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Videostoria L'italia e la tv 1975-2015, Sintesi del corso di Storia Della Radio E Della Televisione

riassunto del libro videostoria di Menduni

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 10/07/2019

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Scarica Videostoria L'italia e la tv 1975-2015 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Radio E Della Televisione solo su Docsity! Due modelli di televisione (1972-1975) Le prime televisioni liberi (pag 41) I monopoli televisivi pubblici vengono messi in discussione in tutta Europa. Grazie all’elettronica i costi di tutte le fasi dell’attività televisiva si erano ridotti, ed era possibile pensare di finanziarsi aprendo alla pubblicità spazi in televisione (che il monopolio Rai distribuiva con il contagocce). Imprenditori locali installavano ripetitori per portare il segnale di stazioni estere in lingua italiana: Telecapodistria, la tv della Svizzera italiana e Telemontecarlo (27,5% propietà della Publicitas, cioè della SIPRA, cioè della Rai). Grazie a queste televisioni gli italiani guardavano per la prima volta i programmi a colori (compreso il campionato mondiale di calcio Germania 74). La Rai continuava a tramettere in bianco e nero perché era bloccata dal mondo politico, diviso al suo interno tra i partiti fautori del SECAM (Systeme electronique couleur avec memoire) e quelli del PAL (Phrase alternation line, che poi vincerà). La prima televisione privata italiana fu probabilmente Telebiella, fondata da Giuseppe Sacchi, ex dipendente della Rai, che aveva installato un piccolo impianto via cavo e ottenuto dal tribunale del luogo la registrazione della testata come “giornale periodico a mezzo video”: è il 20 aprile 1971 (nasce con la impronta di dare voce alla comunità). Nell’ottobre dello stesso anno, a Rimini, un gruppo di giovani fonda Babelis tv: riprende con una piccola telecamara le partite di calcio (la prima è Rimini-Spal), le registra e poi le proietta in un bar cittadino. Nel maggio de 1972 cominciano i guai giudiziari: un cittadino denuncia Telebiella (siamo in periodo elettorale) perché è sprovvista di autorizzazione del ministero delle Poste. Dalle urne esce il risultato di un governo di centro-destra guidato da Giulio Andreotti. Ad agosto il ministro delle Poste Gioia con proprio decreto affida il monopolio della posa e gestione del cavo alla SIP-STET. Telebiella è fuori legge. Nonostante l’assoluzione del pretore, il ministro Gioia diffida Telebiella con l’ordine di disattivare gli impianti “abusivi”. Sorgono Teleivrea, telealessandria, televercelli, telepiombino-Costa etrusca, telediffusione italiana di Napoli, teleancona-conero 3, teleromacavo. Nel maggio 1973 la “Gazzetta Ufficiale” pubblica il nuovo Codice postale, e subito si scopre che un articolo, il 195, punisce severamente, con l’arresto da tre a sei mesi, chi stabilisce o esercita un impianto di telecomunicazioni, specificando a scanso di equivoci che sono compresi “gli impianti di distribuzione di programmi sonori o visivi realizzati via cavo o con qualunque altro mezzo tecnico”. Mentre il ministero ingiunge a Telebiella di disattivare gli impianti, il partito repubblicano che fa parte del Governo chiede a Andreotti di dissociarsi dal suo ministro, poiché non lo fa i repubblicani tolgono la fiducia e il Governo cade (la questione televisiva condiziona ormai la vità dei governi). Sorgono nuove emittenti come Canale 3. Intanto gli atti dei processi contro Telebiella, trasmessi alla Corte costituzionale, sono alla base delle due storiche sentenze n.225 e n.226 del luglio 1974. La prima riconosce il diritto dei privati a ripetere i programmi televisivi esteri, purché non interferiscono con le frequenze della Rai; la seconda legalizza la trasmissione via cavo su scala locale (c’è appena stato il risultato del referendum favorevole al divorzio con una imprevista maggioranza del 59%, e il nuovo clima si sente, i radicali promotori del referendum sono tra i più convinti fautori della libertà di antenna). Il 10 agosto 1974 telelibera Firenze celebra il trentesimo Anniversario della Liberazione della città trasmettendo via etere un dibattito con tutte le autorità locali, utilizzando le frequenze su cui viene ripetuta telecapodistria (si tratta probabilmente della prima violazione ufficiale del monopolio televisivo della Rai). Nell’estate del 1974 in tutta Italia sorgono come funghi emittenti televisive. Una delle emittenti via cavo è telemilano, che l’imprenditore edile Silvio Berlusconi organizza per eliminare tutte le antenne dai tetti del complesso residenziale, Milano 2, che ha appena costruito a Segrate, e per dargli un’identità comunitaria. La rete in cavo è collegata a un’antenna centralizzata collocata sopra il grattacielo Pirelli, che riceve i due canali Rai, la tv svizzera, telemontecarlo, telecapodrista. Una delle bande è libera e Berlusconi ci inserisce la televisione di servizio per i diecimila residenti di Milano 2. Sono questi gli esordi della futura Mediaset. La “riforma” della Rai (pag 47) La legge ovviamente ribadiva il monopolio statale della Rai in quanto a servizio pubblico di preminente interesse generale. La Rai non sarebbe diventata un ente pubblico ma una società per azione e totale partecipazione pubblica. La competenza sulla Rai non spettava più il Governo, ma al Parlamento, che l’avrebbe