Zola, ma l'aveva fatta propria secondo dei parametri che sono tutti italiani. L'accento si sposta sull'aspetto formale e stilistico, la forma deve adeguarsi al soggetto trattato, la teoria dell'omologia tra i livelli sociologici della materia narrata e i livelli formali. Verga ritiene che lo scrittore verista debba adeguare il proprio linguaggio all'ambiente che viene rappresentato. Un altro aspetto che differenzia il naturalismo dal verismo è l'impegno sociale dello scrittore. I naturalisti sono socialmente impegnati, rappresentano la condizione cittadina degli operai delle classi povere e rivendicano per queste classi un riscatto. Con Zola nasce la figura dello scrittore intellettuale che ha il coraggio di denunciare. De Roberto, con Capuana e Verga condivide un’ideologia conservatrice. Pag. 63. La lettura delle disposizioni da parte di Teresa, per il suo funerale, per l'imbalsamazione del suo corpo nella chiesa dei cappuccini. La contraddizione che si viene a creare tra la volontà di apparire umile e il carattere imperativo del dettato: voglio, ordino e comando, formule che ci permettono di capire il carattere tirannico di questa donna, capace di creare un Matriarcato Uzediano. Un altro aspetto è l'operazione di imbalsamazione, che rientra nella tradizione ma è anche una vanità di Teresa e del suo bisogno di eternità e alla sua volontà dispotica di dominio suoi figli. La chiesa è strapiena di folla (anche qui rientra una dimensione corale). Si distingue nella folla, un personaggio: Don Cono Canalà, un personaggio minore che acquista un suo protagonismo, ed è inoltre figurina comica. Appartiene ad una nobiltà inferiore, che l'autore definisce con il termine di lavapiatti, sono dei nobili spiantati economicamente, che per sopravvivere stanno alla mercé dei grandi signori, economicamente potenti. Don Canalà scrive gli epitaffi, iscrizione sepolcrali, in cui si tesse l'elogio delle virtù della matriarca. Esagera con gli elogi proprio per ricevere maggior sostegno. Queste iscrizioni, in stile Solein, sono distribuite un po’ dappertutto all'interno della chiesa su delle tabelle ma anche all'esterno è presente un epitaffio sulla facciata della chiesa, ricamato. Cinque o sei epitaffi che commenta attraverso un linguaggio baroccheggiante, enfatico, ampolloso. Pag. 67. Epitaffio Mette in evidenza la virilità del personaggio. Pag. 68. Epitaffio Viene evidenziata la funzione paterna esercitata da Teresa. Pag. 71. Epitaffio È richiamata l'attenzione sull'animo caritatevole nei confronti dei poveri, dei sofferenti. In realtà Teresa è tutt'altro che un animo caritatevole. Il lettore nutre sospetti perché nelle righe precedenti: il narratore introduce il figurino di un mendicante che riesce ad entrare nella chiesa però inciampa contro un gradino di altare e cade per terra, e come se l’autore volesse dirci che ci sono dei derelitti reali che non sono aiutati dalla nobiltà che simbolicamente cadono a terra, sono costretti a strisciare per terra. L'atteggiamento adulatorio di Don Canalà nei confronti degli Uzeda attraverso gli epitaffi trova un suo contro altare nei commenti malevoli fatti da parte di coloro che partecipano al funerale. Pag.68. Questi epitaffi elogiativi sono giustapposti ai commenti malevoli dei partecipanti al funerale. Questi costituiscono il contrappunto degli epitaffi di Don Canalà. De Roberto sperimenta la tecnica del contrappunto, fa in modo che gli epitaffi entrino in cortocircuito con i pettegolezzi maligni. Le virtù si contrappongono ai vizi. Pag. 71-72. Alcuni degli astanti alle esequie fa notare come ci sia contraddizione tra le disposizioni per il funerale e lo sfarzo e la sontuosità ma soprattutto il riferimento all'allegra vita durante il suo ménage coniugale, all'allusione ad una relazione extra coniugale. La stravaganza di donna Teresa emerge nei commenti. Una stravaganza che non segue la ragione ma son dei veri e propri capricci, arbitri. Un’interpretazione generale di questo evento del funerale: si celebrano queste esequie in pompa magna e rivestono la funzione di una vera e propria recita pubblica. Una dimensione teatrale di questo evento, come se l'aristocrazia celebrasse sé stessa e le proprie virtù e volesse inculcare nella folla l'idea della potenza della famiglia, del prestigio e della razza Uzeda. Si festeggia il tutto nella riaffermazione del potere. Naturalmente ci sono degli elementi che contribuiscono a rafforzare la dimensione spettacolare di questo evento: la musica e la coreografia, cui presiede il maestro di casa, questo Baldassare, maggiordomo della famiglia e che nella circostanza fa da regista cerimoniere dello spettacolo. Pag. 66. Da questo ultimo commento apprendiamo che il cadavere non si trova nella cassa al centro della chiesa perché il cadavere è stato messo a disposizione di chi provvede all'azione dell'imbalsamazione. Tutto l'apparato maestoso è in realtà sostanzialmente vuoto, in assenza del cadavere. I pettegolezzi sparsi nel corso di questo episodio sembrerebbero al lettore, in un primo momento, mossi dal rancore ma in realtà in un secondo momento il romanzo si incaricherà di come questi pettegolezzi nella sostanza corrispondano a verità. Pag. 70. De Roberto crea un clima di suspense per la lettura del testamento di donna Teresa e per quanto riguarda la distribuzione delle sue ricchezze. Vi è una diversificazione, vi sono alcuni che pensano che l'erede sarà il primo genito Giacomo, altri che pensano che la principessa Teresa disporrà perché tutto passi al terzo genito, Raimondo, il prediletto dalla principessa. Il documento che è stato scritto da Donna Teresa, all'insaputa dei figli viene letto nella galleria dei ritratti, salone del palazzo, in cui sono presenti i ritratti degli antenati della famiglia e tra questi spicca quello del Viceré Lopez (i Viceré sono una razza discendente dai Viceré Spagnoli), al cospetto di tutto il parentato dal giudice, in presenza del notaro. Pag. 82. Viene evocata una legge del tempo, la legge del maggiorascato, che donna Teresa lascia alle spalle nel momento in cui redige il suo testamento e dispone delle sue ricchezze. La legge vincolava l'autore del testamento a lasciare le sue ricchezze al primo genito, per evitare la frammentazione del patrimonio familiare. Ai cadetti, andava soltanto una minima parte. Donna Teresa infrange questa legge per un capriccio. In realtà è legata sentimentalmente al terzo genito, ama soltanto lui tra i sette figli e decide di non tener conto di questa legge e di disporre diversamente. Questa volontà legata ad una preferenza personale rispecchia la realtà storica di tempi. Dietro questa finzione romanzesca è presente un mutamento epocale. Il fatto che negli anni in cui De Roberto scrive il romanzo, la prima nobiltà che godeva dei diritti del maggiorascato è dovuta scendere a compromesso con una nobiltà inferiore, di cui Raimondo poteva essere rappresentante, proprio per sopravvivere. Pag. 90. Donna Teresa ci dice qualcosa della sua storia personale: Nel momento in cui diventa sposa di Consalvo Settimo, dell'erede del titolo nobiliare, è in grado grazie alla ricca dote di risollevare le sorti economiche del casato degli Uzeda. Donna Teresa ha saputo essere una brava amministratrice dei beni di cui è venuta in possesso, imparentandosi.  Segue ad un certo punto una sorta di testamento nel testamento, cioè quello che Consalvo, morendo lascia detto, in eredità ai suoi figli come consiglio. Pag. 91. Pag. 91. Si alternano sulla pagina la lettura della disposizione testamentarie e le reazioni degli astanti. Una ritrattistica in cui De Roberto è maestro. Teresa a dispetto della tradizionale legge del maggiorascato dispone perché le sue ricchezze siano divise tra i due figli, il primo genito Giacomo e il terzo figlio Raimondo. Gli altri figli sono beneficiari soltanto delle briciole del patrimonio. Gli astanti, coloro che sono stati penalizzati, reagirono in maniera diversa a seconda del Nel terzo capitolo della prima parte si racconta: Don Blasco si racconta di come abbia dovuto sacrificarsi in quanto cadetto, lasciando il campo al primogenito, Consalvo Settimo. Nell'occasione della lettura del testamento Don Blasco istiga i nipoti a impugnare il testamento, rifiutarlo perché ai suoi occhi, i nipoti sono stati defraudati dei loro diritti. Per questo suo atteggiamento non fa che alimentare la guerra all'interno del suo parentato, rifacendosi ai torti subiti. In questa stessa occasione si sono manifestati quelli che sono le sue posizioni politiche, cioè i suoi sentimenti di reazionario, di uomo fedele alla causa borbonica e questo in linea con il clero e con la politica della chiesa in generale. Pag. 80. Nella situazione del lutto il priore Lodovico deplorava a bassa voce. Egli non accetta il nuovo corso della legge piemontese contro le corporazioni religiose che si profila all'orizzonte, ovvero il tentativo di privare la chiesa del suo potere temporale. Don Blasco professa in un primo momento questa sua fede borbonica, contro i rivoluzionari ma ad un certo punto però professerà un’altra fede, quella liberale. Incarna il trasformismo, il camaleontismo cinico che per De Roberto rappresenta il cuore di tenebra del potere, il meccanismo del potere che si rinnova in ogni epoca, in ogni circostanza. Pag. 100. Inizialmente in casa franca Lanza si appaga ogni desiderio, si vive nel lusso. Queste aspettative ad un certo punto vengono frustrate dall’imposizione dei genitori, di qui l'odio che si porterà dentro di sé. Ma in convento ci si "scialava" forse meglio che in casa franca Lanza. I monaci hanno le amanti conducono una vita all'insegna del godimento più pazzo e sfrenato. All'interno della parentela la sua acredine si appuntì oltre che sulla vecchia principessa Teresa, anche col padre e col fratello. Pag. 102. Il narratore interviene a censurare gli eccessi verbali con dei puntini di sospensione. I difetti e le debolezze di Don Blasco: Pag. 105. Il topos del monaco corrotto. Il personaggio presenta tratti caratteriali: l'ignoranza e l'attaccamento ai beni materiali. Si mostra nell'atto di ingordigia con i peggiori monaci. In occasione della presentazione della galleria dei ritratti si dice che Don Blasco spicca per la sua pinguedine. Gioca all'otto, attaccato al denaro e porta il coltello sotto i panni. Pag.106. Don Blasco è bramoso di potere, e questo lo lega agli altri Uzeda. Una lotta all'ultimo sangue per la conquista della carica di priore all'interno del convento, e in lizza come candidati a questa carica sono zio e nipote, nipote Lodovico e lo zio Blasco. La spunterà Lodovico. Blasco aveva soltanto il vantaggio dell'età ma tutti i suoi difetti non lo aiutarono a conquistare la simpatia e quindi il voto dei monaci. Quando viene eletto Lodovico non accetta e va su tutte le furie: Ci sono delle frasi iperboliche, per mettere in evidenza gli eccessi verbali del monaco. Don Lodovico lo lasciò dire, edificando l'intero monastero con l'umiltà opposta alla violenta aggressione dello zio. Don Blasco ha un carattere che ci può ricordare un modello letterario, cioè un personaggio che veste l'abito di monaco nel romanzo dei promessi sposi, Fra Cristoforo. Nasce anche lui in indole focosa che conserva nonostante