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Vita di Alfieri, epoca quarta, riassunto, Dispense di Letteratura Italiana

Riassunto dell’epoca quarta dell’autobiografia di Alfieri

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 18/12/2023

giulia-carnevali-6
giulia-carnevali-6 🇮🇹

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vita di Alfieri, epoca quarta, riassunto e più Dispense in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! EPOCA QUARTA: VIRILITA’ , TRENTA E PIU’ ANNI DI STUDI, TRADUZIONI E COMPOSIZIONI CAPITOLO I Ideate e stese in prosa francese le due prime tragedie, il Filippo ed il Polinice. In età di quasi 27, Entrando nel duro impegno di farmi autore tragico, per sostenere una siffatta temerarietà ecco quali erano i miei capitali . Un animo ostinatissimo e risoluto, un cuore ridondante di affetti di ogni specie, ed una profondissima rabbia contro ogni qualsivoglia tirannide. Aggiungeva sì una debolissima ricordanza delle varie tragedie francesi viste in teatro molti anni indietro, lette mai nessuna si aggiungeva un’ignoranza di regole dell’arte tragica. Il tutto poi convogliava ne nell’indurita scorsa di una presunzione incredibile virgola e di un tale impeto di carattere. Capitali , più adatti per un cattivo e volgare principe virgola che un autore luminoso. Una voce mi si faceva udire nel cuore ammonendomi, ti conviene necessariamente retrocedere studiando da capo la grammatica virgola e tutto quel che ci vuole prescrivere correttamente e con arte. Mi accinsi ad affrontare codesti ostacoli. La recita della Cleopatra mi aveva aperto gli occhi sul poco merito intrinseco di quel tema, non tragedia bile, nonché da un inesperto autore per primo suo saggio. Feci con me stesso un solenne giuramento : non risparmierei oramai né fatica né noia nessuna per mettermi in grado di sapere la mia lingua quanto uomo d’Italia. Mi trovava convinto di aver fatto male ogni cosa sino a quel punto, e poter col tempo far meglio. Questa prova erano le due tragedie , il Filippo ed il Polinice, che già tra Marzo maggio del 75, cioè tre mesi prima la recita della Cleopatra stesi in applauso francese, e lette ad alcuni pochi. Per somma disgrazia si trovavano esser nate in prosa francese, rimane a loro lunga e difficile la via di calcarsi in poesia italiana. In questa meschina lingua io le aveva stese, perche in quel gergo da me per quei 5 anni di viaggio solo parlato mi veniva a spiegare un po di più. A forza presi pazienza a rifare virgola e intanto ingoiavo le più insulse e antitragiche letture dei nostri testi di lingua per invasarmi di modi toscani. L’aver quelle due tragedie nello scrigno mi faceva prestare più pazientemente l’orecchio agli avvisi pedagogici. Dato che non mi avvilirono le critiche fatte sulle tragedie della mia prima edizione di Siena del 1783, ne mi persuasero quegli ingiusti applausi che la platea di Torino mi volle tributare . da quel luglio non volli più proferire parola di codesta lingua. Misi in rima un capitolo allusivo a diversi gradi e ufficiali di quella buffonesca società, nel primo sonetto rubai un verso del Petrarca dai suoi capitoli , con tanta disattenzione senza osservare la regola della terzina, così lo proseguì sbagliando. Essendo nato tale dubbio aprì Dante e conobbi l’errore, lo corressi e lasciai 12 terzine come esse stavano e lo cantai da un banchetto senza che qualcuno lo capisse. Verso l’agosto del 75 me ne andai tra i Monti del Piemonte per due mesi, a Cezannes dove Annibale varcasse le Alpi, ma tra quei Monti tornò la maledetta lingua francese, mi condusse li un abate che mi aveva accompagnato a Firenze , nativo di quei luoghi, Aillaud, di molta cultura della letteratura Latina. Egli fece il possibile per ispirarmi l’amore delle lettere, le Mille et un Nuit, mi sottoscrissi di leggere ma per solo 10 minuti, questa era la mia disposizione a diventar tragico quando stava al primo appartamento. Subito mi accinsi a tradurre oh ridurre in prosa italiana quel Filippo e quel Polinice. Ma per quanto mi ci arrovellassi, quelle due tragedie mi rimanevano due cose anfibie tra francese ed italiano. In questa angoscia di dover fare versi italiani di pensieri francesi pensai di rifare la terza Cleopatra, lessi alcune scene di essa in francese al mio censore tragico il Conte Agostino tana, poi trasmutate in versacci poco italiani, e mi disse chiaramente che eran cosa mediocre. Professerò eternamente eterna riconoscenza per il Paciaudi e per il tana, per la verità che mi dissero. Tanta era in me la fiducia che il mio destino letterario è stato interamente a loro arbitrio. Se io ne sono uscito poeta, debbo intitolarmi per grazia di Dio e del Paciaudi e del tana. Fatica indicibile ingratissima da ributtare chiunque avesse avuto una fiamma minore della mia. Tradotte quindi in mala prosa le due tragedie mi posi all’impresa di leggere e studiare i nostri poeti primari: prima Dante riuscirmi purtroppo facile, cominciai da Tasso , poco a poco andai a formare l’occhio e la mente a quel genere di lettura e vi impiegai forse un anno. Le difficoltà di Dante, poco mi curava di intenderle, nelle letture seguenti di quei quattro luminari io li intendeva meglio nelle letture susseguenti. Il Petrarca più difficile che Dante , mi piacque meno. Mi fu consigliato la traduzione di Stazio del Bentivoglio, fiacca me ne parve la struttura. Poi l’Ossian del Cesarotti, i versi sciolti che davvero mi piacquero. Andava chiedendo a me stesso perché mai la nostra divina lingua in bocca di Dante dovrà ella farsi così sbiadita nel dialogo tragico. Pachaudi mi raccomandava di non trascurare nelle mie letture la prosa , egli mi portò il galateo di Giovanni della casa, lo intesi quanto ai modi che certo erano ben toscani, Scagliai quel libro alla finestra e gridai quasi maniaco che per scrivere tragedie all’età di 27 anni mi conveniva ingoiare di nuovo codeste baie fanciullesche e pedanterie. CAPITOLO II Inizio anno 76 studi italiani, poco intendere il latino e saltare le citazioni nei libri. Trovando ogni lettura in francese, privo di aiuto x la lettura teatrale. Seconda fatica  per leggere le tragedie di