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Vita di Vittorio Alfieri, Appunti di Letteratura Italiana

riassunto completo dell'autobiografia di Vittorio Alfieri

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 07/09/2023

arabellaa__
arabellaa__ 🇮🇹

4.8

(4)

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vita di Vittorio Alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Introduzione Il testo dell’introduzione è preceduto da una citazione di Tacito, tratta dalla vita di Agricola, tale frase appare essere il manifesto delle spinte interiori che hanno spinto l’autore a intraprendere la scrittura di un’autobiografia, riassumibili così: l’uomo che racconta la sua vita ha fiducia nei propri meriti. Tale citazione ci avverte già del valore antropologico affidato all’opera. Opera che vuole essere, come lo stesso autore ci avverte nelle righe successive, uno studio dell’uomo. L’introduzione è scritta secondo uno stile e un tono decisamente più alti e solenni rispetto al resto dell’opera. Nell’introduzione Alfieri informa il lettore riguardo i motivi che lo hanno spinto a scrivere l’opera e riguardo gli obiettivi che perseguirà. La stesura della ‘vita’ è dominata dall’amor proprio, sentimento di cui tutti gli uomini sono dotati (in particolare gli scrittori e soprattutto i poeti). Alfieri afferma di scrivere questa autobiografia per quei pochi estimatori delle sue opere (tale affermazione risulta chiaramente essere guidata dalla falsa modestia) a lui contemporanei e futuri (si evince qui il tema della vita anche dopo la morte conferita dall’immortalità letteraria). Alfieri vuole evitare che qualcun altro scriva questa per lui, non vuole che siano scritte bugie o falsità sulla sua vita. Il requisito fondamentale che Alfieri persegue nella stesura dell’opera è la verità. Lo scrittore si impegnerà con sé stesso e i lettori a dire solo la verità. E, se non avesse il coraggio di dirla, quantomeno non dovrà dire bugie o falsità. Ancora nell’introduzione elenca le cinque epoche in cui vuole suddividere l’opera: puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità e vecchiaia. La vecchiaia non vedrà mai la luce. Ci informa poi di perseguire la brevitas e della sua intenzione di non volersi eccessivamente dilungare, cosa che gli verrà più semplice nella stesura delle prime quattro epoche. Se la vecchiaia lo dovesse spingere a una più lunga stesura degli eventi, chiede al lettore di perdonarlo di punirlo non leggendola. Presterà molta attenzione e molto spazio a quelle particolarità utili allo studio dell’uomo in generale. Lo scopo diretto dell’opera è proprio lo studio dell’uomo in genere e di quale uomo si può meglio parlare se non di sé stessi? E’ proprio su sé stesso che Alfieri incentra l’opera, rassicurando il lettore sul fatto narrerà solo di sé, senza entrare nelle vicende di personaggi secondari. Ancora a questo proposito afferma che non nominerà quasi nessuno, se non nelle cose lodevoli. Puerizia (9 anni di vegetazione) Capitolo 1 Vittorio nasce ad Asti, in Piemonte, il 17 gennaio 1749, da una famiglia nobile. Qui avviene una prima divagazione e riflessione sulla nobiltà: nascere in una classe sociale così agiata ha permesso ad Alfieri di notarne le ridicolezze, i vizi e gli abusi; gli ha inoltre consentito di essere libero e servitore solo del vero. Racconta poi dei genitori. Il padre, Antonio Alfieri, a 55 anni aveva sposato Monica Maillard, molto più giovane di lui ma già vedova e con tre figli. Dal loro matrimonio nacquero Giulia e Vittorio. Vittorio venne mandato ad essere allattato in un paesello vicino, e il padre, ormai sessantenne, andava ogni giorno a trovarlo a piedi. Proprio una di quelle passeggiate gli fu fatale (Vittorio aveva a malapena un anno). La madre, dopo il decesso del marito, si risposò con un membro della famiglia Alfieri: Giacinto Alfieri. Vittorio racconta la felicità della loro unione e i due nuovi figli avuti da tale matrimonio. Il capitolo termina con una digressione sulla condizione della madre nel presente, Vittorio è l’unico figlio rimasto in vita ma non può prendersi cura di lei e se ne rammarica spesso. Capitolo 2 Vittorio ricorda poco della sua prima infanzia, ma tra queste scarse memorie si annida quella di uno zio paterno che gli portava i confetti e indossava stivali con punta quadrata. Memoria che, anni dopo, avendo Alfieri visto gli stessi stivali, tornò vivida alla memoria dell’autore e gli permise di rivivere quelle sensazioni provate nell’infanzia, l’affetto e la dolcezza dei confetti. Altro ricordo di questo periodo è la malattia e il desiderio di morire per smettere di soffrire. Vicino ai sette anni subì una grande e dolorosa separazione, la sorella Giulia venne mandata nel monastero di Asti. Questo è il primo momento in cui Vittorio prova il tipo di dolore derivante dall’amore e giunge ad una riflessione: tutti gli amore dell’uomo, anche se diversi, hanno lo stesso motore. Venne dato in custodia ad un prete affinché potesse essere educato, ma il suo insegnante era alquanto ignorante, così come lo erano i genitori, convinti che un nobile non deve diventare dottore. Capitolo 3 Il giovane Vittorio sperimenta il dolore provocato dalla separazione da Giulia, che ora può andare a trovare sempre più di rado, e si