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Vita di Vittorio Alfieri, Appunti di Letteratura Italiana

Vita di Alfieri, riassunto per il corso di Letteratura Italiana corso Avanzato

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 04/08/2020

camilla-restelli
camilla-restelli 🇮🇹

4.6

(40)

46 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vita di Vittorio Alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LEZIONE I - PROEMIZZARE Iniziamo l'analisi della Vita di Alfieri a partire dall'indagine degli elementi paratestuali dell'opera. Per paratesto (concetto per la prima volta introdotto da G.Genette) rimandiamo- a quell'insieme di produzioni verbali e non verbali, sia nell’ambito del volume stesso (quali il nome dell’autore, il titolo, una o più prefazioni, le illustrazioni, i titoli dei capitoli, le note), sia all’esterno del libro (interviste, conversazioni, corrispondenze, diari, ecc.), che accompagnano il testo vero e proprio e ne guidano il gradimento da parte del pubblico. Alfieri stesso, come sentiremo, volle suddividere la sua Vita in cinque Epoche (Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità, Vecchiaia: quest’ultima non realizzata), e ciascuna epoca in capitoli più o meno brevi. Lasciò anche indicazioni precise – probabilmente in vista della stampa - perché nei margini comparisse la successione delle date in cui si svolsero gli avvenimenti (le trovate nelle edizioni a stampa, non in quelle digitali): purtroppo nessuna delle edizioni in circolazione è stata dotata di una suddivisione in paragrafi. La Vita venne pubblicata postuma, a Firenze, presso l’editore Piatti, nel 1806 (ma – come spesso accadeva per sfuggire alla censura – uscì con indicazione fittizia del luogo di stampa- Londra, 1804). Soffermiamoci sulla scelta del titolo. Il Settecento è un secolo percorso da un grande interesse per la narrazione di sé, alla quale si dedicarono quasi tutti i suoi autori maggiori. Citiamo, fra gli italiani, Giambattista Vico, Ludovico Antonio Muratori, Pietro Giannone, Pietro Metastasio, nonché Goldoni e Alfieri. Quando Alfieri si accinse a realizzare la sua Vita, intorno al 1790, erano appunto appena uscite due opere autobiografiche molto importanti, e proprio in Francia, dove egli in quegli anni risiedeva: i Mémoires pour servir à l’histoire de sa vie et à celle de son thêatre di Carlo Goldoni (Memorie per servire alla storia della sua vita e del suo teatro, 1787 in 3 voll.) e la seconda parte delle Confessions di Jean-Jacques Rousseau (1789; la prima parte era uscita nel 1782). Né dall'una né dall'altra Alfieri prese ispirazione per il titolo, con il quale volle piuttosto emulare lo spirito eroico del grande scultore cinquecentesco Benvenuto Cellini, la cui Vita, rimasta inedita per quasi due secoli, era stata pubblicata a Napoli (ma con la falsa indicazione di Colonia) nel 1728. Ma certo una suggestione di grande rilievo giocarono le Vite parallele di Plutarco, quelle “vite dei Grandi” che erano state capaci – come vedremo - di suscitare in lui fortissime emozioni: Ma il libro dei libri per me, e che in quell'inverno mi fece veramente trascorrere dell'ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All'udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare. III 7 [1769] Dopo il frontespizio, ci saremmo potuti aspettare una dedica a qualche personaggio noto o almeno vicino all’autore, come da prassi editoriale consolidata da secoli. Alfieri trascrive invece due versi di un poeta greco che molto ammirava, Pindaro, e ne fornisce una suggestiva traduzione. PIANTA EFFIMERA NOI, COS’È IL VIVENTE? COS’È L’ESTINTO? – UN SOGNO D’OMBRA È L’UOMO. [Pindaro, Pitica VIII 95-96; n.b. l'edizione alfieriana è diversa] Il termine greco che Alfieri traduce con “pianta effimera” è epàmeroi, letteralmente “creature di un giorno”. Come è stato osservato da alcuni critici, noi, gli esseri umani, e in particolare i lettori dell’opera, siamo in questo modo implicitamente chiamati in causa come dedicatari. Verso la fine dell’Introduzione Alfieri dichiara, infatti, come vedremo: Allo studio dunque dell’uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di quest’opera [Introduzione] Ma c’è di più, come mi pare non sia stato osservato. Se allarghiamo lo sguardo al contesto di questa lirica pindarica, l’VIII Pizia, o Pitica (dedicata a un vincitore nelle gare delfiche) ci accorgiamo che si tratta di un severo monito contro l’arroganza dell’ambizione. In questo senso, l’epigrafe generale dell’opera si allaccia a una seconda citazione, quest’ultima specificamente connessa all’impresa letteraria che sta per vedere la luce, e posta come epigrafe dell’Introduzione: «I più giudicano che narrare la propria vita sia [segno di] fiducia nei propri costumi, più che[segno di] arroganza» PLERIQUE SUAM IPSI VITAM NARRARE, FIDUCIAM POTIUS MORUM, QUAM ARROGANTIAM, ARBITRATI SUNT [Tacito, Vita di Agricola] La citazione è tratta da un’opera di Tacito, la Vita di Agricola, che Alfieri si era ripromesso di tradurre integralmente negli anni della vecchiaia. Lo storico latino, del resto, era fra quegli autori che egli 'leggeva e rileggeva con trasporto' (IV 7 [1780]) Il De vita et moribus Iulii Agricolae è un testo particolarmente significativo in relazione alla Vita di Alfieri, anche se si tratta di una biografia e non di un’autobiografia, perché con esso Tacito intendeva celebrare attraverso il racconto dei fatti la vita irreprensibile del suocero, che era stato un importante uomo politico e governatore della Britannia. Come scrive Patrizia Pellizzari in Soglie: le epigrafi latine nelle opere di Alfieri: La consapevolezza profonda delle loro molteplici funzioni – introducono non solo materialmente il testo cui vengono apposte, ma lo collocano da subito in un ambito di pensiero definito, ne danno il primo orientamento interpretativo, lo sostanziano di un’antica sapienza e ne racchiudono in breve il significato – induce Alfieri a scegliere con grande cura le epigrafi. Ora abbiamo sufficienti elementi per cominciare la lettura dell’Introduzione in cui quanto abbiamo detto consente ad Alfieri di preparare il terreno per mettere in luce l'amore di sé stesso. Il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri; e della mia futura veracità in questo mio scritto assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliarda d'ogni altra, l 'amore di me medesimo; quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti; ed in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali si tengono. Ed è questo dono una preziosissima cosa; poiché da esso ogni alto operare dell'uomo proviene, allor quando all'amor di sé stesso congiunge una ragionata cognizione dei propri suoi mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed il bello, che non son se non uno. Senza proemizzare dunque più a lungo sui generali, io passo ad assegnare le ragioni per cui questo mio amor di me stesso mi trasse a ciò fare; e accennerò quindi il modo con cui mi propongo di eseguir questo assunto. Essa ci permette già di osservare alcuni dei principali tratti caratteristica della scrittura prosastica di Alfieri, fatta di neologismi, alterazioni (specialmente i superlativi) e neoformazioni. Nel passo dell'introduzione troviamo il superlativo dell'avverbio 'principalmente', ovvero principalissimamente. Un controllo delle concordanze elettroniche nella banca dati di Biblioteca Italiana, che raccoglie la quasi totalità dei testi della letteratura italiana, conferma la rarità della forma alterata dell'avverbio. Ancora più rara, se non unica, è l'occorrenza del verbo nominale proemizzare, cioè 'fare un proemio'. L'unica altra attestazione di questo termine, registrato dal TLIO, risale al corredo paratestuale di un manoscritto trecentesco della Commedia, nella didascalia rileggere piú né guardare queste mie ciarle, fin presso agli anni sessanta, se ci arriverò, età in cui avrò certamente terminata la mia carriera letteraria. Ed allora, con quella freddezza maggiore che portano seco i molti anni, rivedrò poi questo scritto, e vi aggiungerò il conto di quei dieci o quindici anni all'incirca, che avrò forse ancora impiegati in comporre, o applicare. Se io verrò ad eseguire i due o tre diversi generi in cui fo disegno di provare le mie ultime forze, aggiungerò allora quegli anni in ciò impiegati, a questa quarta epoca della virilità; se no, nel ripigliare questa mia confession generale, incomincierò da quegli anni miei sterili la quinta epoca; della mia vecchiaia e rimbambimento, la quale, se punto avrò senno ancora e giudizio, brevissimamente, siccome cosa inutile sotto ogni aspetto, la scriverò. Il lavoro, interrotto nel 1790, riprese infatti nel 1798 e continuò fino al maggio 1803: la quinta epoca non fu tuttavia mai realizzata. Riprendiamo la lettura del finale dell'introduzione. Aggiungerò, nondimeno, che nel dire io che non mi lusingo di essere breve anche nelle quattro prime parti, quanto il dovrei e vorrei, non intendo perciò di permettermi delle risibili lungaggini accennando ogni minuzia; ma intendo di estendermi su molte di quelle particolarità, che, sapute, contribuir potranno allo studio dell'uomo in genere; della qual pianta non possiamo mai individuare meglio i segreti che osservando ciascuno sé stesso. Non ho intenzione di dar luogo a nessuna di quelle altre particolarità che potranno risguardare altre persone, le di cui peripezie si ritrovassero, per cosí dire, intarsiate con le mie: stante che i fatti miei bensí, ma non già gli altrui, mi propongo di scrivere. Non nominerò dunque quasi mai nessuno individuandone il nome, se non se nelle cose indifferenti o lodevoli. Allo studio dunque dell'uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di quest'opera. E di qual uomo si può egli meglio e piú dottamente parlare, che di sé stesso? quale altro ci vien egli venuto fatto di maggiormente studiare? di piú addentro conoscere? di piú esattamente pesare? essendo, per cosí dire, nelle piú intime di lui viscere vissuto tanti anni? In esso, oltre al ritorno della metafora della pianta per indicare l'uomo (metafora che aveva già impiegato per tradurre l'epigrafe da Pindaro), emerge una notevole insistenza sulla naturalezza dello stile, che non è un topos ma è piuttosto il frutto della consapevolezza del risultato raggiunto, specialmente se si osserva la redazione definitiva, caratterizzata da una prosa bilanciata ed equilibrata e da un tono riposato, meditativo e talora ironico. Lo stesso Alfieri spiega il suo intento nella conclusione della prima parte (pp. 267-268): in questo passo l'opzione stilistica è condensata nella contrapposizione fra i due gerundi (il conclusivo e amichevole 'chiacchierando' e il precedente e severo 'taciteggiando', altro espressivo neologismo alfieriano, con il significato di 'scrivere imitando lo stile coinciso di Tacito'). Lo studio dell'uomo in genere, a cui aveva fatto riferimento anche nell'Introduzione, ha ceduto sempre più il passo alla riflessione intima ('su me medesmo e di rimbalzo sugli uomini'). LEZIONE II – NOVE ANNI DI VEGETAZIONE Iniziamo a leggere il primo capitolo della prima epoca, la Puerizia. Nella città d'Asti in Piemonte, il dí 17 di gennaio dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti. E queste tre loro qualità ho espressamente individuate, e a gran ventura mia le ascrivo per le seguenti ragioni. Il nascere della classe dei nobili, mi giovò appunto moltissimo per poter poi, senza la taccia di invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà di per sé sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi ed i vizi; ma nel tempo stesso mi giovò non poco la utile e sana influenza di essa, per non contaminare mai in nulla la nobiltà dell'arte ch'io professava. Il nascere agiato, mi fece libero e puro; né mi lasciò servire ad altri che al vero. L'onestà, dei parenti fece sí, che non ho dovuto mai arrossire dell'esser io nobile. Onde, qualunque di queste tre cose fosse mancata ai miei natali, ne sarebbe di necessità venuto assai minoramento alle diverse mie opere; a sarei quindi stato per avventura o peggior filosofo, o peggior uomo, di quello che forse non sarò stato. Va precisato in primo luogo in realtà come Alfieri nacque il 16 Gennaio (e non il 17, giorno in cui fu battezzato nel Duomo di Asti). Il termine 'filosofo' è interscambiabile con 'scrittore'. Questo passo ospita riflessioni di carattere sociologico, apparentemente oggettive e razionali; in realtà concorrono alla campagna di giustificazione del parlar di sé che già conosciamo e che ha precedenti illustri (fino al Convivio) e che comprende anche il proposito del contenimento emotivo (il famoso disappassionarsi): questo atteggiamento appartiene all'intera classe aristocratica e a quella piemontese in particolare, educata al riserbo. Questa genetica riservatezza per quanto in parte violata nel progetto alfieriano è incompatibile con la spudorata rivelazione del privato e effusione sentimentale dell'opera che abbiamo detto avrebbe potuto per motivi cronologici influenza la scrittura di Alfieri, ovvero le Confessioni di Rossaeau, un autore (e in definitiva un uomo) verso cui, in realtà, l'ammirazione del poeta fu piuttosto tiepida come lo stesso Alfieri anticipa nel settimo capitolo della terza epoca – con un giudizio puramente letterario e poi, senza mezzi termini, nel dodicesimo capitolo della stessa epoca a (pp. 140-1): In questo mio secondo soggiorno in Parigi avrei facilmente potuto vedere ed anche trattare il celebre Gian- Giacomo Rousseau, per mezzo d'un italiano mio conoscente che avea contratto seco una certa familiarità, e dicea di andar egli molto a genio al suddetto