esercitata attraverso una Commissione parlamentare di vigilanza, comporta di ben 40 deputati e senatori di tutti i gruppi politici. Per governare la Rai la legge prevedeva un pletorico consiglio di amministrazione di sedici membri, in maggioranza eletti dalla Commissione di vigilanza, più sei designati dall’IRI. Il meccanismo di elezione prevedeva una maggioranza dei tre quinti per tutti gli eletti. Quattro di tali consiglieri venivano scelti sulla base di rose di nome predisposti dai consigli regionali (che peraltro non seppero mai farne buon uso, prestandosi a collaborare alla designazione partitica di tutti e sedici i consiglieri). Venivano inoltre creati in ogni Regione dei Comitati regionale per il servizio radiotelevisivo, che non hanno mai avuto alcun potere reale. La legge riservava il 5% delle trasmissioni televisive e il 3% di quelle radiofoniche al cosiddetto “accesso”: trasmissioni autogestite di organizzazioni politiche, sindacali e religiose, su scale nazionale o regionale, minuziosamente regolamentate. La Rai, se richiesta, doveva aiutare tali organizzazioni a realizzarle. Un capitolo infelice e presto abbandonato. Un intero articolo, il numero 13, era dedicato a una minuziosa e vincolante indicazione dell’organizzazione interna, fondata sulla distinzione tra testate giornalistiche, reti televisive e radiofoniche e direzioni di supporto, e sulla previsione di un decentramento ideativo e produttivo e di una terza rete televisiva. Un interno organigramma era contenuto in questo articolo, che riproduceva gli accordi della Camilluccia. Il finanziamento dell’azienda avveniva tramite il canone di abbonamento e solo in modo “accessorio” attraverso la pubblicità, la cui presenza (“affollamento pubblicitario) era limitata al 5% della durata complessiva dei programmi. Ogni anno era il Governo a determinare l’ammontare del canone (uno dei poteri che gli erano rimasti), mentre la Commissione di vigilanza doveva determinare un tetto annuo alla raccolta pubblicitaria della Rai: una norma pensata a tutela degli editori di quotidiani, ma che poi è servita soprattutto alla televisione privata. La legge doveva infine tener conto delle recenti sentenze della Corte Costituzionale, ma lo fece molto poco volentieri. Prevedeva quindi una normativa per la ripetizione dei segnali televisivi stranieri, ma a condizione fossero depurati dalla pubblicità; operazione costosa e difficilmente realizzabile che rimuoveva, anche psicologicamente, il profitto. Fu dunque totalmente inapplicata. La legge introduceva inoltre una complessa regolamentazione della televisione via cavo che, alla prima lettura, sembrava molto favorevole alla nuova tecnologia. Ad esame più attento emergeva però che il cavo televisivo doveva obbligatoriamente essere “monocanale”, cioè trasmettere un solo programma. Che un solo cavo conducesse contemporaneamente più canali era già tecnicamente possibile dagli anni Venti: introdurre nella legge specifiche tecniche cosi riduttive significava mettere il cavo fuori mercato. Prove tecniche di sistema misto (1975-1980) Fine di Carosello (pag 65) Forse solo una coincidenza colloca la scomparsa di Carosello della programmazione Rai (gennaio 1977) all’inizio di quel sistema misto televisivo in cui la comunicazione commerciale faceva il suo ingresso dalla porta principale, in quanto finanziatrice. Tuttavia, la sostituzione di questo amato programma serale con semplici comunicati che si succedono l’uno all’altro (e saranno sempre più brevi, scendendo spesso sotto i 30 secondi) sancisce in maniera forte l’abbandono di una pretesa, pedagogica e un po’ moralista, di circoscrivere la pubblicità in un proprio “ghetto” quotidiano, in cui la natura commerciale della comunicazione deve essere il più possibile messa in parentesi. Nemmeno all’interno del “ghetto” essa può circolare giorno con appuntamenti fissi, per catturare l’attenzione delle famiglie sulla programmazione loro offerta. Riproporre ogni giorno alla stessa ora un telefilm della stessa serie significa penetrare stabilmente nelle abitudini di vita e nelle convenzioni legate all’uso del tempo personale e familiare. Ecco dunque il palinsesto “orizzontale”; uguali cadenze di appuntamenti seriali in ogni giorno lavorativo (il weekend è un’altra cosa, con altre forme di consumo), per legare a sé il pubblico e possibilmente “trainarlo” con prodotti costosi e vincenti, traghettandolo verso programmazioni più difficile o dominate dalla concorrenza. Tra un telefilm e una soap opera si insinuano appuntamenti-civetta, brevi, piccanti e concentrati come uno spot, antidoti al fenomeno più temuto, il cambio di canale, lo zapping, con cui lo spettatore realizza il suo proprio flusso televisivo. La “controprogrammazione” era un modo di disporre gli appunti in ragione delle debolezze dell’avversario, offrendo alternative più gustose e nelle situazioni difficili calando un asso, come il grande film o la partita di calcio. Costruire un palinsesto vuol dire adesso attingere alla library, una disciplina combinatoria per assemblare e sfruttare al meglio le serie che sono in magazzino. Se gli appuntamenti che si propongono risultano vincenti nel giudizio del pubblico, il palinsesto tende nuovamente vincenti nel giudizio del pubblico, il palinsesto tende nuovamente a diventare verticale, perché si costruisce tutta la programmazione della serata in modo omogeneo con lo spettacolo che ha avuto