l'abito. Questo modello manzoniano viene ricalcato a rovescio, nel senso che Don Blasco ha sì lo stesso temperamento focoso di Fra Cristoforo ma svuotato di ragioni ideali. Don Blasco non pone questo suo carattere al servizio di una causa nobile ma gli fa servire il proprio tornaconto personale. Don Blasco è un egoista, non dotato di coscienza morale. Pag. 107. Se Don Blasco è certamente uno spietato critico nei confronti di tutti i parenti che lo circondano, è a sua volta oggetto di critiche da parte sia di alcuni singoli personaggi, del narratore e della vox popoli. Una figura che non esita a contraddirsi pur di opporsi agli altri. Il capitolo sesto della prima parte è ambientato all'interno del convento di S. Nicola. Pag. 208. Fra Carmelo è un’anima semplice, particolarmente affezionato al convento, vi è vissuto per moltissimi anni. Sarà forte il dolore che proverà quando arriveranno i garibaldini, e saranno alienati i beni ecclesiastici dal nuovo stato unitario, e il convento di S. Nicola sarà soppresso e Fra Carmelo sarà destinato ad ammattire. Pag. 211. I monaci facevano l'arte di Michelassi, mangiare, bere e andare a spasso e questo contro la regola divulgata di S. Benedetto che imponeva invece ai monaci una vita sobria all'insegna dell'umiltà, dell'astinenza. Pag. 214. L'abate che si era insediato a S. Nicola aveva tentato di imporre la regola di S. Benedetto ai monaci del convento. Per esempio, aveva provveduto a ordinare lo sgombero dell'asialia da una delle case delle proprietà del convento. Queste case dovevano essere assegnate a gente bisognosa ma Don Blasco infrangendo la tradizione era riuscito a favorire la sua amante. Il provvedimento dell'abate fa infuriare Don Blasco e scatena una guerra tra i due ma riesce ad avere la meglio Don Blasco, il quale si lega al dito questa offesa. L'aspetto politico della vita di Don Blasco: La divisione che viene segnalata all'interno del convento è tra due partiti politici. La scelta del partito politico divide la popolazione in: i padri, i fratelli e i novizi. Da una parte abbiamo il partito politico dei liberali, dei filopiemontesi, coloro che sostengono la casa dei Savoia, i rivoluzionari, dall'altra i borbonici, i filo napoletani. Partito che veniva definito con disprezzo dai liberali "partito dei Sorci" Don Blasco capitaneggia quest'ultimo partito. Pag. 253. La previsione di Don Blasco è che Francesco regnerà altri cento anni. Il motivo dell'odio che prova per il fratello Don Gaspare è che egli è appunto un liberale e aveva rinnegato le idee borboniche. Naturalmente costituisce un tradimento in famiglia inaccettabile e il suo ritorno da Palermo viene ad essere giudicato severamente. Don Gaspare per Don Blasco è un coniglio, un vigliacco che ritorna a Catania per assicurarsi l'incolumità. Una conseguenza importante dell'esito positivo della presa garibaldina è la decisione della soppressione della corporazione religiosa e della confisca dei beni ecclesiastici, questo è quanto si profila nell'orizzonte di vita dei monastici. Pag. 409. Interessante è il riferimento alle farmacie borboniche. Non si vendevano solo le medicine ma era anche un luogo di aggregazione in cui parlavano di politica. Erano presenti diverse farmacie a seconda dell'orientamento politico. Interessante è un dialogo tra Fra Carmelo e Don Blasco a proposito della confisca dei beni ecclesiastici che ormai è legge. Fra Carmelo e tutti gli altri monaci son stati costretti ad abbandonare S. Nicola ed indossare gli abiti laicali. Fra Carmelo è stato spiazzato e traumatizzato e sembra aver perso il ben dell'intelletto. Fenomeno importante da ricordare è l 'Apostasia, il rinnegamento delle idee borboniche per abbracciare la fede liberale e lo porta a comprare le terre del convento. Pag. 442. Tra coloro che si sono accaparrati gli ex beni della chiesa, Benedetto Giulente che sposò Lucrezia, trovò il nome di Matteo Garino, marito della Sigaraia, colui che aveva accettato che la moglie diventasse l'amante di Don Blasco e che anzi si era sbracciato per servirlo e favorire in tutti i modi la relazione. Garino è il preta-nome di Don Blasco e per non suscitare scandalo si era coperto con questo nome. (Siamo di fronte ad un atteggiamento all'insegna del trasformismo). Pag. 456. Il fatto di aver riacquistato le terre non è un atto di incoerenza ma è un modo per farla ai nuovi venuti, ovvero al governo liberale. Riconquistare quello che gli è stato tolto, per rifarsi dell'ingiustizia subita ma naturalmente si tratta di una giustificazione che non regge poiché il vero movente è quello opportunistico dettato dall'egoismo. Don Blasco abbraccia la causa dei liberali tanto è vero che nella parte conclusiva della seconda parte lo vediamo capeggiare i cortei di festeggiamento per la presa di Roma, esultare per la fine del potere temporale dei papi. Da pag. 470 sino alla fine della parte seconda Don Blasco gioca questo ruolo: Il duca di Oragua riceve questo telegramma in cui si annuncia questo evento importante di storia risorgimentale e il monaco in tripudio sale su una seggiola e legge (...) Il vocione di Don Blasco che anche in questa occasione si mostra come un personaggio teatrale, fortemente icastico. Legge la copia del telegramma da parte del duca. Nelle ultime battute di questo capitolo vediamo Don Blasco a capo del corteo che è esulta e gridare "abbasso morte". Qui c'è un capovolgimento di posizione clamoroso che fa restare senza fiato il lettore. Conferma di questa nuova bandiera che Don Blasco non si fa scrupolo di agitare è l'abitudine contratta di frequentare una nuova farmacia. Pag. 459. In tale farmacia vi bazzicavano i liberali più arrabbiati. Le abitudini si adeguano al camaleontismo di fondo. Don Blasco ora si è arricchito, è diventato una persona appetibile agli occhi dei nipoti, che iniziano a servirlo nella speranza di poter ricevere almeno una parte dell'eredità. Un atteggiamento simile sarà tenuto dai nipoti per donna Ferdinanda. L'ultimo atto della vita di Don Blasco, ovvero la morte: Pag. 509. Muore per un colpo apoplettico. Don Blasco assimilato nel momento dell'agonia ad un otre sgonfiato. Il narratore applica la legge del contrappasso. Colui che aveva dominato la scena come un personaggio pantagruelico, eccessivo in ogni sua manifestazione ora si mostra come un otre sgonfiato. C'è dell'ironia sottesa a questa immagine. Spogliato e messo in letto da donna Lucia (l'amante) si era addormentato ma nel mezzo della notte fu senza sentimento. Questa situazione fa sì che si riattivi la commedia, una commedia a cui avevamo già assistito alla morte della principessa Teresa. La commedia dell'ipocrita, delle lacrime, del dolore, della pietà. Dietro questa commedia invece è presente l'interesse materiale, l'attaccamento di tutti i parenti al denaro di Don Blasco. Pag. 511. Altro contrappasso, colui che aveva gesticolato per tutto il tempo ora dell'azione ora è contratto all'immobilità. I pianti poco a poco cessarono e vien fuori il vero interesse, quello economico. Tutta l'attenzione è rivolta al testamento dell'uomo. Questo testamento in realtà non c'è perché Don Blasco non lo hai mai redatto, eppure ad un certo punto dell'episodio ne sarà fatta lettura da Matteo Garino, al cospetto di tutti i parenti. Si tratta di un falso, un documento realizzato da lui stesso e Giacomo e gli astanti rimarranno molto male, nella misura in cui il testamento nomina Giacomo come erede universale concedendo un ampio legato di 200 onze a Don Matteo. Si tratta di un’attività falsificante che fa l'interesse di questi due personaggi. Naturalmente Donna Ferdinanda, Lucrezia e altri tentano e impugnano il documento, ricorrendo ai tribunali pur di dimostrare l'inautenticità del documento e troveranno soddisfazione. Importante è la consueta bravura stilistica che de Roberto mette: due gruppi contrapposti, per il presunto testamento. All'interno di uno dei due gruppi si afferma il principio dominante della lotta di tutti contro tutti. Anche all'interno del gruppo dei falsari manca l'unità poiché Matteo ruba a Giacomo. monachella. A 16 anni si sentì realmente chiamata a Dio. Difficile stabilire dove finisce l'opera di manipolazione e dove invece inizia la vocazione spontanea. Lucrezia e Chiara erano brutte. Pag. 126. I due fratelli Giacomo e Raimondo, seppure assopiti dalla stessa aria di famiglia non si somigliavano: il primo brutto e Raimondo bellissimo. De Roberto dice che la famiglia Uzeda si divide in due tipi, belli e brutti. Nella galleria dei ritratti si potevano riscontrare i due tipi, il tipo bello e il tipo brutto e la contrapposizione di questi due tipi è una costante nella famiglia Uzeda, e questo è reso visibile dai ritratti. Tra i progenitori più lontani vi era una mescolanza di forza e grazia che formava la bellezza del continuo. A poco a poco con il passare dei secoli i lineamenti cominciavano ad alterarsi, i volti si allungavano, i nasi sporgevano e il colore diventava sempre più oscuro. La razza degli Uzeda si imbruttisce, è il tema positivistico deterministico della degenerazione ereditaria. La fenomelogia del brutto nei rami bassi dell'albero genealogico. La pinguedine di Don Blasco, l'estrema magrezza di Don Eugenio, deturpava i personaggi. Tra le donne l'alterazione era più manifesta specie tra Lucrezia e Chiara, quasi non parevano donne e infine Donna Ferdinanda con tratti virili. Chiara è tenuta dalla madre in un pugno di ferro e si mostra ubbidiente almeno fino al giorno in cui Federico il marchese di Villa Ardita si offre di sposarla senza dote. A questo punto donna Teresa cambia i progetti per questa figlia. In un primo momento pensava di lasciarla a casa di non maritarla poi però ci ripensa perché ritiene vantaggiosa l'offerta del marchese, per gli interessi degli Uzeda. Sposando Chiara senza dote si libera di una figlia inutile, senza spese. Invita Chiara a sposarsi. Chiara si ostina a negare la sua mano, la sua disponibilità è con estrema cocciutaggine rifiuta il partito del marchese. Con questa reazione si mostra tipica rappresentante della razza. Una fissazione che ha del patologico, prima manifestazione della pazzia di Chiara. Pag. 109. All'inizio rifiuta di sposare il marchese perché grasso e non corrisponde al suo ideale estetico. Ma la ragione per cui si ostina a rifiutare è perché entra in gioco un fattore ereditario. Un’immagine icastica della sua cocciutaggine: i piedi al muro. La principessa Teresa le aveva tolto la parola, strapazzata come una serva, chiusa nel camerino buio senza vesti e poco cibo e infine cominciata a picchiare per farle cambiare idea. Dunque, abbiamo in un primo momento l'ostinazione poi la volubilità nel comportamento di Chiara. Capovolge quel rifiuto in un amore estremo. Un altro aspetto importante è il suo forte desiderio di diventare madre, una monomania, cioè una passione esclusiva che si manifesta in forma estremistica e ansistica. Questa esagerazione nel nutrire questo suo desiderio Chiara diventa portatrice di un valore stravolto. Attraverso Chiara, De Roberto ci rappresenta l'amore materno ma in maniera deformata e parodistica. Chiara presa da questa aspettativa della prole si chiude al mondo, una chiusura egoistica. Pag. 235. La coppia si espone al dileggio della