Rousseau. Quest'italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore [significa assicurandomi] che ci saremmo scambievolmente piaciuti l'uno l'altro, Rousseau ed io. Ancorché io avessi infinita stima del Rousseau piú assai per il suo carattere puro ed intero e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe' suoi libri, di cui que' pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento; con tutto ciò, non essendo io per mia natura molto curioso, né punto sofferente, e con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto piú orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glie n'avrei restituite dieci, perché sempre cosí ho operato per istinto ed impeto di natura di rendere con usura sí il male che il bene. Onde non se ne fece altro Continuiamo la lettura del capitolo primo. Il mio padre chiamavasi Antonio Alfieri; la madre, Monica Maillard di Tournon. Era questa di origine savoiarda, come i barbari di lei cognomi dimostrano: ma i suoi erano già da gran tempo stabiliti in Torino. Il mio padre era un uomo purissimo di costumi, vissuto sempre senza impiego nessuno, e non contaminato da alcuna ambizione; secondo che ho inteso dir sempre da chi l'avea conosciuto. Provveduto di beni di fortuna sufficienti al suo grado, e di una giusta moderazione nei desideri, egli visse bastantemente felice. Alfieri sottolinea i 'barbari cognomi' della madre affrettandosi a precisare che la famiglia di lei si era già trasferita da tempo a Torino: la Francia e il francese (che era la lingua corrente nel Piemonte sabaudo) diventeranno per lo scrittore idoli negativi, da cui liberarsi. Il padre rappresenta l'applicazione pratica dei principi che abbiamo discusso prima: il fatto di non aver ricevuto alcun incarico a corte, sorte invece caratteristica dei nobili, lo aveva tenuto un uomo libero, consentendogli tra l'altro attività benemerite (in particolare nella supervisione delle scuole locali). Che fosse un uomo buono e affettuoso sembra dimostrato anche dalla vicenda che lo portò alla morte descritta poco dopo: entustiasta per la nascita del figlio, il conte Alfieri affrontava ogni giorno una lunga camminata per andarlo a trovare in campagna dove, secondo gli usi dell'epoca, il piccolo era stato affidato ad una balia; ma lo strapazzo di quelle passeggiate gli fu fatale (aveva del resto un'età superiore ai sessanta). Si sottolinea il termine 'puntura' che indica la pleurite (per metonimia da 'fitta', 'tormento'). Il padre morì dunque quando Vittorio non aveva ancora un anno. All'eclissarsi del padre, nel racconto subentra la figura piuttosto ingombrante della madre, tanto travagliata dalle disgrazie, quanto complessivamente compensata dalla sorte: due volte vedova, ancora giovane, sposò in terze nozze un altro Alfieri (Cavalier Giacinto) di un altro ramo della famiglia: Questo cavaliere Giacinto, per la morte poi del di lui primogenito che non lasciò figli, divenne col tempo erede di tutto il suo, e si ritrovò agiatissimo. La mia ottima madre trovò una perfetta felicità con questo cavalier Giacinto, che era di età all'incirca alla sua, di bellissimo aspetto, di signorili ed illibati costumi: onde ella visse in una beatissima ed esemplare unione con lui; e ancora dura, mentre io sto scrivendo questa mia vita in età di anni quarantuno. Onde da piú di 37 anni vivono questi due coniugi vivo esempio di ogni virtú domestica, amati, rispettati, e ammirati da tutti i loro concittadini; e massimamente mia madre, per la sua ardentissima eroica pietà con cui si è assolutamente consecrata al sollievo e servizio dei poveri E Alfieri, in tutto ciò? nella sua ultima età io solo di maschi le rimango; e per le fatali mie circostanze non posso star presso di lei; cosa di cui mi rammarico spessissimo: ma assai piú mi dorrebbe, ed a nessun conto ne vorrei stare continuamente lontano, se non fossi ben certo ch'ella e nel suo forte e sublime carattere, e nella sua vera pietà ha ritrovato un amplissimo compenso a questa sua privazione dei figli . Mi si perdoni questa forse inutile digressione, in favor di una madre stimabilissima. Le fatali circostanze che tengono continuamente lontane lo scrittore dalla madre si potrebbero aggirare se lui non fosse convinto che la madre possa farne a meno (cioè che lei abbia nel suo carattere tutte le risorse per cavarsela); l'affermazione che si tratti di una forse inutile digressione non va affatto presa alla lettera: con analoga understatement, Alfieri definirà 'digressionecella' il passaggio cruciale nel quale illustra i suoi metodi di scrittura tragica (nella IV Epoca). Ciò che conta è il superlativo stimabilissima, una petizione di principio ma anche una presa di distanza. Nella quarta epoca (p.245) viene descritto il congedo dalla madre (1784), che ha il sapore di un addio definitivo. Partito di Torino, mi trattenni tre giorni in Asti presso l'ottima rispettabilissima mia madre. Ci separammo poi con gran lagrime, presagendo ambedue che verisimilmente non ci saremmo piú riveduti. Io non dirò che mi sentissi per lei quanto affetto avrei potuto e dovuto; atteso che dall'età di nov'anni in poi non mi era mai piú trovato con essa, se non se alla sfuggita per ore. Ma la mia stima, gratitudine, e venerazione per essa e per le di lei virtú è stata sempre somma, e lo sarà finch'io vivo. Il Cielo le accordi lunga vita, poich'ella sí bene la impiega in edificazione e vantaggio di tutta la sua città. Essa poi è oltre ogni dire sviscerata per me, piú assai ch'io non abbia mai meritato. Perciò il di lei vero ed immenso dolore nell'atto della nostra dipartenza grandemente mi accorò, ed accora. Tuttavia, poco più avanti, è descritto un episodio (1787) avvenuto ad Alfieri (in compagnia dell'amico abate Tommaso Valperga di Caluso) che getta sulla contessa Monica una luce più familiare (p.259). Il primo discorso ch'io ebbi a tener con l'amico, fu, oltre ogni mia aspettazione, di affari domestici. Egli avea avuto dalla mia ottima madre un'incombenza assai strana, visto l'età mia, ed occupazioni, e il pensare mio. Quest'era una proposizione di matrimonio. Egli me la fece ridendo; ed io pure ridendo gliela negai: e si combinò la risposta da farsi alla mia amorosissima madre, che ci scusasse ambedue. Ma per dare un saggio dell'affetto e semplice costume di quella rispettabil donna, porrò qui in fondo di pagina la di lei lettera su questo soggetto. LETTERA DELLA MADRE DELL'AUTORE Carissimo, ed amatissimo figlio, Li 8 corrente scrissi al Sig. Abate di Caluso acciò vi facesse una proposizione di matrimonio avvantaggioso, che vi si offre con una figlia di famiglia distintissima per padre e madre, ed erede della maggior parte del bene paterno; il qual padre, per essere stato molto amico del vostro, desidererebbe di dare a voi la sua figlia a preferenza di ogni altro, per il desiderio di far rivivere la casa Alfieri in questa città. Vi ho fatto fare questa proposizione per mezzo del vostro amico, sperando che egli tant'oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni ; ora mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano, servienti la messa con viso compunto ed angelico, ora coi turiboli incensando l'altare; e tutto assorto in codeste immagini, trascurava i miei studi, ed ogni occupazione, o compagnia, mi noiava. A questo confuso ma potente slancio attrattivo, il piccolo Vittorio pensa di trovare una nobilitazione sul piano linguistico, compiendo un minimo ma significativo atto di forza. Un giorno fra gli altri, stando fuori di casa il mio maestro, trovatomi solo in camera, cercai ne' due vocabolari latino e italiano l'articolo frati, e cassata in ambedue quella parola, vi scrissi Padri: cosí credendomi di nobilitare, o che so io d'altro, quei novizietti, ch'io vedeva ogni giorno, con nessuno dei quali avea però mai favellato, e da cui non sapeva assolutamente quello ch'io mi volessi. L'aver sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare la parola Frate, e con rispetto ed amore quella di Padre, erano la sola cagione per cui m'indussi a correggere quei dizionari: e codeste correzioni fatte anche grossolanamente col temperino e la penna, le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se ne dubitando, né a tal cosa certamente pensando, non se n'avvide poi mai. Chiunque vorrà riflettere alquanto su quest'inezia, e rintracciarvi il seme delle passioni dell'uomo, non la troverà forse né tanto risibile né tanto puerile, quanto ella pare. Come osserva Ivan Tassi, ricollegandosi a sua volta al critico novecentesco Giacomo Debenedetti, si tratta probabilmente di una cerimonia magica che ha dato la consolazione di agire e ha permesso di manifestare contenuti refrattari ma le cancellature apportate sullo strumento ufficiale della lingua, detentore sul codice lessicale, hanno anche il sapore di un imperioso atto di potenza con cui il poeta rinomina la realtà, la corregge, la ricrea, la ripiega al proprio sguardo estetico e la solleva verso zone altrimenti irraggiungibili. Continuiamo la lettura. Fra i sette ed ott'anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche dalla salute che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori dal mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile, dove eravi intorno intorno molt'erba. E tosto mi misi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingoiarne quanta piú ne poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v'era un'erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure, seguendo cosí un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m'era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell'erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta. Ma ributtato poi dall'insopportabile amarezza e crudità d'un tal pascolo, e sentendomi provocato a dare di stomaco, fuggii nell'annesso giardino, dove non veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente di tutta l'erba ingoiata, e tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito con qualche doloruzzo di stomaco e di corpo. Proseguendo nella lettura, il lemma malinconia con gli aggettivi derivati ha nella Vita 27 occorrenze associate alla solitudine, all'amore, alla musica: talora viene presentata in maniera ambigua, come nell'espressione fierissime malinconie (che accosta un aggettivo energico con una disposizione d'animo languida); talora viene presentata come straordinaria, ma non dispiacevole; talora come un dato oggettivo che promana dal paesaggio inglese. L'allentamento della tensione segnalato dai diminutivi e dalla sorridente metafora agreste (un tal pascolo), che ritornerà anche poco dopo è solo momentaneo: verrà infatti punito dalla madre. Poco dopo si dovè andare a tavola, e mia madre vedendomi gli occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere dopo gli sforzi del vomito, domandò insistendo e volle assolutamente sapere quel che fosse; ed oltre i comandi della madre mi andavano anche sempre piú punzecchiando i dolori di corpo, sí ch'io non potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a tacere, ed a vedere di non mi scontorcere, la madre sempre dura ad interrogare e minacciarmi; finalmente osservandomi essa ben bene, e vedendomi in atto di patire, e poi le labbra verdiccie, che io non avea pensato di risciacquarmele, spaventatasi molto, s'alza, si approssima a me, mi parla dell'insolito color delle labbra, m'incalza e sforza a rispondere, finchè vinto dal timore e dolore io tutto confesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggiero rimedio, e nessun altro male ne segue; fuorché per piú giorni fui rinchiuso in camera per castigo; e quindi nuovo pascolo, e fomento all'umor malinconico. Gli effetti di questa rigida pedagogia (per altro molto diffusa al tempo) si avvertono precocemente e vengono illustrati nel capitolo IV. L'indole, che io andava manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido per lo piú; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrari; ostinato e restìo contro alla forza, pieghevolissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto piú che da nessun'altra cosa di essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all'eccesso, e inflessibile se io veniva preso a ritroso. Ma per meglio dar conto ad altrui e a me stesso di quelle qualità primitive, che la natura mi avea improntate nell'animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi in quella prima età, ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo e che ritrarranno al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare, quello che smisuratamente mi addolorava, e da segno di farmi ammalare, e che perciò non mi fu dato che due volte sole, era di mandarmi alla messa colla reticella da notte in capo; assetto che nasconde quasi interamente i capelli. La prima volta ch'io ci fui condannato (né mi ricordo piú del perché) venni dunque strascinato per mano dal maestro alla vicinissima Chiesa del Carmine; chiesa abbandonata, dove non si trovavano mai quaranta persone radunate nella sua vastità: tuttavia sí fattamente mi afflisse codesto gastigo, che per piú di tre mesi poi rimasi irreprensibile. Tra le ragioni ch'io sono andato cercando in appresso entro di me medesimo, per ben conoscere il fonte d'un simile effetto, due principalmente ne trovai, che mi diedero intiera soluzione del dubbio. L'una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia reticella, e ch'io doveva esser molto sconcio e difforme in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore vedendomi punito cosí orribilmente. L'altra, si era ch'io temeva di esser visto cosí dagli amati novizi; e questo mi passava veramente il cuore. Il successo della punizione soddisfa a tal punto genitori e maestro che la minaccia della reticella viene ripetutamente agitata per ottenere l'obbedienza. Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi occorse di articolare una solennissima bugia alla signora madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella; e di piú, che in vece della deserta Chiesa del Carmine, verrei condotto cosí a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel centro della città e frequentatissima su l'ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai, tutto invano. Quella notte ch'io mi credei dover essere l'ultima della mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata una peggio. Venne alfin l'ora; inreticellato, piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro, e in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna; ma tosto che si entrò nelle vie abitate, che s'avvicinavano alla piazza e chiesa di San Martino, io immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e camminando anzi tacito, e di buon passo, e ben rasente al prete Ivaldi, sperai di passare inosservato, nascondendomi quasi sotto il gomito del talare maestro, al di cui fianco appena la mia statura giungeva. Arrivai nella piena chiesa, guidato per mano come orbo ch'io era; che in fatti chiusi gli occhi all'ingresso, non gli apersi piú finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all'uscire, tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre. Non volli in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né piangere. E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d'animo, che mi ammalai per piú giorni; né mai piú si nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch'io ne mostrai. Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e chi sa s'io non devo poi a quella benedetta reticella l'essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi ch'io conoscessi. L'effetto patetico è ottenuto mediante le iperboli dell'analisi psicologica ('Quella notte ch'io mi credei dover essere l'ultima della mia vita (..) non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata peggio'; 'con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre'), con un impennata nel finale (il 'supplizio della reticella', l'antifrastico 'amorossima madre'). D'altro canto lo scrittore non rinuncia all'inventiva linguistica che gli è propria: l'efficacia sintetica dell'aggettivo talare (per indicare il maestro prete vestito in abito talare) e il participio denominale inreticellato, neologismo alfieriano. Se la madre abbia poi mitigato la sua intransigenza lo si può ricavare dai racconti successivi. LEZIONE III – LIBERTA' VIGILATA C'è un disegno complessivo nella prima epoca: gli eventi infantili rendono l'adulto immune da alcune tentazioni peccaminose. Tuttavia il commento del narratore oscilla tra l'interesse per la psicologia dell'età evolutiva e l'excusatio delle storielle raccontate. Tra queste due prevale la prospettiva psicologica e cosi lo scrittore esorta (p.58) cosi i suoi lettori ('Or mira, o lettore, in me omiccino, il ritratto tuo e di quanti anche uomini sono stati o saranno; che tutti siamo pur sempre a ben prendere bambini perpetui') e poi dichiara alla fine della prima epoca (p.64): 'Questo prima squarcio di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi) riuscirà certamente inutilissimo per tutti coloro che, stimandosi uomini si vanno scordando che l'uomo è una continuazione del bambino.' Una prospettiva recuperata anche nell'ultimo capitolo dell'opera (p.311), in cui gioca con un'innocente e un po' puerile vanità: 'Ma per terminare oramai litetamente questa serie di filastrocche e mostrare come già ho fatto il primo passo dell'epoca quinta di rimbambinire, non nasconderò al lettore per farlo ridere, una mia debolezza di questo presente anno 1803'. L'auto- accusa è già formulata nel torrenziale titolo del capitolo ('Invanito poi bambinescamente dell'avere quasi che spuntata la difficoltà del greco, invento l'Ordine d'Omero, a me ne creo da me stesso Cavaliero'). L'epoca prima è costituita da 5 capitoli e comprende quasi 9 anni di vita. Al termine della Puerizia si prepara per il piccolo Vittorio una prima svolta, solo apparentemente epocale con il trasferimento a Torino per frequentare l'Accademia Militare su sollecitazione dello zio Pellegrino Alfieri suo tutore fin dalla morte del padre. La separazione da casa produce nel ragazzino eccitazione e dolore assieme, ma soprattutto la prima poiché la prospettiva del breve viaggio compensa di gran lunga la nostalgia (pp.63-64): si noti il colorito espressivo della forma achillesche, frutto della redazione definitiva. Incalessato poi quasi per forza dal mio fattore, che era un vecchio destinato per accompagnarmi a Torino in casa dello zio dove doveva andare da prima, partii finalmente, scortato anche dal servitore destinatomi fisso, che era un certo Andrea, alessandrino, giovine di molta sagacità e di bastante educazione secondo il suo stato ed il nostro paese, dove il saper leggere e scrivere non era allora comune. Era di luglio nel 1758, non so qual giorno, quando io lasciai la casa materna la mattina di buonissima ora. Piansi durante tutta la prima posta; dove poi giunto, nel tempo che si cambiava i cavalli, io volli scendere nel cortile, e sentendomi molto assetato senza voler domandare un bicchiere, né far attinger dell'acqua per me, accostatomi all'abbeveratoio de' cavalli, e tuffatovi rapidamente il maggior corno del mio cappello, tanta ne bevvi quanta ne attinsi. L'aio fattore, avvisato dai postiglioni, subito vi accorse sgridandomi assai; ma io gli risposi, che chi girava il mondo si doveva avvezzare a tai cose, e che un buon soldato non doveva bere altrimente. Dove poi avessi io pescate queste idee achillesche, non lo saprei; stante che la madre mi aveva sempre educato assai mollemente, ed anzi con risguardi circa la salute affatto risibili. Era dunque anche questo in me un impetino di natura gloriosa, il quale si sviluppava tosto che mi veniva concesso di alzare un pocolino il capo da sotto il giogo. E qui darò fine a questa prima epoca della mia puerizia, entrando ora in un mondo alquanto men circoscritto, e potendo con maggior brevità, spero, andarmi dipingendo anche meglio. Questo primo squarcio di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi) riuscirà certamente inutilissimo mai più ne seppi altro. Quest'ultimo dunque rimastomi, non lo volendo io vendere, perché sono per natura nemicissimo del vendere, lo regalai ad un banchiere francese domiciliato in Barcellona, già mio conoscente sin dalla mia prima dimora in codesta città' pp.142-148). Come si era già osservato, spesso la passione sconfina talvolta nelle mollezze dell'illusoria vita gaudente fino a entrare violentemente in conflitto con il processo di maturazione del poeta (pp. 151- 152): Intanto per allora la divagazione somma e continua, la libertà totale, le donne, i miei ventiquattro anni, e i cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e più, tutti questi ostacoli potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od assopivano in me ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque così in questa vita giovenile oziosissima, non avendo mai un istante quasi di mio, né mai aprendo più un libro di sorte nessuna, incappai (come ben dovea essere) di bel nuovo in un tristo amore; dal quale poi dopo infinite angosce, vergogne, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e del fare, il quale d'allora in poi non mi abbandonò mai più; e che, se non altro, mi ha una volta sottratto dagli orrori della noia, della sazietà, e dell'ozio; e dirò più, dalla disperazione; verso la quale a poco a poco io mi sentiva strascinare talmente, che se non mi fossi ingolfato poi in una continua e caldissima occupazione di mente, non v'era certamente per me nessun altro compenso che mi potesse impedire prima dei trent'anni dall'impazzire o affogarmi. Si avvicina dunque la svolta verso la moderazione: 'Tutti i miei cavalli lasciati in Torino mi vi aspettavano e richiamavano; passione che in me contrastò lungamente con le Muse e non rimase poi perdente davvero, se non più d'un anno dopo.' (cap. III, epoca IV, p.199). Tuttavia questa svolta alla moderazione è tutt'altro che decisa, come ben mettono in luce anche i capitoli successivi (e i loro titoli): • Capitolo IV ( .. macchiato di stolida pompa cavallina...): 'In questo secondo viaggio, proponendomi di starvi più tempo, e fra i miei deliri di vera gloria frammischiandone pur tuttavia non pochi di vanagloria, ci volli condur più cavalli e più gente, per recitare in tal guisa le due parti che di rado si maritano insieme, di poeta e di signore. Con un treno (= seguito) dunque di otto cavalli, ed il rimanente non discordante da esso, mi avviai alla volta di Genova' (pp.201-202) . • Capitolo XI: 'Coll'occasione di questo nuovo viaggio mi proponeva poi anche di comprare dei cavalli inglesi quanti più potrei. Questa era, ed è tuttavia, la mia passione terza; ma sì fattamente sfacciata ed audace, e sì spesso rinascente, che i bei destrieri hanno molte volte osato combattere, e vinto anche talvolta, sì i libri che i versi; ed in quel punto di scontentezza di cuore, le Muse aveano pochissimo imperio su la mente mia. Onde di poeta ripristinatomi cavallaio, me ne partii per Londra con la fantasia ripiena ed accesa di belle teste, be' petti, altere incollature, ampie groppe, o nulla o poco pensando oramai alle uscite e non uscite tragedie' (pp. 237). • Capitolo XII (Terzo viaggio in Inghilterra, unicamente per comperarvi cavalli): 'Giunto in Londra, non trascorsero otto giorni, ch'io cominciai a comprar dei cavalli; prima un di corsa, poi due di sella, poi un altro, poi sei da tiro, e successivamente essendomene o andati male o morti vari polledri, ricomprandone due per un che morisse, in tutto il marzo dell'anno '84, me ne trovai rimanere quattordici. Questa rabidissima passione, che in me avea covato sotto cenere oramai quasi sei anni, mi si era per quella lunga privazione totale, o parziale, sì dispettosamente riaccesa nel cuore e nella fantasia, che recalcitrando contro gli ostacoli, e vedendo che di dieci compratine, cinque mi eran venuti meno in sì poco tempo, arrivai a quattordici; come pure a quattordici avea spinte le tragedie, non ne volendo da prima che sole dodici. Queste mi spossarono la mente; quelli la borsa; ma la divagazione dei molti cavalli mi restituì la salute e l'ardire di fare poi in appresso altre tragedie ed altr'opere. Furono dunque benissimo spesi quei molti danari, poiché ricomprai anche con essi il mio impeto e brio (n.b. 'porsi in brio'= imbizzarrirsi) , che a piedi languivano. E tanto più feci bene di buttar quei danari, poiché me li trovava aver sonanti. Dalla donazione in poi, avendo io vissuti i primi quasi tre anni con sordidezza, ed i tre ultimi con decente ma moderata spesa; mi ritrovava allora una buona somma di risparmio, tutti i frutti dei vitalizi di Francia, cui non avea mai toccati. Quei quattordici amici me ne consumarono gran parte nel farsi comprare e trasferire in Italia; ed il rimanente poi me ne consumarono in cinque anni consecutivi nel farsi mantenere; che usciti una volta dalla loro isola, non vollero più morire nessuno, ed io affezionatomi ad essi non ne volli vender nessuno. Incavallatomi dunque sì pomposamente, dolente nell'animo per la mia lontananza dalla sola motrice d'ogni mio savio ed alto operare, io non trattava né cercava mai nessuno; o me ne stava co' miei cavalli, o scrivendo lettere su lettere su lettere. (..) Così vissi io vergognosamente in un ozio vilissimo per mesi e mesi; smettendo ogni dì più anche il leggere i soliti poeti, e insterilita anco affatto la vena delle rime; tal che in tutto il soggiorno di Londra non feci che un solo sonetto, e due poi al partire. Avviatomi nell'aprile con quella numerosa carovana, venni a Calais, poi a Parigi di nuovo, poi per Lione e Torino mi restituii in Siena. Ma molto è più facile e breve il dire per iscritto tal gita, che non l'eseguirla, con tante bestie. Io provava ogni giorno, ad ogni passo, e disturbi e amarezze, che troppo mi avvelenavano il piacere che avrei avuto della mia cavalleria. Ora questo tossiva, or quello non volea mangiare: l'uno azzoppiva, all'altro si gonfiavan le gambe, all'altro si sgretolavan gli zoccoli, e che so io; egli era un oceano continuo di guai, ed io n'era il primo martire' (pp. 238-239). Si può osservare, soprattutto a proposito di quest'ultimo passo, l'estensione del campo semantico equino alle azioni dell'io narrante (recalcitrando, Incavallatomi, impeto e brio). Segue, in questo capitolo stesso, il resoconto di un viaggio epico, con l'attraversata della Manica e poi il percorso attraverso Francia e Italia. Ne leggiamo la conclusione (p.241): 'Col capo ripieno traboccante di queste inezie cavalline, e molto scemo di ogni utile e lodevole pensamento, arrivai in Torino in fin di maggio, dove soggiornai circa tre settimane, dopo sette e più anni che vi avea smesso il domicilio. Ma i cavalli, che per la troppa continuità cominciavano talvolta a tediarmi, dopo sei, o otto giorni di riposo, li spedii innanzi alla volta della Toscana, dove li avrei raggiunti'. C'è tuttavia ancora un'ultima oscillazione tra i soliti due poli: • Capitolo XVI: 'Ma troppo avea impreso, di vivere solitario e occupato né ci avrei potuto resistere senza i cavalli che tanto mi sforzavano a pigliar l'aria aperta e far moto' (p.255). • Capitolo XXIV: ' (..) da più e più anni, mediante i viaggi, i cavalli, la stampa, la lima, le angustie d'animo, e il tradurre, mi trovava rinminchionito a tal segno, che avrei ben potuto oramai aspirare