successo. Tali serate fortemente unitarie vengono utilizzate per contrastare i punti forti della concorrenza; è quello che accadrà con Dallas e la fiction americana. Il definitivo passaggio di Mike Bongiorno a Canale 5, alla fine del 1981, rappresenta la sintesi di questa americanizzazione all’italiana perché il presentatore è, contemporaneamente, il vero rappresentante per l’Italia della tv americana ma anche un volto storico della Rai. Dopo di allora si cercherà di introdurre altri elementi che uniscano la provincia italiana ad una immagine dell’America: è il caso del varietà, in cui forme di spettacolo tipicamente americane si uniscono ai comici italiani e allo stesso uso della bellezza femminile vistosa e “maggiorata” che si faceva nell’avanspettacolo e nel cinema di consumo dell’epoca. Sarà questo il caso del fortunato drive in di Antonio Ricci. La misurazione dell’ascolto (pag 98) Tradizionalmente la Rai svolgeva indagini sul proprio pubblico in prevalenza di tipo qualitativo, mirate sulla comprensione e sul gradimento dei vari programmi, con il suo “Servizio opinioni”. L’avvento del sistema misto però mise profondamente in crisi queste metodologie. Per determinare il valore e le tariffe della pubblicità, infatti, è necessario stimare l’ampiezza del pubblico a cui si rivolge. Nel caso della televisione, mancando un prodotto materiale del quale si possano conteggiare le vendite e la diffusione (come i giornali e periodici), l’unico modo per avvicinarsi alla dimensioni del pubblico è quello di compiere una ricerca presso alcuni suoi campioni, sperabilmente rappresentativi, attraverso gli strumenti quantitativi tipici della ricerca sociale e del marketing come le interviste, i questionari, i diari della visione domestica compilati da famiglie campione: quel tipo di ricerca “amministrativa”, china sulla misurazione di ciò che all’industria serve, priva di riflessioni sul significati più generali, così diffusa in America e su cui erano diretti, negli anni quaranta, gli strali critici della Scuola di Francoforte. Il principale metro del gradimento effettivo di un programma diventa il suo indice di ascolto. Spostare la valutazione della qualità di un programma esclusivamente sul numero di persona che vi assistono ha conseguenze culturali di rilievo. La misurazione quantitativa degli ascolti viene usata prima di tutto dalle televisioni private per dimostrare lo spazio che si sono guadagnate; successivamente entrerà a far parte anche dell’esperienza del servizio pubblico, accompagnata all’inizio da una discussione sulla scarsa attendibilità dei dati che poi scomparirà gradualmente, salvo ricomparire all’improvisto nei commenti di qualche conduttore televisivo quando viene penalizzato dagli indici di ascolto della sua trasmissione. Gli “ascolti”, confezionati in tempo reale grazie alla misurazione elettronica, entreranno così a far parte delle ruotine e delle dinamiche delle televisioni ed assumeranno un forte valore di notizia entrando così di prepotenza nella rappresentazione che agli altri media fanno della televisione. L’effettiva audience della televisione private era estata, fin dall’inizio, oggetto di vivaci discussioni, sfociate in una vera guerra di cifre che ebbe anche conseguenze giudiziarie. All’inizio la Rai aveva adottato il “barometro d’ascolto” una metodica di rilevazione condotta con interviste telefoniche, considerata favorevole al suo committente e svolta direttamente o con società di ricerca di propria assoluta fiducia. A loro volta i privati avevano promesso nel 1980 ISTEL, anch’essa un’indagine telefonica che poi si convertì allo strumento del diario. L’ISTEL era considerata più benevola con le televisioni commerciali. La Rai monitorava il prime time, più favorevole alle emittenti consolidate, cioè a le stessa, mentre ISTEL si occupava dell’intera giornata, in cui le private avevano più chances di sfruttare i punti deboli o i vuoti della sua programmazione. Nel 1981 la Rai entrò anche nell’ISTEL; utenti pubblicitari ed emittenti private contestavano alla Rai il duplice ruolo di controllare e concorrente. Nello stesso anno la Rai aveva introdotto in Italia per le proprie rilevazioni il “meter”, una tecnologia elettronica che avrebbe rivoluzionato le indagini di ascolto. Grazie ad un apparecchio collocato sopra il televisore e un telecomando, esso permette di sapere quale dei membri della famiglia è seduto davanti al televisore e di registrare, minuto per minuto, le sue abitudini di ascolto. Tutti i dati sono poi recuperati, via telefono, da un computer centrale. Le possibilità di errore di un rispondente sono assai minori rispetto al diario o all’intervista, sempre che sia collaborativo. Le informazioni ottenute permettono di seguire la fruizione anche per unità temporali brevissime; i dati affluiscono in continuazione, per tutti i giorni dell’anno e tutte le ore del giorno. Se il campione di famiglie in cui è inserito il “meter” è sufficientemente rappresentativo, esso permette di correlare con efficacia gli stili di fruizione al livello socioculturale, all’età, al sesso e ad altre variabili. Le televisioni private contestavano però, ancora una volta, il doppio ruolo della Rai, di soggetto e oggetto dell’indagine. L’attrito fra le due parti fu definito, sempre con metafore belliche, la “guerra degli indici di ascolto”, finché non si arrivò, con la mediazione del sottosegretario alle Poste