gente perché troppe volte la gravidanza viene annunciata senza un fondamento. Pag. 237. Chiara che non può avere questo figlio si colpevolizza per questa sua sterilità. La mancanza di prole la fa soffrire. I due coniugi sono alleati nel tentare di difendersi dai pettegolezzi della gente e sfogano il malumore attaccando lite. Pag. 278. Ad un certo punto la gravidanza sembra reale, imponendosi sotto gli occhi di tutti. Chiara ormai fiduciosa prepara il corredo al nascituro. La cugina Graziella esaminava il corredo. " sei grandi cesti piene di tanta roba da bastare un intero ospizio di lattanti". C'è un eccesso di premura, sproporzionato rispetto alle esigenze. Un’ennesima manifestazione di un amore materno stravolto. In Chiara c'è stravolgimento e parodia tanto nell'amore coniugale quanto dell'amore materno. Il parto di Chiara: si tratta di un aborto. Un episodio importante dal punto di vista simbolico. Si alternano due scene: una incentrata sulla vita pubblica, politica del paese e l'altra che ci riconduce al privato della famiglia. Queste due scene sono alternate. Pag. 293. Il giorno dell'elezione era vicino. L'apertura è dedicata alla vita pubblica. Le prime elezioni politiche in Sicilia dopo l'unità d'Italia. Il 18 febbraio 1861. Si vota per il primo parlamento nazionale. Vengono nominati I Giulente, appartenenti alla borghesia liberale, zio e nipote. Lorenzo e Benedetto. Benedetto sposerà Lucrezia. In questo frangente sostegno la candidatura del duca di Oragua, Don Gaspare, il cognato di Teresa. Aderì per convenienza alla causa liberale e per questo motivo fu oggetto di critiche da parte di tutti gli Uzeda rimasti fedele ai Borboni. Il fervore con cui I Giulente preparano le elezioni, invitano gli elettori a votare per il duca di Oragua. In mezzo a questi preparativi, si lascia intravede il portone di palazzo Uzeda che si apre alla folla degli elettori. L'aristocrazia che trova conveniente aprirsi al mondo socialmente basso che può favorirla per la corsa al potere. Durante la vigilia della votazione, il cameriere del marchese chiamò il principe e la principessa perché Chiara era sul punto di partorire. Quando i due giunsero nell'abitazione trovarono Federico che smaniava come un pazzo dall'ansia. Il principe resta con il marchese, mentre la principessa entrò nella stanza. Chiara aveva un’area beata sorrideva tra due contorcimenti e raccomandava che rassicurassero il marito. Il suo desiderio era sul punto di essere conseguito, i dolori si attutivano a questa idea. Ad un tratto le levatrici impallidirono nel vedere disperse le speranze. Veniva fuori un pezzo di carne informe. Quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe ed era ancora vivo. Nell'invenzione di questo episodio, De Roberto mostra di coltivare il gusto per l'orrido, il macabro. Due osservazioni: non si tratta di una semplice invenzione, De Roberto si consultò ad una descrizione scientifica in un trattato; e la reazione delle levatrici. Le levatrici impallidiscono perché intuiscono che non avrebbero ricevuto alcun regalo in cambio dei loro servigi. Vi è un attaccamento al denaro, una logica economica. La partoriente sviene e perde i sensi. Gli astanti danno la notizia al marito, che resta di sasso, portando le mani ai capelli. Fu una reazione normale. Viceversa, abnorme è la reazione di Chiara una vota risvegliatasi. Le si dice in un primo momento che era una femmina, nata morta. Quando lei insiste per vedere questo feto, e allora non pianse, non provò raccapriccio nell'esaminare l'abominio. Disse al marito "era tuo figlio". Il primo indizio di una pazzia che si mostrerà sempre più evidente. A questo punto dell'episodio entrano gli altri parenti, prima vi erano entrati solo Giacomo e Margherita. Questo offre l'occasione per riaprire uno squarcio sulla vita pubblica, è un pretesto per il cambio di scena, per far di nuovo entrare sulla scena il pubblico. Pag. 295. Gli altri parenti si prodigano nelle condoglianze del caso ma il duca di Oragua fa i suoi convenevoli, si dimostra rammaricato, ma è una pura formalità. Condoglianze formali soprattutto quando l'interesse è polarizzato dalla vita politica. Il duca infatti non vede di riprendere il filo della sua giornata elettorale. Il Giulente sembra Garibaldi alla vigilia della conquista di Palermo. Si riaffaccia il motivo politico per poi tornare in scena il privato. Chiara chiama la cameriera perché ha in mente di conservare il feto in una boccia, e conservato sotto spirito, quasi si trattasse di una reliquia. Pag. 296. Le reazioni a questa scena: De Roberto sembra provare gusto a esasperare le tinte macabre del quadro anticipando soluzioni della narrativa espressionistica. Consalvo disse a Lodovico: "non pare la capra di museo?" C'è invece uno sguardo soddisfatto di Chiara, che mette in evidenzia l'insania mentale del personaggio. Il feto viene definito come il prodotto più fresco della razza dei Viceré, l'esito del processo di degerazione della razza che costituisce un filo tematico importante tanto è vero che in un primo momento De Roberto aveva pensato di intitolare il romanzo: Vecchia razza, razza che si invecchia, degenera. L'aborto di Chiara ne è una prova lampante. Chiara prima di ordinare alla cameriera di prendere la boccia affinché costituisse il feto, cava da sotto il guanciale un mazzo di chiavi, è una spia dell'avarizia, un altro vizio di famiglia. Chiara nonostante la situazione, si preoccupa di tenere sotto il cuscino le chiavi della dispensa per paura che altri potessero accedere. I parenti che erano andati da Chiara tornano a palazzo Uzeda e trovano la folla radunata sotto il palazzo, per festeggiare il vincitore dell'elezioni, il duca di Oragua. Riuscì grazie alla campagna elettore dei Giulente, ed è quindi il momento della festa. Dimostrazioni di cittadini di ogni classe, mentre la banda suonava l'inno di Garibaldi e monelli seguendo la musica facevano capriole. Il duca di Oragua viene invitato ad affacciarsi dal balcone per pronunciare un discorso, ma egli è timido non sa affrontare la folla, non sa parlare in pubblico e al suo posto parla Benedetto Giulente. Lo scambio di battute a commento della vittoria del duca tra Giacomo e Consalvo: Il principe Giacomo fa la morale e poggia il tutto al figlio che gli possa servire di ammaestramento. Un commento al trionfo trasformistico del duca, cioè i Viceré erano al potere quando regnavano i Borboni e continuano ad essere al potere grazie ad una abile azione trasformistica. Ora che la forma di governo è un’altra: monarchia parlamentare, i Viceré continuano ad esercitare il potere. Lo zio è stato eletto membro del primo parlamento nazionale. Il significato simbolico del parto di Chiara. De Roberto ha voluto questa alternanza di vita pubblica e privata per enfatizzare una corrispondenza, una specularità. Chiara partorisce un feto mostruoso nello stesso momento di un’altra nascita mostruosa, dell'Italia post-unitaria, che esce dalle elezioni del 1861 all'insegna del più sfacciato trasformismo. Pag. 388. La vita di Chiara. Ci viene descritto un secondo falso parto meno drammatico del primo ma egualmente importante perché riconferma Chiara nel suo ruolo di madre mancata, Chiara non vuole affidarsi alle cure dei medici e levatrici, però ad un certo punto sembra di nuovo di partorire soltanto che la gestazione ha una durata di oltre dieci mesi. Arrivato a questo punto il marchese Federico non poté far a meno di sentire un medico, nonostante il rifiuto della moglie. Si presenta il dottor Lizzio che ad un certo punto esce fuori con il suo verdetto che ha del grottesco e del drammatico insieme. Era una ciste grande quanto una casa. Chiara continua ad illudersi, ed ha questa doccia fredda della malattia all'utero che in qualche modo le fa cambiare strategia perché continua ad inseguire questo suo di maternità. La nuova strategia è quella di procurare delle amanti al marito in vista di un possibile figlio, che sarebbe nato dalla relazione adulterina. Suscita lo scandalo perché ammette che non solo tollera la relazione adulterina ma in qualche modo ne rende possibile l'incontro della cameriera col marito. Ad un certo punto una delle cameriere Rosa Schirano resta incinta del marchese. Lo scandalo si accresce quando vi è fuori il bastardo. Chiara non si sbarazza dell'amante ma la favorisce in tutti i modi, le garantisce protezioni e considera il piccolo una nuova frizione tra Lucrezia e Giacomo dopo che questi l'aveva avvantaggiata, aveva dato il suo assenso al matrimonio. Ritorna sulle sue posizioni e in qualche modo gli dà la possibilità di riconciliarsi con lei perché non sopporta di essere isolata, distante dal parentato. Dimenticate le accuse al principe aveva fatto pace, cedendo per prima affinché non si dicesse che gli Uzeda sdegnavano di trattarla. C'è ancora una volta un rapporto inversamente proporzionale tra le manifestazioni, devozioni di affetto, di sottomissione di Benedetto da una parte e l'atteggiamento irritato e di scherno di Lucrezia dall'altra. I principi liberali professati da Benedetto non erano messi a servizio di un torna conto economico e perciò agli occhi di Lucrezia appaiono privi di consistenza, indegni di essere serviti. Pag. 433. Lucrezia soffre per il fatto di essere nominata, additata come sindachessa una volta che Benedetto Giulente ottiene la carriera di sindaco. L'essere moglie del sindaco le appare degradante per una come lei. Uno scendere nel terreno dell'odiata borghesia, che fa di tutto per nobilitarsi senza riuscirci. Lucrezia si contraddice in maniera evidente quando accusa il marito di professare le sue idee liberali senza aver un torna conto ora invece attribuisce il suo patriottismo all'ambizione. Pag. 435. Oltretutto con una certa faccia tosta fa pesare a Donna Ferdinanda e Don Blasco di non averle aperto gli occhi, di non aver impedito di commettere la pazzia di sposare Giulente. Pag. 434. Lucrezia arriva addirittura ad atteggiarsi a vittima della famiglia, volendo suscitare la commiserazione degli sconosciuti e si comporta da vittima sacrificale. Pag. 435. Accusa il marito di essere avaro. Rinfaccia al marito il fatto di averla isolata, di averla costretta ad una torre di avorio, di aver spezzato la rete nobiliare, di averle fatto il vuoto attorno. La volubilità sentimentale di Lucrezia nei confronti del marito Giulente ci riserva un’ultima sorpresa. Pag. 625. Lucrezia ha appreso che il marito Giulente è stato estromesso dal potere. Lo zio, duca aveva promesso a Benedetto di farlo diventare deputato, invece si è dimostrato falso perché ha favorito l'ascesa di Consalvo. A lui è andato il seggio elettorale. La candidatura alla deputazione nazionale. Benedetto che realizzato di essere stato tradito dal duca di Oragua è molto arrabbiato e deluso e finalmente gli si sono aperti gli occhi, scoprendo di essere stato usato dal duca e dagli Uzeda. Esasperato tira un ceffone alla moglie, a Lucrezia. Quel ceffone ha il potere ancora una volta di convertire l'animo di Lucrezia. Questa volta all'amore e non all'odio. Anche se non si può parlare di amore vero e proprio, nell'accezione sentimentale del termine. Lucrezia capisce che gli Uzeda hanno umiliato e tradito il suo Benedetto e vien fuori la donna che aveva sfidato la famiglia. Vede di nuovo in Benedetto l'uomo per il quale aveva sfidato gli Uzeda. Insieme a lui si arma di nuovo contro gli Uzeda. Pag. 626. Si è dunque ricompattato per il gusto della contraddizione tipico della razza degli Uzeda il fronte coniugale contro il comune nemico: gli Uzeda. Le parole che Consalvo rivolge alla zia Ferdinanda (nell'ultima pagina del romanzo) per convincerla della tesi secondo cui la razza degli Uzeda non è degenerata ma è sempre la stessa. Benedetto Giulente Egli viene nominato per la prima volta nella lettura del testamento. Vengono annunciati nel salone alla vigilia di questo avvenimento, Lorenzo e Benedetto, zio e nipote. Questo provoca la reazione stizzita di Donna Ferdinanda che tra le più accanite nemiche del partito matrimoniale della nipote, perché indegno. Pag. 86-87. Lorenzo è tra i Giulente colui aderisce per primo alla causa dei liberali e si pone come modello per Benedetto. Le aspirazioni nobiliari dei Giulente si esprimono attraverso la richiesta al re di poter ottenere il maggiorascato, fluire della legge per la quale tutta la ricchezza andava al primo genito. Non avendo ottenuto l'approvazione reale i Giulente si erano buttati alla politica aderendo alla causa liberale. Lorenzo trescava con i liberali. Non avevano le carte in regola per poter ottenere il maggiorascato. Donna Ferdinanda cita a memoria un brano del regolamento che ordinava la nobiltà in basa alle sue origini.  