all'erudito, che non è poi insomma altro che buona memoria di suo, e roba d'altri' (p.280). Nel penultimo capitolo dell'opera vi è comunque la resa alla ragionevolezza: 'Perciò sul finire del suddetto '801 ricomprammo cavalli, ma non più che quattro, di cui solo uno da sella per me, che da Parigi in poi non avea mai più avuto cavallo, né altra carrozza che una pessima d'affitto. Ma gli anni, le disgrazie pubbliche, tanti esempi di sorte peggior della nostra, mi aveano reso moderato e discreto; onde i quattro cavalli furono oramai anche troppi, per chi per molti anni appena si era contentato di dieci, e di quindici' (p.309). La trasferta torinese del piccolo Vittorio comporta anche l'entrata in scena di un personaggio che non vi resterà a lungo ma che come sempre produrrà per l'autore della Vita una riflessione introspettiva. L'entrata in scena di questo personaggio è già presente nel finale dell'epoca prima: Incalessato poi quasi per forza dal mio fattore, che era un vecchio destinato per accompagnarmi a Torino in casa dello zio dove doveva andare da prima, partii finalmente, scortato anche dal servitore destinatomi fisso, che era un certo Andrea, alessandrino, giovine di molta sagacità e di bastante educazione secondo il suo stato ed il nostro paese, dove il saper leggere e scrivere non era allora comune. La professione di questo Andrea (e del successore Elia) è quella di cameriere e di generico educatore, non di maestro precettore agli studi come era stato il buon don Ivaldi. Alfieri utilizza spesso il termine 'ajo' (talvolta anche semi-ajo), scelta stilistica più alta e probabilmente non priva di un certo compiacimento aristocratico. Se consultiamo la banca dati del Vocabolario della Crusca, ne troviamo le definizione nella quinta edizione: 'Colui che ha in custodia o sopraintende all'educazione di qualificati giovinetti' (nelle edizioni precedenti, invece: 'Custode o sopraindente dell'educazione di personaggio grande'). Un caso interessante del termine in questione è presente nella narrazione dell'uso strumentale della disponibilità di un accompagnatore inglese che godeva di 'ottimo grido' (cioè di ottima fama di affidabilità) effettuato per strappare il permesso di viaggiare (p.92): La smania di viaggiare, accresciutasi in me smisuratamente col conversare moltissimo con codesti forestieri, m'indusse contro la mia indole naturale ad intelaiare un raggiretto per vedere di strappare una licenza di viaggiare a Roma e a Napoli almeno per un anno. E siccome era troppo certa cosa, che in età di anni diciassette e mesi ch'io allora mi aveva, non mi avrebbero mai lasciato andar solo, m'ingegnai con un aio inglese cattolico, che guidava un Fiammingo, ed un Olandese a far questo giro, e coi quali era stato già più d'un anno nell'Accademia, a vedere s'egli voleva anche incaricarsi di me, e così fare il sudetto viaggio noi quattro. Tanto feci insomma, che invogliai anche questi di avermi per compagno, e servitomi poi del mio cognato per ottenermi dal re la licenza di partire sotto la condotta del sudetto aio inglese, uomo più che maturo, e di ottimo grido, finalmente restò fissata la partenza per i primi di ottobre di quell'anno. E questo fu il primo, e in seguito poi l'uno dei pochi raggiri ch'io abbia intrapresi con sottigliezza, e ostinazione di maneggio, per persuadere quell'aio, e il cognato (= marito della sorella, che lo supporta), e più di tutti lo stitichissimo curatore (= amministratore beni). Bisogna aggiungere, per comprendere questo passo, come nel piccolo regno piemontese il re non era propenso ai viaggi dei suoi nobili e che Vittorio dovette accettare qualche umiliante condizione per dover partire. La comitiva parte. Un numero della Gazzetta Patria di Firenze registra l'ingresso in città il 24 Ottobre 1766 dei tre giovani nobili tra cui il conte Affieri (i nomi sono presentati con delle imperfezioni), accompagnati da un cavaliere inglese. Ma presto Vittorio è inquieto (p.94): e sempre incalzato da una certa impazienza di luogo, io era lo sprone perpetuo del nostro ajo antico, che sempre lo instigava a partire. Il titolo del capitolo successivo è tutto un programma: Continuazione dei viaggi, liberatomi anche dell'ajo. Ne leggiamo alcuni estratti (pp.97 e ss.): Incalzavaci frattanto l'imminente inverno; e più ancora incalzava io il tardissimo aio, perché si partisse per Napoli, dove s'era fatto disegno di soggiornare per tutto il carnevale (..) Benché noi giovanotti vivessimo in perfetta armonia, e che l'aionon più a me che ad essi cagionasse il minimo fastidio, tuttavia siccome per le gite da una all'altra città bisognava pure combinarci per muovere insieme, e siccome quel vecchio era sempre irresoluto, mutabile, e indugiatore, quella dipendenza mi urtava. Ma torniamo molto più indietro, all'ingresso di Vittorio in Accademia (pp.67 e ss.): Affidato alla guardia di quel servitore Andrea, che trovatosi così padrone di me senza avere né la madre, né lo zio, né altro mio parente che lo frenasse, diventò un diavolo scatenato. Costui dunque mi tiranneggiava per tutte le cose domestiche a suo pieno arbitrio. Egli centellinava anche le visite ad un altro zio, Benedetto, di cui sentiremo ben parlare (p.70): Io andava qualche volta a pranzo da lui, ed alcune volte a visitarlo; il che stava totalmente nell'arbitrio di quel mio Andrea, che dispoticamente mi governava, allegando sempre degli ordini e delle lettere dello zio di Cuneo (..). E inoltre (pp.79-80): ebbi per la prima volta una piccola mensualità fissatami dal nuovo tutore; cosa, alla quale lo zio non avea voluto mai consentire; e che mi tutti a letto; e nello stringere col compasso (=ferro per lisciare i capelli) una ciocca di capelli, me ne tirò un pochino più l'uno che l'altro. Io, senza dirgli parola, balzato in piedi più ratto che folgore, di un man rovescio con uno dei candelieri ch'avea impugnato glie ne menai un così fiero colpo su la tempia diritta, che il sangue zampillò ad un tratto come da una fonte sin sopra il viso e tutta la persona di quel giovine, che mi stava seduto in faccia all'altra parte di quella assai ben larga tavola dove si era cenati. Quel giovane, che mi credé (con ragione) impazzito subitamente, non avendo osservato né potendosi dubitare che un capello tirato avesse cagionato quel mio improvviso furore, saltò subito su egli pure come per tenermi. Ma già in quel frattempo l'animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi era saltato addosso per picchiarmi; e ben fece. Ma io allora snellissimo gli scivolai di sotto, ed era già saltato su la mia spada che stava in camera posata su un cassettone, ed avea avuto il tempo di sfoderarla. Ma Elia inferocito mi tornava incontro, ed io glie l'appuntava al petto; e lo Spagnuolo a rattenere ora Elia, ed or me; e tutta la locanda a romore; e i camerieri saliti, e così separata la zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Rappaciati alquanto gli animi si entrò negli schiarimenti; io dissi che l'essermi sentito tirar i capelli mi avea messo fuor di me; Elia disse di non essersene avvisto neppure; e lo Spagnuolo appurò ch'io non era impazzito, ma che pure savissimo non era. Così finì quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo e vergognosissimo e dissi ad Elia ch'egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi. Ed era uomo da farlo; essendo egli di statura quasi un palmo più di me che sono altissimo; e di coraggio e forza niente inferiore all'aspetto. La piaga della tempia non fu profonda, ma sanguinò moltissimo, e poco più in su che l'avessi colto, io mi trovava aver ucciso un uomo che amavo moltissimo per via d'un capello più o meno tirato. Inorridii molto di un così bestiale eccesso di collera; e benché vedessi Elia alquanto placato, ma non rasserenato meco, non volli pure né mostrare né nutrire diffidenza alcuna di lui; e un par d'ore dopo, fasciata che fu la ferita, e rimessa in sesto ogni cosa me n'andai a letto, lasciando la porticina che metteva in camera di Elia aderente alla mia, aperta al solito, e senza voler ascoltare lo Spagnuolo che mi avvertiva di non invitare così un uomo offeso e irritato di fresco ad una qualche vendetta. Ma io anzi dissi forte ad Elia che era già stato posto a letto, che egli poteva volendo uccidermi quella notte se ciò gli tornava comodo, poiché io lo meritava. Ma egli era eroe per lo meno quanto me; né altra vendetta mai volle prendere, che di conservare poi sempre due fazzoletti pieni zeppi di sangue, coi quali s'era rasciutta da prima la fumante piaga; e di poi mostrarmeli qualche volta, che li serbò per degli anni ben molti. Questo reciproco misto di ferocia e di generosità per parte di entrambi noi, non si potrà facilmente capire da chi non ha esperienza dei costumi e del sangue di noi Piemontesi . Io, nel rendere poi dopo ragione a me stesso del mio orribile trasporto, fui chiaramente convinto, che aggiunta all'eccessivo irascibile della natura mia l'asprezza occasionata dalla continua solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il vaso, e fattolo in quell'attimo traboccare. Del resto io non ho mai battuto nessuno che mi servisse se non se come avrei fatto un mio eguale; e non mai con bastone né altr'arme, ma con pugni, o seggiole, o qualunque altra cosa mi fosse caduta sotto la mano, come accade quando da giovine altri, provocandoti, ti sforza a menar le mani. Ma nelle pochissime volte che tal cosa mi avvenne, avrei sempre approvato e stimato quei servi che mi avessero risalutato con lo stesso picchiare; atteso che io non intendeva mai di battere il servo come padrone, ma di altercare da uomo ad uomo. Le cose non stanno mai come sembrano. Nel 1961 Lanfranco Caretti pubblicò cinque lettere inedite dello stesso Elia (superstiti di un più ampio carteggio), che dimostrano come egli riferisse regolarmente sulla salute e sul comportamento del padrone (a sua insaputa) al cognato. Anche l'epistolario di Alfieri tra l'altro denuncia alcuni malumori che la Vita ha del tutto oscurato: lo scrittore lamenta più volte la ciarlataneria del suo servitore. Elia lo inconteremo ancora parlando dei viaggi in Europa. Nel 1785, dopo vent'anni di convivenza, Alfieri lo licenziò, dopo che già l'anno precedente la contessa d'Albany (compagna dello scrittore) lo aveva disapprovato. LEZIONE IV – DALL'INEDUCAZIONE ALLO STUDIO Il trasferimento di Vittorio a Torino (luglio 1758) ha un effetto elettrizzante (p. 65): Dopo alcuni dì, avvezzatomi poi alla novità, ripigliai e l'allegria e la vivacità in un grado assai maggiore ch'io non avessi mostrata mai; ed anzi fu tanta, che allo zio parve assai troppa; e trovandomi essere un diavoletto, che gli metteva a soqquadro la casa, e che per non avere maestro che mi facesse far nulla, io perdeva assolutamente il mio tempo, in vece di aspettare a mettermi in Accademia all'ottobre come s'era detto, mi v'ingabbiò fin dal dì primo d'agosto dell'anno 1758. In età di nove anni e mezzo io mi ritrovai dunque ad un tratto traspiantato in mezzo a persone sconosciute, allontanato affatto dai parenti, isolato, ed abbandonato per così dire a me stesso; perché quella specie di educazione pubblica (se chiamarla pur vorremo educazione) in nessuna altra cosa fuorché negli studi, e anche Dio sa come, influiva su l'animo di quei giovinetti. Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato. E chi ce l'avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica? Successivamente Alfieri arriva a delineare con acuta e moderna sensibilità pedagogica l’obiettivo mancato di una formazione culturale in assenza di un metodo didattico efficace (p.68): Ed era io forse scusabile, in quanto nulla poteva agguagliarsi alla noia e insipidità di così fatti studi. Si traducevano le Vite di Cornelio Nipote, ma nessuno di noi, e forse neppure il maestro, sapeva chi si fossero stati quegli uomini di cui si traducevan le vite, né dove fossero i loro paesi, né in quali tempi, né in quali governi vivessero, né cosa si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano o circoscritte, o false, o confuse; nessuno scopo in chi insegnava; nessunissimo allettamento in chi imparava. Erano insomma dei vergognosissimi perdigiorni; non c'invigilando nessuno; o chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventù. Poco prima (p.67) aveva detto di trovarsi ‘in quella scoluccia, asino, fra asini, e sotto un asino' ribadendo tuttavia una buona inclinazione agli studi, affermando di non essere stato mai ultimo nei risultati scolastici. Solo nel caso isolatissimo di un maestro a cui Alfieri riconosce il merito, lo studio della lingua latina diventa proficuo e Alfieri ingaggia una gara di emulazione con un altro allievo di grandi capacità. La rivalità, comunque, non impedisce che i due siano in definitiva quasi amici (pp. 68-69): ed inoltre, io non gli poteva portar odio, perché egli era bellissimo; ed io, anche senza secondi fini, sempre sono stato assai propenso per la bellezza, sì degli animali che degli uomini, e d'ogni cosa; a segno che la bellezza per alcun tempo nella mia mente preoccupa (=prende il posto) il giudizio, e pregiudica spesso al vero. Questo illuminato trasporto per il vero e per il bello si spiega ancora meglio attraverso l'analisi di un documento che si avvicina a una spontanea confessione: si tratta di un proposito registrato sulla pagina di uno di quei 'giornali' che Alfieri tenne dapprima in francese (1774-5) e poi in italiano (1777). L'occasione è l'ingresso in società nel bel mondo senese: Lunedì 2 Giugno, Siena (1777) Da prima voglio comparir bello; poi ricco; poi uomino di spirito; poi autore ed uomo d'ingegno; sto dispondendo le mie batterie per tale effetto: dirò in appresso quale esito abbia avuto. L'edificante emulazione con il compagno di studi appena narrata è un caso eccezionale. Nell'ambiente ozioso e ineducato dell'Accademia era più frequente che si sviluppassero atteggiamenti meschini e persino crudeli. Alfieri racconta come, costretto per qualche tempo a indossare la parrucca per coprire una malattia della pelle, riuscì a rintuzzare una vera campagna di bullismo nell'unico modo efficace, smontandone la carica velenosa con l'autoironia (p.80): Allora imparai, che bisognava sempre parere di dare spontaneamente, quello che non si potea impedire d'esserti tolto. Non sfugge, per contrasto, il dramma infantile della reticella. L'unica parentesi veramente serena nel ricordo di questi anni è il tempo trascorso con un cugino del padre, il conte Benedetto Alfieri. Si tratta di un valente architetto di cui il nipote menziona orgogliosamente le opere, in particolare il teatro regio, affermando che, probabilmente, con più cospicui investimenti da parte dei regnanti avrebbe potuto ottenere risultati anche migliori (p.71): Mi compiaccio ora moltissimo nel parlar di quel mio zio, che sapea pure far qualche cosa; ed ora soltanto ne conosco tutto il pregio. Ma quando io era in Accademia, egli, benché amorevolissimo per me, mi riusciva pure noiosetto anzi che no; e, vedi stortura di giudizio, e forza di false massime, la cosa che di esso mi seccava il più era il suo benedetto parlar toscano, ch'egli dal suo soggiorno di Roma in poi mai più non avea voluto smettere; ancorché il parlare italiano sia un vero contrabbando in Torino, città anfibia. Ma tanta è però la forza del bello e del vero, che la gente stessa che al principio quando il mio zio ripatriò, si burlava del di lui toscaneggiare, dopo alcun tempo avvistisi poi ch'egli veramente parlava una lingua, ed essi smozzicavano un barbaro gergo, tutti poi a prova favellando con lui andavano anch'essi balbettando il loro toscano; e massimamente quei tanti signori, che volevano rabberciare un poco le loro case e farle assomigliar dei palazzi: opere futili in cui gratuitamente per amicizia quell'ottimo uomo buttava la metà del suo tempo compiacendo ad altrui, e spiacendo, come gli sentii dire tante volte, a sé stesso ed all'arte. Onde molte e molte case dei primi di Torino da lui abbellite o accresciute, con atti, e scale, e portoni, e comodi interni, resteranno un monumento della facile sua benignità nel servire gli amici o quelli che se gli dicevano tali. Si accende, proprio in quegli anni, la coscienza di un problema che sarà cruciale per moltissimo tempo e che innasterà un lungo processo di redenzione e conquista: la questione della lingua. Nel Piemonte del Settecento la lingua della conversazione era il dialetto e quella dei contesti formali il francese. Nessuno aveva spontaneamente padronanza della lingua italiana e ben pochi ci si impegnavano. Il capitolo III non solo introduce questioni di famiglia, ma si occupa anche di lingua. Non sfugge, del resto, il gioco onomastico del benedetto parlar toscano e dello zio Benedetto. Vengono introdotte anche considerazioni di carattere politico-sociale (come la scarsa munificenza del re sabaudo, le velleità di prestigio architettonico dei nobili). Al termine del racconto troviamo anche un ricordo del padre, che suscita mal celata emulazione: Questo mio zio aveva anche fatto il viaggio di Napoli insieme con mio padre suo cugino, circa un par d'anni prima che questi si accasasse con mia madre; e da lui seppi poi varie cose concernenti mio padre. Tra l'altre, che essendo essi andati al Vesuvio, mio padre a viva forza si era voluto far calar dentro sino alla crosta del cratere interno, assai ben profonda; il che praticavasi allora per mezzo di certe funi maneggiate da gente che stava sulla sommità della voragine esterna. Circa vent'anni dopo, ch'io ci fui per la prima volta, trovai ogni cosa mutata, ed impossibile quella calata. Ma è tempo, ch'io ritorni a bomba. Un paio di capitoli più avanti compare fuggevolmente nel racconto anche la sorella che condivide l'ineducazione di quegli anni adolescenziali (p.76): La Giulietta cresceva in codesto monastero in Asti, ancor più ineducata di me; stante l'imperio assoluto, ch'ella si era usurpato su la buona zia, che non se ne potea giovare in nessuna maniera, amandola molto, e guastandola moltissimo. La ragazza si avvicinava ai quindici anni, essendomi maggiore di due e più anni. E quell'età, nelle nostre contrade per lo più non è muta, ed altamente anzi già parla d'amore al facile e tenero cuore delle donzelle. Un qualche suo amoruccio, quale può aver luogo in un monastero, ancorché fosse pure verso persona che convenientemente l'avrebbe potuta sposare, dispiacque allo zio, e lo determinò a farla venire in Torino; affidandola alla zia materna, monaca in Santa Croce. La vista di questa sorella, già da me tanto amata, come accennai, e che ora tanto era cresciuta in bellezza, mi rallegrò anche molto; e confortandomi il cuore e lo spirito, mi restituì anche molto in salute. E la compagnia, o per dir meglio il rivedere di tempo in tempo la sorella, mi riusciva tanto più grato, quanto mi pareva che io la sollevassi alcun poco dalla sua afflizione d'amore; essendo stata così Alfieri, nell'epoca terza, nel corso dei suoi viaggi è ancora ben lontano dal poeta maturo che diverrà anche se va già sviluppando una certa convinzione del valore politico della letteratura (pp. 120-1): Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell'ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose più volte d'introdurmivi. Ma io, oltre all'essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde quell'adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità despotica da me sì caldamente abborrita. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore; e queste disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all'età di vent'anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile. Metastasio era, del resto, poeta cesareo alla corte asburgica, con compiti encomiastici anche se la sua opera non si può certo ridurre a quella di un servile cortigiano. E inoltre (pp. 141-2): Comprai in Parigi una raccolta dei principali poeti e prosatori italiani in trentasei volumi di picciol sesto, e di graziosa stampa, dei quali neppur uno me ne trovava aver meco dopo quei due anni del secondo mio viaggio. E questi illustri maestri mi accompagnarono poi sempre da allora in poi da per tutto; benché in quei primi due o tre anni non ne facessi a dir vero grand'uso. Certo che allora comprai la raccolta più per averla che non per leggerla, non mi sentendo nessuna né voglia né possibilità di applicar la mente in nulla. E quanto alla lingua italiana sempre più m'era uscita dall'animo e dall'intendimento a tal segno, che ogni qualunque autore sopra il Metastasio (= più difficile) mi dava molto imbroglio ad intenderlo. Tuttavia, così per ozio e per noia, squadernando alla sfuggita que' miei trentasei volumetti mi maravigliai del gran numero di rimatori che in compagnia dei nostri quattro sommi poeti erano stati collocati a far numero; gente, di cui (tanta era la mia ignoranza) io non avea mai neppure udito il nome; ed erano: un Torracchione, un Morgante, un Ricciardetto, un Orlandino, un Malmantile, e che so io; poemi, dei quali molti anni dopo deplorai la triviale facilità, e la fastidiosa abbondanza. Ma carissima mi riuscì la mia nuova compra, poiché mi misi d'allora in poi in casa per sempre que' sei luminari della lingua nostra, in cui tutto c'è; dico Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio e Machiavelli; e di cui (pur troppo per mia disgrazia e vergogna) io era giunto all'età di circa ventidue anni senza averne punto mai letto, toltone alcuni squarci dell'Ariosto nella prima adolescenza essendo in Accademia, come mi pare di aver detto a suo luogo. Con la letteratura latina, le cose non andavano certo meglio (pp.100-1): Ogni giorno poi capitando dal conte di Rivera ministro di Sardegna , degnissimo vecchio, il quale ancorché sordo non mi veniva per punto a noia, e mi dava degli ottimi e luminosi consigli; mi accadde un giorno che si trovò da lui su una tavola un bellissimo Virgilio in folio, aperto spalancato al sesto dell'Eneide. Quel buon vecchio vedendomi entrare, accennatomi d'accostarmi, cominciò ad intuonare con entusiasmo quei bellissimi versi per Marcello così rinomati e saputi da tutti. Ma io, che quasi più punto non li intendeva, benché li avessi e spiegati e tradotti e saputi a memoria circa sei anni prima, mi vergognai sommamente e me ne accorai per tal modo, che per più giorni mi ruminai il mio obbrobrio in me stesso, e non capitai più dal conte . Con tutto ciò la ruggine sovra il mio intelletto si andava incrostando sì densa, e tale di giorno in giorno sempre più diveniva, che assai più tagliente scalpello ci volea che un passeggiere rincrescimento, a volernela estirpare. Onde passò quella sacrosanta vergogna senza lasciare in me orma nessuna per allora, e non lessi altrimenti né Virgilio, né alcun altro buon libro in nessuna lingua, per degli anni parecchi. Gli anni furono precisamente nove, per quanto riguarda il latino (pp.192-3): Verso il principio dell'anno '76, trovandomi già da sei e più mesi ingolfato negli studi italiani, mi nacque una onesta e cocente vergogna di non più intendere quasi affatto il latino; a segno che, trovando qua e là, come accade, delle citazioni, anco le più brevi e comuni, mi trovava costretto di saltarle a piè pari, per non perder tempo a diciferarle. Trovandomi inoltre inibita ogni lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva affatto privo d'ogni soccorso per la lettura teatrale. Questa ragione, aggiuntasi al rossore, mi sforzò ad intraprendere questa seconda fatica, per poter leggere le tragedie di Seneca, di cui alcuni sublimi tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni letterali latine dei tragici greci, che sogliono essere più fedeli e meno tediose di quelle tante italiane che sì inutilmente possediamo. Mi presi dunque pazientemente un ottimo pedagogo, il quale, postomi Fedro in mano, con molta sorpresa sua e rossore mio, vide e mi disse che non l'intendeva, ancorché l'avessi già spiegato in età di dieci anni; ed in fatti provandomici a leggerlo traducendolo in italiano, io pigliava dei grossissimi granchi, e degli sconci equivoci. Ma il valente pedagogo, avuto ch'egli ebbe così ad un tempo stesso il non dubbio saggio e della mia asinità, e della mia tenacissima risoluzione, m'incoraggì molto, e in vece di lasciarmi il Fedro mi diede l'Orazio, dicendomi: “Dal difficile si viene al facile; e così sarà cosa più degna di lei. Facciamo degli spropositi su questo scabrosissimo principe dei lirici latini, e questi ci appianeran la via per scendere agli altri”. E così si fece; e si prese un Orazio senza commenti nessuni; ed io spropositando, costruendo, indovinando, e sbagliando, tradussi a voce tutte l'Odi dal principio di gennaio a tutto il marzo. Questo studio mi costò moltissima fatica, ma mi fruttò anche bene, poiché mi rimise in grammatica senza farmi uscire di poesia. In quel frattempo non tralasciava però di leggere e postillare sempre i poeti italiani, aggiungendone qualcuno dei nuovi, come il Poliziano, il Casa, e ricominciando poi da capo i primari; talché il Petrarca e Dante nello spazio di quattr'anni lessi e postillai forse cinque volte. A fronte di tutti i deboli tentativi precedenti, la svolta portata dalla quarta epoca è dunque una potente ventata che indirizza definitivamente Alfieri come lettore e autore sul piano degli studi e su quello della lingua. Il senso dell'impresa titanica è racchiuso in una frase della lettera a Ranieri de' Calsabigi, scritta il 6 Settembre 1783: Da questa sfacciata mia imprudenza di essermi in meno di sei mesi, di giovane dissipatissimo che io era, trasfigurato in autor tragico ne ricavai pure un bene; poiché contrassi col pubblico e con me stesso, ch'era assai più, un fortissimo imegno di tentare almeno di divenire tale. Da quel giorno in poi (che fu in Giugno '75) volli e volli sempre e fortissimamente volli. La circostanza specifica è la decisione di diventare autore di tragedie, ma la nuova determinazione si può estendere agli studi generali e lo testimonia il climax dei titoli di capitolo, nell'epoca IV. L'apoteosi di questo sforzo consiste nella capacità di imparare il greco antico all'età di quarantasette anni (p.281): Ed io veramente guardava di tempo in tempo quei caratteri posti a colonna, con occhio bieco, e fremente, appunto come la volpe della favola guardava i proibiti grappoli invano sospirati. Mi si aggiungeva un fortissimo ostacolo fisico; che le mie pupille non volean saper niente di quel maledetto carattere; e foss'egli grande o piccolo, sciolto o legato, mi venivano le traveggole tosto ch'io lo fissava, e con molta pena compitando ne portava via una parola per volta, delle brevi; ma un verso intero non lo potea né leggere, né fissare, né pronunziare, né molto meno ritenerne materialmente la romba (= il suono) a memoria . Alla fine comunque l'ostinazione ha la meglio, come ci comunica l'autore in un tripudio di neologismi (p.283): Insomma in quell'anno '97, mi raccorcii le orecchie (=d'asino) di un buon palmo almeno ciascuna; né altro scopo m'era prefisso da tanta fatica, che di scuriosirmi, disasinirmi, e tormi il tedio dei pensieri dei Galli (=francesi), cioè disceltizzarmi. Alfieri, giunto questo traguardo, si auto nomina scherzosamente (ma non troppo) cavaliere dell'ordine di Omero da lui creato ad hoc, ma solo dopo aver informato l'amico abate di Caluso. E' sempre sottolineato – nel corso