Seneca (9 trag, su mito greco), e leggere traduzioni latine dei tragici greci, meno tediose di quelle italiane: presi un pedagogo, con Fedro in mano, vide che non lo capivo, mi incoraggiò allora nell’Orazio, dal principio di Gennaio al Marzo tradussi tutte le Odi, mi costò grande fatica, ma fruttò molto bene, mi rimise in grammatica senza farmi uscire di poesia senza tralasciare lo studio dei poeti italiani ( Poliziano, Della Casa, Petrarca e Dante), in 5 anni li lessi e postillai almeno 5 volte. Nel 1^ Filippo, vi era solo 1400 versi, nei due primi tentativi disperò il suo autore con più di 2000 versi dove diceva meno cose che nei 1400.il linguaggio fiacco e lo stile. Per l’Italiano risolse andando in Toscana, in Aprile 1776, per sei mesi, ma non sarebbero bastati, passando per Parma e Piacenza, con solo 3 cavalli e due uomini. A Parma conobbi il Bodoni, stampatore, prima stamperia dove misi i piedi nonostante fossi stato a Birmigham e Madrid, le più insigni d’Europa dopo il Bodoni. Ogni giorno io andavo vedendo molte cose la più importante era che io andava ben conoscendo e pensando le mie facoltà letterarie. Io da anni addietro aveva impreso a decifrare la mia morale entità, ancora conservo una specie di diario con pensieri e cagioni intime che mi facevano operare e parlare. Lo cominciai in francese, poi in italiano, me ne stufai trovandolo una perdita di tempo. A questo studio di me stesso io sarò tenuto di non avere tentato mai nessun genere di composizione al quale non mi sentissi spinto. A Pisa con OB celebri professori, come Giovanni Lampredi e Lorenzo Pignotti, La più disastrosa fatica che provai era di chieder loro pareri nascondendo la mia ignoranza. Non che potessi o volessi spacciarmi per addotto, , ma ero al buio di tante cose. Nelle sei 7 settimane a Pisa ideali e stesi in prosa Toscana l’Antigone, verseggiai il Polinice, meglio del Filippo. Mi parve di poter leggere il Polinice ad alcuni dell’università , mostratisi soddisfatti della tragedia Curarono qualche espressione, ma in totale ne riusciva ancora languida e lunga a giudizio mio, a giudizio dei barbassori riusciva a scorretta qualche volta , ma fluida e suonante. Io restai ben fermo di voler prima di tutto a me stesso. Molti mi lodavano per lo stile il Metastasio, ma nessun dotto era dotto in tragedie. A Pisa traduzione “Poetica” d’Orazio, per studiarmi quei suoi veritieri precetti. Mi avviai alle tragedie di Seneca, il contrario di quelle d’Orazio. In tutto ciò era evidente la differenza tra il verso giambo e il verso epico (esametro con dattili e spondei), E noi italiani non avendo altro verso che l’endecasillabo per ogni componimento eroico occorreva creare un rompere variato di suono di brevità e forza. I giambi di Senigallia mi convinsero di questa varietà, È provvisto di sentimento ed udito, ma ad esempio il Virgilio vuole rapire e dilettare il lettore, Seneca vuole stupire e atterrire l’uditore. Convinto della necessita di totale differenza da tenersi nei due stili, tragico ed epico, più difficile per noi italiani è creare nei limiti dello stesso metro tutto ciò, ascoltando poco i saccenti di Pisa sull’arte drammatica e sullo stile. Quasi un anno dopo la recita della Cleopatra, possessore di altre tre tragedie mi tocca confessare di quali fonti breve si tratte. Il Filippo , nato francese nasce dopo aver letto anni prima il romanzo di Don Carlos, dell’abate di San Reale Il Polinice anch’egli francese, nasce dai fratelli nemici delle Racine. L’antigone, di origine esotica leggendo il dodicesimo libro di Stazio nella traduzione del Bentivoglio, in esso ho inserito tratti presi dalle Pacine ed altri presi dai 7 Prodi di Eschilo nella traduzione francese del padre Brumois. Appena stesa l’Antigone in prosa, la lettura di Seneca mi infiammò di ideare altre due tragedie gemelle, L’Agamennone e l’Oreste. A fine Giugno da Pisa andai a Firenze. Iniziai a pensare esclusivamente in quella doviziosa lingua, lì verseggiai il Filippo da capo a fondo, ma i progressi sembravano lenti. Ad agosto alcuni letterati udirono a caso l’aneddoto storico di Don Garcia ucciso dal proprio padre Cosimo I. Mi procurai il manoscritto di esso estratto dagli archivi di Firenze e ne idei la tragedia, ma non avendo un censore come il Paciaudi ebbi lo stesso senno di non dar copia a chicche fosse, il mal esito delle rime non mi scoraggiava. Quell’estate mi non dai anche diversi del Petrarca, Dante, Tasso ei primi tre canti dell’Ariosto CAPITOLO III Ottobre torna a Torino, tutti i cavalli lasciati lì lo aspettavano. Dopo Orazio lessi e studiai altri autori come Sallustio. La brevità e l’eleganza di quello storico, talmente che lo tradussi . Sia nella lingua Latina che nella lingua italiana. Ritornato dal Portogallo l’abate Tommaso di Caluso, ingolfato nella letteratura e ostinato di farmi auto tragico mi consigliò e soccorse di tutti i suoi lumi con benignità. Così fece pure l’erudito Conte di San Raffaele. A fine del 1776 ebbi una consolazione, Una mattina andato dal tana gli portai un sonetto, lo dava dopo le tante umiliazioni che io provava nel leggergli le mie sconce rime che egli udiva. Era il sonetto costretto a ricadere nel francese, ma spuntai che l’amata imparasse perfettamente l’italiano, riuscì più che altra mai forestiera vi si accingesse. CAPITOLO VII  studi in Firenze Aprile 1778 Versejoy la Virginia e l’Agamennone, EB una breve malattia infiammatoria che mi portò l’indebolimento di salute. L’agitazione lo studio e la passione di cuore mi fecero ammalare, lo studio e l’amore andavano crescendo ma mi tolsero la robustezza, mi ripresi in estate, la mia stagione favorita e lavorai. Dal maggio diedi principio ad un poemetto in ottava rima sull’uccisione delle duca Alessandro da lorenzino de medici. Lo lavoravo a pezzi senza nessuna abbozzo. Scrissi anche rime d’amore per lodare la mia donna, tutte le rime che seguono sono tutte per lei, mai d’altra donna canterò. Torno alle occupazioni delle 78, a luglio stesi la tragedia Dei Pazzi; immediatamente il Don Garcia. Dopo ideai i tre libri “Del Principe Delle Lettere”. Ad Agosto ideai Maria Stuarda(suggerita dall’amata), a