La nobiltà di toga : è quella che traeva origini dall'esercizio di cariche dalla pubblica amministrazione.  La nobiltà di spada : trae origini dalla concessione da parte dei sovrani di titoli nobiliari e feudi. Pag. 122. I Giulenti venivano da Siracusa, non erano né borghesia né nobiltà. La mania della nobiltà da parte dei Giulenti, il desiderio di diventare parte effettiva della nobiltà. Questo tipo di comportamento spiega perché i Giulente non abbiano coscienza di classe autonomia, è una politica di mimesi e non di antitesi. Non c'è una dialettica di classi nel Viceré, tutto è in funzione dell'assimilazione all'aristocratica da parte di questa borghesia, a cui va il disprezzo di De Roberto. Il fatto che Benedetto Giulente esca perdente da questa situazione ci fa pensare come questo disprezzo sia pieno e senza concessioni di sorta. De Roberto sceglie i Giulente come famiglia rappresentativa di un ceto sociale che ha tradito la sua missione, incapace di rinnovare la vita politica a livello locale e nazione. I Giulente esemplificano il fallimento della borghesia liberale a fine 800 nella misura in cui lo scontro con l'aristocrazia non c'è stato, essi hanno puntato i Giulente soltanto sulla mimesi, sulla tentata assimilazione non sull'alternativa, sullo scontro. Al posto della lotta si ha invece la ricerca del compromesso. Questo tipo di atteggiamento, Benedetto Giulente lo tiene sia nella vita pubblica in quanto assessore, consigliere comunale e poi sindaco e sia in quella privata, sposo di Lucrezia e parente degli Uzeda. In qualità di marito, tenta di ottenere le simpatie degli Uzeda, disposto a farsi servitore. Pag. 333-336. Quando viene consultato per il doppio scioglimento del matrimonio di Raimondo con Matilde e della sua amante con il marito, si fa degli scrupoli di carattere morale ma poi prevale l'orgoglio per essere stato tenuto in conto dagli Uzeda. Pag. 337. Il cedimento o il compromesso caratterizza il comportamento pubblico di Benedetto. Per evidenziare questo aspetto bisogna ricordare il suo passato di combattente garibaldino che resta ferito nella famosa battaglia del Volturno. Questo passato viene ad essere rinnegato quando si tratta di ingraziarsi il parentato degli Uzeda. Prevale sul patriottismo la smania di nobiltà, di far parte del ceto nobiliare, secondo la logica di assimilazione che porterà Benedetto alla sconfitta. L'episodio dell'entrata in città dei garibaldini nel '62. Garibaldi torna nell'isola per marciare contro Roma, contro il Papa. Pag. 348. Benedetto da ex combattente, dovrebbe esultare con Garibaldi ma abbiamo visto come la moglie lo esorta invece a recarsi al Bel Vedere e in qualche modo lo mette in crisi, combattuto fra ragioni di patriottismo e quelle legate al suo desiderio di far parte della nobiltà. Oltretutto non è soltanto la moglie a far rinnegare i suoi ideali patriottici, vi sono Don Blasco e il duca di Oragua, quest'ultimo incide particolarmente portandolo ad un vero e proprio rinnegamento degli ideali. Don Blasco lo invita a mettersi a capo di una legazione con lo scopo di convincere Garibaldi ad uscire dalla città con le sue truppe per non mettere a repentaglio la vita dei concittadini. Un atteggiamento in contro tendenza rispetto a quello che costituisce la sua fede liberale patriottica originaria. Pag. 351.  Poco dopo Benedetto Giulente ricevette le lettere del duca di Oragua, che si trovava a Torino. Capitale del regno d'Italia nel '62. Pag. 353. Prende posizione, partendo da un punto di vista liberale contro Garibaldi.  Il governo piemontese vuole fermare la marcia di Garibaldi. Tanto il monaco benedettino quanto il deputato liberale, lo spingevano nella stessa direzione. Benedetto si rende conto che per suo personale torna conto, deve sacrificare i suoi ideali e si conforma ai consigli di Don Blasco e al duca quando parla ai catanesi al circolo nazionale. Pag. 355. Il discorso che tiene scandalizza i vecchi amici. Benedetto ha abbracciato senza farsi scrupolo di incoerenza i consigli degli Uzeda, diventando uno di loro. Non c'è soltanto il desiderio di far parte degli Uzeda in Benedetto, di diventare un nobile ma anche il sogno segretamente accarezzato di conquistare un seggio al parlamento, di diventare deputato. Il duca di Oragua gli promette questa possibilità. Pag. 390. Nutrendo la speranza di entrare nella grande politica, lasciandosi illudere dal duca, Benedetto si accontenta di giocare un ruolo di fantoccio nella piccola politica, facendo il sindaco al posto del duca. Pag. 436. Se Benedetto si presta a fare il sindaco-fantoccio e il duca esercita di fatto il potere significa che il municipio è un feudo degli Uzeda, trasformato in una fabbrica di clienti che servono gli interessi della famiglia e in particolare del duca. La moglie infierisce sul sindaco-fantoccio. Lo disprezza per il fatto di essersi messo nelle mani del duca. Questa ambizione è destinata a rimanere frustrata. La carriera politica si ferma al municipio. Egli non ricava nulla dall'alleanza con il duca. Consalvo avrà la meglio. Quando quest'ultimo chiederà spiegazioni al duca e in particolare farà valere la considerazione secondo cui Consalvo contraddice il moderatismo politico del duca essendosi schierato a sinistra. Il duca dice che non ha più senso parlare di destra e di sinistra, non ha più senso il vecchio linguaggio ideologico e quindi Consalvo è il cavallo su cui puntare. Pag. 621. De Roberto mette in atto una critica feroce nei confronti della borghesia liberale attraverso la rappresentazione del destino di Benedetto Giulente. Borghese liberale che esemplifica l'atteggiamento di una classe sociale incapace di porsi come reale alternativa alle dinamiche sociali dell'Ancieme regime. In Benedetto, De Roberto rappresenta il valore della fede politica ma stravolto. La stessa cosa avviene con gli Uzeda che fanno politica.  Nella prima generazione: Gaspare il duca di Oragua.  Nella terza generazione: Consalvo, il nipote del duca. A loro arride il successo nella vita politica a differenza di Benedetto Giulente, scalzato da Consalvo ma anche attraverso di loro De Roberto rappresenta la sua involuzione. L'avventura del duca di Oragua, Gaspare. Un cadetto, viene dopo il fratello Consalvo cui spetta il titolo di principe ereditario e nutre quindi nei suoi confronti una forte invidia. Pag. 140. Il malcontento per la sua condizione che lo spinge a prestare ascolto alle lusinghe dei liberali e a voltare le spalle alla tradizione borbonica della famiglia. Qui, viene illuminata la strategia dei capi del partito rivoluzionario, i quali avevano l'interesse per avere dalla loro un rappresentante dell'aristocrazia. I capi rivoluzionari sono molto abili a sfruttare il malcontento dei cadetti, sfruttati a loro volta dalla legge del maggiorascato. Questa scelta politica del duca non è dettata da una vocazione, da una fede autentica ma è frutto di calcolo, di una convenienza. Pag. 145. La messa a fuoco della vera natura della scelta politica di Don Gaspare. Tenta la carta della libertà con lo stesso spirito con cui Don Blasco gioca i numeri dell'8. oggettivo, che De Roberto condivide. Possiamo dire che i nemici hanno ragione laddove non vi era una vera vocazione, non vi era un’idea. Un quadro che è desolante e ha completarlo è la frase che secondo i nemici del duca, quest'ultimo ripeteva nei primi tempi del nuovo governo piemontese, liberale. Pag. 448. "Ora che l'Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri." che metteva a nudo tutta la sua natura di Uzeda. Un motto cinico che riassume la concezione utilitarista. Notiamo che questo motto del duca è una storpiatura di un’espressione di un patriota importante Massimo D' Azeglio che nei suoi ricordi scrive "purtroppo si è fatta l'Italia ma non si fanno gli italiani." Uno stravolgimento dello spirito che circola nel modello originario. A Pag. 449. L'opposizione al duca si inserisce all'interno di un malcontento, "l'universale malcontento" e la delusione post-risorgimentale per il modo in cui il risorgimento in Sicilia e in Paese si era realizzato, e la delusione era dovuta al fatto che in parlamento sedevano uomini come il duca di Oragua. Tutto era rimasto come prima. La storia dirà Consalvo è un’eterna ripetizione. Il duca di Oragua è un personaggio vincente, riesce a farsi rieleggere più volte per cinque legislature di seguito e anche quando cade la destra storica lui non si perde d'animo e sa fare la scelta giusta per essere poi rieletto. Pag. 244-545. Si presenta nelle elezioni, un antagonista del duca un certo avvocato Molara, con un programma quasi rivoluzionario. Per difendersi dall'avvocato, Don Gaspare mise fuori una lettera scritta da Benedetto Giulente. Essa numerava i titoli della destra alla gratitudine dell'Italia unita e gli errori che vi furono non era dovuto a questo ideale politico ma a problemi di circostanza. Don Gaspare fu cosi eletto con 200 e più voti. Ferdinando (seconda generazione) ed Eugenio (prima generazione degli Uzeda); una coppia di stravaganti che interpretano alla maniera degli Uzeda il rapporto con la cultura. Rappresentano il valore capovolto in disvalore. (Questo discorso vale anche per altri personaggi: la fede politica degradata in Benedetto Giulente e Don Gaspare, l'amore materno stravolto in Chiara e l'amore romantico stravolto in Lucrezia...). La cultura subisce un declassamento all'interno del romanzo. Si pensi a Benedetto Giulente e alla sua campagna elettorale in favore del duca di Oragua, in questo caso il giornalista e oratore vendono la parola e la penna per ingraziarsi uno degli Uzeda, la cultura viene strumentalizzata, posta al servizio di uno scopo meschino. Abbiamo visto le iscrizioni funebre di Canalà nell'episodio del funerale della principessa Teresa sono intese nello