innesta in lui un potente sentimento di solitudine. La sua consolazione, in questo periodo, era andare alla chiesa del Carmine, qui vede dei giovani frati e i loro visi giovani e femminili gli accendono un desiderio nel cuore, gli suscitano un innocente amore. Il suo sentimento malinconico torna ad acuirsi e lo spinge a mangiare l’erba del giardino sperando di trovare della cicuta. A spingerlo al gesto non fu il desiderio di morire, come lui stesso afferma, ma l’istinto naturale misto a dolore. Al gesto disperato, seguì la confessione alla madre e una lunga punizione che altro non fece che fomentare il suo umore malinconico. Capitolo 4 Alfieri si descrive con indole sia taciturna e placida sia loquace e vivace, già nel giovane tragediografo vive un'indole di estremi contrari. In questo capitolo tratterà varie storie della sua infanzia, utili anche a mettere in luce il suo vivo carattere. Racconta le punizioni e quella che più tra tutte lo addolorava: andare in chiesa con la reticella da notte in capo. Solitamente veniva portato nella desolata chiesa del Carmine, vicino casa. Un giorno però venne portato nella chiesa di San Martino, decisamente più frequentata e affollata. Lo scrittore ricorda un dolore e una tensione così forti che lo fecero ammalare. Quantomeno, dopo quella malattia, il castigo della reticella non venne più eseguito. Capitolo 5 Lo zio tutore torna a Torino, questo consentì al giovane di mangiare meglio, di uscire ogni giorno e di riacquisire la salute e svilupparsi nella crescita. Nello stesso periodo Giulia venne trasferita al monastero di Torino a causa di un innamoramento che non piacque allo zio. Vittorio va spesso a far visita alla sorella e ne torna sempre con l'animo sollevato. Per la prima volta andò a teatro con lo zio architetto a vedere “il mercato di malmantile”, ne rimase impressionato e affascinato. Per i giorni successivi fu pervaso da una straordinaria malinconia e un bollore di idee fantastiche che, se solo avesse saputo, lo avrebbero portato a scrivere versi. Grazie al suo buon rendimento scolastico riuscì ad andare a far visita allo zio a Cuneo, e proprio in questa vacanza scrisse i suoi primi versi. Erano stati scritti per una donna, amata sia dallo zio che da Vittorio stesso. Il componimento piacque a molti che di poesia poco ne capivano, perché a Vittorio mancavano le conoscenze poetiche italiane, dispiacque allo zio che stroncò quella vena poetica sul nascere. Vittorio non scriverà più versi fino ai 25 anni. Tornato in accademia studiò fisica ed etica. Capitolo 6 Lo zio tutore venne mandato in Sardegna dopo aver ricevuto il titolo di viceré di Sardegna, evento che rese Alfieri più libero economicamente. Vittorio venne colpito da uno sfogo sulla testa che lo portò a doversi tagliare tutti i capelli e a dover indossare una parrucca. Questo evento lo rese oggetto di scherno. Cominciò a studiare musica, scherma e danza, ma nessuna delle discipline lo emozionò. La musica scritta non gli entrava in testa e usciva dalla lezione con gli occhi che gli traballavano e frastornato. Nella scherma era troppo debole per reggere allo stare in guardia. Del ballo odiava l’insegnante, francese, i suoi moti e i suoi discorsi. Sin da ragazzo si instaurò in lui una certa antipatia nei confronti dei francesi, questo sentimento era nato a seguito di una visita della duchessa di Parma e si era intensificato nel tempo, anche a causa dello studio della storia che vede i francesi protagonisti. Capitolo 7 Lo zio tutore muore a Cagliari, tale lutto non porta particolare sofferenza nel giovane, che nutriva solo un tiepido affetto per lo zio. Vittorio, a 14 anni, divenne padrone di sé, inoltre, gli era anche stato tolto il servitore Andrea. Quest’ultimo si era dato troppo alle donne, al vino, all’ozio e maltrattava il giovane. Alfieri comunque continuò a fargli visita e portargli soldi, guidato dall’abitudine di vederlo e da una certa generosità. In questo periodo cominciò ad andare a cavallo. Vittorio si inorgoglì molto, tanto che confessò di perdere tempo con gli studi di legge e si fece spostare al primo appartamento (occupato da studenti stranieri, con una maggiore libertà). La sua adolescenza si stava sviluppando nella direzione dell’ozio: poco studio, grandi cavalcate, molte dormite… Lesse, in questo periodo, molti romanzi francesi, tra cui la storia ecclesiastica di Fleury, opera che cominciò a fargli sviluppare un atteggiamento critico nei confronti del clero. Vittorio ha acquisito la libertà, sia fisica che morale. Capitolo 8 Intorno ai 15 anni Vittorio trova insopportabile la costante presenza di un cameriere durante i suoi spostamenti e le sue uscite, a fargli pesare ancora di più questa situazione era il fatto che tutti gli altri, nel primo appartamento, potessero uscire da sé. Così anche Vittorio cominciò ad uscire da solo, e continuò a farlo nonostante le punizioni. Il più lungo castigo durò tre mesi, in questo periodo si ridusse come un ragazzo selvatico e l’unica cosa che faceva era giacere con le lacrime agli occhi, senza godersi la compagnia dei pochi amici che lo andavano a trovare. Capitolo 9 Dal castigo ne uscì grazie al matrimonio della sorella Giulia col conte Giacinto di Cumiana. Nello stesso periodo comprò il suo primo cavallo (in breve tempo