Settembre verseggiai l’Oreste con cui terminai il travagliato anno. 1779  Giorni di calma angustiato del vedere la mia donna angustiata da dispiaceri domestici causati dal marito. Io poteva vederla solo la sera, talvolta a pranzo ma sempre con lo sposo. In 9 anni che egli vivevano coniugi mai lui non è uscito di casa senza lei. Io passava il giorno studiando, la sera mi sollevava la sua visita, ma amareggiato del vederla afflitta. Tutto 79 verseggiai la Congiura Dei Pazzi; ideale la Rosmunda; l’Ottavia e il Timoleone; stesi la osmunda e Maria Stuarda; verseggiai il don Garcia terminando il primo canto del poema e inoltrai non poco il secondo. Il Gori di Siena era venuto a vedermi a Firenze, e l’abate di Caluso a metà dell’anno del 79 venne a Firenze per godersi quella bellissima lingua Toscana e a trovarmi. Egli stette quasi un anno intero a Firenze , ci vedevamo ogni giorno e passavamo insieme molte ore dopo pranzo, io nelle conversazioni con lui imparai tante cose che non avrei fatto in molti anni sui libri; quella di cui gli avrò eterna gratitudine è l’avermi insegnato a gustare la varietà dei versi di Virgilio. Il leggere e studiare i modi del Dante e del Petrarca mi poterono infondere la capacità di rimare sufficientemente con qualche sapore, l’arte del verso sciolto tragico la appresi dal Virgilio, dal Cesarotti e da me medesimo. 1780 verseggiai la Maria Stuarda, stesi l’Oreste e il Timoleone,la prima frutto della lettura di Plutarco, la seconda di Tacito. Riverseggiai il Filippo per la terza volta, egli di origine bastarda, me risentiva. Verseggiai la Rosmunda e parte dell’Ottavia, anche se verso la fine dell’anno la debbi interrompere. CAPITOLO IIX La donna angustiata, crebbero le vessazioni del marito e terminarono in una scena baccanale violenta nella notte di Sant’Andrea, che per non soccombere sotto orribili trattamenti fu costretta a sottrarsi per salvare la salute e la vita. Allora io raggirai i potenti di quel governo per favorire la liberazione di questa vittima di un gioco così barbaro indegno. Mi basti il dire che io salvai la mia donna dalla tirannide di un irragionevole e sempre ubriaco padrone, non ne fu leso il decoro di tutti. Da prima dunque essa entrò in un monastero a Firenze condotta dallo stesso marito dovutala lasciare con somma sorpresa di lui per ordine di chi comandava Firenze. Venne poi dalla suo cognato chiamata Roma dove abitava e qui sì ritiro in un altro monastero. La rottura con suo marito fu manifesta e la separazione universalmente approvata. Io rimasi a Firenze, Senza di lei trovandomi incapace di ogni applicazione. In codesto affare io lavorai per l’utile suo e per il danno mio, nessuna infelicità poteva mai toccarmi maggiormente che quella separazione. Presi poi il compenso di andarmene a Napoli fino all’81, che scelsi perché si passa per Roma. 1781 Aveva collocato 160 000 Fr nei vitalizi in Francia , che mi faceva tenere sicura la sussistenza del Piemonte punto il caro Abate di Caluso era tornato a Torino, io senza nessuno sfogo d’amicizia e privo della mia donna il primo Febbraio mi avviai col cavallo verso Siena per abbracciarvi l’amico Gori e sgombrarmi il cuore con lui. Proseguì poi verso Roma. Giunsi la vidi prigioniera dietro una grata ma per altra cagione non la rividi meno infelice. Eravamo disgiunti e chi poteva sapere per quanto, io mi appagava piangendo che ella si potesse almeno recuperare in salute e pensando di respirare aria libera. Mi trattenni pochi giorni a Roma. Partì poi per Napoli operando il dovere, tale separazione seconda fu più dolorosa della prima in Firenze, la prima lontananza fu di circa 40 giorni punto a Napoli quei bellissimi luoghi non nuovi per me non mi diedero sollievo; i versi e le tragedie andavano male o si stavano; io non campava che di posta spedita. Me ne andava sempre solitario cavalcando le spiagge del Posilipo oppure verso Caserta piangendo. Passai in tal guisa il rimanente Febbraio fino a metà maggio. Terminai di verseggiare l’Ottavia; riverseggiai mezzo Polinice. Mi accinsi al terzo canto del poemetto. Gli affari della mia donna si andavano rischiarando, e verso la fine di Marzo aveva ottenuto la licenza del Papa di uscire dal monastero e di stare tacitamente come divisa dal marito in un appartamento che il cognato le lasciava. Volli tornare a Roma, il contrasto fra l’amore e il dovere Scelsi l’amore e rimasi a Roma. CAPITOLO IX Ripreso dunque il Polinice terminai e riverseggiai. Proseguì da capo l’Antigone e poi la Virginia , successivamente l’Agamenone , l’Oreste , I Pazzi, il Garzia; poi il Timoleone che ancora non era stato posto in versi ed ultimo per la quarta volta il Filippo. Nel dicembre di quell’anno composi d’un fiato le quattro prime odi dell’America Libera. Tanta è la differenza tra il verseggiare in rima liricamente e il fare versi sciolti di dialogo. 1782 Vedendomi molto inoltrate le tragedie sperai di poter dar loro compimento in quell’anno. Fin dalla prima io mi era proposto di non eccedere a 12; nel frattempo a Febbraio 82 mi tornò fra le mani la Merope di Maffei per vedere qualcosa sullo stile. Mi salì un bollore di collera nel vedere la nostra Italia in miseria e cecità teatrale. Mi si mostrò di lampo un’altra tragedia dello stesso nome e fatto, si presentò ella per farsi concepire da me quasi per forza. Verseggiai dunque la mia Merope che non mi diede tregua. Lo stesso dovrò dire riguardo al Saul. Da Marzo di quell’anno mi era dato alla lettura della Bibbia, bastò perché io mi infiammassi del molto poetico che si può attrarre da codesta lettura, idea e distesi il Saul, la quattordicesima delle mie tragedie. In quell’anno mi bolliva talmente la fantasia inventrice che se non l’avessi frenata con il Saul, altre due tragedie bibliche si affacciavano prepotentemente. Nello stendere la merope e il Saul mi faceva ribrezzo l’eccedere il numero fissato. Ma non potei mai fare altro né ritornare sulle prime. Così sono nate queste due , spontanei più che tutte le altre dividerò con esse la gloria se esse l’avranno acquistata e meritata. Nessun amico sto meno fatica e meno tempo di queste due. Fine settembre 82, tutte le