stesso senso. Egli è un adulatore, e scrive queste iscrizioni in lode della principessa Teresa solo per ottenere favori e protezioni dagli Uzeda. Infine, Donna Ferdinanda ha un disprezzo per la cultura, per le famiglie nobili che mandano i figli nei collegi per istruirsi. Lei ritiene che la cultura sia superflua se non dannosa. Ella impara a far conti solo per andare dietro i suoi affari e a leggere per compiacersi delle sue origini nobiliari imparando il "Mugnos" che poi legge anche a Consalvo. Don Ferdinando, il "babbeo" per il soprannome affibbiato dalla madre, incontrato già nel corso del funerale quando si era presentato in maniera stravagante e poi nel corso della lettura del testamento di Teresa quando ella dichiara di voler lasciare il podere delle ghiande alla pietra dell'ovo proprio a Ferdinando. Questo podere sarà un punto di riferimento importante (almeno in un primo momento), sarà lo sfondo della sua esistenza. Alle ghiande si legherà in maniera maniacale e barbosa. Sarà il luogo dell'sperimentazioni. Pag. 114. In questa serie di aggettivi: timido, taciturno e mezzo selvaggio, utilizzati già con Lucrezia. Non a caso utilizza gli stessi aggettivi. Entrambi hanno lo stesso carattere e per questo molto legati. Lasciato da solo Ferdinando aguzza l'ingegno e si diverte attraverso l'invenzione. Un avvenimento che costituisce la svolta nella vita di Ferdinando è la lettura di un libro che gli viene regalato da Canalà: il Robinson Crusoe di Defoe. Egli lo dimorò da cima a fondo e restò sbalordito. Da quel momento la sua selvatichezza si accrebbe. Il suo desiderio è quello di naufragare in un isola deserta e di provvedere da sè al proprio sostentamento. Fu una lettura rivelazione. Trasformerà il podere delle ghiande in una sorte di isola deserta, quale quella di Robinson. Cominciò a fare esperimenti di coltura, iniziò dapprima nel palazzo Uzeida poi si trasferirà nell'isola podere delle ghiande. La principessa le diede cosi il soprannome di babbeo per quelle sciocche manie. Il piano di donna Teresa è quello di liberarsi del figlio che si mostra estraneo alla razza degli Uzeda per suo disinteresse alla ricchezza e all'esercizio del potere e per di più spillargli dei quattrini imponendogli un contratto capestro donna Teresa ottiene di avere ben 500 onze l'anno sui frutti del terreno. Un terreno improduttivo che poteva lasciare ben poco a Ferdinando ma il babbeo era felice di soggiornare nell'isola perchè a lui interessava solo di fare la vita dell'eroe che gli aveva acceso la fantasia. Il modello robinsoniano dal piano della lettura passa a quello esistenziale, interferisce con la vita concreta. Fin dal primo anno non riuscì a pagare la rendita promessa alla madre, rese sempre di meno. Quando Don Blasco lo incita a impugnare il testamento di donna Teresa. Fedinando si guarda bene a seguire i consigli dello zio, poichè teme che la ribellione possa rimescolare le carte del testamento e gli venga sottratto il paradiso delle ghiande. Pag. 119. Egli non è disposto a prestare ascolto allo zio. Questo attacamento è confermato in occasione dei rivolgimenti rivoluzionari e del colera, dell'epidemie, quando la famiglia Uzeda si rifugia al Belvedere, mentre Ferdinando rimane al suo podere. Pag. 176. Pag. 235-236. Racconto dell'esperimentazioni che effeutta. In un primo momento di carattere agricolo e dopodichè di meccanica. In questa nuova passione condizionato sempre dalla lettura di libri. Rimane fissato, pazzo ma cambia l'oggetto e il tipo di fissazione, sempre sotto il segno del condizionamento libresco. Pag. 256. La nuova smania è quella di imbalsamare gli animali, trasformare la casa in un museo naturale, il giardino in un carnaio. Pag. 369. Ospita a casa sua la coppia di Raimondo e Donna Isabella, che ammirano ogni cosa e fanno i complimenti. Le lodi non facevano più sul povero babbeo l'effetto di un tempo. La vita di Robinson aveva perduto per lui ogni attrattiva. Questa trasformazione avvenne nuovamente per i libri, che lo sconvolsero. Si dimostra disamorato nei confronti delle ghiande, tanto è vero che rimane indifferente alle lodi. Egli è disamorato perchè crede di essere sul punto di morire, crede che gli restino soltanto sei mesi di vita. Una vera e propria ipocondria di Ferdinando, che si lascia influenzare da tutti i libri di medicina che legge. Un bilancio di questa prima esistenza del personaggio e vedere se De Roberto abbia voluto comiunicare un significato sottinteso, polemico. Don Ferdinando veicola un opposizione al mondo degli Uzeida e a loro valori. Un opposizione inconsapevole e mite, non alla maniera di Don Blasco che attacca frontalmente i suoi consangunei. Ferdinando è il dissenziente inconsapevole, indiscreto che si allontana facendo il Robinson incarando i valori diversi dell'utopia, alternativi a quelli per i quali gli Uzeida tengono. La seconda parte dell'esistenza ricordando un modello letterario, che De Roberto non poteva non avere in mente nel disegnare il personaggio di Ferdinando: il Don Chisciotte, colui che si lascia influenzare nella sua vicenda terrena-esistenziale dai libri di cavalleria. Ferdinando quindi è nuovo Don Chisciotte, depauberato della carica ideale. Un abbassamento nel passaggio della follia del don Chisciotte alla stravangaza di Ferdinando. La seconda parte della vita: La vita di Ferdinando si può dividere in due momenti proprio per gli sfondi diversi. Trasferitosi in città Ferdinando si ammala, e lui pero invece si crede perfattamente sano. Abbiamo un capovolgimento rispetto alla situazione precedente: alle ghiande si sentiva malato, affetto a ipocondria ora deperito e si crede invece sanissimo. In lui il sangue dei Vicerè si impoveriva, torna con Ferdinando il tema della generazione bio-psichica. Pag. 462. Ferdinando nutre questo sospetto pazzo che i parenti vogliano rubarlo di ciò che possiede, quando in realtà al momento non possiede proprio nulla dal momento che le ghiande ormai non gli davano nulla. Privato di ciò che gli rimaneva per gli acquisti pazzi di libri. Interessante osservare che in questo preciso momento della sua esistenza Ferdinando dimostra di essere uno degli Uzeda. Torna il tema dell'attaccamento alla roba e alla ricchezza. Ferdinando si riavvicina ad una caratteristica peculiare della razza degli Uzeda. Nel delirio preagonico , teme di essere avvelenato e scambia i parenti con i prussiani proprio perchè in quel momento sta seguendo la guerra franco-prussiana. Scambia il più rapace di tutti tra i suoi parenti con il cancelliere Bismack. Pag. 469. Non c'è modo più drastico per sottolineare il capovolgimento del valore della cultura in disvalore che questa conclusione della vicenda esistenziale di Ferdinando all'insegna della pazzia. La cultura nei personaggi conduce alla pazzia. Nell'operazione di accostamento di Ferdinando e Eugenio, in quanto personaggi che rappresentano all'interno del romanzo i valori della cultura derisi, sottoposti ad una vera e proprio parodia, ad una caricatura siamo autorizzati dallo stesso De Roberto che a Pag. 608. ci propone lo stesso accostamento all'interno di un contesto in cui viene riportato il pensiero di Consalvo angosciato dalla tara della pazzia. Eugenio e Ferdinando sono dei monomaniaci e sono poveri di spirito cioè persone stravaganti, strampalate nel giudizio di tutto il parentato e finiscono entrambi col perdere la ragione. In questo ritratto dell'intellettuale degradato e sconfitto. De Roberto ha tenuto in considerazione come modello il libro di Flaubert, un opera postuma e incompiuta. Narra due protagonisti: due amici Bouvard e Pecuchet che fanno i copisti. Uno dei due riceve un eredita e decidono insieme di sfruttarla andando in campagna e provando a fare agricoltura ma falliscono proprio come Ferdinando. Dopo questo primo insuccesso tentano altri esperimenti in diversi campi ma puntualmente l'esito si mostra fallimentare finchè i due amici tornano a Don Eugenio si da al commercio dello zolfo. Dalle belle arti ad un attività pratica. Tutto con chiero intento di guadagnare e uscire dallo stato di miseria in cui versa. Pag. 396. Il commercio degli zolfi a sua volta non va bene e si indebita a tal punto che è costretto a fuggire. Fugge a Palermo inseguito dai debiti. Pag. 400. Nella terza parte: viene citato per esteso il manifesto, il piano della nuova idea di Don Eugenio: l'Araldo Sicolo. Il manifesto della nuova opera concepita da Eugenio. Una circolare che diffonde ai suoi concittadini e vuol far pubblicità all'Araldo Siculo. Durante il tempo trascorso a Palermo di Don Eugenio non si sa nulla. A sorpresa Don Eugenio si ripresenta a Catania dopo che di lui nulla è trapelato. Pag. 479. La sua metamorfosi fisica: Erano passati anni e lui torna invecchiato e imbruttito, quasi irriconoscibile. Il naso allungato, simile ad una proboscide, la caduta dei denti affossando la bocca aveva contribuito alla crescenza che dava a tutto il viso un aspetto ignobile e quasi animalesco. Qui, abbiamo una ritrattistica de robertiana che sembra anticipare la violenza espressionistica della letteratura 900entesca. Pensiamo all'invasione dei brutti nella letteratura moderna di cui ci ha parlato un grande critico Giacomo de Benedetti, da Pirandello a Tozzi. Facendo violenza a quella che è la fisiognomica dei personaggi. Dopo l'aspetto fisico, l'abito è miserabile. Lo prendevano per un servitore di trattoria o un biliardiere di bisca. La gotta lo costringeva ad un andatura storta e strisciante. L'orgoglio nobiliare che spinse Don Eugenio a millantare una sistemazione al grande Hotel mentre invece deve accontentarsi di albergo di piccolo ordine. L' Araldo Siculo La definizione che se ne da nella stessa circolare. Pag. 478. Don Eugenio si propone di illustrare la storia delle grandi famiglie siciliane dai tempi più oscuri fino ai giorni nostri. Una materia nella quale ci siamo gia imbattuti con il Mugnus che Ferdinanda leggeva con tanta passione. Dei trattati che vogliono illustrare e esaltare le imprese delle famiglie gentilizie. Esistevano a quel tempo il Mugnos ma anche il il libro del VillaBianca, Don Eugenio si inserisce in questo filone, arrcìicchendolo con un suo contributo. L'araldo dovrebbe consistere in 3 volumi: il primo volume contiene il testo vero e proprio, il secondo volume tratta degli alberi genealogi, il terzo inceve degli stemmi. Usciranno questi tre volumi una dispensa ogni mese, prezzo di ogni dispensa lire 2. Invece l'associazione all'opera completa lire 50. Ci sono delle condizioni vantaggiose per i sottoscrittori, addirittura l'inserimento della propria famiglia all'interno dell'Araldo. Questo ci chiarisce subito il fatto che i criteri secondo cui Don Eugenio derige l'opera non sono serieamente selettivi ma tendenti ad un allargamento in vista del guadagno. Questa impresa: raccontare la storia delle famiglie nobiliari dopo il Mugnos e VillaBianca, in un tempo in cui la nobiltà è in crisi, si rivela fortunata. Tanto è vero che alla fine del romanzo nella conversazione tra Consalvo e Ferdinando, Consalvo ha modo di ricordare come l'Araldo abbia venduto tantissimo e sia presente nelle biblioteche universitarie. Pag. 662. Al tempo di questa conversazione Don Eugenio era già morto, ma la sua opera è rimasta e