arrivò ad averne otto) e spese moltissimo, soprattutto per i vestiti. Vestiti e averi che non mostrava di fronte a coloro che non potevano permetterseli, fin da giovane infatti Alfieri vanta una virtù: non mostrarsi superiore a nessuno in conoscenza o averi. Si delinea quindi la figura di un ragazzo dall’indole bollente, oziosa e ineducata, con una tendenza alla giustizia, all’uguaglianza e alla generosità d’animo. Capitolo 10 Durante la villeggiatura a Cumiana, provò per la prima volta le forze dell’amore nei confronti di una donna sposata ad un suo parente. L’amore è malinconico e sfuggente e rievoca gli effetti descritti nei versi di Petrarca. Nell’autunno del 1765 viaggia verso Genova, città da cui resterà estasiato e rapito grazie alla presenza del mare, che mai si saziava di osservare e, se solo avesse saputo, avrebbe composto dei versi bellissimi. Il viaggio a Genova lo spinge a voler viaggiare. Vittorio entra nei reggimenti provinciali, che lasciavano grande libertà di non far niente, che era l’unica cosa che fosse determinato a fare. La smania di viaggiare lo spinge ad intraprendere un viaggio a Roma e a Napoli, viaggio fatto in compagnia di alcuni conoscenti stranieri. L’epoca dell'adolescenza termina con l’inizio del viaggio e con un breve riassunto degli anni di adolescenza: infermità, ozio e ignoranza. Giovinezza (10 anni di viaggi e dissolutezze) Capitolo 1 Vittorio comincia il suo viaggio affiancato da un nuovo servitore: Francesco Elia, egli viene descritto come un uomo di sagacissimo ingegno e come eroe protagonista della commedia di questi suoi viaggi. La prima tappa del suo viaggio è Milano, città di cui non gli piacque niente. A Milano viene in contatto con un manoscritto autografo del Petrarca nella biblioteca ambrosiana, ma anche di questo non gli importò niente. All’epoca provava un certo fastidio per il poeta, dovuto alla non comprensione dei suoi versi letti anni prima, giudicandolo presuntuoso e seccatore. Durante i suoi viaggi in Italia non approfondirà lo studio dell’italiano, ma userà prevalentemente il francese. Inoltre, ogni città sarà da lui visitata come un vandalo, ignorante di ogni bell’arte. Le tappe successive furono Piacenza, Parma, Modena e Bologna, nessuna delle quali gli piacque. Giunse poi a Firenze, prima città che apprezzò. Qui visita i monumenti e le chiese con una certa nausea e senza nessun senso del bello, apprezzò solo la tomba di Michelangelo in Santa Croce. A Firenze studia l’inglese. Continua il suo viaggio in Toscana passando da Lucca, Prato, Pistoia, Pisa e Livorno, città che apprezza perchè somiglia a Torino ed è bagnata dal mare, elemento che non lo saziava mai. Andò poi a Siena, dove provò una forma di incanto nel sentir parlare elegantemente anche il più ignorante degli uomini. Scese a Roma, dove lo colse una grande disillusione. La città non lo colpì quanto aveva immaginato, e solo anni dopo l’avrebbe apprezzata veramente. Capitolo 2 Nel 1767 Vittorio parte alla volta di Napoli. Nel tragitto Francesco Elia si rompe un braccio, e acquista ancora più ammirazione da parte di Alfieri in quanto riesce a risolvere da solo e prontamente anche questa situazione. Durante il soggiorno a Napoli, Alfieri trova piacere nel teatro e nella musica, capaci di solleticargli l’animo di una nuova malinconia. Si accorge in questo periodo che non si saziava mai di partire, ma lo stare lo tediava. A Napoli incontra il re Ferdinando IV, e riflette su quanto i re si somiglino d’aspetto e quanto le loro corti siano l’una la copia dell’altra. C'è poi un’ulteriore riflessione sul carattere personale: l'autore riconosce di essere una persona che non fa il male di proposito, ed anche molto volenterosa, ma di avere sempre un disagio legato al fatto di non avere né un amore né uno scopo nella vita. Vittorio riesce ad ottenere il permesso di viaggiare da solo, insieme ad Elia, senza dover essere seguito dal suo precettore, la cui presenza lo turbava. Partì dunque verso Roma. Capitolo 3 A Roma Alfieri fu colto dalla stessa dissipazione, stessa noia e stessa smania di rimettersi in viaggio, accrebbe inoltre l’insensibilità verso i monumenti che la città ospita. Nella città Alfieri incontra Papa Clemente XIII, nel testo rivendica la lettura dell’opera francese “storia ecclesiastica”, opera che lo ha spinto all’avversione verso il clero. L’idea di un viaggio in Europa venne subito colpita dalla notizia del curatore, egli informa Alfieri che avrà solo 1500 denari per il viaggio. La notizia lo tedia e lo rende avido, tanto da non visitare i luoghi per non dover lasciare la mancia e da non pagare Elia. Il viaggio continuò, passò per Bologna e Ferrara, senza ricordarsi che questa era patria di Ariosto, e giunse a Venezia. La città veneta lo colpì di meraviglia, lo affascinarono il dialetto, la presenza di stranieri, il carnevale, il teatro e le feste. Ma la noia riapparve e gli ultimi giorni li passò chiuso in camera a guardare dalla finestra. Capitolo 4 Già nel primo viaggio a Londra, Vittorio aveva incontrato una donna bellissima, di cui si era infatuato e la cui immagine aveva conservato nel cuore. All’epoca la sua indole selvaggia e inasprita non gli aveva consentito di creare legami, ma adesso, con un’indole addolcita, era pronto a cedere all’amore. La donna