tragedie dettate, copiate e corrette e limate. Mi credei il primo uomo del mondo ad aver in dieci mesi verseggiate sette tragedie, inventarne e stenderne altre due. Ottobre memorabile, dopo tante fatiche un riposo delizioso e necessario, un viaggetto a cavallo verso Terni vidi la famosa cascata. Dopo un paio di mesi ripresi ad esame le mie 14 tragedie. Trovandomi a 34 anni, nell’arringo letterario giovane di solo 8 anni di studio sperai di prima che acquisterei per una volta la Palma. Io conoscevo abbastanza gli uomini e il bel mondo per non fidarmi di quelle Lodi virgola che non si negano mai ad un autore che legge . Non potendo l’ascoltatore né comandare né inchiodarsi su una sedia il proprio sedere, queste due parti dell’uomo faranno la giustissima spia al leggente autore dei suoi ascoltanti. Neppure negherò che anche degli ottimi consigli mi vennero suggeriti dopo quelle diverse letture da uomini di mondo. I letterati battevano sulle locuzione e regole dell’arte , gli uomini di mondo invece sull’invenzione, tutti mi riuscivano di molto vantaggio, ne trassi quel che meglio conveniva. Io benissimo mi avvedevo che quell’andar leggendo le tragedie in semi pubblico mi poteva esporre al ridicolo, ma non me ne pento. CAPITOLO X Mi si presentava spontanea l’occasione tra lo stampare e il tacermi; di recitare da un’eletta compagnia di signori. Era una società teatrale di un teatro privato nel palazzo dell’ambasciatore di Spagna , il duca Grimaldi. Tra queste tragedie recitate da loro assistei al Conte di essex di Tommaso corneil, inverso italiano e recitata la parte di Elisabetta della duchessa di zagarolo piuttosto male. Vedendo questa signora bella e dignitosa argomentai che con una buona scuola si sarebbe potuta migliorare. Mi entrò in capo di voler provare con quegli attori una delle mie, voleva convincermi se potesse riuscire quella maniera che io aveva preferita. Scelsi l’Antigone reputandola una delle meno calde e la proposta fu accettata dalla compagnia. In quella compagnia non si trovava alcun altro che si sentisse capace di recitare in tragedia oltre il Duca di Ceri fratello della Duchessa di Zagarolo, fui costretto ad assumermi io la parte di Creonte, dando al duca quella di Amone, e alla di lui consorte quella di Argia, la parte principale dell’Antigone alla maestosa Duchessa. Distribuite le quattro parti si andò in scena; né altro aggiungerò sull’esito di quelle rappresentazioni. 1783 Superbo dal non poco Prospero successo della recita verso l’inizio dell’anno 83 tentai la prova dello stampare. Scabroso, fu tale, imparai le letterarie amicizie ei raggiri, queste cose state a me sempre ignote. Decisa dunque la stampa e visto che a Roma le stitichezze della revisione erano troppe, scrissi all’amico di Siena di volersi egli addossare quella briga. Egli con altri miei conoscenti si prestò di vegliarvi da solo. Per prima volli solo quattro tragedie virgola e di quelle mandai all’amico un pulitissimo manoscritto di carattere e correzione, In quei due mesi che durava la stampa di quelle quattro tragedie io stavo a Roma a disagio e palpitazione dell’animo . una per volta mi pervennero finalmente tutte e quattro a Roma corrette e stampate. La ragazzata di andare attorno per le varie case di Roma regalando rilegate con le mie prime fatiche. Le presentai al Papa Pio VI, dirò di quel macchia io contaminassi in quell’udienza beatissima punto molto stimavo il Papa come Papa, eppure quell’io stesso previa un’ossequia presentazione del mio bel volume procedei al bacio del piede, Sua Santità si compiacque di palparmi la guancia e risposi con cortigianeria alle Lodi che il pontefice mi dava sulla recita dell’Antigone. Gli risposi che molte altre ne erano fatte tra cui il Saul, con soggetto sacro Intitolato a Sua Santità, il Papa se ne scusò che egli non poteva accettare dedica di cose teatrali. Qui confesserò che provai mortificazione per il rifiuto che io m’era andato accettare spontaneamente, l’altra di essermi costretto a stimare nel medesimo minore del Papa, di voler tributare come segno di ossequio una mia opera che io teneva minore in merito. Io cercai con l’adulazione il sovrano di Roma per crearmi un appoggio contro le persecuzioni che già aveva presenti nel cuore. Ho voluto di questa particolarità non raccontarla a nessuno, alla mia donna la raccontai solo tempo dopo. Nel 1783 ad Aprile Si informò a Firenze il consorte della mia donna. Nella convalescenza dirò della condotta di quella signora in Roma, e aggiungerò che i torti e le feroci maniere del marito con essa era una cose verissime EA tutti molto note. Mi spiace che il loro zelo in ciò non fosse né evangelico e né puro dai secondi fini poiché e si diedero dei tristi esempi e facevano l’elogio della mia condotta e la satira della loro propria. Tornato il cognato a Roma intimo alla signora di interrompere la mia assidutà presso lei. Codesto personaggio ne fece fare uno scandaloso schiamazzio per tutta la città parlandone persino il Papa. Corse allora grido che io potessi uscire da Roma. A questo effetto fui dal ministro nostro di Sardegna pregandolo di far partecipe il segretario di Stato, di farmi allontanare per del tempo per far cessare le chiacchiere. A maggio sarei partito, tale idea piacque al ministro, al segretario di Sardegna e al Papa. Mi preparai a una crudele partenza, il 4 maggio 1783, amarissima ricordanza mi allontanai dalla metà di me stesso, guastò anche ogni aspetto dei miei studi. La villa Strozzi, posta alle Terme diocleziane mi aveva prestato un delizioso ricovero. Un soggiorno più gaio e libero e rurale non si poteva mai trovare. Lasciata in tal modo la mia unica donna, i miei libri , la villa e la pace io me ne andava verso Siena. Né ben sapevo dove sarei andato, ma mi riuscì di sollievo il parlare con l’uomo incomparabile. Io credo che senza esso sarei impazzito, seppe scemarmi il dolore col dividerlo meco. Giunto poi in Toscana, l’amico per divagarmi lesse nei foglietti di Firenze e Pisa chiamati giornali, il commento delle predette lettere mandate a Roma. Furono i primi cosiddetti giornali letterari. Dopo tre settimane a Siena, mi risolsi