viene consultata nelle biblioteche anche quando i borboni sono finiti e la nobiltà si è dovuta adeguare ai tempi nuovi trasformandosi. Nonostante la crisi dell'aristocrazia il mito della nobiltà resiste e questo fatto è provato dalla fortuna dei fascicoli dell'Araldo Siculo. Il paradosso di un idea arretrata non in sintonia con i tempi ma vincente. Don Eugenio riesce a sfruttare la vanità aristocratica dei nuovi arricchiti, l'ambizione dei borghesi che non hanno titoli nobiliari e che sono lusingasati dal fatto di poter entrare nei ranghi della nobiltà. Ma non tutti fanno festa a Don Eugenio. Ferdinanda va su tutte le furie quando Don Eugenio si rivolge per un suo appoggio e il finanziamento per le spese della stampa. Donna Ferdinanda è contraria ad un allargamento delle maglie del Mugnos. Il Mugnos menziona i veri nobili, l'autentica nobilità, che va tenuta distinta dalla Gramigna. Pag. 484. Don Eugenio ottiene l'anticipazione delle spese da parte del principe Giacomo Pag. 543. Il ricavo della vendita dei fascicoli è consistente ma Don Eugenio si indebita con il principe Giacomo sicchè non gli rimane granchè nelle mani e lo porterà a chidere l'elemoni. Intanto vuole tentera un altro colpo: il nuovo Araldo, il supplemento all'opera che aveva iniziato a pubblicare con meno pudore e più fame di prima, sempre più disposto a mercanteggiare con chi ambiva ad ottenere titoli nobiliari. L'attribuzione di titoli nobiliari da parte di Don Eugenio a chi lo aveva pagato suscita l'indignazione da parte di Donna Ferdinanda ma non solo anche lo scandalo degli ambienti aristocratici tradizionali. Pag. 576. Don Eugenio nonostante i guadagni finisce in miseria per i debiti contratti e quindi l'ultima apparizione del persoanaggio lo vede chiedere l'elemosina in veste di accattone. Pag. 581-582. L'esito penoso e ridicolo del personaggio. In particolare si evidenzia il contrasto umoristico tra la miseria e la sua boria, cioè la sua vana gloria nell'elencazione grottesca delle benevelenze ottenute nel campo della cultura.  Attraverso la ricostruzione del primo genito e del terzo genito della principessa Teresa abbiamo modo di allargare lo sguardo ai rispettivi adulteri, ai personaggi convolti, esempio la moglie e l'amante di Giacomo e di Raimondo ma anche ai rappresentati della terza generazione degli Uzeda, cioè ai figli di Giacomo e di Raimondo, soprattutto ai figli di Giacomo: Teresa e Consalvo che hanno un ruolo importante nella trama dei Vicerè mentre di secondaria importanza soni i figli di Raimondo. Consalvo il primo genito di Giacomo ricevrà un attenzione prolungata nel tempo da parte di De Roberto. Raimondo: il beniamino della madre viene anteposto nell'affetto al primo genito Giacomo. Pag. 125. La principessa diede a Raimondo il titolo di conte, che spettava a Lodovico. Sfacciattamente affezzionata al terzo genito e ne fa le spese il primogenito Giacomo, per aver avuto il torto di non essere nato a tempo quando l'aspettava e inoltre aveva di aver messo in pericolo la vita di Teresa. Di Raimondo ci viene sottolineata la sua bellezza che lo pone in contrasto con gli Uzeda in cui prevale la bruttezza. Raimondo fa eccezzione nella galleria dei ritratti. Da questo punto di vista è antitetico, si tratta di una coppia oppositiva. La ragione di questa eccezzione. Pag. 126. All'inizio dell'albero genealogico, della storia della famiglia ci sono dei tratti di bellezza che poi lasciaranno il posto ad una bruttezza, ad aspetti deformi. Questi tratti di bellezza saranno ereditati a distanza di generazioni dal continuo Raimondo. Assomiglia così ai suoi antenati. Contro le tradizioni familiari Teresa decise di accasare Raimondo, che secondo invece le tradizioni sarebbe dovuto restare scapolo. Se fosse rimasto scapolo non avrebbe avuto niente, non sarebbe stato ricco. Quindi, si adopera per cercargli un conveniete partito matrimoniale, però esita in questa scelta perchè gelosa del figlio e quindi non la vuole del Paese ma di altre città. In questo modo la gelosia sarebbe stata inferiore. Pag. 128. Fermò la sua scelta sulla figlia del barone Palmi. Egli voleva rimanere scapolo. Giacomo invece sposò Margherita, che gli impostò la madre. Egli invece aveva intenzione di convolare all'altare con la cugina Graziella. Teresa non è rispettosa delle tradizione familiari che avrebbero voluto che si sposasse il solo primogenito. Pag. 127.  Nel corso di un discorso indiretto libero ci vengono riferite delle parole con cui Donna Teresa convince il figlio Raimondo a cedere alla sua volontà e a sposare la figlia del barone. Pag.130. Notiamo che dal punto di vista della soluzione formale che il discorso indiretto libero restituisce le parole di Teresa al figlio. Altre volte il discorso indiretto libero non restituisce le parole ma i pensieri e i sentimenti intimi all'io, quelli che il personaggio rivolto a se stesso, definito "monologo interiore", di un monologo del persomaggio veicolato dall'indiretto libero.  subentra il discorso neutro del narratore nel discorso indiretto libero  subito dopo le parole del discorso diretto Invita a sposarla per pura convenienza economica, ed è ben contenta di questa prospettiva di un Raimondo poco affezzionato e non innamorato perchè questo è un sollievo alla sua gelosia. La violenza dell'imposizione passa attraverso un ragionamento, un opera di persuasione. Queste nozze combinate pongono le premesse per una crisi coniugale che è al centro della vicenda di Matilde, la moglie di Raimondo. Matilde è nel romanzo, un personaggio che si presenta come vittima del disamore del marito e del vero e proprio astio dei parenti Uzeida nei suoi confronti. Un astio che può essere riassunto nel fatto che quando gli Uzedi parlano con lei la trattano da persona estranea alla loro mentalità e al loro modo di fare. Anche Matilde accorre al funerale di Teresa. Pag. 78. La servitù mise in evidenza la sua bellezza. Anche Matilde come Raimondo è bella, in contrasto con i personaggi della famiglia Uzeda. La servitù si mostra quasi affettuosa nei confronti di Matilde, notano come sia più partecipe all'avvenimento luttuoso piuttosto che il marito. Queste attestazioni sono ricambiate da Matilde. Mentre gli Uzeda trattano dall'alto in basso gli inferiori dal punto di vista socio-economico. Invece l'atteggiamento di Matilde tutt'altro che altero e distanziato ma abbiamo un interessamento. Le distanze sociali si riducono perchè Matilde è una persona umile. In un altra scena intravediamo quella che sarà l'amante di Raimondo, Isabella Ferza, appartenente ad una nobile famiglia palermitana. Già Raimondo sta iniziando la sua opera di seduzione essendo un Don Giovanni Un pensiero Intriso di avversione misogina, è chiara la natura sfacciatamente maschilista. (Evidente è il linguaggio popolare in questo discorso indiretto). Questa versione menzognera viene allora smentita, non soltanto dalle voci che vengono da Firenze e Milazzo ma dallo stesso servitore di Raimondo quando un po’ brillo si lascia scappare la verità parlando a quattrocchi con gli intimi ma la verità è un'altra. Isabella Ferza Pag.170. Il ritratto attraverso la percezione di Matilde, nell’ottica della rivale. Attraverso questo indiretto libero di Matilde, Isabella Ferza ci viene incontro come un “femme fatale”, che si diverte a sedurre gli uomini compreso Raimondo che quindi non ama, è un suo capriccio quello di sedurlo. Sposandolo persegue lo scopo di entrare nella grande famiglia nobiliare. Lo stesso sentimento superficiale di Isabella è ricambiato da Raimondo, che non è innamorato affatto di lei. Isabella è una delle sue tante avventure e infatti dopo averla sposata si stancherà presto di lei. È nella sua natura di don Giovanni. L’abbigliamento di Isabella e la sua eleganza caratterizzata da merletti, di un ventaglio di madreperla che impreziosisce la sua figura. Tanto Matilde è dimessa e loquace, amante della conversazione quanto più la sua rivale Isabella si presenta come esibizionista, amante del lusso e della mondanità e silenziosa. Sono caratterialmente agli antipodi eppure qualcosa la hanno in comune: il fatto di essere entrambe sposate. Un altro importante episodio della relazione extraconiugale di Raimondo prima che venga consumato l’adulterio. Pag.221. La famiglia Uzeda è riunita in chiesa e assiste alle funzioni della Settimana Santa e Isabella è anche presente. Raimondo la conduce dalla panca dov’è seduta fino a quella in cui siedono gli Uzeda. Un gesto carico di significato altamente simbolico, nella misura in cui è come se Raimondo volesse imporre la scelta dell’amante alla famiglia, in modo che l’accettasse come sua nuova compagna. Alla fine, Isabella riuscirà ad avere la meglio sulla povera Matilde sposando Raimondo. Ma vincenti saranno anche Raimondo e gli altri Uzeda, che riusciranno ad ottenere l’annullamento dei due matrimoni: quello di Raimondo con Matilde e Isabella col marito. Per ottenere questo risultato gli Uzeda non esitano a portare in tribunale false testimonianze (es. Don Eugenio) e la figura di Raimondo. Questa vicenda del duplice annullamento dei matrimoni e delle false testimonianze è oggetto di un diretto libero da parte di Pasqualino. Pasqualino smentisce la falsità delle testimonianze ma nell’atto di smentirle non può fare a meno di dare voce al punto di vista degli altri sicché si insinua facilmente nel lettore il sospetto che quelle testimonianze siano davvero false. A lui, Pasqualino viene anche affidato anche il racconto della morte della povera Matilde, che si ammala dal dispiacere. Pag. 384. Giacomo: Egli ha il nome del nonno Giacomo XIII. Era usanza nelle famiglie nobiliari a quel tempo dare ai nipoti i nomi dei nonni. Giacomo si sposa due volte: la prima volta con Margherita (un amore combinato e quindi senza amore), una seconda volta con la cugina Graziella, una figlia della sorella della madre di cui era innamorato fin da giovane ma il cui amore doveva sacrificare per assecondare la dispotica Teresa. Vedovo di Margherita, si sposa con la cugina. Giacomo si contrappone per la sua bruttezza al bellissimo Raimondo. La madre gli affibbia dei soprannomi per mettere in ridicolo i suoi difetti fisici. L’orso che balla perché goffo, pulcinella per il naso lungo e naso per l’accorta statura. Il ritratto morale del personaggio: Interessato, avario spilorcio, capace di vendere l’anima per un quattrino. Il principe è tutto teso nel corso della sua esistenza all’accumulazione del denaro. Pag.452.Il figlio di Giacomo con lo stile di vita spendaccione sta mettendo alla prova la pazienza del padre. È chiaramente messa a fuoco la monomania del principe Giacomo, la sua brama di ricchezza, il suo desiderio di accumulare tutto quanto il patrimonio familiare. Per questa monomania è il più tipico rappresentante degli ingordi spagnoli intenti ad arricchirsi. Oltre a questo attaccamento al denaro, un'altra caratteristica del comportamento di Giacomo che condivide con altri capo-casata delle generazioni precedenti alla sua, come il nonno e la principessa Teresa, e che trasmetterà al figlio Consalvo: la tendenza a ristrutturare l’architettura delle proprie abitazioni, con motivazioni ben precise. Si tratta di una tendenza a riorganizzare la struttura della proprietà