di cui sta parlando è Penelope, ma il suo nome non viene fatto esplicitamente. Penelope era una donna sposata, il marito era gelosissimo. I due si incontravano nella casa del principe di Masserano, nelle veglie, al teatro e nelle passeggiate in Hyde Park. Le imprudenze tra i due aumentavano di giorno in giorno, Vittorio andava di nascosto a casa della donna quando il marito era fuori e le faceva visita nella villa poco distante da Londra. La di lei distanza lo tediava e inferociva, non era capace di trovare pace. Accade poi che, durante una cavalcata con il Marchese Caraccioli, Vittorio cadde e si slogò la spalla sinistra, la ferita lo inchiodò a letto e questo non fece che aumentare la sua smania di vedere la donna, infatti la sera successiva andò a far visita alla sua amata. Tornato a Londra, andò al teatro italiano, e nel mezzo dello spettacolo il marito di Penelope gli fece visita, lo rimproverò più volte di esser stato a casa sua e lo sfidò a duello, sincerandosi che potesse comunque combattere con la spalla malandata. Vittorio uscì sconfitto dal duello, decise di andare a casa della cognata di Penelope, dove trovò l’amata, che spiegò che il marito era stato informato del fatto che un uomo entrava in casa sua quando non c’era, aveva dunque deciso di far spiare e controllare quello che accadeva in villa, scoprendo così chi fosse l’amante della moglie. Pochi giorni giunse la richiesta di divorzio da parte del marito, e Vittorio si rifugiò a casa del Marchese Caraccioli, convinto e immaginando di unirsi finalmente e apertamente alla donna. Il capitolo offre anche una riflessione sulla diversità della gelosia italiana e inglese, la gelosia inglese non si manifesta con pugnali, veleni o carcerazioni della moglie, ma in duelli e processi di divorzio con testimoni attendibili Capitolo 11 L’illusione amorosa di Alfieri si dissipa presto. La donna continua ad affermare che i due non si legheranno in matrimonio, era certa che lui non l’avrebbe presa in moglie. Più tardi confessa a Vittorio di aver avuto un altro amante, un servitore del marito, che aveva confessato tutto al padrone e per questo non era stato punito. Vittorio fu preso da grande ira e delusione, che crebbe quando scoprì che la vicenda era stata raccontata sui giornali il giorno prima e che dunque la donna glielo aveva confessato solo dopo. Prima di separarsi definitivamente, Vittorio accompagna la donna in un monastero in Francia, passando da tutte le province inglesi per prolungare il tempo con lei. Tornato a Londra scoprì che il marito aveva indetto la causa di divorzio contro di lui, ma i sentimenti nei confronti dell’uomo erano miti, si era comportato da gentiluomo e molto meglio di quanto lo stesso Vittorio ammette che avrebbe fatto. Capitolo 12 Vittorio lasciò l’Inghilterra e andò in Olanda ad incontrare l’amico d’Acunha. Fece poi un secondo soggiorno a Parigi, dove ebbe la possibilità di incontrare Rousseau (incontro che non avvenne per suo volere) e comprò una raccolta in 36 libri dei poeti italiani, che da quel momento in poi lo accompagnarono da ogni parte. Andò poi in Spagna, visitò Barcellona, Saragozza e Madrid. Lesse in lingua il Don Quijote. E tornò la noia e il funesto pensiero per cui l’andare era il massimo dei piaceri e lo stare il massimo degli sforzi. In quelle solitudini e moti d’animo continuato avrebbe scritto un diluvio di rime, costantemente preso dal pianto e dal riso irrefrenabili, che sono follia se non vengono messi in poesia. Racconta di un evento avvenuto una sera a Madrid a scapito di Elia e in compagnia di un nuovo compagno orologiaio. Una sera, mentre Elia sistemava i capelli al padrone, tirò troppo una ciocca. Questo provocò l’ira di Vittorio che ferì il servitore, ma quest’ultimo si difese e tra i due nacque una rissa, che fortunatamente si placò presto. Alfieri prosegue il suo viaggio per Lisbona, nella città incontrerà un nuovo amico: l’abate di Caluso, egli rese delizioso il suo soggiorno e gli insegnava sempre qualcosa di nuovo. Lo convinse anche del fatto che avrebbe scritto ottimi versi, ma avrebbe dovuto studiare per farlo. Il viaggio di Alfieri volge al ritroso, passa da Siviglia, Cadice e Cordova, a Cadice Alfieri si ammala nuovamente. Si fa visitare in Francia, a Montpellier, ma contrariamente al consiglio dei medici decide poi di proseguire fino a Torino, dove passa tutta l'estate a curarsi. Capitolo 13 Sono finiti i 5 anni di viaggi, durante i quali Vittorio aveva ampliato le proprie idee e rettificato il suo pensare, questo lo spinse alla ferma decisione di voler essere indipendente, e non un servitore del re. A 23 anni Vittorio si trovava ricco, libero, esperto di cose morali e politiche, ricolmo di un bollore impetuoso. Si comprò una casa che dava su Piazza San Carlo, dove svolse una gaudente vita in compagnia degli amici, insieme ai quali stabilì una sorta di società il cui intento primario era di divertirsi. Tra le attività della compagnia la più diffusa è la scrittura di storielle divertenti (in lingua francese), che vengono depositate anonime in una cassetta e poi lette per diletto. Alfieri racconta quindi di aver notato quanto talento possiede nella scrittura delle storie di satira: scrive infatti, l’abbozzo del giudizio universale, un racconto legato a un