a viaggiare, si avvicinava all’ascensione e andai a Venezia, passai per Firenze. Da Bologna mi deviai a Ravenna nel sepolcro del poeta, e in questo viaggio da Siena a Venezia si dischiuse una vena di rime affettuose . a Venezia sentì della pace tra americani e inglesi, scrissi la 5^ ode dell’America Libera. Partì dopo alla volta di Padova e visitai la casa di Petrarca. Ivi conobbi in persona il cesarotti, andai poi a Bologna passando per Ferrara dove visitai la tomba dell’Ariosto. I 4 poeti grandissimi li ho giornalmente in mano. Da Bologna andai a Milano trovandomi vicino all’amico Abate di Caluso che villeggiava in un castello di masino, andai per una notte sola a dormire a Torino. Erano sei anni che io non dimorava più lì, tornai poi a Milano dove mi trattenni per tutto luglio e vidi l’originale autore del Mattino, precursore della futura satira italiana; Parini con amorevolezza mi avvertii di varie cose, non molto importanti ma che tutte insieme costituivano la parola stile. Sul totale dall’altra parte dell’Appennino le mie tragedie erano molto piaciute più che in Toscana. CAPITOLO XI I primi d’agosto partito da Milano tornai in Toscana per la nuova bellissima via di Modena, sfogando il mio fiale poetico in epigrammi. Mi trattenni alcuni giorni a Firenze e visitai qualche pedante fiorentino mascherato da agnello, per cavarne lumi o risate. Quei barbari mi lasciarono intendere che se io prima di stampare avessi fatto correggere il mio manoscritto da loro avrei scritto bene. Mi informai sulla purezza delle parole e sulla grammatica, ma non mi Se però additare nessuna di queste macchie nel mio stampato. Tornai a Siena, per occuparmi sforzatamente di proseguire sotto i miei occhi la stampa delle tragedie. Mi avviai a stampare in tutto settembre in meno di due mesi uscirono alla luce sei tragedie in due tomi. L’amico Gori per la stampa del primo volume si era assunto in Siena noiose brighe per me, voli anche in quell’occasione aver veduto un sopracciglio censorio e una gravità di revisore. Ma essendo il mio amico troppo oppresso da ogni applicazione non emendai come avrei dovuto e potuto. Sul totale queste sei tragedie stampate seconde riuscirono assai più piane quelle quattro prime. Stimai bene di non aggiungere alle 10 stampate le 4 altre che rimanevano, la congiura dei pazzi e Maria Stuarda. Il dolore d’animo e il troppo lavoro erano due fonti di incomodo. Mentre io stava per finire la stampa ricevei dal Calzabighi di Napoli una lunga lettera piena di citazioni in tutte le lingue, sulle mie quattro tragedie. L’unico fino allora che uscisse da una mente davvero critica e illuminata. Finita la stampa verso il principio di ottobre pubblicai il secondo volume e riservai il terzo a sostenere una nuova guerra. Ciò che mi premeva sopra ogni cosa era lavoro non mi fecero più luce, così me lo trovai tutto steso nella quinta mattina dal 13 alle 17 Marzo, con pochissima Lima venne stampato a Parigi nel 1787. Tutto ciò mi riaccese l’intelletto e una tregua ai miei tanti dolori. Siccome la mente mia più libera e indipendente di me non mi vuole mai obbedire, se io mi fossi proposto prima di leggere il Plinio, di voler fare un panegirico a Traiano non avrebbe voluto raccozzare due idee. Tornatomi fra le mani Sallustio che 10 anni prima tradussi a Torino, lo feci ricopiare col testo accanto e mi posi a correggerlo. Ma neppure questo pacifico lavoro io sentivo il mio animo capace di tranquilla applicazione. Lasciato dunque il Sallustio mi rivolsi a continuare la prosa del principe e delle lettere, ideata anni prima a Firenze. Dall’estate precedente al mio tornare dall’Inghilterra a Siena, pubblicai il 3^volume delle tragedie e lo mandai a molti d’Italia, anche al Cesarotti. Riceverei ad Aprile una sua lettera critica sulle tre tragedie del terzo volume, io brevemente lo ringraziai e pregai di darmi un qualche modello. Egli non si vergognò di parlarmi di alcune sue traduzioni dal francese del Maometto di Voltaire. Questo fatto serviva a dimostrare quanto miserabili siamo noi tutti uomini virgola e noi autori massimamente che sempre abbiamo fra le mani la tavolozza e il pennello ma non mai lo specchio per noi stessi. Il giornalista di Pisa , Angelo Fabroni, dovendo dare un giudizio al mio terzo tomo, stimo più breve il trascrivere quella lettera del Cesarotti con le mie note in risposta. Stetti a Pisa sino ad agosto 1785 fuorché far ricopiare le 10 tragedie stampate. Quando poi venni a ristamparle a Parigi elle mi parvero più che insufficienti. CAPITOLO XVI Nel frattempo era ripartita da Bologna la mia donna, avviatasi verso Parigi ad Aprile, le convenne fissarsi in Francia dove aveva parenti. Rimase sino ad inoltrato Agosto, poi ripartì per l’Alsazia, nella stessa villa dove ci incontrammo l’anno innanzi. L’aver perduto l’amico di Siena e l’essersi oramai la mia donna trapiantata fuori dall’Italia, mi fece risolvere di non dimorarci più neanche io. Cercai di starle il meno lontano che io potessi e di toglierli almeno le Alpi di mezzo. Feci muovere tutta la mia cavalleria che arrivò un mese dopo di me. La mia felicità derivava da questa seconda riunione, ma non durò che due mesi Dovendosi lei restituire a Parigi nell’inverno. A dicembre l’accompagnai fino a Strasburgo e con sommo dolore la lasciai separandomene per la terza volta. Io tornai nella nostra villa, le speranze mi rischiarono l’intelletto che di nuovo mi diede in braccio alle Muse. Appena tornato nel mio ritiro, finì di stendere l’Agide, che dal Dicembre prima iniziai a Pisa, ma poi non lo aveva più potuto proseguire. Nello stesso dicembre stesi interamente il 2^ e 3^ libro Del Principe Delle Lettere, ideai e stesi il Dialogo Della Virtù Sconosciuta per la memoria del Gori; ideai e stesi l’Abele. Postumi al fare versi virgola non abbandonai quel mio poemetto che io non l’avessi interamente terminato col quarto canto. Finito il poema mi accadde che una delle tante e a me grate lettere della mia donna, essa mi accennava di avere assistito in teatro ad una recita del Bruto di Voltaire e che le era piaciuta. Io ne farò dei Bruti, e ne farò due. Di un lampo ideali ad un parto i due bruti, poi li ho eseguiti. Sull’ultimo bruto rinnovai il giuramento ad Apollo più solennemente che l’avessi mai fatto. 