della Vita- l'effetto pigmalione prodotto dai dotti amici, come D'Acunha ('Mille savi consigli mi sava continuamente quel degnissimo amico; e quello massimamente di cui non perderò mai la memoria, si fu del farmi con destrezza ed efficacia arrossire della mia stupida e oziosa vita, dei non mai apparir un libro qualunque, dell'ignorar tante cose, e più che altro i nostri e sì ottimi italiani poeti e i più distinti prosatori e filosofi'), Gori ('Per ottenere dunque e meritare la loda di un uomo cosi stimabile agli occhi miei quanto era il Gori io mi posi in quell'estate a lavorare con un ardore assai maggiore di prima') e Caluso ('Ed io nella di lui piacevole ed erudita conversazione imparai senza quasi avvedermene più cose assai che non avrei fatto in molti anni sudando su molti libri '). Alfieri ingaggia poi un autentico corpo a corpo con la letteratura, alimentato da un forte sentire di tipo politico, come dimostra l'episodio del Panegirico a Traiano (pp.250-1): Finite l'epistole, impresi di leggere il Panegirico a Traiano, opera che mi era nota per fama, ma di cui non avea mai letta parola. Inoltratomi per alcune pagine, e non vi ritrovando quell'uomo stesso dell'epistole, e molto meno un amico di Tacito, qual egli si professava, io sentii nel mio intimo un certo tal moto d'indegnazione; e tosto, buttato là il libro saltai a sedere sul letto, dov'io giaceva nel leggere; ed impugnata con ira la penna, ad alta voce gridando dissi a me stesso: “Plinio mio, se tu eri davvero e l'amico, e l'emulo, e l'ammiratore di Tacito, ecco come avresti dovuto parlare a Traiano”. E senza più aspettare, né riflettere, scrissi d'impeto, quasi forsennato, così come la penna buttava, circa quattro gran pagine del mio minutissimo scritto; finché stanco, e disebriato dallo sfogo delle versate parole, lasciai di scrivere, e quel giorno non vi pensai più. La mattina dopo, ripigliato il mio Plinio, o per dir meglio, quel Plinio che tanto mi era scaduto di grazia nel giorno innanzi, volli continuar di leggere il di lui Panegirico. Alcune poche pagine più, facendomi gran forza, ne lessi; poi non mi fu possibile di proseguire. Allora volli un po' rileggere quello squarcione del mio Panegirico, ch'io avea scritto delirando la mattina innanzi. Lettolo, e piaciutomi, e rinfiammato più di prima, d'una burla ne feci, o credei farne, una cosa serissima; e distribuito e diviso alla meglio il mio tema, senza più ripigliar fiato, scrivendone ogni mattina quanto ne potevan gli occhi, che dopo un par d'ore di entusiastico lavoro non mi fanno più luce; e pensandovi poi e ruminandone tutto l'intero giorno, come sempre mi accade allorché non so chi mi dà questa febbre del concepire e comporre; me lo trovai tutto steso nella quinta mattina, dal dì 13 al 17 di marzo; e con pochissima varietà, toltone l'opera della lima, da quello che va dattorno stampato . La manifestazione anche fisica del furore è paragonabile a quella della lettura di Plutarco, come abbiamo anticipato nella lezione iniziale, ma di segno inverso. Le vite dei grandi infiammano Alfieri per la vera grandezza dei celebrati, Plinio lo disgusta per la piaggeria del suo Panegirico (si pensi al passo precedente in cui Alfieri, giovinilmente plutarchizzando, rifiuta con sdegno Metastasio). L'espressione giovenilmente + gerundio richiama alla menta il giovinilmente vezzeggiando della Vergine cuccia di Parini: non si potrebbe qui escludere che Alfieri contasse sulla sensibilità dei lettori intendenti per suggerire un'auto-ironica analogia tra il proprio puntiglio altezzoso e il morso inane di una cagnolina viziata. LEZIONE V – NESSUNA LINGUA La questione della lingua (da acquisire, prima e dell'inventività linguistica, poi) è un filo rosso che attraversa l'intera opera di Alfieri. L'elenco sintetico che leggiamo nella Storia della lingua italiana di Migliorini mette in evidenza quelli che Luigi Russo definì alfierismi. Una delle modalità di creazione che Alfieri condivide con il gusto del suo secolo è in particolare quella dei composti con prefisso, dei quali semipollo è uno degli esempi più riusciti. Il prefisso 'semi' è utilizzato molto di frequente, sia con che senza linetta (semi-aio, semi-zio, semi-pubblico, semiaccesa, semilibertà, semibarbare, semiviaggio, semifrenetico, semiaccademia, semiservitù, semiriposo, semiletture, semifilosofi). In altri casi, Alfieri aggiunge alla prefissazione la derivazione denominale, come nel caso di spiemontizzarsi (p.210): non dubitai punto, ciò visto, di lavorare con la maggior pertinacia ed ardore all'importante opera di spiemontizzarmi per quanto fosse possibile; ed a lasciare per sempre, ed anche a qualunque costo il mio mal sortito nido natio. In un saggio del 1981 Nicola Merola mette in luce la condizione di sradicato costantemente vissuta da Alfieri: 'Alla determinazione di spiemontizzarsi, che è la prima e più importante mossa sulla strada dell'esilio volontario dalla realtà toscana; stante che io deridendo sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi offendeano l'udito, mi era avvezzo a pronunziar quanto meglio poteva e la u, e la z, e gi, e ci, ed ogni altra toscanità. Onde alquanto inanimito dal suddetto conte Catanti a non trascurare una sì bella lingua, e che era pure la mia, dacché di essere io francese non acconsentiva a niun modo, mi rimisi a leggere alcuni libri italiani . Era però necessaria una soluzione radicale: leggere con attenzione il racconto dell'immersione nel vortice grammatichevole, raccontata nel capitolo di apertura della quarta epoca, 'fatica indicibile, ingratissima'. La forte determinazione che accompagna lo studio degli autori, comunque, si commenta da sé. Il risultato è un solido e originale organismo linguistico che abbiamo sott'occhio nella vita e che assume nelle altre opere una modulazione via via diversa. Monica Zanardi ne evidenzia le sfaccettature: 'Alfieri sembrerebbe scindere fortemente l'aspetto lessicale da quello sintattico-grammaticale: mentre per gli aspetti sintattico-grammaticali si allinea alle posizioni di forza della Crusca sul piano del lessico si mostra estremamente inclusivo, accettando arcaismi e idiotismi, quanto il ricorso a termini del toscano vivo e della lingua d'uso; senza tralasciare, com'è noto, le potenzialità creative della lingua, che si concretizzano in neologismi e neoformazioni, che Alfieri rivendica e di cui conosce le potenzialità espressive.' Alfieri non manca di esprimere l'orgoglio per i risultati raggiunti. Ancora una volta, la prospettiva culturale si salda strettamente con il credo politico (p.260): Finito il trattato del matrimonio, ci sfogammo reciprocamente il cuore, l'amico ed io, coi discorsi delle amatissime lettere. Io mi sentiva veramente necessità di conversare su l'arte, di parlar italiano, e di cose italiane; tutte privazioni che da due anni mi si faceano sentire non poco; e ciò con assai grande mio scapito, nell'arte principalmente del verseggiare. E certo, se questi ultimi famosi uomini francesi, come Voltaire e Rousseau, avessero dovuto gran parte della loro vita andarsene erranti in diversi paesi in cui la loro lingua fosse stata ignota o negletta, e non avessero neppur trovato con chi parlarla, essi non avrebbero forse avuto la imperturbabilità e la tenace costanza di scrivere per semplice amor dell'arte e per mero sfogo, come faceva io, ed ho fatto poi per tanti anni consecutivi, costretto dalle circostanze di vivere e conversare sempre con barbari; che tale si può francamente denominare tutta l'Europa da noi, quanto alla letteratura italiana; come lo è pur troppo tuttavia, e non poco, una gran parte della stessa Italia, sui nescia (= non consapevole del suo valore). Che se si vuole anche per gl'Italiani scrivere egregiamente, e che si tentino versi in cui spiri l'arte del Petrarca e di Dante, chi oramai in Italia, chi è che veramente e legga ed intenda e gusti e vivamente senta Dante e il Petrarca? Uno in mille, a dir molto. Con tutto ciò, io immobile nella persuasione del vero e del bello, antepongo d'assai (ed afferro ogni occasione di far tal protesta) di gran lunga antepongo di scrivere in una lingua quasi che morta, e per un popolo morto, e di vedermi anche sepolto prima di morire, allo scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese ed inglese, ancorché dai loro cannoni ed eserciti elle si vadano ponendo in moda. Piuttosto versi italiani (purché ben torniti) i quali rimangano per ora ignorati, non intesi, o scherniti; che non versi francesi mai, od inglesi, o d'altro simil gergo prepotente, quando anche ne dovessi immediatamente esser letto, applaudito, ed ammirato da tutti. Troppa è la differenza dal suonare la nobile e soave arpa ai propri orecchi, ancorché nessuno ti ascolti, al suonare la vil cornamusa, ancorché un volgo intero di orecchiuti ascoltanti ti faccia pur plauso solenne. LEZIONE VI - VIAGGI Abbiamo già visto come il desiderio di viaggiare nasca precocemente nel giovanissimo Alfieri, di pari passo con il suo temperamento ribelle (p.92): La smania di viaggiare, accresciutasi in me smisuratamente col conversare moltissimo con codesti forestieri, m'indusse contro la mia indole naturale ad intelaiare un raggiretto per vedere di strappare una licenza di viaggiare a Roma e a Napoli almeno per un anno. Si tratta del viaggio in Italia con l'aio inglese. Se è vero che il ricorso ai sotterfugi, qui praticato in maniera eccezionale, è estraneo al suo carattere è anche vero che il carattere manifesta l'irrequietudine che sarà propria dell'uomo. La terza epoca comincia sotto auspici non tanto più gloriosi di quelle precedenti, all'insegna delle dissolutezze e dell'ignoranza (p.94): onde, o nulla o pochissimo dicendo delle diverse città, ch'io, digiuno di ogni bell'arte, visitai come un Vandalo, anderò parlando di me stesso, poiché pure questo infelice tema, è quello che ho assunto in quest'opera. Abbiamo già assaggiato i primi due capitoli, con le visite ingloriose a Milano e Firenze, il tutto con molta nausea senza alcun senso del bello. Unica eccezione fu l'emozione davanti alla tomba di Michelangelo. Eppure, le cose cambiano. Ben presto, lo sguardo del viaggiatore si fa più critico e anche petulante, cioè arrogantemente censoreo, una disposizione giudicante che rimarrà anche nell'età matura (pp. 183 e 199): Il tutto poi si ravviluppava nell'indurita scorza di una presunzione, o per dir meglio, petulanza incredibile, e di un tale impeto di carattere, che non mi lasciava, se non se a stento e di rado e fremendo, conoscere, investigare, ed ascoltare la verità. Capitali, come ben vede il lettore, più adatti assai per estrarne un cattivo e volgare principe, che non un autor luminoso (..) Ma la gratitudine che sovra ogni altra professo e sempre professerò a tutti i suddetti personaggi (=amici e mentori, che già conosciamo), si è per aver essi umanamente comportata la mia incomportabile petulanza d'allora; la quale, a dir anche il vero, mi andava però di giorno in giorno scemando, a misura che riacquistava lume. Il giovane, poco più che ventenne, manifesta una netta manifestazione antimilitarista soprattutto nel corso del viaggio nel nord-est d'Europa (p. 120): Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All'entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l'orrore per quell'infame mestier militare, infamissima e sola base dell'autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d'indegnazione bensì e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l'uniforme. Risposigli: “Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza”. Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l'osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava. Questa avversione tornerà, anni dopo, veicolata come ideologica incompatibilità nei confronti del re di Sardegna, Vittorio Amedeo III (c'è un errore del testo, non degli editori; p.243): Questa mia resistenza negativa verisimilmente poi passò sino al re pel canal del ministro (=Alfieri aveva rifiutato, in un colloquio preliminare con un ministro del regno sabaudo, qualsiasi incarico presso la corte); onde il giorno dopo, ch'io vi fui a inchinarlo, il re non mi parlò punto di questo, e del rimanente mi accolse colla massima affabilità e cortesia, che gli è propria. Questi era (ed ancora regna) Vittorio Amedeo II, figlio di Carlo Emanuele, sotto il cui regno io nacqui. Ancorché io non ami punto i re in genere, e meno i più arbitrari, debbo pur dire ingenuamente che la razza di questi nostri principi è ottima sul totale, e massime paragonandola a quasi tutte l'altre presenti d'Europa. Ed io mi sentiva nell'intimo del cuore piuttosto affetto per essi, che non avversione; stante che sì questo re che il di lui predecessore, sono di ottime intenzioni, di buona e costumata ed esemplarissima indole e fanno al paese loro più bene che male. Con tutto ciò quando si pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere pendono dal loro assoluto volere, bisogna fremere, e fuggire. Va tenuto presente che fino al 1773 sul trono sabaudo c'era stato Carlo Emanuele III, di ancor più spiccata inclinazione autocratica e militarista. Le biografie ce lo mostrano come uomo insicuro, probabilmente a causa della scarsa considerazione paterna, ma puntiglioso. Soprannominato il ‘’laborioso’’, trovò il suo riscatto nelle campagne militari che gli permisero anche acquisizioni territoriali. Alfieri, in precedenza, lo aveva definito 'il mio ottimo re', ma se leggiamo il contesto allargato di questa affermazione, ci rendiamo conto della gravità della critica che vi si annida; la circostanza è quella della visita al giovanissimo re Ferdinando IV di Borbone a Napoli (p.99): Introdotto