ipotetico giorno del giudizio, in cui riesce a fare il verso a tutte le principali personalità della città. Il genere della satira, però, non è di suo gradimento, in quanto riconosce che per la sua riuscita è molto più importante lo spirito incattivito del lettore (e il suo desiderio di fasi beffe di ricchi e potenti) rispetto alle capacità dello scrittore. Inoltre Vittorio è ancora molto più interessato alle donne, ai cavalli e alla libertà che al divenire autore. Racconta poi di un terzo amore che lo tormenterà moltissimo. Vittorio si innamora di una donna più grande di lui di circa 10 anni, che non amava, non stimava né trovava bella, ma di cui subiva la forte attrazione che la donna provava per lui. La relazione con tale donna lo porta a trascurare ogni sua passione e lo fa sconfinare in una situazione di infelicità da cui non riesce a fuggire. Capitolo 14 La relazione con questa donna lo portò ad una lunga ed estenuante malattia. Ripresosi dalla malattia, riprese anche le catene dell’amore ma decise di sciogliere definitivamente i lacci militari, aborrendo lui da sempre l’infame mestiere delle armi sotto un’autorità assoluta. Accadde poi che la donna si ammalò, e Vittorio si trovò costretto a starle accanto giorno e notte senza proferire parola. Fu in questo momento che cominciò a buttar giù un breve dialogo in versi e in italiano tra un Photino, una donna di nome Lachesi (come una delle Parche), e Cleopatra. Si tratta di una bozza piuttosto scarsa in qualità e in ortografia, che Alfieri non esita però a mettere come appendice alla sua biografia come testimonianza dell'inizio della sua attività letteraria. Quando la signora guarì, Vittorio celò i fogli sotto il cuscino di una poltrona. Nella primavera decise di partire, credendo che il viaggio e la lontananza l’avrebbero fatto guarire dal morbo amoroso. Dopo un litigio con la donna partì, senza dirle niente, verso Milano, ma giunto solo a Novara si pente e scrive alla sua dama per chiedere scusa. Vittorio afferma che avrebbe voluto liberarsi, ma non sapeva né poteva farlo. Il viaggio durò alcune settimane, tornato a Torino cadde in uno stato di estrema malinconia e avvilimento. Capitolo 15 Vittorio prende la decisione di lasciare la odiosamata signora. Si taglia i capelli rossi, manda la coda a un caro amico, e dato che come nobile non può presentarsi in pubblico con i capelli così tagliati resta in casa per alcuni mesi. Durante il suo isolamento lesse, senza davvero capire cosa stesse leggendo, e si dilettava in cavalcate solitarie. Continuò anche a scrivere, scrisse un sonetto, che invia per giudizio a Padre Paciaudi, il quale critica non tanto l'opera, quanto l'italiano usato dall'autore, ancora poco avvezzo a usare questa lingua (gli scambi e le correzioni si troveranno in appendice). Decise anche di revisionare, correggere e portare a termine la Cleopatra, che dovette ripescare dalla casa della signora. Conclusa la tragedia la mandò a Padre Paciaudi e al Conte Agostino Tana per le correzioni. La tragedia viene rappresentata al teatro Carignano di Torino in due repliche (fu poi Vittorio stesso a decidere di evitarne una nuova trasposizione). Si innesca in lui un bollore e furore di conseguire grande successo a teatro e, con tale volontà, si conclude la giovinezza e si avvia la virilità. [Alla fine di questa terza sezione della biografia sono riportati alcuni stralci di queste opere giovanili, e alcune delle lettere dei suoi primi maestri e correttori; essi però sono state modificate dall'Alfieri per essere inserite nell'opera. Si legge chiaramente come i versi siano acerbi, le rime ancora abbozzate, gli accenti mal distribuiti: è lo stesso autore a criticarsi in alcune note aggiunte poi a margine, non senza falsa modestia probabilmente.] Virilità (30 e più anni di composizione, traduzione e studi vari) Capitolo 1 All’età di 27 anni Alfieri si fa carico del duro impegno di diventare autore tragico. Afferma di possedere un animo risoluto, un cuore ripieno di affetti di ogni specie, una profonda e feroce rabbia verso ogni forma di tirannide; tutti questi moti d’animo lo spingono a immergersi nella nuova impresa di divenire autore. La scelta della tragedia non risulta di facile esito, l’autore ammette che, all’epoca, era ignorante delle regole dell’arte tragica e incapace di (ne ricavò più di seimila, ma dubitò a lungo che Elia li avesse rubati, non ricevendo da lui messaggi per tre settimane), licenziò i suoi servi, si nutrì di cibi semplicissimi (riso, lesso e arrosto), donò i suoi abiti. In quell’anno, 1778, le composizioni furono poche, tutto girò attorno alla burocrazia necessaria per ottenere la liberazione vera. Si avvide poi di un ulteriore problema: Luisa non sapeva l’italiano. Questo lo fece ricadere nell’uso del francese per qualche tempo, fino a che anche lei si decise ad imparare l'italiano. Capitolo 7 Vittorio si ammalò, e la sua salute fu debole e precaria per tutto l’inverno. Solo nell’estate riuscì a tornare a scrivere, in questo periodo scrive rima d’amore volte a lodare la sua donna e a sfogare le sua angosce sulle di lei circostanze domestiche. Scrive anche il Don Garzia e i primi capitoli di Del principe e delle lettere. Ideò la Maria Stuarda e verseggiò l’Oreste. I suoi giorni passavano tranquilli, l’unica