Giorgio Bogi, alla costituzione della società Auditel, che ha come scopo sociale, nel suo statuto, “la rilevazione imparziale e oggettiva dell’ascolto televisivo in Italia e la diffusione sistematica dei dati”. Auditel, definita super partes (ma in realtà propietà delle parti), ebbe come soci la Rai (33%), l’emittenza provata (33% ci cui 26%a Fininvest), le agenzie e gli utenti pubblicitari (33%) e la FIEG (Federazione italiana editoriali giornali) con un simbolico 1%. Era il 1984, l’anno della formazione e istituzionalizzazione del duopolio televisivo. La costituzione di Auditel è stata una delle poche azioni concordate in modo trasparente dal duopolio, costituendo la funzione arbitrale della competizione sull’ascolto. Anche Auditel utilizza il “meter”: la prima rivelazione avverrà il 7 dicembre 1986, su un campione di 633 famiglie, che sono diventate oggi più di 10000. Il sistema ha subito varie contestazioni: è stata criticata l’impenetrabilità di Auditel a ricercatori esterni, lanciata l’accusa di sovra- rappresentare la popolazione che guarda la televisione rispetto agli altri, contestata la rappresentatività del campione. Vi sono stati anche episodi incomprensibili: il 15 luglio 2000 Rai Uno ebbe un black-out di 15 minuti alle 9 di sera e mandò in onda l’orologio del segnale orario, ma registrò ugualmente il 15% di share. A tutte queste critiche, naturalmente, si aggiungono quelle dei conduttori televisivi quando il loro programma non va bene. Tuttavia, i risultati di Auditel sono stati sempre considerati validi dai vari soggetti del sistema televisivo (broadcaster, concessionarie, agenzie di pubblicità e clienti) ed esso rimane l’istituzione per la certificazione dell’ascolto televisivo e la determinazione, con una conversazione da tutti accettata, dall’ampiezza e delle caratteristiche della platea televisiva, e dunque del valore degli spazi, dei programmi e dei personaggi televisivi. L’impatto di Auditel sulla realtà televisiva italiana è stato particolarmente forte perché ha sancito definitivamente una realtà che prima di allora era oggetto di valutazioni contrastanti: l’emorragia di metà del pubblico della Rai e la natura duopolistica ormai compiutamente assunta del sistema televisivo. Neotelevisione Il ritmo è cambiato (105) Nel 1983 Umberto Eco in un articolo per “l’Espresso coniava un termine che avrà fortuna, “neotelevisione”. Essa nasce, secondo Eco, “con la moltiplicazione dei canali, con la privatizzazione, con l’avvento di nuove diavolerie elettroniche”: insomma, è la televisione nell’era della concorrenza, un effetto combinato della riforma della Rai e della televisione privata. Eco aveva colto benissimo che nel tempo televisivo era cambiato definitivamente. “La televisione americana, per cui il tempo è denaro, imposta tutti i suoi programmi sul ritmo, un ritmo di tipo jazz. La Neo Tv italiana mescola materiale americano a materiale nostrano (o de paesi del terzo mondo, come la telenovela brasiliana) che hanno un ritmo arcaico. Così il tempo della Neo Tv è un tempo elastico, con strappi, accelerazioni e rallentamenti. “Fortunatamente”, continuava Eco, “lo spettacolo può imprimere il proprio ritmo selezionando istericamente col telecomando”. Così ciascuno si crea il suo ritmo e si vede la televisione come quando si ascolta una musica comprimendoci le mani sulle orecchie, e decidiamo noi cosa debbono diventare la Quinta di Beethoven o la Bella Gigugin. La nostra serata televisiva non racconta più storie complete. È tutta un “prossimamente”. Il sogno delle avanguardie storiche. Williams, un professore inglese di letteratura, arrivò alla conclusione che nella televisione commerciale non c’era la trasmissione di programmi specifici e delimitati, composti in un laborioso dosaggio tra generi che tutti concorrevano all’elevazione dello spettatore, ma piuttosto un flusso continuo di brevi sequenze, e questo flusso era l’essenza dell’esperienza televisiva, il “guardare la televisione” piuttosto che “guardare il telegiornale o la partita alla tv”, l’entrare in programmi sempre nuovi, la difficoltà a spegnere l’apparecchio. Un ricercatore statunitense, Thomas McCain, raccontò l’esperienza opposta di aver acceso la televisione europea e di essersi trovato di fronte qualcosa di totalmente diverso da ciò che era solito vedere. “quando ci trasferimmo a Dublino, per un mese guardai la televisione inglese con la stessa perplessità e con lo stesso stupore e frustrazione. Non valeva molto la pena di guardare la tv. I programmi, invece che ad orari prevedibili, venivano mandati in onda a caso. Le serie sembravano durare solo poche settimane, e proprio a goderci o a capire un personaggio o un programma…quello scompariva del palinsesto. Il telegiornale andava in onda nel bel mezzo della serata, né prima, né dopo. la programmazione o la scaletta delle trasmissioni aveva poi le sue peculiarità; un film in prima serata, seguito dalla produzione inglese In search of the wild Asparagus, quindi una situation comedy e poi un documentario sui piccini in tarda serata. Adesso questi due modelli così diversi di televisione si stavano ibridando nel sistema misto italiano, e il flusso individuato da Williams, prima ancora dello zapping, appariva già come la tonalità dominante del broadcasting neotelevisivo. Le culture della neotelevisione (pag 109) Questa televisione è sembrata a molti critici rozza e volgare; in particolare i