a corte, benché quel re, Ferdinando IV, fosse allora in età di quindici, o sedici anni, gli trovai pure una total somiglianza di contegno con i tre altri sovrani ch'io avea veduti fin allora; ed erano il mio ottimo re Carlo Emanuele, vecchione; il duca di Modena, governatore in Milano; e il granduca di Toscana Leopoldo, giovanissimo anch'egli. Onde intesi benissimo fin da quel punto, che i principi tutti non aveano fra loro che un solo viso, e che le corti tutte non erano che una sola anticamera. Visitando diversi paesi il giovane Alfieri sviluppa conoscenza antropologiche e politiche ed esercita le proprie facoltà critiche. Nel viaggio del 1770, tra Russia e Prussia, la posizione velleitariamente antimonarchica matura in odio purissimo della tirannide e in disprezzi dei popoli ignavi che, ''sotto mentita faccia di uomini'' si fanno ''malmenare in tal guisa dai loro tiranni''. Questo viaggio si chiude con la visita al campo di battaglia di Zorendoff (p.125) dove Russi e Prussiani si erano scontrati nel corso della guerra dei Sette anni: Passando per Zorendoff visitai il campo di battaglia tra' Russi e Prussiani, dove tante migliaia dell'uno e dell'altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l'ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto e misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio (= il grano gresce rigoglioso perchè i cadaveri concimano il terreno). La cruda riflessione è resa più incisiva dalle spietate scelte lessicali. Lo spirito dei lettori è risollevato inaspettatamente di li a poche righe dalla digressione, molto opportuna per ristabilire un idoneo tono narrativo, di un piacevole incontro: Nell'entrare in Gottinga, città come tutti sanno di Università fioritissima, mi abbattei in un asinello, ch'io moltissimo festeggiai per non averne più visti da circa un anno dacché m'era ingolfato nel settentrione estremo dove quell'animale non può né generare, né campare. Di codesto incontro di un asino italiano con un asinello tedesco in una così famosa Università, ne avrei fatto allora una qualche lieta e bizzarra poesia, se la lingua e la penna avessero in me potuto servire alla mente, ma la mia impotenza scrittoria era ogni dì più assoluta. Mi contentai dunque di fantasticarvi su fra me stesso, e passai così festevolissima giornata soletto sempre, con me e il mio asino. E le giornate festive per me eran rare, passandomele io di continuo solo solissimo, per lo più anche senza leggere né far nulla, e senza mai schiuder bocca. La natura difficilmente lo delude. E' celebre, ad esempio, la pagine della lotta titanica con i ghiacci nel passaggio dalla Svezia alla Finlandia, che affida alla nostra lettura. Facciamo adesso un passo indietro per cogliere il filtro letterario che l'artista sovrappone al ritratto di se stesso da giovane a partire dalla formula ricorrente (p.122): 'Spettacolo veramente bizzarro e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi'. Più avanti, Alfieri si avvale del riferimento alla straordinaria fortuna contemporanea dei canti di Ossian e della traduzione di Cesarotti, uscita nel 1763 sulla quale lui mediterà per impadronirsi della tecnica dei versi sciolti: Verso la fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto ch'ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di altrove, null'altro più scrissi del mio, fuorché qualche epigrammi e sonetti, per isfogare la mia giustissima ira contro gli schiavi padroni, e dar pascolo alla mia malinconia. Il XXII capitolo della quarta epoca racconta bene la piega presa dagli eventi rivoluzionari, con gli eventi dell'Agosto 1792 subito dopo l'arresto del re. I nobili, in questo ambiente, corrono un grande pericolo e il poeta decide, con la Stolberg, di lasciare precipitosamente Parigi. Assistiamo dall'interno, quasi fossimo presenti, alla brutta disavventura dei nostri protagonisti, trattenuti alla Barriere Blanche in un'estenuante trattativa non con le guardie ma con un gruppo di 'molti e tristi birberi' manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi e furiosi. La narrazione ha un ritmo serrato e incalzante: la paura è palpabile ma allo stesso tempo aleggia un'aria tragicomica. Gran parte della tensione è prodotta dalla reazione imprudente di Alfieri, incapace di dominarsi (pp. 275-6): Ed io balzai di carrozza fra quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar più di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei Francesi. Ad uno ad uno si leggevano, e facevano leggere da chi di quelli legger sapeva, le descrizioni delle nostre rispettive figure. Io pieno di stizza e furore, non conoscendo in quel punto, o per passione sprezzando l'immenso pericolo, che ci soprastava, fino a tre volte ripresi in mano il mio passaporto, e replicai ad alta voce: “Vedete, sentite; Alfieri è il mio nome; Italiano e non Francese ; grande, magro, sbiancato; capelli rossi, son io quello, guardatemi; ho il passaporto; l'abbiamo avuto in regola da chi lo può dare; e vogliamo passare, e passeremo per Dio”. Durò più di mezz'ora questa piazzata, mostrai buon contegno, e quello ci salvò. Alfieri coglie questa occasione per offrirci anche un autoritratto fisico, cosa che non gli dispiace (in una delle pagine dei suoi Giornali aveva detto di voler comparire bello). Un altro celebre ritratto di sé che ispirò Foscolo e un giovanissimo Manzoni è il sonetto Sublime specchio di veraci detti, nel cui finale emerge un'iperbole recuperata dalle confessioni di Rousseau: Sublime specchio di veraci detti, mostrami in corpo e in anima qual sono: capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; lunga statura, e capo a terra prono; sottil persona in su due stinchi schietti; bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; giusto naso, bel labro, e denti eletti; pallido in volto, più che un re sul trono: or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; irato sempre, e non maligno mai; la mente e il cor meco in perpetua lite: per lo più mesto, e talor lieto assai, or stimandomi Achille (= grande eroe), ed or Tersite (= più spregevole degli Achei): uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai. Torniamo all'epilogo dell'episodio precedente: Si era frattanto ammassata più gente intorno alle due carrozze, e molti gridavano: “Diamogli il fuoco a codesti legni”. Altri: “Pigliamoli a sassate”. Altri: “Questi fuggono; son dei nobili e ricchi, portiamoli indietro al Palazzo della Città, che se ne faccia giustizia”. Ma insomma il debole aiuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per noi, ed il mio molto schiamazzare, e con voce di banditore replicare e mostrare i passaporti, e più di tutto la mezz'ora e più di tempo, in cui quei scimiotigri si stancarono di contrastare, rallentò l'insistenza loro; e le guardie accennatomi di salire in carrozza, dove avea lasciato la signora, si può credere in quale stato, io rientratovi, rimontati i postiglioni a cavallo si aprì il cancello, e di corsa si uscì, accompagnati da fischiate, insulti e maledizioni di codesta genia. Questa materia di Francia stimola l'inventiva verbale e linguistica di Alfieri nella Vita e in altre opere: si pensi, ad esempio, al neologismo scimiotigri, che era già comparso altrove come scimiotti. Vi è poi l'alternanza di esiti sulla radice gall- (gallicheria, gallicume, gallume, misogallo), oltre a oltramontaneria e sbastigliato. Tutto questo spinge Alfieri alla fuga in Toscana ma ben presto la Francia arriva in Italia con le truppe Napoleoniche e la conquista di Firenze (pp.296-7): Sistemato dunque in tal guisa il mio vivere, incassati tutti i miei libri, fuorché i necessari, e mandatili in una villa fuori di Firenze, per vedere se mi riusciva di non perderli una seconda volta (= ne aveva lasciati alcuni a Parigi, nella fuga precipitosa) questa tanto aspettata ed abborrita invasione dei Francesi in Firenze ebbe luogo il dì 25 marzo del '99, con tutte le particolarità, che ognuno sa, e non sa, e non meritano d'essere sapute, sendo tutte le operazioni di codesti schiavi di un solo colore ed essenza. E quel giorno stesso, poche ore prima ch'essi v'entrassero, la mia donna ed io ce n'andammo in una villa fuor di Porta San Gallo presso a Montughi, avendo già prima vuotata interamente d'ogni nostra cosa la casa che abitavamo in Firenze per lasciarla in preda agli oppressivi alloggi militari. In tal maniera io oppresso dalla comune tirannide, ma non perciò soggiogato, me ne stetti in quella villa con poca gente di servizio e la dolce metà di me stesso (...) E così eramo in quella villa, dove pochissimi dei nostri conoscenti di Firenze ci visitavano, e di rado, per non insospettire la militare e avvocatesca tirannide, che è di tutti i guazzabugli politici il più mostruoso, e risibile, e lagrimevole ed insopportabile, e mi rappresenta perfettamente un tigre guidato da un coniglio (...) Né io né la mia donna in tutto questo frattempo abbiamo mai messo piede in Firenze, né contaminati i nostri occhi né pur con la vista di un solo Francese. LEZIONE VII - AMORI Una stranissima cosa però (la quale io notai molto dopo, ma che allora vivamente sentii senza pure osservarla) si era, che io non mi sentiva mai rimestare in mente e nel cuore un certo desiderio di studi ed un certo impeto ed effervescenza d'idee creatrici, se non se in quei tempi in cui mi trovava il cuore fortemente occupato d'amore; il quale, ancorché mi distornasse da ogni mentale applicazione, ad un tempo stesso me ne invogliava; onde io non mi teneva mai tanto capace di riuscire in un qualche ramo di letteratura, che allorquando avendo un oggetto caro ed amato mi parea di potere a quello tributare anco i frutti del mio ingegno (p.113). E’ una dichiarazione molto impegnativa, che va connessa a una precedente pagina introspettiva (p.99-100). : e soltanto molti anni dopo mi avvidi che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch'era in me di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente da un qualche nobile lavoro; e ogniqualvolta l'una delle due cose mi mancò, io rimasi incapace dell'altra, e sazio e infastidito e oltre ogni dire angustiato. Fatta salva l’infatuazione platonica del giovane sedicenne per una giovane signora, narrata nei termini di una nobile passione petrarchesca (capitolo X, seconda epoca, 1765), le reali esperienze amorose sono presentate, nella prima metà della Vita, come disavventure, reti, catene, intoppi, portatori di cocenti disinganni. Se ne dichiara salvo, nel suo primo viaggio (p.98): Così delle donne, alle quali per natura era moltissimo inclinato, non mi piacendo se non le modeste, io non piaceva pure che alle sole sfacciate; il che mi facea rimaner sempre col cuor vuoto. Oltre ciò, l'ardentissima voglia ch'io sempre nutriva in me di viaggiare oltre i monti, mi facea sfuggire di allacciarmi in nessuna catena d'amore; e così in quel primo viaggio uscii salvo da ogni rete. Ma la rete d'amore lo attende, come è naturale per un giovane di quasi vent'anni e lo coglie in Olanda (p.112): Nel mio soggiorno nell' Haja, che riuscì assai più lungo che non avea disegnato, io incappai finalmente nell'amore, che mai fin allora non mi avea potuto raggiungere né afferrare. Una gentil signorina, sposa da un anno, piena di grazie naturali, di modesta bellezza, e di una soave ingenuità, mi toccò vivissimamente nel cuore; ed il paese essendo piccolo, e poche le distrazioni, nel rivederla io assai più spesso che non avrei voluto da prima, tosto poi mi venni a dolere di non poterla veder abbastanza. Mi trovai preso, senza quasi avvedermene, in una terribile maniera; talché già stava ruminando in me stesso niente meno che di non mi muover mai più né vivo né morto dall'Haja, persuadendomi che mi sarebbe impossibilissima cosa di vivere senz'essa. Questa accensione d'amore si accompagna con la nascita di una grandissima amicizia tra Alfieri e l'ambasciatore portoghese d'Acunha. I pochi ma profondissimi legami affettivi che lo scrittore strinse con importanti personalità ci sono rappresentati nei termini di un sentimento altrettanto forte. Ne fa fede un documento più privato della Vita, che Alfieri scrisse in occasione della morte di Gori-Gandellini. Ma torniamo alla vicenda olandese (p.113): Io dunque mi trovava felicissimo nell'Haia, dove per la prima volta in vita mia mi occorreva di non desiderare altra cosa al mondo nessuna, oltre l'amica, e l'amico. Amante io ed amico, riamato da entrambi i soggetti, traboccava da ogni parte gli affetti, parlando dell'amata all'amico, e dell'amico all'amata; e gustava così dei piaceri vivissimi incomparabili, e fino a quel punto ignoti al mio cuore, benché tacitamente pur sempre me li fosse egli andato richiedendo, e additando come in confuso. La storia non va a finire bene, come dimostrato dal titolo del capitolo sesto della terza epoca 'Primo intoppo amoroso'. In climax, la successiva vicenda erotica è catalogata nel titolo del capitolo X, epoca III ('Secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra') e preparata, alla fine del capitolo precedente, con il preannuncio di alcuni frangenti straordinari e scabrosi. La storia dell'amore passionale per Penelope Pitt, del duello con il marito di lei e della successiva delusione è uno degli episodi più noti dell'opera. Sul piano strutturale, il racconto ha caratteristiche proprie che lo rendono quasi un nucleo indipendente all'interno del testo. Come osserva Ivan Tassi: 'La lunghrzza dei due capitoli (X e XI, ndr) (..) è anomale rispetto alla media registrabile nella Vita (..); il testo, dopo un rapido sfruttamento del frequentativo (= uso dei verbi all'imperfetto) si concentrerà su alcune giornate scelte: fino a