5 mesi in villa in continuo bollore di mente , io la mattina scriveva 5 o sei pagine alla mia donna, poi lavorava fino alle due o le tre dopo il mezzogiorno. A maggio tuttavia grazie alla gran dieta ed il riposo mi trovava di nuovo in forze. Alcune circostanze particolari però impedirono alla mia donna di venire in villa, mi turbò per più di tre mesi la mente . appena riavutomi di mente e di corpo virgola e dati all’oblio i dolori di questa lontananza mi rimisi al lavoro con furore. Questa fu l’ultima lontananza. A metà dicembre partì con lei per Parigi dove verseggiai l’Agide, la Sofonisba e la Mirra; stesi i Due Bruti. Scrissi la prima satira nuovo genere già ideato e distribuito i soggetti fin dai 9 anni prima a Firenze. CAPITOLO XVII 1787 Dopo 14 mesi di soggiorno in Alsazia partimmo insieme per Parigi. Essendo incerto se rimanere a lungo lasciai i miei cavalli nella villa. Il caos della città mi rattristarono assai. Quanto all’arte Del verseggiare non essendovi nessun letterato che intende mediocremente la nostra lingua virgola non c’era niente da impararvi. Imparai soltanto l’arte del tacere. Quel primo soggiorno di sei mesi a Parigi mi giovò alla salute, prima di metà giugno si ripartì per in villa. Intanto a Parigi verseggiai il bruto primo , e per un incidente comico mi toccò rimpasticciare tutta la Sofonisba. La volli leggere a un francese conoscente in Torino virgola che più anni prima mi aveva consigliato sul Filippo. Leggendo l’opera ad un giudice competente , mi immedesimava in lui quanto io più potevo, per capire quale fosse il suo parere, ma egli mi ascoltava senza battere palpebra , e da mezzo il secondo atto mi sentì salire una freddezza che crebbe al terzo atto, non finì perché la buttai sul fuoco. L’amico sorpreso si buttò con le mani per estrarlo ma io già con le molle che aveva rapidissimamente impugnate inchiodai la povera Sofonisba. Questo moto frenetico fu fratello di quello di Madrid contro il povero Elia. Vi ricadde due mesi dopo quell’infelice prosa della giustiziata Sofonisba, ritrovandovi qualcosa di buono la verseggiai. La totalità delle mie tragedie mi sembrava matura per una stampa generale , volli cavare questo frutto dal mio soggiorno di Parigi. Prima di decidermi per questo o quello stampatore volli fare una prova dei caratteri. Trovandomi sin dall’anno prima innanzi dettato e corretto il panegirico, lo stampai a questo effetto. Feci di tentar questa prova , avendo cambiato lo stampatore. Mi accordai con Didot Maggiore, uomo intendentissimo e appassionato della sua arte, esperto di lingua italiana, cominciai da maggio di quell’anno 1787 a stampare il primo volume delle tragedie. Partii nel giugno per trattenermi in Alsazia fino all’inverno, la stampa nel frattempo non progredirebbe gran fatto, io mi legai da me stesso a dovermi ritornare l’inverno a Parigi. Lasciai a Didot il manoscritto delle prose che precedono virgola e quello delle tre prime tragedie che io credei ridotte e limate. Molti sproni avevo per farmi ritornare con delizia in Alsazia , ma un’altra ragione vi si aggiunse , l’amico di caluso mi aveva dato speranza che egli verrebbe anche in Alsazia a passare quell’estate con noi. L’ultimo amico rimastomi dopo la morte del Gori egli aveva avuto dalla mia ottima madre un’incombenza molto strana, vista la mia età, fu una proposizione di matrimonio, egli me la fece ridendo e io ridendo la rigettai. Essendo poco curioso non Seppi nemmeno chi potesse essere questa donna, non lo domandai neanche all’amico. Ci sfogammo entrambi il cuore, l’amico ed io quei discorsi delle amatissime lettere. Che se si vuole per gli italiani scrivere egregiamente virgola e che si tentino versi in cui sospiri l’arte del Petrarca o di Dante, chi oramai in Italia che veramente legge e intende Dante e Petrarca? Uno ogni 1000. Molti versi italiani rimangono per ora ignorati o scherniti che non versi francesi mai o inglesi. Ma tale felicità con l’amico durò poco, un accidente occorso all’amico disturbò la nostra quiete. Cavalcando egli meco fece una caduta e si slogò la mano, mi assalì due giorni dopo una dissenteria feroce che andò crescendo al decimo quinto giorno con evacuazioni oltrepassando il numero di 80 nelle 24 ore mi ritrovai ridotto in fine, senza febbre. Dopo 15 giorni il male si allentò e retrocedendo verso il trentesimo le evacuazioni si ridussero . Mi rasserenava morire in caso libero e fra le due più amate persone che io avessi. Io avevo comunicato all’amico tutte le mie intenzioni sulla stampa già avviata delle tragedie virgola e le avrebbe continuate egli in mia vece. Piacque al destino che io scampassi e che le mie tragedie ricevessero quel compimento che io ero in grado di dare loro. Ricominciai a ristampare quelle prime tre a fine di soddisfare all’arte , o forse a me solo che pochissimi al certo vorranno. CAPITOLO IIXX Allora stando meglio, l’amico avendo occupazioni a Torino poiché segretario dell’accademia delle scienze , volle fare una scorsa a Strasburgo prima di ripartire per l’Italia. Io ancora infermiccio lo accompagnai e la signora venne con me ad ottobre. Si andò a vedere la famosa tipografia a Kehl dal signore Beaumarchais, coi caratteri di Baskerville, e destinato alle molte opere di Voltaire. Mi invogliò a stampare tutte le altre mie opere, ma vi poteva essere di intoppo le stitichezze censorie francesi. Ottenuta da Beaumarchese di Parigi la permissione di prevalermi a Kehldella di lui stamperia, lasciai a quei suoi Ministri il manoscritto delle mie 5 odi che aveva intitolate l’America libera. Le prove me ne venivano settimanalmente spedite a rivedere a Parigi , io andava sempre mutando e rimutando i bei versi interi, diversi erano i proti di Kehl da quelli di Didot. Si stette poi tutto il novembre e parte del dicembre in villa , nel qual tempo mi andai rimettendo adagio della grande scossa avuta negli intestini, verso già il Bruto Secondo. Arrivati in Parigi dove atteso l’impegno della intrapresa stampa mi fissai a dimora isolata sul baluardo nel sobborgo di San Germano. 