immobiliare. Pag. 125. La madre proibisce al figlio di apportare modifiche ma a sua volta si era fatta promotrice di modifiche del palazzo. Questa maniaca tendenza ha portare modifiche si rinnova da generazione in generazione. Pag. 177-178. Il risultato finale di queste modifiche è il disordine e il labirinto. Le motivazioni profonde di questo comportamento risiedono nell’atto di potenza, affermare e esibire il suo potere. Le modifiche si compiono nella misura in cui il capo-casata vuole rompere con il passato. Vuole osteggiare l’operato della precedente reggenza e opporsi a potere. All’interno di questo operare capriccioso si individua la volubilità della costanza, dell’incapacità di portare a termine i lavori, di eseguire i progetti che si sono pensati. Questo ci riporta alla volubilità tipica degli Uzeda, che detta le scelte in campo sentimentale come ad esempio in Lucrezia e Chiara. Lavori che vengono iniziati e poi interrotti perché abbandonati, in testimonianza di questa incostanza. La monomania si scontra contro le disposizioni espresse da Donna Teresa nel testamento, le quali privano il primo genito dei diritti, e del privilegio di poter godere del patrimonio familiare. Teresa affianca a Giacomo il prediletto Raimondo. Tutta la prima parte del romanzo vede Giacomo adoperarsi per vanificare queste decisioni del testamento materno. Un’operazione è compiuta in maniera segreta. L’operazione giunge ad una risoluzione positiva, perché ad un certo punto si appropria di quello che gli era stato tolto, diventa padrone assoluto del patrimonio familiare, sicché si esaurisce con questo compimento. Un luogo e un episodio in cui si può dire che questa linea dell’intreccio volge a conclusione. Si trova nel centro matematico del romanzo: alla fine del quinto capitolo, della seconda parte: Pag. 401-403. L’importanza è data dalla datazione precisa. L’ultimo giorno dell’anno del 1865, son passati dieci anni da quando è morta Donna Teresa. Dieci anni per rivalersi dalla madre. Il principe Giacomo ordina al Baldassare di consegnare al signor Marco un biglietto. Marco era l’amministratore affidato di Donna Teresa. Il signor Marco era passato al servizio del principe Giacomo. Il biglietto è il licenziamento del signore senza preavviso e del tutto immotivato. Don Marco al suo rientro, si indignò. Don Marco ci dà la conferma che Giacomo ha “spogliato” i suoi parenti annullando le decisioni prese da Teresa. In quest’opera di espoliazione aveva avuto come suo complice proprio Don Marco. Ora invece che era diventato a tutto gli effetti padrone di questo patrimonio ha pensato bene di sbarazzarsi di questo testimone scomodo. Don Marco non era stato beneficiato dalle decisioni testamentarie di Teresa. Con lui gli Uzeda si sono dimostrati sempre avidi, meschini. Il gesto simbolico di buttare le chiavi della tomba della principessa Teresa consente di far uscire di scena il fantasma di Teresa che aveva inciso sulla trama. Finora il principe Giacomo aveva lottato con un fantasma, aveva fatto di tutto per vanificare le decisioni di Teresa. Si era impegnato in un conflitto postumo, in absenza generazionale. Dopo questo gesto simbolico la vecchia esce come fantasma definitivamente di scena e il principe Giacomo si propone come padre che deve a sua volta fronteggiare la ribellione del figlio Consalvo. Nella seconda parte del romanzo assistiamo a quest’altro conflitto generazionale simmetrico al primo: Giacomo scontrarsi con il fantasma della madre. La vendetta che Giacomo consuma nei confronti del fantasma materno, lo capiamo dal commento che i parenti in particolare fanno per il secondo matrimonio di Giacomo. Teresa aveva proibito il matrimonio di Giacomo con Donna Graziella, ed ora rimasto vedevo finalmente sposa Graziella. La ragione che lo spinge a compiere questo passo non è l’amore per Graziella che ormai si è spento nel corso degli anni ma è il desiderio di vendicarsi della madre. Pag. 428. Così come si era ribellato alla volontà materna sul piano degli interessi economici, così ora disfa l’opera di Teresa sul versante delle scelte matrimoniali. I due conflitti generazionali si rispecchiano fino ad un certo punto e si divaricano in alcuni aspetti. Intanto entrambi sfociano nella redazione di un testamento che penalizza il primo genito. Teresa contro le tradizioni del maggiorascato affianca a Giacomo il coerede Raimondo. Giacomo nella seconda parte del romanzo disereda il figlio Consalvo a favore di Teresa. In questo i due conflitti corrispondono. La prima differenza consiste nel fatto che l’ostilità manifestata da Giacomo nei confronti della madre è tenuta dietro una maschera e in qualche modo dissimulata. Giacomo si rimpadronisce del patrimonio segretamente con un comportamento ipocrita, ad esempio, sfrutta il ricatto nei confronti di Raimondo che aspira a sciogliere il suo matrimonio. Nel caso invece di Consalvo e della sua rivalità con il padre non c’è occultamento ma ostentazione perché a Consalvo serve questo sentimento anti-paterno come garanzia credenziale da poter esibire per la sua presunta fede democratica. La ragione che sta a monte dell’ostilità dei genitori. Da una parte c’è Teresa, il cui comportamento si spiega per una vena di follia che scorre tra gli Uzeda, per la sua vocazione al capriccio ma si giustifica sentimentalmente per il terzo genito. Dall’altra il rancore paterno di Giacomo si spiega sulla base del comportamento sconsiderato di Consalvo che sperpera il patrimonio che si dà ai folli e ai divertimenti e che si rifiuta di sposarsi secondo l’ordine di Giacomo ma è un rancore che si alimenta della nevrosi del personaggio. L’impegno di occultare ha provocato una sorta di cedimento psichico di Giacomo e ha contratto una fobia della iettatura, fino al punto di credere il figlio Consalvo come il principale suo nemico Iettatore. Gli affibbia il soprannome dispregiativo di “salute a noi”, che serve a esorcizzare la iettatura. malattia di Giovannino, Teresa si interroga su quelli che sono i suoi veri sentimenti e capisce che ha una responsabilità nella sofferenza di Giovannino. Pag. 589. Il sentimento non è morto e si risveglia insieme al senso di colpo. Giovannino poi guarisce ma resta segnato dalla malattia. Pag. 593. Giovannino da segnali di squilibrio mentale e promette di seguire le orme del padre. La disgrazia si compie: Giovannino impazzito si suicida e questo è il frutto di una serie di concause che cospirano insieme per determinare questo esito fatale. Non abbiamo soltanto la malattia e quindi le conseguenze della malattia ma anche la tara genetica, il fatto che è pur sempre figlio del pazzo Radalì e la delusione amorosa che ha messo alla prova il giovane. Una morte terribile che avviene in contemporanea alla morte del principe Giacomo. Pag. 610. Nel palazzo del principe, in cui sta morendo. Il figlio Consalvo che è al capezzale del padre viene chiamato da un servo e confida la morte di Giovannino. Consalvo alla notizia di Giovannino si sente morire dentro e si sente assalire da pensieri angoscianti. Giovannino Radalì era stato compagno di vita di Consalvo ai tempi del noviziato. Giovannino e Consalvo erano cresciuti insieme nel convento di S. Nicola. È il suicidio che lo angoscia, gli fa venire in mente il discorso della tara ereditaria. Si sente addosso la spada di Damocle del determinismo della razza. Questo smarrimento esistenziale aveva gettato le sue radici nell’animo di Consalvo già prima della notizia del suicidio, al cospetto del padre morente. Ritratto di Consalvo preso dall’angoscia è giunta alle soglie della paralisi. Pag. 608. Anch’egli si chiede se sarebbe stato vittima della tara genetica che condannava il padre ad una morte cosi orribile e vittima della pazzia che si era già manifestata nel parentato degli Uzeda. Domande che lo portano alla paralisi. Il monologo interiore di Consalvo: Valeva la pena di correre il rischio, di ereditare tratti negativi della razza degenerata perché il contraccambio era costituito da una vita da signore, una vita in cui poteva godere di grandi privilegi ma fronte al rischio della pazzia, l’essere un Uzeda diventa una sfortuna, non più un privilegio. È destinata l’angoscia a crescere alla notizia della morte di Giovannino. La decisione fu quella di far passare il suicidio del cugino come un incidente. Solo vincendo la paura del condizionamento genetico, solo vincendo la paura della paura della morte Consalvo riuscirà a diventare quello che diventerà e a superare tutte le altre prove fino a farsi eleggere deputato. Pag. 610. Riacquista grazie a questa decisione fiducia in sé. In realtà la decisione presa non è soltanto un modo per difendere l’onore della famiglia e proteggere la sorella ma soprattutto una misura per tranquillizzare le proprie angosce. Prima che sopraggiungesse la giustizia intervenne Consalvo. Siamo di fronte ad una messa in scena, che tine di giallo la trama del romanzo. Si apre una nuova era per Consalvo, capace di vedere con ottimismo il futuro. Egli non aveva più paura di cadere nelle pazzie degli Uzeda. La conclusione della vicenda esistenziale di Teresa si dà all’insegna di una religiosità bigotta che è un'altra follia, che Consalvo definisce “misticismo isterico”. Pag. 637. Consalvo non è un personaggio inventato ma è un personaggio della vita politica reale nei tempi in cui visse De Roberto. Si tratta del marchese Antonino di San Giuliano, discendente da un’aristocratica famiglia catanese. Le sue imprese nella vita politica possono essere sovrapposte a quello del personaggio romanzesco. Fece il consigliere comunale, sindaco sempre a Catania, deputato nel primo ministero Giolitti e infine ministro. L’atteggiamento di De Roberto nei confronti di Consalvo è di condanna. De Roberto prende a modello la figura di Antonino per proiettare sul suo alter ego, la sua controfigura romanzesca una luce negativa quasi parodistica. Agli occhi di De Roberto, Consalvo rappresenta il leader del trasformismo politico. Consalvo non è affatto l’eroe di cui De Roberto tesse l’elogio bensì è l’antieroe verso cui si nutre una forte avversione. Una prima educazione avvenne in occasione della lettura che Ferdinanda fa a Consalvo del Mugnos istillando il culto delle origini aristocratiche, l’orgoglio delle origini nobiliari. In questa esaltazione affianca la parola di Don Eugenio. Ma l’educazione politica si compie nello spazio del convento di S. Nicola durante il noviziato. I novizi si dividono tra i liberali e sorci. Egli prende le difese del partito conservatore a tal punto da far la spia allo zio Don Blasco e denunciare allo zio il liberale Fra Gola che vuole ricominciare la giocata del ’48. Pag. 219. Fra gola non si rassegna alla morte della rivoluzione e allo spirito rivoluzionario. Un altro importante episodio della vita da novizio che Consalvo conduce è costituito dalla predica natalizia del 1861. Ogni anno i padri benedettini affilavano ad un novizio la predica natalizia e nel 1861 tocca proprio a Consalvo. In questa occasione Consalvo si dimostra un perfetto oratore, un attore sul palcoscenico. Pag. 340. Soppressi i conventi dopo circa dieci anni di noviziato Consalvo torna alla vita mondana e comincia a riassaporare il gusto della libertà dandosi ai