stonatura era l’angoscia di Luisa a causa della situazione col marito, i mali di lei erano anche i suoi. Inoltre non riuscivano a vedersi se non in presenza del marito. Anche la mancanza e la lontananza degli amici lo tediava, ma quell’anno scese a Firenza l’abate di Caluso e vi rimase per un anno. Vittorio rifletté a lungo sui suoi versi e sull’essenza del suo stile, ma dovette aspettare e cadere molto per giungere ad uno stile che poteva definire suo. Verseggiò la Maria Stuarda, l’Ottavia, il Timoleone, la Rosmunda e (ancora, per la terza volta) il Filippo. Capitolo 8 Luisa è vittima di un violento episodio messo in atto dal marito la notte di Sant’Andrea, la donna deve quindi trovare un modo per sottrarsi a quella tirannia e salvarsi, lo stesso Alfieri intercede nella di lei salvezza inducendo i potenti di quel governo a favorire la liberazione della donna. Luisa venne mandata in un monastero a Firenze, dopo pochi giorni però si trasferì in un monastero di Roma, sotto il controllo del cognato. Le circostanze della rottura tra la donna e il marito erano così evidenti che la separazione fu universalmente approvata. Alfieri rimase a Firenze, incapace di leggere, lavorare e scrivere, tanto era tediato dalla distanza della donna. Decise di andare a Napoli, passando per Roma, facendo tappa a Siena dall’amico Gori. Giunto a Roma rivide la sua donna, chiusa nel convento, meno tormentata ma ancora infelice. L’amore lo spinse, in quel breve periodo, a infinite pieghevolezze: tentò di persuadere il cognato alla liberazione dell’amata. Partì poi per Napoli, dove passò un periodo tormentatissimo. Niente più letture, né versi, né tragedie, il suo animo era rivolto solo alla donna amata e lontana. Riuscì a lavorare solo nei momenti meno gravosi, terminò di verseggiare l’Ottavia e riverseggiò il Polinice. Verso la fine di marzo, Luisa ottenne la licenza del Papa di uscire dal monastero e di stare lontana dal marito in un appartamento datole dal cognato. Passarono alcuni mesi prima che Vittorio andasse a Roma, dove mise in atto una serie di pieghevolezze pur di vedere la donna. Capitolo 9 Potendo rivedere l’amata ogni sera, Vittorio ricominciò a scrivere e a riverseggiare. Fin dalla stesura della prima tragedia, Alfieri aveva fissato il numero delle tragedie che avrebbe scritto, ovvero 12. Ma in questo periodo non riuscì a tenere a bada le idee e compose due nuove tragedie: il Saul e la Merope. Fino al mese di settembre si dedicò alla limatura e correzione di opere già scritte. Proprio riguardo alle tragedie ci informa del modo in cui capiva se una di queste era considerata lodevole o meno. Non potendo fare affidamento sulle parole, lo faceva sul sedere e sulle espressioni del viso. Capitolo 10 Vittorio ancora non sa se far pubblicare le sue opere o aspettare ancora. Gli si presenta però un’occasione di mezzo: far recitare le sue tragedie da una compagnia di attori. Decise di mandare in scena l’Antigone. Lo spettacolo ebbe successo e, insuperbito da questo, decise di mandare in stampa quattro delle sue opere. Imparò a sue spese cosa fossero le inamicizie e i raggiri letterari, gli asti librai e le chiacchiere giornalistiche. Decise di affidare al Gori l’incarico e la briga di star dietro alle stampe. Ricevute le stampe, andò a regalarle per la città e le presentò anche al Papa. L' avversione dell'autore per il clero è già nota, ma in quel momento Alfieri si riduce addirittura a promettere al Papa di dedicargli la prossima delle sue tragedie (Il Saul), ma il pontefice rifiuta dicendo che non può accettare dediche. Due furono le mortificazioni che seguirono l’evento: il rifiuto e l’essersi stimato inferiore del Papa. Alfieri tentò di adulare il pontefice di modo che fosse suo difensore nella questione legata al divorzio della moglie. Il cognato della donna deve partire per Firenze, causa una malattia del fratello, e, al suo ritorno, intimò a Luisa di smettere di vedere Vittorio con tanta assiduità. Si diffuse voci sui due in tutta la città e Alfieri decide di lasciare Roma, avendo troppo a cuore il decoro, l’onore e la pace della donna. Ogni allontanamento dall’amata è peggiore del precedente. Andò a Siena, dove trovò l’affetto e la comprensione dell’amico Gori. Qui non ebbe altra occupazione se non quella di scrivere lettere in cui sfogava il dolore, l’ira e l’amore. Si spostò poi a Venezia, passando da Firenze, Bologna, Ravenna (dove visitò la tomba di Dante). Il viaggio lo dissipava dai moti interiori e gli ispirò rime affettuose. Da Venezia andò a Padova, dove visitò la casa e la tomba di Petrarca, e conobbe Cesarotti. Riscese la penisola fino a Ferrara, qui visitò la tomba dell’Ariosto. Con questa visita terminò il suo pellegrinaggio poetico. A Milano incontrò l’Abate di Caluso, a Torino riabbracciò la sorella. Nel viaggio ebbe modo di notare che le sue opere piacquero più al nord dell’appennino che in Toscana. Capitolo 11 Vittorio torna in Toscana, si trattiene alcuni giorni a Firenze. Lungo il tragitto scrive alcuni epigrammi, riconoscendo però che si tratta di un genere poco adatto alla lingua italiana.  