quotidiani ospitarono volentieri editoriali e articoli in cui la televisione degli anni ottanta appariva cinica e pacchiana, eccessiva e insinuante, rispetto alle composte immagini in bianco e nero del monopolio. Di fatto, questi saltuari contributi giornalistici sostituivano la funzione del critico televisivo, caduta in desuetudine con la neotelevisione, come si il critico fosse stato travolto dal flusso debordante dei programmi. Non sempre tuttavia la critica si accompagnava alla comprensione dei maccanismi di funzionamenti di questa complessa macchina da spettacolo, quasi che bastasse definirla un genere “basso”. Si trattava invece di un complesso di saperi propri della cultura del consumo, più vicina al supermercato che alla galleria d’arte o alla biblioteca, che determinavano forme di patto comunicativi assai elaborate, vicino cioè al vissuto dello spettatore e capaci di interpretare, a volte anticipandoli, i suoi desideri. Erano indubbiamente regole mainstream (comune e dominante), regole conservatrici. La prima di esse era senz’altro “giocare sul sicuro”: era una televisione che rischiava poco, che si serviva di molti stereotipi culturali, perché lo stereotipo consente una più facile identificazione da parte del pubblico, rimanda ad esperienze comuni, condivise, e dunque facilita il consumo. Piuttosto che inventare una nuova trasmissione, era meglio comprare qualcosa che avesse già avuto successo in altri Paesi: una serie televisiva collaudata, oppure in “format”, uno schema di trasmissione da adattare alla nostra realtà. Può anche non avere successo, ma il rischio di sbagliare è minore: per questo la circolazione internazionale dei format diventerà presto la prima risorsa per i responsabili del palinsesto e nasceranno società specializzate, come l’olandese Endemol. In secondo luogo, l’intrattenimento era centrale in questa televisione, un dittatore assoluto. L’informazione, la cultura, la scienza non erano più percepibili in sé nella programmazione televisiva quando non si presentavano avvolte nell’intrattenimento che costituiva il tono provengono invece cartoni animati per bambini, realizzati con pochi movimenti per risparmiare sui costi. In Europa non si è mai smesso di produrre fiction televisiva e ci si è confrontati, con alterna fortuna, con la serialità. In particolare, le televisioni pubbliche tedesche hanno prodotto telefilm antologici di successo (mai pero travolgente) come L’ispettore Derrick. La specialità italiana è stata a lungo la cosiddetta miniserie, una produzione di pregio dalla piccola serialità (da due a sei puntate) di durata cinematografica (90 minuti). La produzione più nota è piovra, prodotta dalla Rai, a tema mafioso, che ha avuto dieci edizioni dal 1984 al 2001. La politica come stile de vita televisivo (pag 120) Gli spot elettorali compaiono nelle elezioni del 1979, un buon affare per le televisioni private, e dal 1982 saranno anche prodotti centralmente dai partiti. Spesso rozzi, altre volte furbeschi, rappresentano comunque un fenomeno minore rispetto all’inesorabile socializzazione al consumo che si realizza con i messaggi pubblicitari della neotelevisione. La politica viene consumata, ciclicamente e periodicamente con una sempre meno assidua partecipazione elettorale; come per altri consumi, non ci sono fidelizzazioni che durano tutta la vita. Il prodotto politico deve essere promosso, raccontato, rappresentato, investito di una carica emozionale; lanciato con l’ausilio di una speciale marketing e connesse ricerche di mercato; il leader ne è testimonial, garante e fabbricante insieme; una quota crescente di elettori, specie di nuovi elettori, non si riconosce più in appartenenze tradizionali o non le considera più elementi forti di socializzazione politica. L’esperienza concreta della politica si riduce o rimane limitata a minoranze attive. Per tutti gli altri le occasioni di contatto faccia-a-faccia tra cittadini e partiti si riducono, sostituite dalla loro rappresentazione sui media. Tale rappresentazione non è quindi la maschera di una spettacolarizzazione della politica, ma l’unica forma possibile in cui la politica può essere conosciuta, e dunque una forma necessaria, funzionale. I partiti e la politica diventano così uno dei molti fenomeni che è vano pensare di conoscere direttamente, ma che sono percepibili soltanto attraverso “immagini pubbliche” agite dai media. Far West e Sceriffi dell’etere La legge Mammì (pag 130) Una legge radiotelevisiva vide la luce solo nell’agosto 1990 e prenderà il nome del ministro repubblicano alle Poste Oscar Mammì. Dal 1998 il Governo pentapartito è guidato da Ciriaco De Mita. La legge sulle tv è voluta in particolare dal partito socialista, che propone l “opzione cero”, cioè il divieto di possedere contemporaneamente televisioni e giornali. Il motivo dell’urgenza è che la Corte costituzionale potrebbe cancellare la legge 10/1985: cosa che poi non farà, ma il meccanismo legislativo si è messo in moto. Il punto centrale della proposta di legge è l’opzione zero, pensata contro gli editori: principalmente contro la Fiat, che attraverso la Rizzoli vorrebbe entrare in Telemontecarlo svegliandosi da un lungo sonno televisivo, è ha già una opzione brasiliana per entrare nel capitale azionario; ma ovviamente anche contro il gruppo “L’Espresso”-“Repubblica” di Benedetti-Caracciolo. La vicenda della legge non si spiega se non è letta in