divertimenti. Giunge a mettere in pericolo la sua stessa vita perché i fratelli di una giovane chiassedotto arrivano a accoltellarlo ma il padre non è preoccupato tanto di questo stile di vita ma del figlio che attingeva in maniera spensierata alla sua borsa per questi divertimenti e si rende inevitabile lo scontro tra Consalvo e il padre. Pag. 450-451. Qui si manifesta una mania tipica di Consalvo, ereditato dalla madre ovvero la sofferenza ai contatti fisici. Per allentare la tensione di questo conflitto con il padre si rende utile la partenza di Consalvo per un viaggio di istruzione nelle capitali europee, nelle principali città italiane che poi fa tutt’uno con il classico tour dei giovani aristocratici nella storia dell’Europa moderna. Un viaggio che lo cambia e in particolare un incontro con il deputato siciliano Mazzarini che gli fa maturare la vocazione della carriera politica. Prima ancora dell’incontro, Consalvo capisce che al di fuori dell’ambiente catanese il nome dei Viceré, Uzeda non è così prestigioso e quindi subisce una mortificazione al suo amor proprio legato all’orgoglio delle proprie origini. Prova un senso di inferiorità e capisce che soltanto la politica può far vincere l’umiliazione che ha subito. Pag. 500. Pag. 503. L’incontro con Mazzarini, che lo invitò a pranzo e accende la vocazione in Consalvo. Entrando nella vita politica può esercitare il potere su vasta scala. Capisce che è tempo di assumere come modello politico il trasformismo dello zio, il duca di Oragua. Lo zio ha saputo adeguarsi ai tempi nuovi ed è stato eletto al primo parlamento nazionale. Pag. 504. Per riuscire nella vita politica deve adeguarsi ai tempi nuovi e diventare da borbonico liberale e mangiapreti proprio come aveva fatto Mazzarini e lo zio duca. Il viaggio all’estero dura più del previsto. Quando torna a Catania muta il sistema di vita, si ritira a studiare in casa che però non esalta la cultura ma la svilisce perché Consalvo si immerge nei libri non per un autentico amore della cultura me nella prospettiva di uno sfruttamento della cultura e dei libri. In vista di citazioni nei discorsi pubblici che lo facciano apparire brillante e colto, una concezione utilitaristica della cultura. Da questo aspetto della vita di Consalvo possiamo dedurre l’avversione di De Roberto verso questo personaggio. Le varie tappe di questa ascesa. La prima in qualità di consigliere comunale. Nel corso della sua carriera politica Consalvo si dimostra molto abile, diplomatico, capace di indossare una “maschera” per quello che è il suo scopo principale: l’esercizio del potere. Pur avendo professato idee liberale non esita a patteggiare per i clericali pur di conquistare una fetta importante del lettorato. C’è la festa di Sant’Agata e la giunta liberale ritiene che per contenere la spesa la festa deve essere festeggiata una volta l’anno. Ragion per cui aveva soppresso dal bilancio l’assegno per la festa estiva. Pag. 539. Consalvo fa un discorso per sostenere l’opportunità e ripristinare la festa per non alienarsi una fetta importante del lettorato. Sa che la maggior parte del popolo vuole una seconda festa e appoggiò cosi i clericali. Pag. 540. L’adeguamento opportunistico alle tendenze degli elettori da un lato e la purezza, d’altra parte, dei propri principi ma in questo modo non fa che legittimare una politica falsa. Pag. 548. Consalvo scende in lizza per la carica di sindaco a soli ventisei anni. L’ironia sottesa a tutto il brano, l’ironia del narratore, quindi di De Roberto. Il De Roberto e il narratore sono due figure distinte ma De Roberto presta al narratore molto spesso quelli che sono i suoi stessi umori e qui viene ad essere fustigata la vocazione del giovane Uzeda Consalvo a buttare la polvere negli occhi della gente. La sua politica si traduce in un’arte fascinatoria priva di un serio programma politico. Questa capacità si traduce concretamente in alcune riforme superficiali apportate in qualità di assessore e che lo rendono un candidato poi vincente per la carica di sindaco. Queste riforme consistevano nelle nuove divise per il corpo dei pompieri e dei vigili del fuoco divise fiammanti formate da elementi che solleticano la fantasia della gente e colpiscono l’immaginazione. Sono riforme che non intaccano la vita sociale della città nella sua sostanza ma mosse politiche astute per guadagnare i consensi e ottenere il favore popolare. Pag. 549. Pag. 569. Consalvo ormai sindaco mostra attenzione ancora una volta a quelli che sono gli aspetti esteriori della politica non alla sostanza. Uno dei primi provvedimenti fu la costruzione di un’aula per le riunioni consiliari. Un ampliamento delle dimensioni della sala consiliare per confermare la grandiosità del luogo in cui si svolgono i consigli e quindi di riflesso la grandiosità dei dibattiti e delle idee che si discutono. C’è una megalomania, una volontà nell’esaltare la propria grandezza. Questa riforma degli spazi del consiglio esplicita la megalomania che vuole emulare in qualche modo la politica nazionale, sentirsi proiettato all’interno della grande politica. Modella il consiglio sull’esempio di Montecitorio. Troneggia il seggiolone riservato al sindaco, dorato e scolpito e un grosso cuscino che viene messo sottochiave, rientra nel discorso della fobia. Un parlamento in miniatura dicevano quelli che erano stati a Roma. Viene intercettata una conversazione con il sindaco e i rappresentanti del consiglio in cui mette in evidenza le sue peculiarità di politico ciarlatano. I suoi discorsi vuoti senza un reale programma politico o il cui programma esibito si da all’insegna della contraddizione e della voluta ambiguità. Pag. 573. Consalvo sposa la strategia delle convergenze parallele per cui dici tutto e il contrario di tutto. Coesiste nello stesso discorso elementi del tutto contraddittori per assicurarsi il consenso di tutti. Consalvo è un politico contradditorio, generico perché la sua intenzione è quella di ottenere il consenso di tutti. Si tratta quindi di abbracciare contemporaneamente più fedi, più programmi politici. come l’incipit si sdoppia in un avvenimento privato e in quello pubblico. L’avvenimento privato smentisce quello pubblico. Negli incipit delle prime pagine del romanzo c’è il funerale della principessa Teresa in cui si cerca di trasmettere all’esterno il messaggio dell’unità e dell’armonia della famiglia. Subentra immediatamente dopo un episodio della vita privata nella galleria dei ritratti: la lettura del testamento. Viene sconfessato il precedente messaggio e l’avvenimento pubblico perché il testamento scatena la guerra tra gli Uzeda. Analogamente un avvenimento pubblico: il comizio elettorale di Consalvo che viene sconfessato da un secondo discorso privato dello stesso personaggio a donna Ferdinanda. Nel comizio si rivolge al popolo per convincerlo della sua fede democratica, ma nel discorso successivo, quello vero Consalvo si toglie la maschera e afferma che in realtà lui non è affatto dalla parte del popolo, si è convertito al partito liberale solo per poter continuare ad esercitare il potere. Solo per un opportunistico calcolo, oltretutto Consalvo si reca dalla prozia Ferdinanda allo scopo di usufruire in un futuro dell’eredità. Si tratta di un motivo che ricorre spesso nel romanzo. Tra l’altro Consalvo va a visitare la zia dopo essere passato dal vecchissimo zio duca e dalla sorella Teresa. Fa il giro dei parenti per racimolare quanto più denaro possibile. Pag. 657. Il duca Gaspare che era prima entrato prima di lui in politica, gli aveva fatto in qualche modo da modello preferendolo a Benedetto Giulente, ora lo invidia. Circolarità anche da questo punto di vista. Il romanzo inizia con le visite di Don Blasco ai parenti per convincerli a impugnare il testamento della principessa Teresa. In quell’occasione vengono ritratti i vari membri della famiglia dal punto di vista del monaco corrotto. C’è il tema del pellegrinaggio legato all’eredità e al bisogno di denaro sia nell’incipit, sia alla fine. Oltretutto c’è circolarità anche nell’ambito di quest’ultima terza parte aperta con l’annuncio dell’araldo siculo da parte di Don Eugenio. Il quale si reca da tutti i suoi parenti nella speranza di poter ottenere tutti i suoi finanziamenti per la sua opera. Quando si reca da Teresa, Consalvo non trova la sorella in casa perché andata con il vescovo da una contadinella a cui sono stati attribuiti poteri miracolosi. Tuttavia, questa visita ha una sua importanza perché riceve l’informazione che donna Ferdinanda sta male. La ragione vera è un'altra. Pag. 659. Qui c’è una riflessione che compie il personaggio. Il monologo di Consalvo. Consalvo si rimprovera di essere stato duro nei confronti della vecchia. Una durezza non degna dell’uomo nuovo che crede di essere diventato. Ma è un illusione l’dea dell’uomo nuovo perché si risveglia quell’avidità, caratteristica peculiare della razza nell’atto stesso si conforma alle stesse tradizioni. Consalvo è un Uzeda a tutti gli effetti, si dimostra avido e smentisce il precedente atteggiamento disinteressato e volubile. Al tempo del testamento paterno che lo disereda aveva ostentato indifferenza suscitando lo stupore dello zio. Questo disinteresse viene smentito con il successivo comportamento quando si reca da donna Ferdinanda e ambisce all’eredità della zia. Quel disinteresse era una manovra astuta per ottenere e guadagnare popolarità tra i suoi lettori. Pag. 604-605. L’incontro con Ferdinanda: Ferdinanda è furiosa con il Consalvo perché ha sconfessato i principi di casta. Pag. 659. Si era ridotto come un ciarlatano che parla in piazza, cosa del tutto disdicevole ad un nobile. Ma accetta di incontrarlo ma si pone in un atteggiamento di presa di distanza. “Tempi obbrobriosi, razza degenere”. Consalvo si esibisce con la stessa enfasi che aveva dimostrato precedentemente ma questa volta calando la maschera. Si inizia a delinea la tesi di Consalvo. Consalvo è la continuità del potere, che non significa assoluto immobilismo. Consalvo non è tanto cieco da disconoscere che nella storia qualcosa cambi. I cambiamenti riguardano solo la superficie non la sostanza dell’esercizio del potere. La storia cambia ma che i più forti sanno cavalcare questi cambiamenti, se ne servono per i propri scopi e affermare la propria supremazia. Questa tesi di un immobilismo diventa fonte del Gattopardismo di Tancredi, della sua ideologia secondo cui bisogna cambiare tutto perché nulla muti veramente. Una continuità ideologica tra il discorso di Consalvo a Ferdinanda e la famosa frase di Tancredi nella Gattopardo di Tomasi. Durante tutto il tempo che Consalvo parla, Ferdinanda resta muta e non si sa se questo è sintomo di fermezza o compiacimento. La zia era partita dalla convinzione che il successo politico del pronipote rappresentasse il segno concreto della razza degenerata. In questo finale, Consalvo ribatte proprio questo punto. “No, la nostra razza non è degenerata, è sempre la stessa”. Consalvo ammette che il sangue degli Uzeda si è impoverito ed una forza superiore ha travolto la dinastia dei Borboni ma constata nonostante questo che la razza Uzeda in ogni tempo è stata chiamata ha esercitare il potere.
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