A Firenze fa giudicare le opere da lui pubblicate agli accademici, ma si accorge che essi non sanno dargli un giudizio concreto pur criticando i suoi scritti. Andò poi a Siena, dove decise di stampare le sei tragedie in due tomi. Incaricato lui stesso di tutto il lavoro di revisione, lavoro da dover fare in un tempo ristretto, si ritrovò malato. Ricevette una lettera dal Calzabigi di Napoli riguardo le prima quattro tragedie pubblicate, egli fu il solo a commentare le sue opere con mente critica, illuminata e giusta. Ma l’unica cosa che premeva a Vittorio era rivedere la sua donna, non trovando mai pace decise di partire alla volta di Francia e Inghilterra. Capitolo 12 Alfieri si sposta ad Avignone e poi a Parigi, città che gli fa lo stesso effetto che gli fece anni prima, tanto mal vista da considerarla ‘fogna’. Andò poi in Inghilterra, qui cominciò a comprare cavalli fino ad arrivare a possederne 14, uno per ogni tragedia. A Londra passò quattro mesi, mesi in cui si dedicò a nient’altro che all’ozio. Tornò in Toscana, fermandosi tre settimane a Torino. Capitolo 13 Nella sosta a Torino incontrò vecchi amici, alcuni dei quali lo accolsero tutt’altro che amichevolmente guidati perlopiù dall’invidia. A Torino Vittorio dovette presentarsi al Re e al Ministro. Il Ministro offre lui di tornare in piemonte e svolgere la carriera politico-diplomatica, offerta che rifiutò restando fedele alle lettere. Nella città dell’adolescenza fu spettatore della messa in scena della Virginia che odiò profondamente. È il pretesto per una dura critica all'Italia e all'assenza di un vero movimento teatrale nazionale: mancano bravi attori, autori competenti e un pubblico attento. Partito da Torino andò ad Asti a far visita alla madre, il saluto tra i due fu segnato dalle lacrime, coscienti entrambi che non si sarebbero più rivisti. Nella strada verso la Toscana gli giunse la notizia che l’amata era stata liberata e si stava dirigendo all’acque di Baden. Dovette trattenersi per non cambiare rotta e andare da lei, continuò quindi la sua strada verso Siena. Capitolo 14 Col tempo Vittorio riprese le occupazioni letterarie, ma il desiderio di vedere l’amata si faceva sempre più forte e decise di partire per la Germania. Salutò l’amico Gori, inconsapevole che quello sarebbe stato l’ultimo saluto, cosa che ancora oggi non riesce a parlare senza prorompere in pianto. A Colmar ritrovò Luisa e si riaprì la vena delle rime. Infranse ancora la promessa di non scrivere altre tragedie, producendo Agide, Sofonisba e Mirra. Le prime due gli erano già venute alla mente altre volte, l’altra gli sovvenne leggendo le Metamorfosi di Ovidio. A Colmar giunse poi la notizia della morte dell’amico a seguito di una malattia durata sei giorni. Alfieri riesce a sopportare il dolore solo perché vi è Luisa accanto a lui. Proemietto (continuazione epoca IV) Alfieri informa il lettore di aver riletto l’opera circa 13 anni dopo averla scritta e di averla copiata e ripulita. Si appresta ora a scrivere questi tredici anni, informandoci che questa seconda parte della IV epoca sarà più breve della prima e anche l’ultima, questo perché essendo entrato in vecchiaia poco e nulla gli resta da dire. Capitolo 20 Alfieri si trova a Parigi angosciato e ozioso, incapace di creare alcunché. Si diletta a tradurre l’Eneide e Terenzio (con l’intenzione di imparare dall’autore il verso comico per poi scrivere commedie di suo). Continua la lettura dei grandi latini (Orazio, Virgilio, Giovenale) e italiani (Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso). Delle tramelogedie (genere a metà tra il melodramma e la tragedia) venne scritta solo l’Abele; il periodo parigino gli ispirò perlopiù epigrammi e sonetti, generi capaci di far sfogare le ire contro gli schiavi padroni e la sua malinconia. Fece un viaggio in Normandia con la sua donna e poi, vista la situazione tumultuosa e affatto sicura della Francia, decisero di andare in Inghilterra. Capitolo 21 In Inghilterra Vittorio passò una vita del tutto opposta alle lettere, all’ingegno e alla salute, e presto si stancò dello stare. Nel Giugno 1791 la situazione dei loro averi in Francia è a rischio e sono costretti a tornare. In quel viaggio in Inghilterra vide Penelope, bellissima e di niente cambiata dopo 20 anni. L’averla vista mosse in lui affetti, tanto che dovette scriverle una lettera per sfogare il cuore. La lettera mostrava una profonda commozione nel vederla vivere una vita errante e poco decorosa del suo stato, per altro, Alfieri stesso si sentiva causa di quel suo vivere errando. La risposta della donna viene messa dall’autore in appendice, per dare un’idea del di lei mutato carattere e perché tutto serve allo studio della specie umana. Ad ottobre Vittorio e Luisa raggiungono Parigi. Capitolo 22 I due si trovano in uno stato di titubanza e paura, pensando che quella consolazione domestica tra libri e fedele compagnia inverosimilmente potesse durare. Alfieri riceve l’ultima lettera dalla madre, vuole rivederlo e non approva la sua presenza in un paese preso dai rivoluzionari. La madre muore il mese dopo aver scritto la lettera. I due capiscono presto che è meglio fuggire al più presto dalla città, ormai governata dai rivoluzionari. Con somma fatica Alfieri riesce a procurarsi dei documenti di uscita dalla città, ma il passaggio della dogana è molto complicato, in quanto alcuni popolani cercano di entrare in possesso delle loro carrozze. Alla fine la fuga riesce, e