parallelo con la durissima contesa che contemporaneamente si è aperta per il controllo della Mondadori e che potrebbe essere materia per un avvincente serial televisivo. Dopo processi, voltafaccia e colpi di scena, nel 1991 una discussione mediazione assegna Mondadori a Berlusconi, compresi i suoi periodici e “Panorama”, ma la CIR di Benedetti avrà L’espresso, La Repubblica e i quotidiani locali FINEGIL. Il progetto Mammì è sostanzialmente una sistemazione dell’esistente, che perfeziona e rende definitiva la normativa della legge 10!1985 aggiungendovi la possibilità della trasmissione diretta per le reti privati; è un buon risultato per la Fininvest, ma la sinistra democristiana non si ritiene più vincolata da accodi e si allea spesso e volentieri con l’opposizione di sinistra. Il PCI con grande abilità ha affrontato un tema specifico molto sentito nel mondo del cinema e a livello popolare: la continua interruzione dei film in televisione con spot pubblicitari. Su questo ha presentato anche una sua proposta di legge, primo firmatario Veltroni, e organizzato (febbraio 1989) una affollata manifestazione a cui è presente tutto il mondo del cinema. Un emendamento che vieta gli spot nei film passa al Senato in marzo con il voto determinante della sinistra democristiana. Il presidente del consiglio è adesso Andreotti, che procede in maniera ferrea, a colpi di voti, cancellando alla Camera l’emendamento antispot. Nel luglio 1990 i cinque ministri dalla sinistra democratica si dimettono per protesta, pensando di provocare la caduta del Governo, ma Andreotti li sostituisce in ventiquattr’ore senza aprire crisi. Sempre a colpi di voti di fiducia la legge sarà approvata. La televisione scende in campo (1992-1996) Tangentopoli (pag 141) Una profonda crisi del sistema politico venne invece allo scoperto d’improvviso nel 1992 con gli scandali di Tangentopoli, che misero in luce l’esistenza di una larghissima corruzione nella classe politica e imprenditoriale e, contemporaneamente, la possibilità di sanzionarla. Attraverso il detonatore delle inchieste su Tangentopoli emersero vari problemi che esistevano da tempo ma che non avevano avuto la possibilità di esprimersi efficacemente: la propensione del mondo imprenditoriale a cercare condizioni di favore in Italia tramite la collusione con i politici, piuttosto che affrontando un mercato globalizzato, e la profonda crisi di rappresentazione del sistema politico, che non riuscirà a tradurre la modernità in decisioni politiche efficienti e rapide, non consentiva alternative e penalizzava le Regione più forti, quelle del Nord. Nacque così una complessa e a tratti confusa transizione verso un nuovo sistema politico, di tipo maggioritario, che sembrava in grado di risolvere alcuno di questi problemi e di promuovere un ricambio dei governanti. Le prime fasi di questa transizione videro un forte coinvolgimento dell’opinione pubblica e una enorme partecipazione politica e furono seguite, o meglio accompagnate delle televisioni. La tv assunse quasi istintivamente un ruolo di socializzazione popolare ai nuovi eventi. La trasmissione Un giorno in pretura smise di mandare in onda i processi ai ladruncoli di periferia e iniziò a trasmettere i grandi procedimenti di Tangentopoli, a cominciare dal processo a Walter Armanini (1993). La trasmissione in differita permetteva un montaggio sapiente, che ne fece una saga popolare di grande ascolto. Alcuni momenti cruciali dei processi (la requisitoria di Antonio Di Pietro, l’interrogatorio a Craxi) saranno trasmessi in diretta nell’ambito di programmi speciali. Avremo anche, nel 1994 un Processo al processo di Enzo Biagi. La televisione amplifica la portata dei processi: i personaggi inquisiti, alcuni dei quali, come Enzo Carra, sono letteralmente in catena, vengono umiliati in pubblico tramite il mezzo televisivo, in veri e propri “rituali di degradazione”, in cui si celebra l’annientamento della vecchia classe dirigente, o così sembrava all’epoca. Il pubblico ministero Antonio di Pietro, con il suo inseparabile computer, l’oratoria arguta e vernacolare delle origini contadine, l’aggressività inquisitiva dell’ex poliziotto, diventa un personaggio popolarissimo, testimonial di quella che appare una rivolta dei semplici contro i potenti, amplificata da movimenti della “società civile”, da messaggi all’infinito ne rimandi che gli altri media compiono partendo dalla materia prima televisiva: la trasmissione delle vicende processuali e giudiziarie. La natura eminentemente teatrale dell’aula di giustizia, tante volte sfruttata dal cinema, dal teatro e dai telefilm, agevola la tv nel suo porgere al pubblico questa materia incandescente che si presenta nel formato di un court show seriale all’italiana, con Di Pietro protagonista e mattatore, gli imputati con le loro difficoltà e imbarazzi, i “caratteristi” come il presidente del tribunale Giuseppe Tarantola. L’Italia non ha ancora una legge che tuteli la privacy, compresa quella degli imputati. Sergio Cusani è l’unico fra gli imputati che terrà testa a Di Pietro con freddezza, da combattente sconfitto a combattente provvisoriamente vincitore. Quando lui è di scena l’andamento narrativo è quello di una partita a scacchi, di un eterno duello fra il bene e il male, più che il crudele gioco del gatto con il topo che caratterizza altre puntate. Per le sue caratteristiche tematiche e narrative, queste due annate