dilatarsi nella scena particolareggiata di alcune ore precise'. E infatti l'autore se ne scusa (p. 140): Indiscretamente forse, ma pure a bell'apposta ho voluto sminuzzare in tutti i suoi amminicoli questo straordinario e per me importante accidente, sì perché se ne fece gran rumore in quel tempo, sì perché essendo stata questa una delle principali occasioni in cui mi è venuto fatto di ben conoscere e porre alla prova diversamente me stesso, mi è sembrato che analizzandolo con verità e minutezza verrei anche a dar luogo a chi volesse più intimamente conoscermi, di ritrovarne in questo fatto un ampissimo mezzo. Come abbiamo già avuto modo di mettere in luce, la preoccupazione di fornire la propria versione dei fatti era fondatissima. La vicenda aveva infatti sollevato grande scalpore finendo anche sui giornali, come ricorda anche lo stesso Alfieri (p.138) e come apprendiamo a una fonte molto particolare, le lettere che il fidato Elio inviava al cognato di Vittorio (viene narrato l'effetto che la deposizione del palafreniere aveva prodotto sul giudice nel corso del processo). Ancora tanti anni più tardi (1783), Alessandro Verri scrivendo al fratello Pietro farà riferimento a quello scandalo noto in tutti i salotti europei del tempo. Il processo per adulterio intentato dal Lord inglese si concluse con una condanna pecuniaria pesante per il giovane Alfieri che, per sottrarsi alla pena, abbandonò rapidamente un'amante donna, soltanto che non l'avesse esacerbata con le continue acerbe e rozze ed ebre maniere. Io doveva questa testimonianza alla pura verità. LEZIONE VIII - TRAGEDIE Parleremo della produzione tragica di Alfieri, solo nella prospettiva nella quale ne discute l'autore stesso nella Vita. Per questo ritorniamo al laberinto del legame con Gabriella Falletti (p.153), una metafora che Alfieri usa più volte per indicare le insidie della reggia in quanto sede del potere: egli afferma di essersi ammalato proprio a causa del tormento prodotto dall'indegna relazione. Di segno opposto, si rivelò invece il degno amore per Luisa Stalberg, come conferma una lettera inviata nel 1778 all'amico Arduino Tana in cui scrisse: 'Io ho intenzione di divenire poeta ottimo, o di morir nell'impresa e tutti i miei pensieri riferiscono li. la donna che io amo, l'amo anco più perchè non mi è di nessunissimo impedimento, anzi mi è di incitamento allo studio.' Questo atteggiamento prometeico è alla base dell'auto-imposta vocazione tragica dello scrittore. Riprendiamo in luce la pagina del diario-Giornale del 2 Giugno 1777 (Siena). L'episodio qui descritto viene presentato, in forma nobilitata, nella Vita (p.202): Da un prete fratello del mastro di posta mi feci prestare un Tito Livo, autore che (dalle scuole in poi, dove non l'avea né inteso né gustato) non m'era più capitato alle mani. Ancorché io smoderatamente mi fossi appassionato della brevità sallustiana, pure la sublimità dei soggetti, e la maestà delle concioni di Livio mi colpirono assai. Lettovi il fatto di Virginia, e gl'infiammati discorsi d'Icilio, mi trasportai talmente per essi, che tosto ne ideai la tragedia; e l'avrei stesa d'un fiato, se non fossi stato sturbato dalla continua espettativa di quella maladetta filucca, il di cui arrivo mi avrebbe interrotto la composizione. Nella struttura dell'autobiografia tutto converge verso la stesura delle tragedie, approdo a cui il protagonista arriva nella parte centrale della sua vita. Il resoconto dell'anno 1775 si suddivide tra l'ultimo capitolo della terza epoca e il primo della quarta. Ricapitoliamo la scansione complessiva: 1) EPOCA PRIMA – PUERIZIA ABBRACCIA NOVE ANNI DI VEGETAZIONE; 2) EPOCA SECONDA – ADOLESCENZA ABBRACCIA OTTO ANNI DI INEDUCAZIONE; 3) EPOCA TERZA – GIOVINEZZA ABBRACCIA CIRCA DIECI ANNI DI VIAGGI E DISSOLUTEZZE; 4) EPOCA QUARTA- VIRILTA' ABBRACCIA TRENTA O PIU' ANNI DI COMPOSIZIONI, TRADUZIONI E STUDI DIVERSI Cesare Segre però conteggiando i reali intervalli cronologici mise in luce una sorprendente simmetria. La prima epoca dura 9 anni e mezzo, la seconda 9 anni scarsi, la terza nove anni pieni. La morte fece quadrare i conti perfettamente: ventisette anni dell'epoca quarta contro i ventisette delle prime tre. In effetti, congedandosi dall'opera in maniera provvisoria, Alfieri scrive – nel torrenziale titolo dell'ultimo capitolo (Intenzioni mie su tutta questa seconda mandata di opere inedite. Stanco, esaurito, pongo qui fine ad ogni nuova impresa; atto più a disfare, che a fare, spontaneamente esco dall'epoca quarta virile, ed in età di anni 54 1/2 mi do per vecchio, dopo ventotto anni di quasi continuo inventare, verseggiare, tradurre, e studiare). Infine come è stato osservato da diversi studiosi, il numero di capitoli è una successione quasi perfetta di multipli di 5: 5, 10, 15, 31 (ma l'ultimo è da considerarsi un congedo). Torniamo però all'attività di tragediografo. L'esordio è tutt'altro che eroico, come ci viene raccontato in tono umoristico. Tutto parte da un'ingloriosa malattia del terzo amore, che già fa sospettare la scarsa serietà morale (p.154): Avvenne poi nel gennaio dell 1774 che quella mia signora si ammalò di un male di cui forse poteva esser io la cagione, benché non intieramente il credessi . E richiedendo il suo male ch'ella stesse in totale riposo e silenzio, fedelmente io le stava a piè del letto seduto per servirla; e ci stava dalla mattina alla sera, senza pure aprir bocca per non le nuocere col farla parlare. In una di queste poco, certo, divertenti sedute, io mosso dal tedio, dato di piglio a cinque o sei fogli di carta che mi caddero sotto mano, cominciai così a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una scena di una non so come chiamarla, se tragedia, o commedia, se d'un sol atto, o di cinque, o di dieci; ma insomma delle parole a guisa di dialogo, e a guisa di versi, tra un Photino, una donna, ed una Cleopatra, che poi sopravveniva dopo un lunghetto parlare fra codesti due prima nominati. Alfieri, ancora a distanza di anni, si dichiara sorpreso della propria subitanea ispirazione, nata da non uno spunto letterario ma da alcuni arazzi che appartenevano alla donna e che raffiguravano Cleopatra e Antonio. Il ricordo non suscita però la commozione che ci aspetteremmo. Lo scrittore anzi abbassa subito impietosamente il tono, riservando a quel primo parto un esito deplorevole (p.155): Guarì poi la mia signora di codesta sua indisposizione; ed io senza mai più pensare a questa mia sceneggiatura risibile, la depositai sotto un cuscino della di lei poltroncina, dove ella si stette obbliata circa un anno; e così furono frattanto, sì dalla signora che vi si sedeva abitualmente, sì da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie. I mesi che seguono portano, con enorme fatica, alla dissoluzione del legame con la donna ma non alla rinuncia alla poesia. Anzi, la povera tragedia viene recuperata per obbedire ad un imperativo interiore. E la Cleolpatraccia riveduta ma non sufficientemente corretta va in scena al teatro Garignano di Torino, nel giugno 1775. Questa tragedia, insieme ad una farsa intitolata I poeti, ''furono (..) recitate con applauso per due sere consecutive; e richieste poi per la terza, essendo io già ben ravveduto e ripentito in cuore di essermi sì temerariamente esposto al pubblico, ancorché mi si mostrasse soverchio indulgente, io quanto potei mi adoprai con gli attori e con chi era loro superiore, per impedirne ogni ulteriore rappresentazione. Ma, da quella fatal serata in poi, mi entrò in ogni vena un sì fatto bollore e furore di conseguire un giorno meritatamente una vera palma teatrale, che non mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta impetuosità assalito. In questa guisa comparvi io al pubblico per la prima volta. E se le mie tante, e pur troppe, composizioni drammatiche in appresso non si sono gran fatto dilungate da quelle due prime, certo alla mia incapacità ho dato principio in un modo assai pazzo e risibile. Ma se all'incontro poi, verrò quando che sia annoverato fra i non infimi autori sì di tragedie che di commedie, converrà pur dire, chi verrà dopo noi, che il mio burlesco ingresso in Parnasso col socco e coturno ad un tempo, è riuscito poi una cosa assai seria'' (pp.162-3) Cosi ci conclude la terza epoca, con una inconsueta falsa modestia che combatte con l'oggettiva considerazione di sé. La quarta epoca riprende subito le fila dell'esordio teatrale (pp.183 e ss.): Eccomi ora dunque, sendo in età di quasi anni venzette, entrando nel duro impegno e col pubblico e con me stesso, di farmi autor tragico. (..)La recita della Cleopatra mi avea, come dissi, aperto gli occhi, e non tanto sul demerito intrinseco di quel tema per sé stesso infelice, e non tragediabile, da chi che si fosse, non che da un inesperto autore per primo suo saggio; ma me gli avea ancor spalancati a segno di farmi ben bene osservare in tutta la sua immensità lo spazio che mi conveniva percorrere all'indietro, prima di potermi, per così dire, ricollocare alle mosse, rientrare nell'aringo, e spingermi con maggiore o minor fortuna verso la meta. Cadutomi dunque pienamente dagli occhi quel velo che fino a quel punto me gli avea sì fortemente ingombrati, io feci con me stesso un solenne giuramento: che non risparmierei oramai né fatica né noia nessuna per mettermi in grado di sapere la mia lingua quant'uomo d'Italia. E a questo giuramento m'indussi, perché mi parve, che se io mai potessi giungere una volta al ben dire, non mi dovrebbero mai poi mancare né il ben ideare, né il ben comporre. Fatto il giuramento, mi inabissai nel vortice grammatichevole, come già Curzio, nella voragine, tutto armato, e guardandola. Siamo tornati dunque al vortice grammatichevole che abbiamo preso in esame in rapporto alla lezione sulla lingua. Senza una decisa risoluzione, non ci sarebbero stati risultati. Per anni, fin dopo la stampa delle sue tragedie e anche a fronte delle critiche ricevute, Alfieri intraprende un singolare apprendistato, con un raggio estesissimo di consultazioni: d ai barbassori (cioè i personaggi pieni di sé, non a caso è un termine squisitamente letterario) di Firenze dell'Università di Pisa passando per Giuseppe Parini. Tutti vengono interrogati, ma l'ultima decisione spetta sempre a Vittorio perchè 'nessuno di quei dotti era dotto in tragedia'. Trovare la propria misura metrica (ovvero l'endecasillabo sciolto marcato da spettature e enjambement) non era comunque stato facile (pp. 217-8): E tra l'altre, quella di cui gli (= abate di Caluso) avrò eterna gratitudine, si è di avermi egli insegnato a gustare e sentire e discernere la bella ed immensa varietà dei versi di Virgilio, da me fin allora soltanto letti ed intesi; il che per la lettura di un poeta di tal fatta, e per l'utile che ne dee ridondare a chi legge, viene a dir quanto nulla. Ho tentato poi (non so con quanta felicità) di trasportare nel mio verso sciolto di dialogo quella incessante varietà d'armonia, per cui raramente due versi somigliantisi si accoppino; quelle diverse sedi d'interrompimento, e quelle trasposizioni (per quanto l'indole della lingua nostra il concede), dalle quali il verseggiar di Virgilio riesce sì maraviglioso, e sì diverso da Lucano, da Ovidio, e da tutti. Differenze difficili ad esprimersi con parole, e poco concepibili da chi dell'arte non è. Ed era pur necessario ch'io mi andassi aiutando qua e là per far tesoro di forme e di modi, per cui il meccanismo del mio verso tragico assumesse una faccia sua propria, e si venisse a rialzare da per sé, per forza di struttura; mentre non si può in tal genere di composizione aiutare il verso, né gonfiarlo con i lunghi periodi, né con le molte immagini, né con le troppe trasposizioni, né con la soverchia pompa o stranezza dei vocaboli, né con ricercati epiteti: ma la sola semplice e dignitosa sua giacitura di parole infonde in esso la essenza del verso, senza punto fargli perdere la possibile naturalezza del dialogo. Ma tutto questo, ch'io forse qui mal esprimo, e ch'io aveva fin d'allora, e ogni dì più caldamente, scolpito nella mente mia non lo acquistai nella penna se non se molti anni dopo, se pur mai lo acquistai: e forse fu quando poi ristampai le tragedie in Parigi. Che se il leggere, studiare, gustare, e discernere, e sviscerare le bellezze ed i modi del Dante e Petrarca mi poterono infonder forse la capacità di rimare sufficientemente e con qualche sapore; l'arte del verso sciolto tragico (ove ch'io mi trovassi poi d'averla o avuta o accennata) non la ripeterò da altri che da Virgilio, dal Cesarotti, e da me medesimo. Ma intanto, prima che io pervenissi a dilucidare in me l'essenza di questo stile da crearsi, mi toccò in sorte di errare assai lungamente brancolando, e di cadere anche spesso nello stentato ed oscuro, per voler troppo sfuggire il fiacco e il triviale; del che ho ampiamente parlato altrove quando mi occorse di dare ragione del mio scrivere. Il riferimento è alla già citata lettera a Ranieri di Calzabigi della quale dà conto nel capitolo 11 della quarta epoca. Dei versi ben architettati di Cesarotti, invece, Alfieri aveva parlato a commento del viaggio in Svezia (ottavo capitolo, epoca III). L'ispirazione poetica – spiega Alfieri – va sostenuta con un rigoroso metodo di lavoro che egli espone lucidamente (pp.202-3): E qui per l' intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l'essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideate dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l'estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v'è nell'idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori.
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