1788 Portammo con noi a Parigi tutti i cavalli, così non potei attendere a quella difficile e noiosa briga dello stampare. Arrivato il Febbraio la mia donna riceve notizia della morte del suo marito a Roma dove egli si era ritirato due anni lasciando Firenze. Il dolore non fu finto né esagerato. Certo è che col suo marito, malgrado la disparità di anni avrebbe trovato in lei un’ottima compagna ed un’amica se non un’amante. 1789 Continuata la stampa venendo alla fine del quarto volume io stesi il mio parere su tutte le tragedie , per poi inserirlo infine dell’edizione. In quell’anno mi trovai finito di stampare le odi , il dialogo(La Virtù Sconosciuta), l’Etruria e le rime(Le Mosche e L’Api). Verso agosto il tutto fu terminato in Parigi in sei volumi di tragedie, anche in Kehl le due prose, Del Principe e Delle Lettere e della Tirannide, che vi fu l’ultima cosa che io stampassi, volli poi ristampare il Panegirico. Con gli stessi caratteri del Didot lo feci eseguire e aggiunsi l’ode di Parigi Sbastigliato . CAPITOLO IXX Dall’aprile del 1789, temei che ogni giorno uno di quei tanti tumulti insorgessero dopo la convocazione degli Stati generali in Parigi. Mi affrettava, ma così non facevano quelli della tipografia del Didot, che travestiti in politici e liberi uomini, consumavano le giornate intere a leggere gazzette. Credei di impazzire, fu immensa la mia soddisfazione quando arrivò il giorno in cui finite, e imballate, e spedite, in Italia le mie tanto sudate tragedie. Le cose andavano sempre peggio e scemava ogni giorno la sicurezza con sinistri presagi per l’avvenire. 1790  Io oramai da più di un anno vado tacitamente osservando il progresso di tutti gli effetti di questa dotta nazione, che di tutto può chiacchierare ma nulla può mai condurre a buon esito. Ho intanto ricevuto e voi ricevendo la notizia, di esservi giunta l’edizione delle mie tragedie e pare che trovano smercio e non dispiacciano . ma dato che sono date da persone amiche mie benevole, non me ne lusingo affatto. Quanto poi alle sei diverse opere stampate in kel , non voglio pubblicare per ora altro che le due prime , cioè l’America libera e la virtù sconosciuta; riservando le altre a tempi meno burrascosi . con tutto ciò stampai quelle opere per quell’occasione mi invitò. Sono convinto che chi lascia dei manoscritti non lascia mai dei libri, il libro può non esser fatto né compiuto a dispetto di tutte queste diligenze. Il non avere altro che fare e aver molti tristi presentimenti, il credermi di aver pur fatto qualche cosa in questi 14 anni mi ha determinato di scrivere questa mia vita , alla quale per ora fa appunto in Parigi dove l’ho stesa in età di anni 41. Se io verrò ad eseguire i tre diversi generi in cui fò disegno di provare, a questa quarta epoca della virilità incomincerò da quegli anni miei sterili la quinta epoca , della vecchiaia. Se io in questo frattempo venissi di morire, io, prego un qualche mio benevolo, nelle cui mani venisse a capitar questo scritto di farne l’uso che ne parrà meglio. Ma se poi l’amico qualunque a cui capitasse questo scritto volesse arderlo egli fa anche bene. Soltanto prego che se gli piacesse di farlo pubblico e lo muti pure, ma dei fatti non ne aggiunga nessuno.  Firenze 2 maggio 1803 PARTE SECONDA DELLA QUARTA EPOCA PROEMIETTO Riletto circa 13 anni dopo, Fisso in Firenze tutto quello che avevo scritto a Parigi sulla mia vita sino all’età di anni 41, poco a poco andai ripulendo perché riuscisse chiaro. Ricopiatolo, pensai di descrivere questi 13 anni virgola e siccome gli anni crescono le forze scemano, questa seconda parte sarà più breve della prima e sarà anche l’ultima, entrato in vecchiaia in 55 anni . CAPITOLO XX 1790 Continuando la quarta epoca trovandomi a Parigi angustiato, verso giugno 1790 iniziai per gioco a tradurre squarci dell’Eneide, quelli che più mi rapivano e vedendo che mi riusciva cominciai da capo per mantenere l’uso del verso sciolto. Tediandomi per variare pigliai a tradurre Terenzio. Egli un puro modello per crearmi un verso comico e per scrivere commedie di mio. Alternando Eneide e Terenzio nell’anno 90 virgola e fino all’aprile del 91 che partii per Parigi, ebbi tradotto dell’Eneide i primi quattro libri ; e di Terenzio, l’Andria, l’Eunuco e l’Eautontimoromeno. Volli pero distruggermi la memoria, inondandomi di squarci d’Orazio, Virgilio, di nuovo di Dante, Petrarca, Tasso e Ariosto. Queste occupazioni mi sterilirono il cervello, e mi tolsero di non far più nulla di mio. In quell’ultimo anno che io stetti a Parigi, e nei due e più seguenti altrove, nulla più scrissi fuorchè epigrammi e sonetti. Tentai di scrivere un Conte Ugolino, dramma misto, dopo averlo ideato lo lasciai. L’Abele era finito, ma non limato. Ad ottobre, con la mia donna feci un viaggetto di 15 giorni in Normandia, che mi sollevò. In quei tre anni di stampa e di continui guai mi prosciugai corpo e intelletto. Ad Aprile in Francia iniziarono ad imbrogliarsi le cose, niente più pace e sicurezza, la mia donna voleva vedere l’Inghilterra, ci determinammo di andarvi. CAPITOLO XXI 1791  Partimmo a fine Aprile del 91 con lo starvie poco tempo. Arrivammo in pochi giorni, il paese piacque molto alla mia donna, io ho invecchiato dalle due prime volte che lo ammirai, lo ammirai ancora quanto agli effetti morali del governo , me ne spiacque però nel terzo viaggio del clima e il modo corrotto di vivere . a giugno di quell’anno successe la famosa fuga del re di Francia , che è ripreso a Varanes fu condotto prigioniera a Parigi . erano in pericolo gli affari di Francia , noi impicciati per la parte pecuniaria avendo le nostre entrate in Francia, fummo costretti ad obbedire e ritornare. Ad agosto prima di lasciare l’Inghilterra si fece un giro a Bristol Oxford e tornati a Londra ci imbarcammo per Douvres. Qui mi accade un accidente da romanzo , nel mio terzo viaggio in Inghilterra nell’83 e 84 non aveva più saputo di quella famosa signora, che nel mio secondo viaggio mi aveva fatto pericolare . sapevo che ella non abitava più a Londra sapevo poi che il marito era morto. In questo quarto viaggio a Londra non le sentì