Alfieri si trasferisce così nuovamente a Firenze. Capitolo 23 A Firenze si riaccese lo spirito letterario dell’autore, sia per la lingua che veniva parlata sia per l’apprezzamento che riscosse dalle opere pubblicate e recitate. Riprese dunque la scrittura e la traduzione, quanto al comporre, afferma si era spento lo spirito e il bollore giovanile e fantasioso, l’unica cosa che riuscì a stendere fu una satira: il Misogallo. Trovò sfogo anche nel recitare, unendosi a compagnie d’attori locali. Capitolo 24 Vittorio si accinge all’impresa dello studio dei classici greci, con somma vergogna e curiosità. Continuò a scrivere rime e satire. Il 1796 fu un anno funesto per l’Italia, bersaglio dei francesi che ormai avevano occupato il Piemonte. Questi eventi non fecero che incrementare il Misogallo. Capitolo 25 Alfieri riprese vecchi appunti di greco lascitigli dall’abate di Caluso e continuò a studiare il greco con grande difficoltà. Le satire crebbero a 17, limò le rime, tradusse Euripide e Sofocle, studiò Lucrezio, Plauto e Terenzio. Capitolo 26 La lettura dell’Alceste di Euripide infiammò l’animo di Vittorio, tanto che sentì il bisogno di stenderne una propria. In questo modo ruppe i 10 anni di silenzio. Alfieri viene poi chiamato dall'ambasciatore francese in Piemonte, questo vorrebbe farlo asservire al regno napoleonico in cambio della restituzione dei suoi libri. Alfieri riporta in allegato gli scambi di lettere con questo ambasciatore e ricorda ancora una volta di non aver ceduto al tiranno, preferendo perdere la sua grande biblioteca. Capitolo 27 In Toscana cresceva la paura di un attacco francese, il popolo aveva già infatti conquistato Lucca e minacciava Firenze. Alfieri si prepara al peggio: scrive la lapide sepolcrale, termina la copia delle rime, dispone e chiude il suo patrimonio poetico. Aspettando il peggio, studia intensamente. L’attacco dei francesi a Firenze ebbe luogo il 25 marzo 1799, questo costrinse Vittorio e la sua donna a fuggire dalla città e rifugiarsi in una villa in campagna. Capitolo 28 Arrivato in villa, Vittorio si mise a studiare, lavorare, limare e rileggere opere già scritte, in questo modo non aveva tempo per pensare a guai o pericoli derivati dalla situazione tragica che stavano vivendo. Passato il peggio, tornarono in città. Ben presto Vittorio fu colto da una brutta sorpresa: l’editore italiano Molini (di Parigi) gli aveva mandato una lettera dove diceva di aver iniziato a stampare tutte le sue opere, incluse quelle mai pubblicate. La notizia lo devastò e tormentò, l’unica soluzione che trovò fu quella di far pubblicare nelle gazzette un vecchio annuncio (del 1793) dove dichiarava di non riconoscere come sua alcuna opera se non quelle da lui pubblicate. Capitolo 29 Dopo la battaglia di Marengo del 1800 l’Italia cadde in mano dei francesi. Firenze venne invasa di nuovo e Vittorio non ebbe tempo di prepararsi e ripararsi nella villa in campagna, l’unica soluzione fu per lui quella di chiudersi in casa. Accadde poi che il Generale Comandante di Firenze voleva conoscerlo, in quanto appassionato di lettere, ma Vittorio rifiutò garbatamente dopo averlo a lungo evitato. Ideò in questo periodo sei commedie: quattro adattabili ad ogni luogo, tempo e costume, una poetica e fantastica, una di andamento moderno. Capitolo 30 Giunse poi una sedicente pace, che ancora teneva l’Europa in armi, timore e schiavitù. Nell’estate Vittorio si ammalò gravemente e fu costretto a letto. Lo stesso anno ricevette la notizia della morte del suo unico nipote, che mai aveva conosciuto ma che era suo erede. L’estate dell’anno successivo si ammalò nuovamente. Durante la malattia andò a fargli visita l’abate di Caluso, la cui visita fu dolce e amarissima. Capitolo 31 Vittorio si rende conto che non gli resta molto da vivere. E’ giunto il tempo di finire di scrivere, fare e raccontare. Porrà dunque termine anche all’epoca IV. Informa il lettore che, se arriverà ai 60 anni, si dedicherà alla lettura e alla traduzione del De Senectute di Cicerone. Non ha intenzione di stampare altre opere, l’atto di revisione è qualcosa che porta troppa sofferenza e non vi si assoggetterebbe mai. Lascerà le opere degne di luce copiate in ordinati manoscritti, brucerà quelle che non considera tali. Così si conclude l'ultimo capitolo della sua agonizzante virilità, il 14 maggio 1803 a Firenze. Lettera dell’abate di Caluso a Luisa Stolberg contessa di Albany, racconta la morte dell’autore La lettera è ricca di rammarico, la morte e la memoria dell’uomo straordinario che fu Vittorio Alfieri sono raccontate con toni soavi. L’abate ritrae l’uomo ormai deceduto, lo descrive come una persona schietta e semplice, che ha lasciato una fedele immagine di sé nell’opera della sua vita. Racconta poi il tremendo decorso della malattia, prima la gotta, poi, mesi dopo, il 3 di ottobre, febbre e dolori di viscere. Pochi giorni dopo, stremato dal dolore, spirerà il suo ultimo respiro. L’8 ottobre Vittorio muore all’età di 56 anni a Firenze. L’autore verrà seppellito in Santa Croce. Il suo ingegno e la sua immagine restano vivi nella sue opere, così come il suo amore di gloria, della patria e della libertà civile, sentimenti che sempre hanno infuocato il suo cuore.
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