diventeranno, molti anni dopo, serie televisive con cui la pay per view Sky Italia marcherà la sua distanza dalla tv tradizionale e dalle vicende politiche che l’avevano plasmata. Accanto ai grandi processi, sono i conduttori dei talk-show e dell’infotainment- Maurizio Costanzo, Bruno Vespa, Michele Santoro- a tematizzare sul video l’esaurimento di una classe dirigente, attraverso l’esibizione dei suoi esponenti non più circondanti da un alone di rispetto e di protezione. Nei talk-show fanno la comparsa gli esponenti di quella società civile che nel frattempo si è fatta sentire, intenti alla demolizione di una intera classe politica, anche se sembrava rivolta solo contro i suoi settori più compromessi. Il conduttore Gianfranco Funari, il più esplicito nel ricordarci la natura spettacolare e commerciale delle sue trasmissioni, si distingue per i suoi personali piccoli rituali di degradazione a cui sottopone, sempre per conto dell’uomo della strada, i politici che accettano di partecipare al suo programma e di prestarsi alle relative promozioni pubblicitarie, mangiando davanti alle telecamere i tortellini dello sponsor. Il sistema televisivo diventa così un elemento fondamentale passaggio dal vecchio al nuovo quindi, implicitamente, un pezzo della Seconda Repubblica che le nuove leggi elettorali stanno preparando e che ratifica l’ormai definitiva personalizzazione della politica. Abbiamo fin qui sottolineato tutti i legami che fin dalla sua nascita subordinavano il sistema radio-televisivo alla classe politica, in un sistema che poteva ben definirsi un esempio di occupazione del potere. Tuttavia, l’azione condotta dalla televisione nel biennio 1992-1992 fece sbiadire rapidamente, agli occhi dell’opinione pubblica, le sue caratteristiche di ancella del vecchio sistema politico. La mediatizzazione della battaglia politica (pag 144) Il grande assillo degli organizzatori della televisione elettorale era sempre stato quello di dover rappresentare tutti i partiti e i partitini dello schieramento; adesso invece le questioni referendarie si presentavano in una forma assai più facilmente sceneggiabile da parte della televisione. Per dirla con il titolo di una trasmissione che sarà dedicata alla elezione del 1994, O di qua o di là. La scomparsa o la crisi dei partiti tradizionali aveva significato anche il collasso dei loro apparati e dei tradizionali collateralismi, e questo aveva definitivamente affossato una comunicazione politica nella forma di un two stel flow of communication (un flusso comunicativo a due fasi, secondo una vecchia teoria elaborata osservando il comportamento dei candidati alla presidenza USA e la loro tendenza a comunicare con i leader d’opinione lasciando a loro il compito di convincere gli elettori, adattando il messaggio ai vari pubblici) per linee prevalentemente interne: il partito si rivolge suoi attivisti, ai suoi quadri e notabili attraverso una comunicazione competente, che passa dalla stampa di partito o da circolari e opuscoli. Saranno poi questi quadri intermedi a personalizzare e divulgare il messaggio politico arrivando alla massa degli elettori. Questo tipo di propaganda era già stato messo in crisi dal collasso delle linee fiduciarie di comunicazione, dovuto in gran parte alla televisione, ma adesso venivano a mancare anche i suoi presupposti materiali, il personale politico e i finanziamenti per poterla svolgere. In quella particolare congiuntura la televisione, mettendo in ombra vecchie appartenenze partitiche e tradizionali deferenze, poteva proporsi a pieno titolo come il luogo nel quale venivano presentati al pubblico i volti dei leader e dei principali personaggi dei partiti, fra i quali i cittadini elettori dovevano effettuare le loro preferenze, sempre più mobili, valutando la loro presenza scenica, la capacità nel contraddittorio, l’abilità nello schivare domande imbarazzanti: doti peraltro poco indicativi della loro capacità di risolvere i problemi del Paese. Questa esibizione di capacità, nella forma di un torneo gladiatorio fra leader arbitrato da un conduttore televisivo, diventava la forma primaria con cui essi potevano rivolgersi al grande pubblico. La scena televisiva si autoassegna il compito di proiettare immagini pubbliche che la politica non è più in grado di produrre autonomamente. Diventa una istituzione. Fra le pieghe della cosiddetta tv verità, ma anche come evoluzione dei più tradizionali talk-show generalisti, lo spettacolo politico diventa un genere composito (infotainment) dotato di un proprio seguito e sembra anticipare le movenze del talent show. Il personale politico ormai ansioso di comparire in televisione, di cui riconosce l’influenza sull’elettorato, viene mandato in onda sprovvisto della tradizionale rete di reverenza e di protezione che circolava le sue apparizioni sugli schermi, generalmente prive di un contraddittorio adeguato. In particolare, nelle piazze mediatiche di Michele Santoro, da Samarcanda (1987) a Il rosso e il nero (1992), al politico presente in studio viene contrapposto un luogo, collegato permanentemente con lo studio (una fabbrica occupata, la palestra di una scuola, un raduno all’aperto), in cui si affollano i portatori di un determinato problema: operai licenziati, terremotati, studenti in lotta. Questa piazza mediatica, sebbene fosse un’arena del tutto virtuale nelle mani di Telecom Italia (50%), Gruppo Cecchi Gori (18%) e SDS (12%)). SDS è una società per azione controllata da alcuni club calcistici- Parma, Roma e Lazio- le cui partite costruiranno l’offerta pay per view di Stream. SDS è una buona testimonianza della finanziarizzazione del calcio italiano, all’indomani della cosiddetta legge Veltroni che permette alla società calcistiche di perseguire a pieno quel fine di lucro che solo un velo de ipocrisia nascondeva dietro l’ideale agonistico. Il lucro che una squadra di calcio consente è prevalentemente politico, almeno per il momento. I club calcistici, ormai società per azioni (AS Roma, ad esempio, non significa più Associazione Sportiva, ma Azienda Sportiva Roma) lasciano da parte tradizionali rivalità di bandiera per partecipare insieme alla gestione dei diritti delle partite, sempre divisi in parti uguale tra le due squadre in campo: un’esperienza quadi interamente derivata dal modello inglese. I ricavi da abbonamenti e da biglietti dallo stadio diventano una parte sempre meno rilevante degli incontri, rispetto al merchandising degli oggetti legati alla squadra, alla pubblicità sulle maglie e negli stadi, e soprattutto alla vendita dei diritti di ripresa della partita, in chiaro e in modalità par tv e pay per view. l’acquisto di un calciatore famoso diventa così assimilabile all’ingaggio di una star dello spettacolo. La televisione digitale impone buona parte delle regole, riuscendo anche in un’impresa che sembrava impossibile, cambiare l’orario delle partite e introdurre l’anticipo di una partita e il posticipo di un’altra, per poter trasmettere sette partite con cinque canali. L’ascesa di Rupert Mudorch (pag 185) Gli abbonamenti a Stream crescono sensibilmente dalla seconda metà del 1999 (più del 200% al trimestre) confermando le previsioni di Murdoch, che conosce dall’interno il caso inglese, sull’influenza dello sport: il 75% dei nuovi clienti Stream si abbona per il calcio. Di questi, il 65% compra le partite di una squadra (30% Roma, Lazio 25%, Fiorentina 20%, Parma 10%, 5% ciascuna Udinese, Lecce, Venezia). Ma i numeri sono ancora insufficienti. Nell’aprile 2000 la partecipazione di Mudorch salirà al 50% con un’operazione dichiarata di circa 380 miliardi sono infatti acquisite le quote di SDS e del Gruppo Cecchi Gori. La crescita degli abbonamenti è troppo lenta per entrambe le piattaforme, anche per l’imperversare di una pirateria (forse il 3-5% del mercato, probabilmente di più in talune regioni) che non si ferma davanti alle più sofisticate smart card e al continuo cambiamento degli algoritmi di codifica dei programmi. Secondo alcuni maligni essa anzi rappresenta- per la rapidità con cui vengono conosciuti e messi in rete, clandestinamente, i nuovi algoritmi- una spregiudicata strategia di marketing per ampliare la platea che si avvicina alla tv digitale. Alla fine del 1999, comunque gli abbonamenti legali alle due piattaforme erano stimati da Merril Lynch (non esiste alcuna certificazione super partes del tipo Auditel) in due milioni circa, in una proporzione di 70/30% a favore di Tele+. Il cavo non raggiunge che il 12% delle abitazioni interessate alla televisione a pagamento, che quindi si serve massicciamente del satellite. Presto questi dati cambieranno per l’intervento di una nuova generazione di operatori. In questi anni la progressione degli abbonamenti, sostenuta con fortissimi investimenti pubblicitari, non basta però a garantire la redditività delle due società. Di fronte alla insufficiente remunerazione dell’investimento, riprendono i tentativi di fusione tra due piattaforme. Nel luglio 2001 Murdoch acquisisce il 50% di Stream da Telecom Italia. Tuttavia, il prezzo, 220 miliardi, sarà pagato soltanto dopo che la Commissione europea e l’Autorità antitrust avranno approvato la fusione tra stream e tele+. Se invece la fusione sarà negata, Murdoch pagherà soltanto 100 miliardi. Chi sarà però il proprietario dell’unica pay tv? Nell’estate 2001 iniziano trattative fra le due piattaforme, che sembrano concludersi (verso la fine dell’anno) con l’acquisto di Stream da parte di Tele+, che però viene osteggiato dall’Autorità antitrust. Probabilmente le considerazioni dell’autorità potrebbero essere aggirate, se Vivendi, proprietaria di Canal+ e quindi di Tele+, non si rendesse conto di avere fatto, finanziariamente parlando, un passo più lungo della gamba. L’operazione sarà allora capovolta: News Corporation acquisisce a sua volta l’intera Tele+. L’acquirente viene comprato dal venditore: un caso abbastanza singolare. Tuttavia, la tv a pagamento in Italia non era ancora riuscita ad incontrarsi con lo spirito pubblico, se no per i grandi eventi di calcio e Formula 1 di automobilismo. La classe politica e l’Agcom compirono consistentemente sforzi per giungere a un unico decoder, accogliendo l’indirizzo europeo del must carry (l’obbligo per ciascun operatore di trasportare anche i segnali dei concorrenti) con le due piattaforme in posizione di freno, per la diversa tecnologia dei due decoder. Ci sono volute due delibere dell’Agcom e un decreto legislativo per ottenere nel giugno 2001 il decoder unico. Rupert Murdoch avrebbe assunto negli anni duemila la guida dell’internazionalizzazione del sistema televisivo italiano. Per intensità e capovolgimento dei rapporti di forma ciò ricorda l’affermazione televisiva di Silvio Berlusconi negli anni ottanta del novecento.
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