far parola, imbarcandomi a Douvres, alzati gli occhi alla spiaggia la prima che i miei occhi incontrano fu quella signora. Ancora bellissima e poco mutata da come la lasciai nel 1771, ella mi schiuse un sorriso guardandomi e mi certificò fosse lei. Non le dissi parola entrai in nave e non uscì più. La mia donna mi disse che dei signori che il ritratto e visti da mia sorella quei due scarabocchi feci chiamare l’amico Caluso per interpretarli . l’abate conobbe che io aveva imparato a formare i caratteri. Subito mi scrisse perché non gliene avessi mai parlato del mio studio. Replicai la lettera in lingua greca dicendogli che da un anno e mezzo circa mi ero posto alla grammatica e accompagnai l’epistola greca con quattro squarci delle mie quattro traduzioni. Ricevei molta lode, mi posi sia all’italiano che al latino, di imparare delle centinaia diversi di più autori a memoria. Però dall’amico una lettera diversa, la Lombardia invasa dai francesi, il Piemonte vacillava, una tregua fatta dall’imperatore a campo formio col dittatore francese; il Papa traballava. L’ambasciatore di Francia in Torino , Gingiuenè né, della classe dei letterati parigini, da costui ricevei una lettera. Avendo egli ordine dai suoi di asservire alla libertà francese il Piemonte e cercando di tastare me per vedere se mi potevano ancora disonorare come mi avevano già impoverito. Ma i beni stanno a disposizione della tirannide, e l’onore sta a ciascuno individuo che ne sia possessore. Dopo la mia seconda replica non sentii più parlarne, ma credo che costui si servisse della notizia che l’abate gli diede da parte mia sui miei libri non pubblicati. La nota dei miei libri che egli diceva di volermi far restituire, e Io credo che già tutti se li fosse appropriati , farebbe ridere. Vi erano circa 100 volumi di tutti scarti delle più opera italiane, era la mia raccolta lasciata a Parigi sei anni prima, 1600 volumi almeno. CAPITOLO XVII 1799  Cresceva il pericolo della Toscana stante la leale amicizia che le professavano i francesi . io dunque preparai tutte le cose mie ad ogni qualunque accidente fosse successo. Sin dall’anno prima posi fine per tedio al Misogallo. Per salvare quest’opera per me cara ed importante ne feci fare 10 copie, e provvisto in diversi luoghi che queste non si potessero né annullare e né smarrire. Volli aspettarmi da loro ogni violenza, e insolenza, prepararmi bene al solo modo che vi sarebbe di non riceverle. La ragione che mi indusse a scrivere la mia vita, perché altri non la scrivessero peggio di me, mi indussi a farmi la mia lapide sepolcrale, e così ha la mia donna le apporrò qui nota perché desidero questa e non un’altra. Volli provare ai lavori , copiando e separando il finto dal vero, ponendo il dovuto termine a quell’età. Volli compiere in età di 50 anni, frenare e chiudere per sempre la fastidiosa copia delle rime, ridotte a un altro tometto in sonetti 70 , un capitolo e 39 epigrammi da aggiungersi alla prima parte già stampate a Kehl, sigillai e restituire con una lode di Pindaro, che intitolai Teleutodia. Con quella chiusi bottega per sempre. Il Sallustio mi pareva poter stare, lo lasciai, Terenzio no, perché una sola volta lo avevo fatto ne ricopiato punto le quattro traduzioni del greco le condannai al fuoco, intrapresi a ricopiare sia il testo che la traduzione di tutto l’Alceste. Feci copiare l’Abele e limare. Vi si era raggiunto alle opere di mio una piccola prosa chiamata ammonimento alle potenze italiane, questa la lasciai, ispirata alle politiche più sciocche che vidi ad operare. Così disposto e appurato del mio secondo patrimonio poetico, fin dai primi del 99 mi distribuì un modo sistematico di studiare regolarmente ogni settimana. Il lunedì e il martedì destinai le prime tre ore mattine alla lettura e allo studio della sacra scrittura. Il mercoledì e il giovedì ad Omero, il venerdì il sabato e la domenica li consacrai a Pindaro. Il metodo mi parve utile, la Bibbia la leggeva prima in greco virgola in versione dei 70 poi la affrontava col testo alessandrino tre capitoli alla settimana. Quanto poi a Omero , leggevo subito nel greco solo ad alta voce, traducendo in latino letteralmente, poi nel mio testo greco solo , se qualche cosa era sfuggita io a margine con altre parole greche mi valeva molto dell’etimologico. Tutto questo non mi bastava e intrapresi in tre giorni che io destinai di prendere un altro Pindaro greco, di edizione antica, quella del Calliergi di Roma, praticai poi su Eschilo e Sofocle pazze ostinazioni sulla memoria. Lo studio mi si fece così caro che dal 96 in poi interrubbi le tre ore di prima sveglia, sistemando in tal guisa il mio vivere, incassati tutti i miei libri e mandati in una villa fuori da Firenze per non perderli una seconda volta, aspettai l’invasione dei francesi a Firenze che ebbe luogo il 25 Marzo del 99 punto io e la mia donna andammo fuori di porta San Gallo. 1800-1803 In ottobre i francesi invasero di nuovo la Toscana ma non si trasferisce, egli non esce di casa se non per fare passeggiate necessarie al suo spirito punto nel frattempo vuole conoscerlo il generale comandante di Firenze , ma lui non si fa mai trovare a casa . a settembre ideò velocemente sei commedie di tre generi diversi: quattro adattabili ad ogni tempo , una fantastica e poetica , una moderna . sostenendo ovviamente sempre di aver aderito al vero. Nel 1801 stende le commedie , ricompra quattro cavalli, gli muore l’unico nipote il Conte di cumana virgola in seguito è spinto a sistemare burocraticamente le cose con sua sorella , nel caso dovesse sopravviverle. Il 1802 sono gli anni del disinganno rispetto alle cose del mondo . verseggia le sei commedie e si ammala e riscontra una serie di infortuni che lo tengono a letto per 15 giorni. Riceve la visita dell’abate di Caluso al quale fa leggere le opere tradotte di Terenzio e Virgilio. Ad ottobre guarisce punto nel 1803 sarà l’aprile e il maggio scrive la seconda parte della sua vita, l’ultimo capitolo della sua virilità virgola e nel 14 maggio 1803. Muore l’otto ottobre 1803 e viene seppellito in Santa Croce.
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